«La smetti di rigirarti come un pollo allo spiedo?».

«Chi è?» rispondo nel sonno.

«La tua cattiva coscienza».

«Quando sei tornata?».

«Da poco» sussurra Suleima.

«Sono le tre».

«C’è stata una cena».

«Lo immaginavo: è un ristorante» farfuglio. «Cretino. Era una festa, nozze d’oro».

«E cosa avevano da festeggiare?».

«Non puoi capire».

«È vero. Va oltre le mie possibilità».

«Comunque, smetti di rigirarti. Cosa hai mangiato?». «Melanzane ripiene, le ho prese in rosticceria». «Una cosina leggera, oggi in effetti c’erano appena trentasei gradi. Hai preso anche la polenta con le spuntature di maiale?» dice Suleima, passandomi la mano nei capelli.

«No, solo il brasato al barolo. Ma per contorno». Mi è passato il sonno.

«Per questo ti rigiri».

«Fa caldo».

«E la melanzana si ripropone».

Suleima si appoggia su un gomito. Se non fosse così bella me ne sarei già andato da Màkari, come avevo promesso a me stesso un mese fa arrivando in Sicilia.

«Ma come si fa?» le chiedo.

«A fare cosa?».

«Niente, parlavo tra me».

«E cosa ti raccontavi?».

«Che non ce la faccio ad andare via da te».

«E allora resta ancora un po’».

«Hai ragione, allora parto più tardi» e le rotolo addosso per mangiarla.

C’è quest’ora del mattino, fra le quattro e le cinque, per intenderci, che mi fa sempre una strana impressione. Penso che a quest’ora un uomo torna a casa da solo con le mani in tasca e osserva i semafori della sua città che lampeggiano di giallo. Penso che una donna sta chiamando un taxi da un indirizzo che conosce a malapena per non passare quel che avanza della notte in un letto non suo.

È che mi viene la vena poetica, tra le quattro e le cinque del mattino. E pure voglia di fumare.

L’unica poesia della mia vita - avevo quindici anni, credo sia perdonabile e ora si può perfino confessare senza troppa vergogna - l’ho scritta fra le quattro e le cinque del mattino, seduto al davanzale di una finestra, sull’ultima pagina di un libro di Ungaretti. Poi mi è venuto un sonno profondo, dal quale sono riemerso alle tre del pomeriggio quando mia madre mi ha cacciato fuori dal letto e, rileggendo la poesia, mi sono accorto che era una gran cacata. Ma prima dell’alba ancora funzionava, sembrava quasi vera.

Suleima dorme con un piede fuori dal lenzuolo.

Mi avvicino: mormora qualcosa piano, non capisco se dice piacere o sapere.

Non ho più sonno. Mi prendono i pensieri, a quest’ora qui.

Vado su Google, cerco il nome del sottosegretario che mi ha licenziato - quello stronzo, dopo quattro anni persi a spiegargli la differenza tra un comunicato stampa e una minchiata col giummo - tanto per sapere se è vivo o morto. È vivo, naturalmente, e combatte assieme a noi. Anzi, contro di noi, contro di me.

C’è perfino il video di una sua intervista rilasciata a «Linea Blu». Che cazzo c’entra lui con «Linea Blu»?

Il mare qui davanti è tutto buio e lucido nella notte. Nessun chiarore, è presto per l’alba.

Apro il video. Sulla motovedetta dei carabinieri, incerto sull’onda lunga, vestito come Jack Sparrow alla prima comunione, il sottosegretario che mi ha licenziato dalla mia comoda stanzetta al pian terreno del Viminale si sofferma sulla questione dell’immigrazione clandestina, sottolinea la necessità di più salde misure, invoca l’apporto delle risorse europee, auspica piena collaborazione e sinergia (dice proprio così «sinergia», eppure glielo avevo insegnato a bacchettate sulle dita che questa parola ormai la dicono soltanto gli assessori di paese), concludendo con uno sguardo di tre quarti sul mare aperto che nemmeno l’ammiraglio Nelson avrebbe saputo fare di peggio.

Gli sputo metaforicamente attraverso YouTube. Se vuoi, condividi questo scaracchio sulla tua pagina Facebook.

Il pensiero del sottosegretario che mi ha licenziato perché un sabato di giugno, due mesi fa, ho diramato un comunicato nel quale, per la prima volta, gli facevo esprimere un’opinione sensata sulle droghe leggere - il problema, semmai, stava nel fatto che quella era la mia opinione, perché lo stronzo mai ha avuto una qualsiasi idea oltre la linea d’orizzonte dei cazzi suoi - mi fa diventare Elio Vittorini. E così, fra le quattro e le cinque del mattino, sono in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna che dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto.

Dove occorre precisare due cose. Il genere umano sono io. Perduto è il mio conto corrente, a secco da due mesi, e questo spiega il mio ritorno a Màkari. Genere umano perduto a Màkari. Perduto a sistemare la casa dove papà non vuole più mettere piede da quando è morta mamma, perduto a superare quest’estate che non vuole saperne di finire.

Guardo il piede di Suleima fuori dalle lenzuola.

Genere umano perduto, ma non proprio del tutto.

Smanetto su «Repubblica.it», mi assicuro che la crisi economica non sia finita d’improvviso, ma vengo confortato dai dati Istat dell’ultimo trimestre: la recessione c’è ancora, non sono l’unico disoccupato d’Italia, siamo in tre milioni e puntiamo ad essere molti di più.

Vado a controllare il mio conto corrente. Ogni volta sembra di dover leggere le analisi del sangue, oddio, adesso scopro che mi restano sei settimane di vita. Quando lo stronzo di sottosegretario mi ha licenziato, avevo novemila e settecento euro sul conto, un po’ se ne sono andati per rimettere a posto la casa di Màkari, un po’ per campare, ora sono praticamente sull’orlo della rovina.

Una scritta in verde mi illumina di immenso: è arrivato il bonifico dell’editore. Non è granché, ma tiro un sospiro, come quando il medico dice, niente di grave, però prendi l’antibiotico per cinque giorni.

Quel romanzetto giallo che ho scritto in fretta e furia sulla storia che mi era successa a Palermo - avevano ammazzato uno dell’antimafia a un convegno antimafia e mi ci ero trovato in mezzo per caso - aveva avuto una certa fortuna. Ero riuscito a farlo avere a un editore e a pubblicarlo. Ne avevo avuto il mio quarto d’ora di celebrità. E ora la vera soddisfazione: il bonifico dell’editore, il mio conto corrente salvo dal rischio mortale di asfissia.

Una sigaretta ci starebbe bene, ma devo ricordarmi che ho smesso di fumare.

Apro il sito del «Corriere della Sera», il Papa ha detto qualcosa che rivoluzionerà la Chiesa. Provo a leggere, non capisco bene se c’entra il sinodo o il concilio, alla prima citazione dell’enciclica Lumen Videi passo sull’ultimo video di Rihanna annunciato come scandalo sexy, ma non si vede nemmeno una tetta.

Guardo dalla finestra, il cielo sembra rischiararsi.

«Che fai sveglio? Vieni a dormire» dice Suleima, rigirandosi.

«Aspetta, prima controllo Formentera».

«Uffa, ma allora sei veramente malato».

Inserisco su Google le due parole che rappresentano il mio futuro di imprenditore di successo: granita and Formentera.

Chiudo gli occhi. Li riapro lentamente sullo schermo, temendo la mazzata. Invece niente. A Formentera ancora nessuno vende granite. Se ci arrivo prima degli altri, divento ricco.

«Com’è andata?» chiede Suleima.

«Benissimo, non ci ha pensato ancora nessuno».

«Infatti, non ci sono così tanti imbecilli nel mondo».

«Parla, parla. Vedrai. Lo sai come si dice granita in spagnolo?».

«No, ma sopravvivo lo stesso».

«Granizado».

«Bene. Adesso spegni la luce, per favore».

«Granizado. Suona bene, no? Granizado».

«Spegni la luce».

Spengo. Mi rimetto a letto. Guardo il soffitto, adesso fuori deve essere quasi chiaro.

«Granizado» sussurro.

E sprofondo veloce nel mio sonno granizado.

Mi sveglio tardi. Suleima deve essere già fuori, sono quasi le undici. E fa caldo. Chi dice che in Sicilia non c’è più il clima di una volta, passi stamattina da queste parti.

Raccatto il tablet, controllo la temperatura di Formentera. Caldo e ventilato, cielo terso.

Buenos dias!

«Buenos dias» rispondo.

Teresita parte in automatico. È fatta così.

¿Dónde vas?

«Non so».

¿Dónde vas?

«¿Dónde vas? ¿Dónde vas?» mi spazientisco.

Quando ho scaricato Teresita sul tablet per imparare lo spagnolo - non si può andare a vendere granizado a Formentera senza sapere una parola di castigliano -avrei dovuto diffidare. Era troppo gratis per essere una buona app. E ora me la tengo così com’è: dispettosa.

¿Hay algun problema?

«No, per fortuna».

¿Hay algun problema?

«¿Hay algun problema?» ripeto, altrimenti non smette più.

No, usted tiene un problema.

«Non tengo nessun problema, Teresita».

No, usted tiene un problema.

Vabbè, ho capito. Meglio spegnere Teresita e preparare un caffè.

Metto i piedi giù dal letto. E scopro che ho l’acqua in casa, ma senza tubi. Il pavimento è allagato.

Usted tiene un problema.

Sì, tengo un cazzo di problema.

Sguazzo nella mia palude personale, c’è acqua dappertutto.

Da dove arriva? Esploro casa. La lavatrice piange a dirotto.

Tiene un problema, è evidente.

Di conseguenza lo tengo anch’io.

Ramazzo, spingo acqua fuori dalla porta, asciugo, strizzo.

Niente da fare. Cerco una valvola, un rubinetto, un interruttore per fermare l’alluvione. Non c’è. Non esiste. O meglio: non so dove minchia è.

La lavatrice se ne sta quieta a eruttare acqua, mentre il Titanic affonda.

Mi carico di coraggio. In mutande, maglietta e ciabatte esco da casa, percorro ventidue metri, busso alla porta verde e tiro un respiro profondo.

La porta si schiude.

Indosso il miglior sorriso del mio guardaroba.

«Ciao Peppe, ho la casa allagata».

Peppe Piccionello mi squadra dalla testa ai piedi. Non risponde.

«Deve essere la lavatrice. Anzi, è la lavatrice. Butta acqua» dico.

Se una notte d’inverno un viaggiatore avesse bussato a casa di Piccionello avrebbe ricevuto migliore accoglienza.

«Tu conosci bene la casa. Sai dov’è la valvola generale dell’acqua?».

«Al posto suo» dice Peppe.

«Peppe, ti prego. Siamo amici».

Intuisco che sto sbagliando.

«Ah, ora siamo amici».

«Siamo sempre stati amici. Mi conosci da sempre, conosci la mia famiglia».

«Lascia stare tuo padre che è un galantuomo e quella santa donna di tua madre, buonanima».

«Va bene, Peppe. Capisco che sei incazzato».

«Ah, capisci?».

«Peppe, credo che tu stia esagerando».

«Hai ragione. Come ho fatto a non pensarci? Mi prendi per il culo, dici a tutti che sono alto un metro e basta, scrivi che giro sempre in mutande».

«Come vedi anche io sono in mutande» provo a scherzare.

«Quelle sono le tue mutande e ci scrivi sopra quanto ti pare, tu invece hai scritto sulle mie mutande».

«Ma guarda che è stata una cosa affettuosa».

«Come no. Affettuosissima. La prossima volta che fai? Mi tiri un calcio nelle palle?».

«Peppe, è solo un racconto. Cose di fantasia».

«Certo, mi ha chiamato pure mia cugina da Vercelli e mi ha sfottuto per mezz’ora al telefono».

«Peppe, ti giuro che non scriverò mai più una parola su di te».

«Chi se ne fotte. Tanto il danno lo hai già fatto».

«Peppe, ho la casa allagata. Dimmi dove sta il rubinetto generale e non ti disturbo mai più».

«No, non te lo dico. Fattelo spiegare da chi ti ha pubblicato il libro».

«Ma che ne sa il mio editore dove sta il rubinetto?».

«Mettici un po’ di fantasia. Sei bravo o no?».

E Peppe Piccionello mi richiude la porta in faccia.

Ecco i danni della letteratura di consumo.

Ritorno a casa. Lenta e inesorabile, la palude tracima fuori.

Mi viene in mente Laguna blu, solo che qui non c’è manco Brooke Shields mezza nuda, ma l’acqua che risale su per i lembi bagnati del divano.

Il telefono. Certo. Se non ora, quando? Da qualche parte esisterà uno studio sulla relazione diretta tra rete telefonica e rete idrica. Vuoi mettere che il Massachusetts Institute of Technology non abbia studiato l’algoritmo in base al quale il telefono suona sempre quando sei sotto la doccia o, come adesso, con la casa allagata?

«Ciao Saverio, come stai?». Il mio avvocato.

Quando ti chiama l’avvocato, il commercialista o la banca sono guai. Valerio Raimondo è un amico, ma sempre avvocato è.

«Con i piedi a mollo, avvocato mio».

«Beato te, sempre al mare».

«Gente che può. Io può».

«Qui a Roma si schiatta di caldo, puoi immaginare. Sei in Sicilia, vero?».

«Sì, qui si schiatta di freddo. Aspetta un momento, c’è un orso polare che vuole un’informazione. Per il ghiacciaio eterno sempre dritto e poi la prima a destra».

« Saverio, ti girano bene le cose, vero? Hai voglia di scherzare».

«Benissimo. C’è gente che muore d’invidia quando passo io».

Con il telefono incastrato tra collo e orecchio continuo a cercare la maledetta valvola generale sotto i lavandini.

«L’altro giorno parlavo di te con Serena Bellavista» va avanti Valerio Raimondo, ignaro del mio dramma idrico.

«Con chi?».

«Serena Bellavista, lavora alla biblioteca nazionale di via Castro Pretorio».

«E che c’entri tu con Serena Bellavista?».

«È venuta da me per una questione legale. Ha un figlio di quindici anni».

«Io non ho responsabilità, vero?» mi allarmo.

«Ahi, ahi, Lamanna, coscienza sporca?».

«Non la vedo da una vita, te lo giuro».

«Lo so, Saverio, so tutto. Ma siete rimasti amici, no?».

«Valerio, vai al punto. Che vuoi da me? Non ho tempo di chiacchierare, qui c’è l’acqua alta».

«Pure in Sicilia? Come a Venezia, insomma».

«No, peggio. Dai, parla chiaro».

«Insomma, Serena ha un problema, tu non c’entri, stai tranquillo. Parlando parlando è venuto fuori il tuo nome. E così ho pensato che forse potresti aiutarla».

«In questo momento sono io che ho bisogno di aiuto. Non sai quanto».

In ginocchio, cerco sotto il bidet qualcosa che somigli a un rubinetto: datemi una valvola, vi asciugherò il mondo.

«Se sei d’accordo, le dico di chiamarti. È in Sicilia anche lei».

«La Sicilia è grande, Valerio».

«Lei è in vacanza dalle parti di Trapani, non è lontano da dove stai tu, giusto?».

«Detto da te che dici sempre che il Pigneto è fuori Roma».

«Roma è Roma, ma la Sicilia è un’isola, quindi deve essere piccola».

«Valerio, hai già deciso. Mi arrendo».

«Allora ti faccio chiamare. Ciao Saverio, divertiti. E attento ai ritorni di fiamma».

Un gorgoglio dalla lavatrice, quasi un risucchio. Provo ad aprire il rubinetto del bidet: una scolatura annuncia la fine del diluvio universale, l’arcobaleno è il segno che Dio si è riconciliato con me e con la mia stirpe. Infatti, si spalancano i cieli e la mia porta di casa.

«Cretino, la valvola generale è all’esterno, accanto al contatore».

Peppe Piccionello, pantaloni di lino bianco, camicia di lino bianco, infradito Havaianas bianche, fa il suo ingresso nello splendore del technicolor, retroilluminato dal sole, camminando sulle acque, mentre si aprono le onde del Mar Rosso.

Sono ancora inginocchiato, nella corretta posizione del peccatore non del tutto pentito. Mi mancano solo i fagioli sotto le rotule per l’espiazione secondo lo stile collegio cattolico irlandese d’anteguerra.

«Lo vedi che scrivi minchiate?».

«Hai ragione Peppe, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati perché peccando ho offeso te infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa».

«Non è vero che giro sempre in mutande».

«Lo vedo, hai ragione, ho scritto minchiate».

«Bene, adesso vado a cambiarmi perché i pantaloni lunghi portano malattie. E vado a cercare uno che aggiusta lavatrici».

«Hai ragione. Grazie Peppe, sei il mio Noè».

«Non ti allargare, però. La valvola è qui fuori, accanto alla scaletta».

«Terrò a mente».

«Sono tue quelle scarpe che galleggiano?».

«Sì, minchia, le Tod’s nuove nuove».

«Così impari a scrivere fesserie».

«E mal me ne incolse».

Peppe Piccionello esce circondato da un’aureola di luce.

Ora mi tocca ramazzare, asciugare, strizzare.

Il telefono. Di nuovo.

«Ciao Saverio, sono Serena. È da un po’ che non ci sentiamo. L’avvocato Raimondo mi ha detto di chiamarti. Come stai?».

«A mollo».

«Beato te. Io non ho fatto ancora un giorno di mare».

«Serena, ti dispiace richiamarmi fra mezz’ora? Adesso sono in immersione».

«Col telefono?».

«Sì, è una nuova tecnica: idrotelefonia in apnea».

«Va bene, ti chiamo più tardi».

«A tra poco, scusa la fretta, ma qui sotto c’è un gran traffico, è l’ora di punta del passaggio dei tonni».

«Cos’è successo?».

«Niente, pulizie di primavera».

«A luglio?».

«Lo sai come siamo in Sicilia, sempre un poco in ritardo».

Suleima guarda ancora la casa, lustra e luccicante di bagnato. Scruta il divano, segnato dalla battigia dell’umidità, sul quale sono sdraiato con la schiena a pezzi.

«Non avrai esagerato?» chiede togliendosi i pantaloni.

«Tu pensi? No, mi piace fare le cose perbenino».

Mi viene addosso a cavalcioni.

Lancio un urlo.

«Ti faccio questo effetto?».

«La lontananza sai è come il vento».

«E allora?».

«Fa dimenticare chi non s’ama».

«Che ti è successo?».

«Colpa sua» indico la lavatrice.

«Vabbè, vado a farmi una doccia» fa Suleima, risollevandosi.

«No se puede».

«Why?».

«Colpa sua» accuso la lavatrice.

«È facile scaricare le responsabilità sugli altri».

«Siamo senz’acqua. La maledetta si ribella al dominio dell’uomo».

«Benissimo, niente doccia. Sfumato il primo dei miei desideri per queste tre ore di pausa».

«E l’altro?».

Mi guarda con quel sorriso.

«Non te lo dico. Sei ridotto troppo male».

«Lo spirito è forte, ma la carne è debole».

«Saverio, invecchi a vista d’occhio. Stamattina dimostravi dieci anni di meno».

«Credo dipenda dal buco nell’ozono».

«Hai mangiato?» chiede Suleima.

«No, ma tanta acqua, dicono faccia bene».

«Ti preparo qualcosa?».

«Mi basta un bicchiere di cicuta fresca, con una spolverata di cacao in polvere».

«Giornata allegra, oggi».

«Ho spalato il mare».

Suleima mi stampa un bacio in bocca, mi mette le mani addosso, mi tocca dove l’anima è più sensibile e tutto questo, miracolosamente, funziona da analgesico. Quando ci rimettiamo in piedi sono guarito da ogni male, i miei pensieri lustri e lucidi come il pavimento di casa, un buco di fame al centro dello stomaco.

Sto lì a guardare Suleima che mette su la pentola per la pasta usando due bottiglie di acqua minerale, mentre taglio qualche datterino ben maturo e passo tutto a lei per preparare un sugo fresco. È bello stare così: l’olio che soffrigge, il bollore della pentola, dalla radio una vecchia canzone che ricorda altre estati.

Stappo una bottiglia di Insolia ben fredda.

Non mettiamo nemmeno i piatti, con le forchette peschiamo gli spaghetti pomodoro e basilico direttamente dall’insalatiera.

«Tu hai visto Nove settimane e mezzo?» chiedo.

«Saverio, quando sono nata io quel film era già vecchio di vent’anni».

«C’è una scena più o meno così».

«Con gli spaghetti al pomodoro?».

«Non ricordo, se vuoi controllo sull’iPad».

«No, lascia stare, altrimenti quella lì comincia a straparlare».

«Vuoi dire Teresita?».

«Insopportabile».

«Sbagli, lei ti stima molto».

«Ringrazio, ma non ricambio».

Finiamo il vino.

«Domani vado a Favignana. Mi accompagni?» le chiedo.

«Saverio, ti svelo una cosa di me che forse non sai».

«Dimmi».

«Io lavoro».

«Non ci credo. Non ti immaginavo così perversa».

«Purtroppo è una brutta malattia, si chiama bisogno».

«Dio mio, è contagiosa?».

«Sta diventando un’epidemia».

«Ti prego di adottare le opportune cautele».

Forse è meglio così, penso. Forse è meglio andare da solo.

Preparo il caffè.

«Che vai a fare?» mi domanda, girando il cucchiaino nella tazzina.

«Una vecchia amica ha bisogno di un favore».

«Vecchia quanto?».

«Uh, vecchissima».

«Più di ottanta o meno di quaranta?».

«Ad occhio, direi fra i quaranta e gli ottanta, ma più verso gli ottanta».

Mi prende un orecchio, me lo tira.

«Se fai lo scemo te lo stacco e lo servo fritto col cus-cus di Marilù».

«Col cuscus no, ti prego, si infila dappertutto».

Due colpi alla porta e si spalanca.

«Interrompo qualcosa?».

Peppe Piccionello di nuovo in mutande. Le buone cose di pessimo gusto tornano sempre.

«Bussare no, vero?» faccio.

«Ho bussato».

«Lo sai come funziona, no? Si bussa, si aspetta, una vocina da dentro chiede chi è, allora si dice sono Peppe, posso entrare, disturbo, c’è nessuno».

Peppe nemmeno mi guarda.

«Suleima, lo ammazzi subito tu o lo faccio io?».

«No, pensaci tu che io vado a farmi mezza doccia con l’acqua Sangemini».

«Tra un’ora è tutto a posto» fa Piccionello.

«È arrivato l’uomo della pioggia» commento.

«Prepara un altro caffè e non dire minchiate, che hai ancora la condizionale. Sta arrivando mio compare Totò Salemi, il mago delle lavatrici».

Come farei senza Piccionello? Mi dispiace non poter scrivere più niente su di lui. È un vero peccato perdere uno così. Ma devo decidere: l’uomo o il personaggio. È il solito dilemma di noi autori di stampo pirandelliano.

La musica dei Tinturia in cuffia non riesce a coprire la frequenza vocale della bionda seduta dietro di me. Nella traversata in aliscafo da Trapani a Favignana imparo alcune cose decisive sulla vita della sconosciuta alle mie spalle che chiacchiera con un’amica.

Nell’ordine: l’ex marito non paga da un anno gli alimenti, lo scorso inverno non è potuta andare a Saint-Moritz, il tizio che l’aveva invitata in barca per quest’estate è scomparso con tutta la barca per sfuggire alle tasse, Londra non è più quella di una volta, Milano non è più quella di una volta, New York non è più quella di una volta, Dubai non si sa se è quella di una volta, ma forse meglio così, gli hotel a cinque stelle Superior non offrono più i servizi di una volta, la crisi ormai è mondiale, bisogna scappare dall’Italia, questo non è un paese serio perché è sempre quello di una volta.

All’approdo a Favignana mi studio ben bene la vittima numero zero della crisi mondiale: al netto di chirurgia plastica, valigie Louis Vuitton, Rolex e bracciale d’oro del peso di un’arancina al burro, leggo la disperazione tra le rughe. Se anche i ricchi piangono, le loro ex mogli sono devastate dal segno meno davanti al Pii. Riesco a immaginarla in una mattina d’autunno, nel suo loft milanese, senza trucco, bip bip dell’iPhone sui dati trimestrali Istat e giù lacrime amare. Sapesse contessa, quanto mi pesa il Dow Jones.

Metto al massimo la voce di Lello Analfino con la sua canzone sulla vita del precario, lascio il passo alla bionda depressa Vuitton, sbarco in porto. Mi guardo attorno, Serena deve essere qui, da qualche parte.

Tre colpi di clacson, eccola, appoggiata a una Mehari bianca.

Me la ricordavo bella, ma dimentico che d’estate quelle belle si fanno ancora più belle.

«Stai bene» mi fa.

«Lo stesso non posso dire di te. Stai benissimo».

«Non cominciare a fare il cretino» sorride.

«Prendiamo un caffè?».

«Sì, ma poi andiamo al mare. Hai portato il costume?».

«Claro que si, chica».

«Bene, però smonta quell’aria da Gran Seduttore, ci sono già cascata una volta».

«Pentita?».

«Fino a un mese fa avrei detto di no, adesso ti piglierei a legnate».

«Un mese fa?».

«L’avvocato non ti ha detto niente?».

«No».

«Quello è peggio di te».

Nuotare a bracciate lente nell’acqua fredda di Cala Azzurra. Accanto a Serena. Ora mi torna in mente perché mi piaceva: sapeva apprezzare il silenzio. Come adesso, a filo d’acqua, dove si attutisce il brusio della spiaggia.

Torniamo a riva, stesi al sole, le palpebre socchiuse nel bagliore.

La coscia di Serena sfiora la mia.

«Ci pensi mai che poteva andare diversamente?» sussurro.

«Sì, poteva andare. Ma è andata così».

«Mi hai lasciato tu».

«Non cambiare le carte in tavola, sei stato tu».

«Non ricominciamo, tanto non saremo mai d’accordo. Allora, di che si tratta?».

«Speravo che Valerio Raimondo ti avesse anticipato la cosa, ecco perché ho preferito che ti avvisasse lui».

«In effetti mi è sembrato strano che non hai chiamato direttamente tu».

«È un po’ difficile da spiegare».

«Provaci».

«Antonia Aimondi».

Mi sollevo su un gomito, gli occhi sbarrati.

«Ma che gioco è?».

«Magari fosse un gioco, Saverio».

«È una storia di vent’anni fa».

«No, non è di vent’anni fa. È una storia di oggi».

Mi lascio andare sul telo da spiaggia, sconfitto.

«Dio mio, ma il passato non passa mai?».

«Saverio, lascia perdere il melodramma. La storia è semplice: un mese fa, a scuole finite, mio figlio Guglielmo è andato a Palermo da suo padre, sai che siamo separati».

«E che c’entra Antonia Aimondi? E io?».

«Ascolta. Insomma, Guglielmo va a una festa in un locale a Mondello. Una cosa tranquilla, ha solo quindici anni, i suoi amici sono ragazzi a posto. Ma succede qualcosa, un piccolo litigio con altri coetanei. Per farla breve, Guglielmo fa lo spaccone, spinge di qua, spinge di là, reagisce e se la prende con un ragazzo dell’altro gruppo. Quello cade, sbatte contro un vaso e si spacca il naso».

«Tutto qua? Anche a me una volta hanno spaccato il naso con un pugno».

«Non è tutto qua. Il ragazzo ferito finisce all’ospedale, gli dicono che ha il setto nasale rotto, gli fanno un intervento. Io mi incazzo con Guglielmo, lo minaccio di tenerlo in punizione tutta l’estate, cerco di rintracciare i genitori, telefono e scopro che è il figlio di Antonia Aimondi».

«Non ci credo».

«Ci devi credere. Dunque Antonia fa finta di non conoscermi, mi dice che di qua e che di là, purtroppo c’è la legge, purtroppo le famiglie non fanno il proprio dovere, purtroppo la responsabilità penale e civile, purtroppo la crisi dei valori e mi annuncia che vuole denunciarmi».

«Minchia».

«Qualche giorno fa mi è arrivata la citazione per danni, Antonia Aimondi chiede settantamila euro».

«Minchione».

«È tutto quello che sai dire?».

«Ma sei proprio sfigata».

«Grazie della consolazione».

«E io che c’entro?».

«Tu hai combinato il guaio e tu adesso lo risolvi. Le vai a parlare e le dici che io non ho una lira».

«Io?».

«Saverio, le corna ad Antonia Aimondi le hai messe tu».

«Con te, giusto?».

«Ho capito. Ma quella ce l’ha ancora con me per colpa tua».

«Non avrei mai creduto di finire in un romanzo d’appendice. Questa è peggio del Conte di Montecristo ».

«Lo so che adesso ti sei messo a scrivere romanzi. Evita, perché se scrivi una sola parola su questa storia il naso te lo spacco io, con tutti i sentimenti».

Quanto può durare il senso di colpa?

Cinque anni per fatto lieve, dieci anni per fatto grave, tutta la vita per peccato mortale. Mettere le corna alla tua ragazza con una sua amica è fatto lieve, grave o peccato mortale?

Guido da Trapani a San Vito lungo la litoranea di Pizzolungo nell’ora che precede il tramonto accompagnato da Radio Italia, solo musica italiana. Un po’ di Lucio Battisti, un po’ di Pino Daniele, un po’ di Franco Battiato, perfino un Fred Bongusto.

Aggravanti: Serena Bellavista e Antonia Aimondi erano quasi amiche, non proprio intime, ma frequentavamo la stessa tacca, così si diceva ai tempi per indicare una comitiva di ragazzi.

Attenuanti: avevamo meno di venticinque anni, con Antonia stavamo assieme da un anno e le cose andavano così così, lei decise di andare per tre settimane a Stratford-upon-Avon a perfezionare il suo inglese, ci salutammo all’aeroporto di Punta Raisi dicendo che questo tempo ci sarebbe servito per riflettere un po’ su noi due.

Attenuanti: tecnicamente era una pausa di riflessione, in pratica significa che ciascuno si fa i fatti suoi.

Attenuanti: Serena era bella da tirare via il fiato.

Aggravanti: Antonia Aimondi scopre che sto con Serena perché glielo dice sua madre - la quale non mi sopportava - che ci ha visti sbaciucchiare davanti alla Torre di Mondello.

Aggravanti: per puro gusto letterario avevo scritto due lettere ad Antonia nelle quali sembravo il giovane Werther, straziato dall’assenza.

«Dove sei?» chiede Suleima al telefono.

«Sto tornando da Trapani».

«Io devo andare al ristorante, ci vediamo stanotte».

«Ti aspetto sveglio».

«Ti devi far perdonare qualcosa?».

«Sono pulito, puro e immacolato».

«Allora non c’è gusto, gli innocenti sono noiosi».

«Innocente mai, non cominciamo ad offendere».

«C’è qui Totò Salemi che ti aspetta».

«Chi?».

«Totò Salemi, quello della lavatrice».

«Si è rotta di nuovo?».

«No, ti deve dire qualcosa. Non ha voluto spiegare».

«Digli di aspettare».

«È con Peppe Piccionello, li lascio a casa».

«Magari avrei voluto godermi un po’ di intimità con me stesso».

«Troppo tardi, hanno già preso la bottiglia di amaro Averna».

«Perché non sono scontroso e solitario?».

«Ma tu sei scontroso e solitario».

«Anche tu mi piaci moltissimo».

L’amaro Averna è quasi finito, l’ultima scolatura se la beve Totò Salemi.

Ancora non mi ha spiegato cosa vuole da me. Abbiamo parlato di lavatrici, di lavastoviglie, dei frigoriferi di una volta che erano migliori di quelli di adesso, di Custonaci che una volta era meglio di adesso, della Sicilia che una volta era meglio di adesso e dell’amaro Averna che una volta era uguale ad adesso.

«Be’, possiamo venire alla nostra questione» dico a un certo punto.

«Voglio ammazzare il cavaliere Noce» dice Totò Salemi, l’Antico Toscano spento all’angolo della bocca.

«Mi fa piacere. Chi è?» chiedo.

«Il proprietario della cava di marmo dove lavorava Totò» spiega Piccionello.

«Quel gran cornuto» precisa Totò Salemi.

«Un gran cornuto» sottolinea Piccionello.

«Mi sembra una valida ragione per ammazzarlo».

«Saverio, c’è poco da scherzare. Totò ha lavorato per quindici anni nella cava del cavaliere Noce».

«Meccanico specializzato».

«Meccanico specializzato» precisa Piccionello. «Un anno fa il cavaliere Noce non ha pagato più gli stipendi, ha detto che c’era la crisi, che il mercato era fermo, che l’antimafia aveva bloccato tutti i lavori pubblici, che la gente era scantata e non spendeva più e che nessuno si faceva più le scale di marmo, i bagni di marmo, i pavimenti di marmo».

«E noi abbiamo aspettato. Un mese, tre mesi, otto mesi. Dopo un anno di questa storia il cavaliere Noce ci ha licenziati senza darci una lira».

«È la crisi, appunto» dico.

«Sì, ma quel cornuto del cavaliere Noce ha licenziato dieci padri di famiglia e ha affittato la cava ai cinesi».

«I cinesi?» dico.

«Sì, i cinesi. Hai presente quelli gialli con gli occhi a mandorla?» mi fa Piccionello.

«Ne ho sentito parlare. Mi dispiace tanto, ma io che posso farci?».

Totò Salemi prende dalla tasca della giacca il mio libro.

«Quando sono venuto qui l’altro giorno a riparare la lavatrice, perché mi do aiuto con questi lavoretti, non sapevo che vossia era un grande scrittore».

«Andiamoci piano».

«Grande. Sono entrato dal tabaccaio di Custonaci e c’era il suo libro».

«Non significa niente».

«Significa, significa, signor Lamanna, perché a me mai era capitato di incontrare uno che scrive libri».

«Sembra così, invece è anche uno sveglio. Ha risolto un caso di omicidio» dice Piccionello.

«Vabbè, lasciamo perdere. Non capisco cosa posso fare io con il cavaliere Noce e con i cinesi».

«Vengo e mi spiego. Io voglio ammazzare il cavaliere Noce, giusto?» dice Totò Salemi, parlandomi manco avessi sette anni.

«Giusto».

«Vengo da lei e racconto questa storia. Vossia che è un grande scrittore scrive che c’è uno, Totò Salemi, che vuole ammazzare il cavaliere Noce, perché c’è stata la crisi, perché lo hanno licenziato, perché sono arrivati i cinesi, con tante bellissime parole. Una cosa tipo Rambo, ha presente il film?».

«E poi?».

«Appena esce il libro ne parlano tutti i giornali, la televisione, la radio, pure la Rai e la Mediaset e già così quel gran cornuto del cavaliere Noce si mette paura. Ma la cosa non finisce qui».

«Ah, no?».

«Ascolta bene, Saverio: la cosa è interessante» dice Piccionello cercando negli armadietti della cucina, «non hai un po’ di grappa?».

«C’è una bottiglia di rum sul frigo. Dunque, esce il libro e che succede?».

«Io vado dal cavaliere Noce con il libro appena uscito, entro nel suo ufficio e gli dico così: la realtà può superare la fantasia. Bastano queste parole e quello capisce che ho intenzioni serie, ma non mi può denunciare perché io non vado armato, ma porto con me solo un libro. Si può ammazzare uno con un libro? No. Ma là dentro c’è già scritta la fine del cavaliere Noce. Poi fuori dall’ufficio ci sono tutti i giornalisti, chiamiamo pure Barbara D’Urso, Striscia la notizia, le Iene, il Tg3 Sicilia e tutti raccontano di Totò Salemi e che la realtà supera la fantasia. Facciamo parlare mezzo mondo, no?».

«Ma non è più semplice chiamare subito i giornalisti e dire che siete stati licenziati?» chiedo, un po’ perplesso.

Totò Salemi allarga le braccia sconfortato.

«Signor Lamanna, ma vossia lo vede il telegiornale? C’è gente che si ammazza, che si dà fuoco, che piange miseria, bambini morti di fame, imprenditori falliti, e a nessuno gliene importa una minchia. L’altro giorno, mia moglie, che mischina sa bene quanto soffre la nostra famiglia, appena è spuntato in televisione uno che aveva perso il lavoro, lo sa che mi ha detto? Cambia canale che ci vediamo la replica del commissario Montalbano, almeno non ci deprimiamo».

Piccionello versa il rum nei bicchieri.

«Saverio, Totò ha ragione. Della crisi non frega più niente a nessuno, solo a quelli che hanno le pezze al culo. Ma non fanno più notizia. Con questa storia del libro, invece, può diventare una cosa internazionale».

Butto giù l’Havana 7. Può essere che la realtà supera la fantasia, ma può essere pure che mi trovo in mezzo a due pazzi da catena.

«Non mi convince» dico.

Delusione sulla faccia di Totò Salemi.

«Vossia è un grande scrittore».

«Non sono un grande scrittore».

«Ma se non fate niente voi che sapete tenere la penna in mano, a noi poveracci chi ci difende?».

«Non lo so».

Totò Salemi beve il suo rum, abbandona il mozzicone di Antico Toscano nel posacenere, rimette il libro nella tasca della giacca, si alza per andare via.

«E se scriviamo che ammazzo qualcun altro?». 

«Chi?».

«Non so, uno più importante».

«Non cambia».

«Buonanotte e scusate il disturbo».

Lo vedo uscire dalla porta. Sembra più piccolo di statura, quasi si sia ristretto. C’è ancora qualcuno che crede nei libri, proprio ora che non servono quasi più a niente.

Capitolo shopping. Importante.

¿Dónde està la zona comercìal?

«¿Dónde està la zona comercial?».

¿Cuanto es?

«¿Cuànto es?».

Estoy cansada.

«Cansada?».

Cansada. Buenas noches!

Teresita si spegne. Riprovo a farla ripartire. Maledetta e ostinata, ha il carattere tosto dei galiziani.

È mezzanotte. Teresita ha chiuso bottega.

Mi torna voglia di fumare.

Perdo tempo sul tablet, vado a cercare Custonaci su Wikipedia.

Centro noto per l’importante attività di estrazione marmifera, in particolare del pregiato Periato di Sicilia, di colore avorio chiaro e con chiazze di calcite pura, ma anche di altri marmi di vario colore. Si contano circa duecento cave di marmo nel territorio, su una superficie di tre chilometri quadri. È esportato in tanti paesi e in particolare è molto richiesto nella penisola arabica.

Ci sarà crisi nella penisola arabica? Lì ficchi un dito nella sabbia e spunta petrolio. È bravo il cavaliere Noce, se ne sta a fare niente, prende l’affitto della cava e il lavoro duro lo fanno i cinesi.

Totò Salemi ha dimenticato sul tavolo il pacchetto di Antico Toscano. Quasi quasi ne accendo uno.

Scrivo: crisi marmo Custonaci. Sessantacinquemila risultati su Google. Prima riga: il settore è da tempo in grave sofferenza.

Provo a cambiare, magari trovo la replica del commissario Montalbano e smetto di deprimermi.

Accendo il toscano. La prima boccata mi stordisce, il sigaro non è fumare. E il toscano non è un sigaro.

Il «Corriere.it»: borse a picco, Milano la peggiore in Europa.

Il sito di «Repubblica»: giornata nera a piazza Affari.

Provo sul «Fatto Quotidiano», sperando che a quel giornale delle borse non gliene freghi niente. E infatti mi consolo: 60 miliardi il prezzo della corruzione, Italia prima in Europa.

«Il Sole-24 Ore», con il suo solito tatto, mi avverte che lo spread è aumentato di 7 punti. Non è grave, non si muore.

Tento con il «Giornale di Sicilia»: operai delPEni di Gela da dieci giorni sulla ciminiera, vogliamo il lavoro.

Meno male che non ho più un lavoro, penso, altrimenti mi sentirei come un panda in metropolitana.

Mi verso un dito di Havana Club 7 Anos. Antico Toscano e rum, ho appena costituito l’associazione italo-cubana.

Ha ragione Totò Salemi. La sua vita non è una notizia, al massimo un elemento statistico.

«Ehi, che fai tutto triste e solo?».

«Suleima. Meno male che sei tornata, stavo per tagliarmi le vene dei polsi».

«Si vede che non hai niente di meglio da fare. Cos’è questa puzza di sigaro?».

«Aria di disperazione. A te come è andata?».

«Al solito, lavoro».

«Ti prego, ripeti questa parola».

«Quale?».

«L’ultima che hai detto».

«Lavoro?».

«Posso toccare una specie in via di estinzione?».

«Ma ci sei o ci fai?».

«Tu sei la perla nera, Suleima, tu sei una rarità, tu sei il dodo delle Mauritius prima della scomparsa, tu sei il bisonte dell’Oregon, il visone marino, la foca monaca caraibica, il coguaro orientale».

«E tu sei un imbecille allo stato brado».

«In quanto tale non rischio l’estinzione».

«Infatti, per questo non ho intenzione di moltiplicarmi con te».

«Unione senza moltiplicazione, va bene?».

«Ti è andata buca a Favignana?».

« Ho vinto un appalto senza nemmeno partecipare alla gara».

«Che devi fare?».

«Riconciliare due vecchie fidanzate».

«E perché avevano litigato?».

«Per colpa mia».

«E adesso devi riconciliare? Saverio, non mi sembri l’uomo adatto».

«Lo pensi anche tu?».

«So come ragiona una donna».

«Che vuoi, sensi di colpa da scontare».

«Mentre sconti, io mi butto sotto la doccia».

«Nuda?».

«No, vestita da palombaro».

«Sei sexy col tuo scafandro a pois».

Si spoglia andando verso il bagno, una vertigine di pelle che mi costringe a seguirla fin là dentro.

Cassatella calda alla ricotta e caffè al bar di Castellammare del Golfo, pit stop obbligatorio nella tratta San Vito Lo Capo-Palermo-San Vito.

«Che dice?» chiedo a Peppe Piccionello, impegnato sul «Giornale di Sicilia».

«Forse riaprono la Fiat di Termini Imerese».

«Non mi dare cattive notizie, ho puntato tutto sul fallimento della Sicilia prima del 2020».

«Sei ottimista».

«È più forte di me».

Peppe Piccionello ordina un secondo caffè ristretto.

«Perché ti sei messo questa maglietta?» gli faccio.

Sul petto ha una scritta rossa: «Kiù longa è la penzata, kiù grossa la minkiata. Sicilian style».

«Ti piace? Le fa la figlia di mia cugina. Quella è un cervellone».

«Si capisce da lontano».

«Ha studiato all’università».

«Infatti. La cultura accademica rovina i giovani».

«Pensa a te, piuttosto. Ti sei messo in un guaio».

«Lo pensi veramente o lo dici per dispetto?».

«Ma come fai a presentarti da una che ce l’ha con te?».

«Sbagli. Antonia Aimondi non ce l’ha con me. Ce l’aveva con me, ma qualche anno fa ci siamo rivisti una sera a Roma, ci siamo messi a parlare del passato, un po’ di malinconia, il giardino dei sentieri che si biforcano, i destini che si allontanano, patapum e patapam».

«E allora non capisci, Saverio».

«Cosa?».

«Quella si è riavvicinata perché prima o poi te la deve far pagare».

«Ma cosa mi deve fare pagare? Una storia di vent’anni fa? Ha un figlio, un marito ricco, un attico in via Principe di Belmonte, una villa a Trabia. Se restava con me doveva perfino lavorare».

«Sì, però a quell’altra la sta facendo pagare».

«Quell’altra è la buttana, io sono soltanto un povero maschio di carne debole».

«Come dici tu».

«Andiamo che si è fatto tardi».

«Dove hai appuntamento?».

«A casa sua, a Palermo».

«E ti aspetta?».

«Non si è nemmeno fatta pregare, dovevi sentire: ma che bello, ma che gioia, ma che felicità, gaudio magno e alleluia».

«Non mi convince, questa ti mangia nelle scarpe».

«Peppe, non fare Cassandra».

«L’ho visto quel film, non era male. Basta che mi lasci da Euronics e poi ci rivediamo quando hai finito».

«Che vai a fare da Euronics?».

«Guardo i televisori».

«Devi comprarne uno?».

«No, ma ogni volta che ci torno c’è un modello nuovo che costa sempre meno. Voglio vedere fino a che punto arrivano».

«E qual è il punto d’arrivo?».

«Ci sarà un giorno che me ne regalano uno».

«Peppe, ti devo dare una brutta notizia: Babbo Natale non esiste».

«Fidati. Ci vuole solo pazienza».

Mio padre apre la porta.

«Che ti è successo? Hai una faccia strana» dice.

«Niente, devo incontrare una persona».

«Un giudice?».

Mio padre ha paura dei giudici.

«No, una vecchia amica. Ma forse dovrei evitare».

«Allora evita. Entra dentro, sto facendo la borsa».

Lo seguo in camera da letto. C’è una sacca con due racchette, asciugamano e maglietta.

«Da quando giochi a tennis?» gli faccio.

«Da vent’anni».

«Non lo sapevo».

«Non leggi i giornali sportivi».

«Ma ti farà bene con questo caldo?».

«Perché, sono malato?».

«No, ma alla tua età».

«Alla mia età, cosa?».

«La televisione lo dice sempre: evitate le ore più calde».

«Mangiate molta frutta e verdura, bevete molta acqua e state all’ombra. Tu ci credi? A Palermo la gente mangia pane ca’ meusa, arancine, birra agghiacciata e campa lo stesso».

«Palermo non c’entra».

«Hai ragione. Palermo è a parte. Resti qui stanotte?».

«No, torno a Màkari. Perché non vieni anche tu?».

Mio padre controlla la sacca, sistema meglio un paio di scarpe sportive. Da quando è morta mia madre, non vuole più mettere piede a Màkari.

«Che ci vengo a fare? Lì va tutto in rovina» dice.

«Non è vero, ho sistemato la casa».

Fa un gesto con la mano. Forse non ci crede, forse non gli interessa.

«Hai scritto un libro?» mi chiede, andando verso il bagno.

«Sì, te ne ho fatto mandare una copia».

«Lo so, ma l’ha presa Mimi, voleva dare un’occhiata» dice a voce alta, da là dentro.

«E tu nemmeno lo hai sfogliato?».

«Ce l’ha ancora Mimi, ma ho visto il tuo nome sulla copertina: faceva figura» grida.

«Grazie, mi piace quando sprizzi entusiasmo».

«Se scrivevi una canzone, la cantavo. Siccome hai scritto un libro, dammi il tempo di leggerlo» spiega, rientrando in camera.

«E anche tu hai ragione» mi arrendo.

«La vuoi un po’ di granita?».

«Da dove viene?».

«Dal bar qua sotto, l’ha portata Maricchiedda stamattina presto».

«Con la brioscia?».

«Pure la brioscia».

Brioscia a pezzetti nella granita ormai liquefatta. Io e papà al tavolo della cucina. Ci deve essere qualcosa che mi ricorda una mattina di tanti anni fa, la sensazione che tutto sia già successo.

«Hai smesso di fumare?» chiede mio padre.

«Sì, da un mese».

«Si vede, sei un po’ ingrassato».

Il canarino lancia un assolo dalla veranda.

«Perché non lo liberi?» faccio.

«Certo, tanto a te che te ne frega se poi se lo mangiano i gabbiani?».

«Ma sei sicuro?».

«Quello non sa vivere senza di me».

«In gabbia, però».

«E pure io sono in gabbia. Non lo vedi?».

«Ma, quando vuoi, vai a giocare a tennis».

« Se passa Mimi a prendermi, sennò resto qui in gabbia. E canto».

«Buona questa granita. Lo sai come si dice in spagnolo?».

«Granizado».

«Come fai a saperlo?».

«Una volta sono andato a Siviglia con tua madre».

«E c’era la granita?».

«Di prima qualità. Meglio di quella del bar di Salina».

«Non ci credo. Mi sfotti».

«Granita, granita. Sei fissato con la granita. Quand’eri bambino volevi imparare a fare la granita, dicevi che dovevi andarla a vendere in America».

«Dicevo questo?».

«Ne dicevi tante minchiate. E questa fra le tante».

«Un destino segnato».

Mio padre toglie i bicchieri della granita, li mette nel lavello, ripulisce il piano del tavolo dalle briciole.

«Quando hai appuntamento con questa qui?» chiede.

«Chi?».

«La tua vecchia amica».

«Adesso, fra un’ora. Devo chiederle un favore per un’altra amica».

«Ahi Maria».

«Che significa?».

«Che non ti devi mettere in mezzo fra due donne».

«Comincia a venirmi questo sospetto».

«E allora lascia perdere».

«Senso di colpa».

«Verso chi delle due?».

«Tutte e due».

«Ti vedo e ti piango, figlio mio».

Suona il citofono. È arrivato Mimi.

«Io scendo. Se vuoi stare un altro poco, quando esci tira la porta» dice papà.

«Va bene, stai attento».

«Appena Mimi ha letto il tuo libro, ti dico cosa ne penso».

«Lui legge e tu giudichi».

«È un caro amico, abbiamo le stesse opinioni, più o meno».

«Grazie, papà. Stai attento».

« Peppe Piccionello sta bene? È tanto che non lo vedo».

«L’ho lasciato da Euronics. Aspetta che gli regalano un televisore».

«Ancora questa storia? È cominciata che c’era ancora la tv in bianco e nero».

«Che vuoi farci, è un tipo ostinato. Ciao, papà. Stai attento».

«Ciao, Saverio. Stai attento tu, ne hai bisogno».

La saracinesca chiusa della gioielleria. Vendesi. Affittasi. Locali commerciali, 500 metri quadrati, disponibili da subito. Qui all’angolo mia madre comprava i pigiami per me e per mia sorella. Cessazione attività. Vendesi. Affittasi. Vicino all’edicola c’era uno che fabbricava camicie spacchiosissime, destrutturate, colletti flosci, puro stile anni Ottanta. Quando ha chiuso, al suo posto hanno aperto una jeanseria, poi un negozio di articoli da regalo. Adesso niente. Sulle vetrine impolverate e sporche hanno attaccato dei manifesti. No Tav. No Ponte. No Renzi. Con lo spray qualcuno ha scritto SUCA, che funziona sempre per tutto.

Prima di piazza Politeama incontro quello che da venticinque anni, ogni volta che metto piede nel centro di Palermo, mi vende accendini, penne biro, fazzolettini di carta.

«Parrino, mi regali cinque euro?».

Lo conosco da quando era un ragazzino. Stiamo invecchiando assieme. Mi chiama parrino, presumo per rispetto di età, perché potrei essere suo padrino. Di battesimo? Di cresima? Parrino, comunque.

«Cinque euro?» gli faccio.

«C’è crisi, parrino, c’è malura».

«E invece prima?».

«Prima era diverso, parrino, venivo da te e mi regalavi cinque euro».

«E ora?».

«E ora fai questioni. Perché c’è crisi».

«Prima chiedevi un euro, adesso ne chiedi cinque, hai aumentato i prezzi».

«Con i clienti come te, parrino, mi posso permettere. Ma c’è crisi».

«Tre euro».

«Quattro euro, parrino. C’è troppa concorrenza: turchi, zingari, africani, nivuri».

«Cinque euro, ecco».

«Dieci penne, parrino, guarda che bei colori: rosa, giallo, fucsia. Ti piace questa nera?».

Me ne infila un mazzo in tasca. E passa a un altro seduto al bar.

«Mi regali due euro, parrino?».

Mi sento toccare su una spalla. Uno mi sorride.

«Che ci fai a Palermo?» mi stampa un bacio per guancia.

Non so chi è. Buio totale.

Mi prende sottobraccio. Dalla camminata mi pare uno che fa politica.

«Proprio l’altro giorno stavo per chiamarti» dice.

Com’è che appaio sempre a quelli che stanno per chiamarmi?

«Caro Saverio, sono tempi duri. Questa città è al capolinea. La spending review, il patto di stabilità, l’Europa, la Merkel».

«Certo, l’Enciclica, le lavatrici, il marmo perlatino, lo spread».

«Ci intendiamo, appunto. Vedi che disastro?» indica via Libertà con un gran gesto della mano.

A me non pare un gran disastro, forse a guardare meglio, ma potrei farlo solo se questo qui si togliesse di mezzo. Ma non si toglie.

«Pensavo a te, caro Saverio, perché in questo momento, tu sai com’è la situazione politica, sai meglio di me quello che sta succedendo alla Regione, sarebbe necessario un intervento forte, qualcosa che dia una scossa, un nuovo assetto, un progetto innovativo».

Ho capito.

«Purtroppo non lavoro più col sottosegretario» dico, liberandomi dalla sua presa.

«No? E da quando?». È stupito.

«Da un mese, più o meno».

«Non sapevo nulla». Adesso è quasi risentito. Com’è che non l’ho avvertito subito? Avrebbe dovuto essere il mio primo pensiero.

«Divergenze ideologiche».

«Capisco. Allora ne riparliamo in un altro momento».

«Sì, un altro momento mi sembra il momento perfetto».

«Tu hai il mio numero, no?» mi fa.

«Certo, sempre in prima linea».

«Bravo, Saverio, sempre in prima linea».

Se ne va di fretta. Appena gira l’angolo mi ricordo chi è. Lo chiamano Mezzuovo, quando era assessore comunale in un paese delle Madonie chiedeva la tangente sulle uova per la refezione scolastica: metà del costo di ogni uovo finiva nelle sue tasche.

Plin plon, l’ascensore all’ultimo piano.

Si apre la porta, mi accoglie una donna filippina o tamil o bengalese, non so, con borsa da mare sottobraccio.

«Signora ti aspetta?».

Non capisco se è una domanda o il suo accento.

«Sì, signora mi aspetta».

«Io esce?».

«Io entra».

«Tu aspetta qui in salone?».

«Sì, aspetto qui».

«Tu amico signora con marito o senza marito?».

«Senza, credo».

«Io vado mare con amica?».

«Ne hai facoltà».

«Ciao allora?».

Divani bianchi, lampada Arco Flos, chaise longue Le Corbusier, cassapanca dell’Ottocento siciliano, tappeto persiano d’epoca, un quadro di Croce Taravella, uno di Alessandro Bazan, un piccolo Lojacono con una veduta di Monte Pellegrino, tre Marylin di Andy Warhol. Faccio il conto: almeno trentamila euro, escludendo le serigrafie di Warhol di cui non giuro sull’autenticità. Mi piace fare i conti in tasca alla gente.

«Sei tu, Saverio?» la voce di Antonia dall’altra stanza.

«Confermo».

«Vuoi bere qualcosa? Guarda nel frigo dentro il mobile antico».

«Grazie».

«Dammi ancora qualche minuto».

Trovo acqua minerale, succo d’arancia rossa, campati soda e Coca-Cola. Se ci fosse l’Havana mi farei un cuba libre. Scelgo succo d’arancia: guardo attorno, non vedo bicchieri, mi attacco alla bottiglia.

«I bicchieri sono nell’altro sportello» grida Antonia.

«Già trovati, grazie».

Ne sporco uno di succo, per cancellare le tracce dell’abuso.

Mi avvicino al tavolo di vetro spaziale - se è il Nomos disegnato da Sir Norman Foster saranno più o meno tremila euro - su un leggio di plexiglas trasparente c’è una copia del libro bullonato di Depero. Non ne capisco niente di libri d’arte, ma il mio amico Giancarlo ne parla sempre, dice che è uno dei volumi più belli del Novecento (e anche dei più costosi). Lo sfoglio piano.

«Bellissimo, vero? Vale quasi trentamila euro» dice Antonia spuntando alle mie spalle.

Non era granché da giovane, ma ormai migliora col tempo, immagino contribuiscano molte ore di trattamenti estetici, lezioni individuali di pilates, qualche interventino di bisturi e un tocco di botox.

Shorts, maglietta leggera, sandali col tacco, colpi di sole ai capelli e palese assenza di reggiseno la collocano d’ufficio nella categoria milf agiate di prima classe. Bottana industriale, direbbe Giancarlo Giannini.

Mi stampa un bacio sulla guancia, forse un po’ troppo vicino alla bocca.

«Stai bene» mi fa.

«Tu meglio».

«Hai bevuto qualcosa?».

Indico il bicchiere sporco.

«Succo d’arancia».

«Lo sai che sono proprio contenta che ti sei ricordato di me?».

«E come dimenticarti?» faccio io, la coscienza sporchissima.

«Ti sono mancata?». Accavalla le gambe sul divano bianco. Sa di avere sempre gambe spettacolari.

Sfoglio ancora il Depero bullonato.

«Trentamila euro non sono un po’ troppi?».

«Lo penso anch’io, ma mio marito è fissato».

«Fa sempre il commercialista degli evasori fiscali?».

Antonia ride.

«Vieni a sederti qui vicino» e batte la mano sul divano.

Eseguo.

«Saverio» dice, passandomi una mano nei capelli. «Già» faccio io.

«Saverio».

«Questo l’hai già detto».

«Sono passati tre anni dall’ultima volta». «Quattro».

«No, tre, sono sicura. Certe notti me lo sogno, sai?». «Spero che tu non parli nel sonno».

«Non parlo, ma sospiro forte, troppo forte».

Il telefono. Il mio telefono.

«Cucù. Stai attento a te».

Suleima.

Faccio un cenno ad Antonia, mi alzo dal divano e vado verso la porta affacciata sulla terrazza con i banani. «Ciao, dove sei?».

«A casa, non cambiare discorso. Guarda che so tutto». «Ma cosa?».

«Hai capito. Fai il cretino e ti rompo il naso». «Non ci credo. Sei una donna di mondo».

«Ti illudi. Ne ho già seppelliti due prima di te». «Ci vediamo stasera».

«Se mi trovi».

«Dove vai?».

«Il mio maestro di sci vuole portarmi a Montecarlo». «Non è mai stato il tuo sport preferito».

«Lo diventerà. Adieu, mon amour».

Antonia si smuove sul divano.

«È la tua fidanzata?» chiede.

«Sì».

«È una cosa seria?».

«È una cosa».

«È già qualcosa. Andiamo al mare? Dai, come ai vecchi tempi».

Sì, meglio uscire da qui, perché tanto so come va a finire.

Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Anzi, di luglio.

Antonia prende la borsa, le chiavi della macchina, mi spinge contro un muro e mi stampa un bacio in bocca con tutti quanti i sentimenti.

«Non credere che mi arrendo così. Tu oggi sei mio».

La Smart cabrio di Antonia brucia i semafori, sorpassa a destra, svolta con striscia continua. Veloce compendio di ammutinamento al codice della strada.

Uno con Lapa carica di vecchi televisori ci grida dietro un insulto, Antonia tira fuori la mano dal finestrino col dito medio alzato. Noblesse oblige.

Devo trovare il coraggio. Ora o mai più.

«Antonia, devo confessarti una cosa».

«Parla, gioiuzza» mi mette una mano sulla coscia.

«Non ho il costume».

«Non ti preoccupare, al circolo ne troveremo uno».

Il circolo, certo. Antonia non è tipo da spiaggia libera. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un palermitano rinunci al suo circolo al mare.

Scendiamo giù per la discesa di Valdesi. Mi guardo il cielo, spezzato dalla corsa degli alberi, la pietra rosa di Monte Pellegrino. Alzo una mano a fermare il vento.

«Saverio, ti ricordi quando andavamo a Capo Gallo in Vespone?».

«Il Vespone blu 125».

«Ero proprio innamorata di te».

«Anche io».

«Non quanto me».

«Lo dici tu».

«No, lo dicono i fatti».

Antonia frena di botto, devo mettere le mani avanti per non sbattere contro il parabrezza.

«C’è un parcheggio» grida.

I clacson urlano dietro di noi. Antonia se ne frega, svolta a sinistra, costringe un autobus a inchiodare, infila la Smart accanto a un cassonetto pieno di immondizia. Il traffico riprende, dai finestrini qualcuno impreca:

«Pulla e figlia di pulla».

Caffè al Bar Alba. Antonia riscuote successo, lo capisco dagli sguardi degli avventori maschi che se la spizzicano manco fosse un nove di cuori a chemin de fer. Con quelle gambe.

«Però ti voglio ancora bene» fa Antonia, da dietro la sua tazzina di orzo macchiato.

«Ci mancherebbe altro. Eravamo così giovani».

«Però mi hai fatto soffrire tanto».

«Mi devi ringraziare. Ti ho salvata da una vita infelice».

«Non lo so. Dai, andiamo che ho voglia di nuotare».

Prima di uscire butto un’occhiata sulla cronaca di Palermo del «Giornale di Sicilia».

Tramonta un’epoca, chiude il Bar Mazzara. A quei tavoli Tornasi di Lampedusa scrisse il suo capolavoro. La proprietà: «È colpa della crisi».

Tramonta un’epoca. L’avrò letto almeno trecento volte da quando sono maggiorenne, pertanto posso considerarmi un reperto archeologico.

«Che fai? Sbrigati» mi richiama Antonia, tra gli sguardi ammirati dei clienti convinti in cuor loro che, minimo minimo, sono finocchio o cornuto pacifico perché Gesù dà i biscotti solo a chi non ha denti. Li capisco, anch’io spesso mi consolo così.

Il mare di Mondello è chiaro, sembra quasi pulito.

Nuoto a bracciate lente nel costumino Colmar rosa stinto dimenticato negli spogliatoi da qualche avvocato civilista, immagino habitué delle enoteche del centro e del ristorantino di Gigi Mangia in via Belmonte.

Antonia è riuscita a presentarmi a raffica come ex fidanzato storico a una sua amica arredatrice, alla moglie di un deputato regionale, a un componente dell’ufficio di presidenza di Confindustria Sicilia, a un magistrato della procura e a un indagato per tangenti. Ora intuisco perché mi ha portato qui, sono la sua preda quotidiana: si vede che deve far espiare qualcosa a suo marito.

«Ciao bell’uomo, il mare è troppo grande per te».

Mi avvinghia con le gambe sott’acqua, mi stringe modello polpo e mi bacia.

Siamo alla giusta distanza dalla spiaggia del circolo.

Giusta per far capire che tra noi sta succedendo qualcosa.

«Arriviamo al molo» e parte avanti in perfetto stile libero. Al liceo era campionessa provinciale nei duecento metri.

Arranco fin laggiù. Merito un premio, le sue mani dentro il costume rosa stinto riescono a togliermi il poco fiato che mi è rimasto.

«Allora ti piaccio ancora?» mi sussurra nell’orecchio.

«Ho un sistema nervoso sensibile».

«Molto sensibile» ride, prima di scappare via, questa volta a delfino.

Quando torno in spiaggia, la trovo già sul lettino, cosparsa di protezione 15, occhiali da sole Persol, sfoglia l’ultimo numero del magazine «I Love Sicilia».

Mi stendo sulla sdraio.

Il mare di Mondello è azzurro pallido, come il titolo di quel libro lì sulla scrittura femminile, non ricordo l’autore, ma mi aveva annoiato abbastanza.

«Vai alle Seychelles, alle Maldive, alle Figi, ma come il mare nostro non ce n’è» sta dicendo una dietro di me.

«Certo, ormai questi viaggi te li vendono a due lire» le risponde un panzone con un panama bianco in testa.

«Ma non è per la spesa, sai. È che dopo tre giorni in quei posti ti annoi. Si mangia pure male».

Tento di distrarmi dalla conversazione dei due esploratori intercontinentali, controllo il telefonino: una chiamata persa di Piccionello. Lo richiamerò dopo.

Uno in bermuda blu e maglietta bianca, con lo stemma del circolo sul petto, si avvicina al lettino di Antonia.

« Signora, scusi se la disturbo, è da tempo che cerco di contattare suo marito per discutere quella situazione».

«Ne parli con lui» fa Antonia, senza alzare gli occhi dalla rivista.

«Appunto, non riesco a rintracciarlo».

«Sa, mio marito lavora. La farò chiamare».

L’uomo in bermuda resta piegato in avanti fin quando non intuisce che è arrivato il momento di smammare.

Devo aprire il discorso con Antonia. Da dove comincio?

«Fabrizio». Antonia si solleva di colpo sul lettino, chiama qualcuno.

Il ragazzo ha spalle larghe, profilo affilato, sorriso simpatico. Posa un bacio sulla guancia di Antonia.

«Ciao mamma».

«Saverio, questo è mio figlio Fabrizio».

Mi saluta con la gentilezza degli adolescenti ai quali risultano indifferenti tutti coloro che abbiano più di vent’anni.

«Io tra poco torno a casa» dice Fabrizio a sua madre.

«Papà non c’è. È a Catania, torna stasera».

«Lo so, ci siamo sentiti. A dopo».

Antonia si toglie gli occhiali, lo segue con lo sguardo fino a quando Fabrizio raggiunge un gruppetto di suoi coetanei.

«È bello, vero?» mi chiede con orgoglio.

«Sì, un bel ragazzo. Quanti anni ha?».

«Quindici, ma sembra più grande».

«Vedo che il naso gli è guarito».

Ho detto la mia cazzata. Ma quando me ne rendo conto è troppo tardi.

«Che ne sai tu?» mi fa Antonia.

Non posso bluffare.

«Me l’ha raccontato Serena».

«E tu che c’entri?».

«Antonia, parliamoci chiaro».

«Sì, parla chiaro. È meglio».

«So che hai fatto causa a Serena. Non ti sembra esagerato?».

«Sei venuto a trovarmi per questo?».

«Non solo per questo. Ma perché non la risolviamo da vecchi amici?».

«Serena sarà amica tua, non certo mia».

«Non ho detto che è amica tua. Ma perché devi farle causa?».

«Suo figlio ha spaccato il naso a mio figlio».

«Ho capito, ma è una cosa da ragazzi. È stato un incidente. Vuoi farlo condannare all’ergastolo?».

« Se sua madre non sa educare il figlio, allora ci penserà il tribunale».

«Antonia, le hai chiesto settantamila euro. Ma che te ne importa? Sei ricca, tuo marito è il principe dei commercialisti. Perché vuoi rovinare quella poveraccia che campa con uno stipendio da fame?».

«Saverio, perché non ti fai i cazzi tuoi?».

«Io capisco che ce l’hai con Serena. Ma sono passati tanti anni».

Antonia scoppia a ridere. Una risata finta.

«Pensi che ce l’ho con lei per colpa tua? Piccolino mio, ma quanto ti senti importante? Non sono così stupida, Saverio. Siete stati due stronzi, va bene, ma è passato un secolo. Non sono una quarantenne infelice né una casalinga disperata, vivo allegramente e ogni tanto, distrattamente, penso a te».

Il telefono. Piccionello.

«Peppe, ti richiamo io».

«Ascolta, Totò Salemi ha preso in ostaggio il cavaliere Noce. Dice che vuole parlare solo con te».

«Minchia. Arrivo».

Antonia si rimette gli occhiali da sole, si stende sul lettino e riprende a sfogliare «I Love Sicilia».

«Antonia, devo scappare via. È un’emergenza».

«Bene, restituisci il costume».

«Una sola domanda, Antonia».

«Prego».

«Se non lo fai per vendetta, perché lo fai?».

«Si chiama senso di giustizia, Saverio. Ma tu non puoi capire».

«Sì, è vero. Non posso capire».

Cerco un taxi, un autobus, qualcosa che mi riporti a Palermo.

Si ferma uno scooter Honda Vision, da sotto il casco una voce giovane.

«Deve andare a Palermo? Le do un passaggio».

Lo riconosco: è Fabrizio.

«Accetto».

«Allora è meglio che questa borsa la porti lei». «Fabrizio, dammi del tu».

«Come vuole lei».

«Mi chiamo Saverio».

«Come dice lei, cioè tu, Saverio».

Mi carico sulla spalla la sua borsa da palestra, Fabrizio mi passa un casco e salgo in sella.

Attraversiamo la Favorita, qualche matto a bordo strada fa jogging a trentasei gradi, di corsa verso l’infarto.

«Dove vai a scuola?» chiedo, la solita domanda idiota per adolescenti studenti.

«Cosa? Non ho sentito».

«Che scuola fai?».

«L’Umberto».

«Che anno?».

«Terzo, cioè primo liceo».

«Come va?».

«Così così».

Così così. Fine della conversazione. Mica gli posso chiedere chi gli ha spaccato il naso. Sulla borsa leggo la targhetta col nome: Fabrizio De Gregorio. Sbuchiamo in piazza Leoni.

«Lei dove deve andare?» mi fa.

«Non ci diamo del tu?».

«Tu dove devi andare?».

«Non ti preoccupare, lasciami dove ti viene più comodo».

«Io sono già arrivato, la mia palestra è qui vicino». «Scendo qui, allora».

Gli restituisco casco e borsa.

«Che sport fai?» gli chiedo, seconda domanda idiota per adolescenti. La terza è: che musica ti piace?

«Pesi».

«Bravo».

Si fa pensieroso, immagino si stia sforzando per trovare una domanda cortese e adeguata alla mia veneranda età.

«Sei su Facebook?» mi fa.

«Sì. Saverio Lamanna».

«Allora ti chiedo l’amicizia».

«Bene. Grazie, Fabrizio».

Raggiungo a piedi via Libertà, prendo il 101 al volo, senza biglietto. Mi sento ragazzo, quando restavo vicino all’uscita dell’autobus per scendere in fretta all’arrivo del controllore.

«Dove sei?» insiste Peppe Piccionello al telefono.

«Sto arrivando. Aspettami davanti Euronics».

«Sono qua fuori da mezz’ora. Lì Totò Salemi sta facendo il matto. È arrivata la polizia, l’esercito, dobbiamo fare presto».

«Non volo, ma sto imparando».

«Non sai fare proprio niente».

«Il televisore te l’hanno regalato?».

«La prossima volta».

«Non sai fare proprio niente».

Non ho nemmeno il tempo di scendere dall’auto. Il mucchio selvaggio di telecamere e giornalisti mi accerchia.

«Lamanna, da quanto tempo conosce Salemi?».

«Perché chiede di lei? Cosa vuole?».

«È vero che lei è un investigatore privato?».

«Sapeva che in passato Salemi è stato condannato per rissa?».

«Quando vi siete incontrati l’ultima volta?».

«Salemi è pericoloso? È armato?».

«Le aveva mai detto di voler sequestrare il cavaliere Noce?».

Un capitano dei carabinieri mi mette un braccio sulle spalle. Sono cosa sua, adesso.

«Ragazzi, il signor Lamanna adesso non può rispondere».

«Capitano, solo una battuta per il telegiornale».

«Mi dispiace, ragazzi, abbiamo altre priorità. Signor Lamanna, venga con me».

Passiamo sotto i nastri rosso-bianchi che tengono a distanza giornalisti e curiosi. Tre ragazzi scattano foto col telefonino verso il container che ospita gli uffici della Marmi e Graniti Cav. Noce Srl.

«Sono il capitano Mendolia».

«Com’è la situazione?».

«Molto semplice. Due ore fa il soggetto...».

«Il soggetto?».

«Salemi Salvatore, nato a Custonaci il cinque sette sessantuno, ivi residente in via Scurati, coniugato, pregiudicato».

«Pregiudicato?».

«Condanna per rissa, aggravata dai futili motivi».

«In che anno, scusi?».

«Millenovecentosettantotto».

«Ma aveva diciassette anni».

«Lamanna, i precedenti sono precedenti».

«Precedono, infatti. Torniamo al soggetto».

«Il soggetto, le dicevo, verso le ore dodici e trenta si presentava negli uffici della cava, ben sapendo che nell’ora di pausa non avrebbe trovato gli altri lavoratori».

«I cinesi».

«I cinesi?».

«Niente, è una lunga storia. Andiamo avanti, capitano».

«A questo punto, avendo sorpreso il cavaliere Noce che solitamente si sofferma in ufficio nell’orario di pausa, il Salemi ha chiuso dall’interno porte e finestre, si è asserragliato e ha chiamato la caserma».

«Lui stesso?».

«Sì, ha chiamato la caserma dicendo di avere in ostaggio il cavaliere Noce e ha chiesto espressamente di voler parlare con lei. Non avendo i suoi recapiti siamo riusciti a raggiungerla attraverso il signor Piccionello».

«Sapete se è armato?».

«Non lo sappiamo. Per questo consiglio un contatto via filo».

«Via filo?».

«Al telefono».

«Va bene».

Trin, trin, trin. Sento il telefono squillare dentro il container.

«Salemi, sono il capitano Mendolia. È arrivato Lamanna. Resti in linea, glielo passo».

«Totò Salemi, sono Saverio».

«Lo so, la vedo da qua dentro».

«Bene, Totò, cosa vuoi fare?».

«Stanotte non ho dormito. Ho pensato, ho pensato, ho pensato».

«E cosa hai pensato?».

« Se vossia il racconto non può scriverlo prima, può scriverlo dopo, no?».

«Dopo che cosa, Totò?».

«Dopo che vossia ha parlato con i giornalisti, così fa sapere a tutti quant’è cornuto il cavaliere Noce e che ci vuole scrivere un libro su questa storia».

«Dov’è il cavaliere Noce?».

«È qui, sta benissimo. Vero cavaliere?».

«Sto benissimo» trema la voce del cavaliere.

«Sei armato, Totò?».

«Ma a vossia ci pare che sono cretino?».

«Sei armato, Totò?».

«Ho portato un quaderno, così vossia ci scrive il romanzo» sussurra al telefono.

«Certo, Totò, ma appena parlo con i giornalisti tu esci fuori senza fare danni. Me lo prometti?».

«Parola di Totò Salemi».

Ripasso il telefono al capitano.

«È armato?» chiede il capitano.

«Dice di no. Ha un quaderno».

«Un quaderno?».

«Per me. Devo scrivere la sua storia».

«Bene, cosa vuole?».

«Vuole che parlo con i giornalisti».

«Non posso autorizzarla».

«E non mi autorizzi. Mi autorizzo da solo».

«E cosa deve dire?».

«Cosa vuole che dica, capitano? Faccio la storia del marmo di Custonaci, dalle origini ai nostri giorni».

«Lamanna, faccia poco lo spiritoso. Guardi che posso arrestarla per oltraggio a pubblico ufficiale».

«Bene, così poi ci pensa lei a tirare fuori Salemi e il cavaliere Noce».

«Lamanna, chiudiamo questa storia che va avanti già da troppo tempo. Maresciallo, faccia avvicinare i giornalisti, il signor Lamanna rilascerà una breve dichiarazione per conto del soggetto».

Il gruppetto dei giornalisti mi stringe.

«Bene, ragazzi, il Salemi ha chiesto che il signor Lamanna rilasci una dichiarazione. Nessuna domanda, vi prego» spiega il capitano.

Sento il ronzio delle frequenze dei microfoni.

Si va in scena.

«Totò Salemi mi chiede di raccontarvi la sua storia. La storia di un uomo che per quindici anni ha lavorato in queste cave, che da quasi un anno non riceve lo stipendio e che poche settimane fa è stato licenziato dal cavaliere Noce che ha dato in gestione l’attività a una società cinese. Il suo è un gesto di protesta, per far conoscere la sua situazione e quella dei suoi dieci colleghi rimasti senza lavoro».

«Colpa della crisi?» chiede un giornalista.

«La crisi c’entra sempre».

«Salemi è armato?» interviene un altro.

«Non è violento».

«Fine delle domande, grazie» interviene il capitano Mendolia.

«Lamanna, scriverà qualcosa su questa storia?» mi chiede una bionda, tirando fuori dalla borsa il mio libro. Già la stimo moltissimo, anche per la sua quarta di seno.

«L’ho promesso a Salemi. Sarà uno dei protagonisti del mio prossimo racconto».

Mi allontano, lasciando i giornalisti a prendere nota del titolo del mio ultimo libro, ben inquadrato dalle telecamere. Un po’ di pubblicità non guasta mai, penso. Mi pento subito di averlo pensato: sono così cinico?

«Salemi, sono il capitano Mendolia. Le passo Lamanna».

«Totò, tutto fatto. Adesso puoi uscire».

«Prima voglio vederlo in televisione».

«Cosa dice?» chiede il capitano.

«Vuole vedersi in televisione».

«Me lo passi. Salemi, chiudiamola subito. Sta arrivando il magistrato e le cose poi si complicano».

«Mi faccia parlare con Piccionello».

«Cosa dice?» chiedo al capitano.

«Adesso vuole parlare con Piccionello».

Faccio segno a Piccionello di avvicinarsi. È appoggiato alla macchina, a testa bassa.

«Vuole parlare con te».

«Totò, che succede?».

«Perché non venite dentro tu e Lamanna? Così aspettiamo il telegiornale».

«Cosa dice?» chiede il capitano.

«Dice se andiamo dentro io e Lamanna, così aspettiamo il telegiornale».

«Non se ne parla. Non posso autorizzare» scuote la testa il capitano Mendolia.

Il gruppo di giornalisti sbanda all’arrivo di una Lancia Thema blu. È arrivato il magistrato da Trapani.

«Minchia, adesso cominciano i guai». Il capitano si toglie il berretto e si passa una mano fra i capelli.

Il magistrato avrà sì e no trent’anni, jeans e maglietta Lacoste color lilla.

«Non vi muovete» fa il capitano e gli va incontro.

Guardo negli occhi Peppe Piccionello. Ci siamo capiti. Dieci passi e siamo davanti al container.

«Totò, apri. Sono io con Lamanna» dice Peppe.

La porta si apre, entriamo dentro. Sento la voce del capitano che grida:

«Fermi, non siete autorizzati».

Ma ormai la porta si è richiusa alle nostre spalle. Qui si sta freschi, c’è pure l’aria condizionata.

Totò Salemi sorride. Abbraccia Piccionello, abbraccia me.

«Cavaliere Noce, i miei amici Piccionello e Lamanna. Come le dicevo, cavaliere, questo è un grande scrittore».

Ci presentiamo con la solennità e il sussiego dei soci del Rotary Club.

Il cavaliere Noce è anziano, avrà quasi ottant’anni. Seduto alla sua scrivania ha la smorfia di chi sta perdendo tempo.

«Tutto bene, cavaliere?» chiedo.

«Benissimo, non lo vede? Vediamo di chiudere questa storia, io alle cinque ho il battesimo della figlia di mia nipote».

«Il cavaliere è diventato bisnonno» dice Salemi.

Prendo Totò da parte, gli sussurro all’orecchio:

«Pensavo che l’avevi legato alla sedia».

«Macché, il cavaliere mi conosce da quando ero ragazzino. È un gran cornuto, però capisce la situazione. E poi che doveva fare? Non lo vedi quant’è? Un soffio e vola via».

La televisione accesa, mancano tre quarti d’ora al tg locale.

«Che vogliamo fare?» dice Piccionello.

«Cavaliere, ce l’ha un mazzo di carte?» fa Totò Salemi.

«Mi pare di si».

«Ci facciamo una briscola in quattro. Cavaliere, io e lei facciamo coppia contro Piccionello e Lamanna».

Sbircio fuori da sotto le tendine abbassate. Il capitano Mendolia parla fitto con il magistrato, gli indica il container. Il ragazzotto si gratta il mento, forse gli hanno spiegato che i pubblici ministeri devono essere gravi e pensosi.

«Briscola a coppe» fa Totò Salemi.

Alla prima mano ci stracciano, il cavaliere e Salemi si intendono con un battito di ciglia. Alla seconda riusciamo faticosamente a recuperare qualche punto.

«È l’ora» dice il cavaliere.

Piccionello aumenta il volume della tv.

Taratà tarata tarata.

«Buongiorno a tutti i nostri ascoltatori. Ore drammatiche a Custonaci dove un uomo, Salvatore Salemi, operaio disoccupato, ha preso in ostaggio tre persone negli uffici della cava di marmo della ditta Noce. Ma sentiamo in diretta la nostra inviata».

«Anche noi due siamo ostaggi?» mi chiede Piccionello.

«A quanto pare lo siamo diventati».

«Silenzio» fa il cavaliere Noce.

La giornalista ci spiega chi è Totò Salemi, chi è il cavaliere Noce, chi siamo io e Piccionello, ci racconta la crisi del settore marmifero, la disperazione dell’operaio disoccupato, il gesto insano, il raptus di follia, il pericolo immanente, il rischio crescente, la paura, l’ansia, l’allarme e, soprattutto, il mistero. Non si sa se Salemi sia armato.

Totò Salemi mi indica con un sorriso il quaderno nero sulla scrivania.

«Il noto scrittore Saverio Lamanna, prima di entrare negli uffici della Marmi e Graniti, ha rilasciato una dichiarazione per conto del sequestratore. Se la regia può far partire il contributo».

«Hai sentito? Sequestratore» dico a Salemi.

Ecco, sono in onda. Dovevo darmi una sistemata ai capelli, hanno una forma strana.

«Bene, adesso possiamo andare via? Devo ancora cambiarmi per il battesimo di mia nipote» fa il cavaliere Noce, sempre più incazzato.

«Che dici, Totò, la chiudiamo qua?» gli faccio.

«Secondo voi la mandano in onda anche stasera?».

«Sicuro, questa è la notizia del giorno» confermo.

«Allora, prima esce il cavaliere Noce, poi noi due e tu stai in mezzo» fa Piccionello a Salemi.

«Prima di uscire, voi due date dieci euro a me e a Totò» dice il cavaliere Noce.

«Perché?».

«A briscola avete perso».

«Cavaliere, ma le sembra il momento?».

«I piccioli sono piccioli. Non mi interessa niente».

Fuori gracchia un megafono.

«Ssa, ssa, prova, prova. Salemi, sono il sostituto procuratore Tallarito, ho preso il controllo delle operazioni, so che mi sta ascoltando, esca fuori con le braccia in alto».

Sbircio dalla finestra. Quello lì è convinto di stare in un film americano. Ha fatto disporre i carabinieri armati in prima linea. Si è immedesimato nell’ispettore Callaghan. Il capitano Mendolia, accanto a lui, si passa una mano sulla faccia.

«Salemi, le faccio presente che lei incorre nella fattispecie prevista dall’articolo 605 del codice penale, punibile con la reclusione fino a 8 anni, senza tenere conto delle aggravanti specifiche».

«Scherza?» fa Salemi.

«No, Totò. Secondo me questo non scherza» gli dico.

«Cavaliere, glielo spiega lei, vero?» dice Salemi.

«Totò, se mi fai perdere il battesimo di mia nipote ti faccio finire in galera per vent’anni».

La voce al megafono, ancora:

«Salemi, non ha alcuna possibilità di farla franca. Rilasci gli ostaggi, si arrenda, altrimenti sarò costretto a fare irruzione con le forze dell’ordine».

«Questo è matto, meglio che veniamo fuori subito» dice Piccionello.

«Peppe ha ragione, meglio che usciamo subito. Cavaliere Noce, vada avanti lei» annuisco.

«Finalmente» e il cavaliere Noce esce fuori.

«Dai, Totò, andiamo» dico.

Le telecamere puntano il cavaliere Noce che cammina sullo sterrato tirandosi su i pantaloni. Gli si avvicina un’infermiera, immagino gli chieda come sta, ma il cavaliere Noce la manda a quel paese. Pensa solo al battesimo.

«Salemi, non faccia pazzie. Non le faremo del male» dice ancora il sostituto Tallarito al megafono.

«Non mi fido» mormora Salemi.

«Dai, Totò, andiamo» Piccionello gli mette una mano sotto braccio.

Salemi è un po’ intronato, adesso. Prende il quaderno nero.

«Questo è per vossia. Scriva tutto, bene bene».

«Certo, Totò, andiamo» gli dico.

Apriamo la porta, usciamo piano, tenendo Totò Salemi sotto braccio.

Le telecamere sono puntate su noi tre. Il capitano Mendolia tira un sospiro. È andata. Ora il sostituto Tallarito deve solo stare zitto per un po’. Invece:

«Salemi, abbandoni l’arma, abbandoni l’arma, è un ordine, apro il fuoco, apro il fuoco. Fuoco».

Pam.

Un colpo di pistola. Secco, rimbalza l’eco sulle pareti della cava.

Mi abbasso d’istinto, le mani sulla testa.

Qualche cretino ha sparato in aria.

Totò Salemi si divincola, sento il suo braccio scivolare via, scappa dietro il container, scompare.

Il capitano Mendolia strappa quel cazzo di megafono all’ispettore Scimunito Callaghan.

«Ma che cazzo fa?» grida Mendolia.

«Era armato, era armato, aveva qualcosa in mano» strepita il genio dei sequestri.

«Era un quaderno».

«Un quaderno?».

« Sì, un cazzo di quaderno dove non c’è scritto niente».

«Secondo me è un’arma».

«Dottore, con tutto il rispetto, secondo me lei è un cretino».

«Come si permette?».

«Lamanna, cosa tiene in mano Salemi?».

«Un quaderno».

Le telecamere puntano in alto, verso la parete della cava. Come ha fatto Salemi ad arrivare fin lassù?

«Totò, scendi, non ti succede niente» grido.

«Totò, non fare minchiate» grida Piccionello.

«Salemi, stia tranquillo, adesso la veniamo a prendere, non le succederà niente» grida il capitano Mendolia al megafono.

Il sostituto procuratore Tallarita si gratta il mento.

«Sembrava un’arma, però».

La voce di Totò Salemi arriva piano.

«Non ci voglio andare».

«Cosa?» gridiamo tutti.

«Non ci voglio andare in galera. Ho due figli».

«Non ci vai in galera, Salemi. Parola d’onore» grida il capitano Mendolia.

«Non è vero, non ci credo» urla Salemi, e mi sembra di sentirlo piangere.

Lo vedo. Lo vediamo. Lo vedono le telecamere. Lo vedo io. E lo vede Piccionello. E i giornalisti. E i ragazzi che fanno il video con i telefonini. E il capitano Mendolia.

Non c’è rumore. È una scena muta. Salemi è sul ciglio del blocco di marmo.

Si lascia cadere giù.

Lo vedo volare, le braccia un po’ distanti dal corpo.

Un oggetto nero si stacca da lui, volteggia nell’aria, uno sfoglio, un gioco di pagine bianche nel vento, plana piano. Totò Salemi deve essere già arrivato a terra, ma da qui non riusciamo più a vedere niente. Niente.

«Chi è?».

«Sono io, posso entrare?».

«Peppe, non fare il cretino. Entra».

Piccionello ha la faccia bianca di cera. Scuote la testa. Posa un quaderno impolverato sul tavolo.

«Me l’ha dato il capitano Mendolia. Per te».

Passo una mano sulla copertina del quaderno, la polvere mi resta sui polpastrelli.

«Il cavaliere Noce pagherà i funerali. E anche gli arretrati degli stipendi alla moglie di Totò» dice Piccionello.

«Almeno la soddisfazione di avergli rovinato il battesimo della nipote».

Suleima prende fra le mani il quaderno. Ha gli occhi rossi.

«Ho bisogno di bere qualcosa» fa Piccionello.

«Sul frigo c’è la bottiglia di Havana 7».

«Questi toscani sono tuoi?» chiede Peppe.

«No, sono di Totò Salemi. Portali qui che fumiamo».

Torna al tavolo con la bottiglia di rum e i toscani.

«Non avevi smesso di fumare?» dice Piccionello.

«Ho cambiato idea».

Accendo un toscano, dalla radio We are thè Champions dei Queen.

C’è poco da dire. Beviamo Havana 7, nel fumo del toscano di Totò Salemi.

«Non riesco a crederci» dice Suleima.

«Il fatto viene dopo» dice Peppe Piccionello.

«Che minchia significa?» chiedo.

«Lo diceva sempre un mio amico. Il fatto viene dopo».

«Non capisco».

«Significa che il fatto non conta, ma conta quando te ne rendi conto».

«E allora?».

«Abbiamo visto cadere Totò Salemi, ma solo ora ci stiamo accorgendo che è morto».

«Mi sembra una minchiata» dico, e mi verso un altro bicchiere di rum.

«Ha ragione Peppe, il fatto viene quando lo sai, non mentre accade» commenta Suleima.

«Spiegatemelo, perché io continuo a non capire» intigno.

«Pensa alla moglie di Totò Salemi» dice Suleima. «Per cinque ore non sono riusciti a trovarla perché era andata a Trapani al centro commerciale, non sapeva niente, anche se il fatto era già successo. Il fatto è venuto dopo, quando tornando a casa ha trovato i carabinieri».

«Ecco, il fatto viene dopo» fa Piccionello.

Gli soffio una boccata di fumo addosso.

«Sei fatto filosofo, adesso?».

«Ma ce l’hai con me?».

«No, perché? Ti sei fatto convincere da Totò Salemi, gli hai fatto credere che ero un grande scrittore e che un libro gli avrebbe risolto i guai. Invece di dirgli: Totò, questa tua pensata è una gran minchiata, gli hai dato ragione. E quello, mischino, si è persuaso. Risultato: Totò Salemi è morto e noi ci fumiamo i suoi sigari. In effetti hai ragione: perché dovrei avercela con te?».

«Saverio, non è colpa mia o tua» dice Piccionello.

«Non è colpa di nessuno. È colpa della crisi, dei cinesi, del magistrato, del capitano, della malasorte, delle scarpe scivolose, dell’enciclica papale».

«Non fare così, Saverio» dice Suleima, poggiando una mano sulla mia.

«Non faccio così. Non è colpa tua, non è colpa mia. È colpa del giornalismo, del sistema, di Adam Smith, del capitalismo, dell’euro, del libero mercato, del comuniSmo, del buddismo, dello scontro di civiltà, di internet, ma non è mai colpa nostra. Totò Salemi è morto, succede, è successo, succederà. È la lunga strada verso il progresso, vero? Qualcuno muore e qualcuno campa, as usuai. Noi che c’entriamo?».

«Vabbè, io vado a casa» fa Piccionello.

«Bravo. Vai a casetta, aspetta il tuo televisore in regalo, prepara le polpette di sarde e campa sereno».

«Saverio, Totò Salemi era mio amico da sempre. Sono stato al suo matrimonio, ho visto nascere le sue figlie, gli ho prestato soldi quando era in difficoltà, forse sono più addolorato di te. Non venirmi a fare la morale».

«Saverio, Piccionello ha ragione».

«Avete tutti ragione. Avete ragione tutti. Però Totò Salemi è morto e noi beviamo rum. Vado a farmi una doccia, buonanotte».

Piccionello e Suleima si scambiano un’occhiata di compassione.

Mi infilo sotto la doccia. Sarà l’acqua sulla faccia, ma mi viene da piangere. Il fatto viene dopo, è vero.

Entra luce dalla finestra. Mi sveglio. Sono le sette.

Suleima mormora nel sonno, dice qualcosa che non capisco, come forte o morte.

Un messaggio sul telefonino. È di Serena.

«Novità?».

Fin troppe. Mi preparo un caffè. Guardo fuori, il mare è piatto, Monte Cofano ammagliato di foschia. Oggi farà caldo.

Accendo l’iPad.

Buenas dias.

No, Teresita, non è la giornata giusta. Spegniti.

¿Estds triste?

Quanto basta, grazie.

Apro «Repubblica.it». La notizia della morte di Totò Salemi è in fondo alla home page, mischiata con altre. «Sicilia, operaio disoccupato suicida. Brescia, imprenditore si dà fuoco». Il «Corriere.it» nemmeno la riporta. Su «LiveSicilia» l’hanno messo fra le prime cinque, accompagnata da una dichiarazione del presidente regionale di Confindustria: «La crisi ormai è un disastro sociale». C’è anche il video della mia dichiarazione: «Lo scrittore Lamanna: la tragedia di Salemi nel mio prossimo libro». Grazie Totò, ora sì che sono veramente un grande scrittore.

Passo su Facebook. Messaggio privato. Un giornalista di Milano: «Ti ho visto al tg, ti ricordi di me?». A questo l’amicizia non la do, quando l’ho conosciuto era uno stronzo, non credo che su Facebook possa migliorare.

Rileggo il messaggio di Serena. Ora le rispondo che va tutto male.

Richiesta di amicizia: Fabrizio Iron.

Iron?

C’è la foto. Ho capito, il figlio di Antonia Aimondi.

Amicizia accettata, scartabello un po’ sulla sua pagina, tanto per capire chi è.

Qualche video di cantanti hip hop, femmine nude, forza Palermo, meglio un giorno da Borsellino che mille da Ciancimino, la foto di una brunetta con qualche migliaio di cuoricini, la squola è finita, stasera ci vediamo a Mondello, ciao Fabri sei megghio di Mike Tyson.

Che c’entra Mike Tyson?

Facciamoci una carrettata di cazzi altrui.

Vado a curiosare nell’album delle foto. E spunta Fabrizio Iron De Gregorio con guantoni, paradenti e casco di protezione sul ring di una palestra. Scarico la foto, la allargo: sullo sfondo c’è un cartello. Superboxe Palermo.

Aspetta aspetta. Guarda guarda.

Vado su Google. Scrivo: Superboxe Palermo.

Chiudo gli occhi, li riapro.

Superboxe, scuola di pugilato, kick boxing, free fight, via del Bersagliere, 90146 Palermo.

L’altro giorno mi ha lasciato proprio lì, all’angolo di via del Bersagliere.

Hai capito il buon Fabrizio Iron? Fa a botte ogni giorno, ma appena prende una sventola da un ragazzetto si fa spaccare il naso.

Rispondo al messaggio di Serena.

«Forse novità».

Mi vesto, bacio Suleima mentre dorme.

«Che ore sono?» chiede.

«Le otto».

«Di mattina?».

«Sì».

«Perché sei sveglio a quest’ora? Dimmelo».

«Cosa?».

«Dimmi che sei gravemente malato».

«Sono gravemente malato».

«Dove vai?».

«A Palermo».

«A fare cosa?».

«Cure specialistiche».

«Non è contagiosa?».

«No, puoi continuare a dormire. Ci vediamo più tardi».

«Guarirai?».

«Sì, domani mi sveglio alle undici. Te lo prometto».

«Saverio, sono triste».

«Anch’io. È normale».

«La scrivi davvero la storia di Totò Salemi?».

«Non credo, le storie vere finiscono sempre male».

«Avevi promesso».

«Non avevo promesso niente».

«Fallo adesso».

«Ci penserò».

Granita e brioscia al Bar Sicilia. Ho tempo per la mia colazione, sono scivolato dentro Palermo veloce veloce, il traffico di fine luglio è leggero.

Non sono ancora le nove e mezzo del mattino. Arrivo a piedi in via del Bersagliere. La Superboxe è nel seminterrato di un palazzo.

«Desidera?» chiede uno che sta alzando la saracinesca.

«Lei è il proprietario?».

«A lei che ci interessa?».

«Volevo dare un’occhiata, vorrei iscrivermi».

«Guardi che fra due giorni noi chiudiamo per tutto agosto».

«Io vorrei iscrivermi a settembre, ma siccome passavo da qui».

«Prego, si accomodi».

La palestra è al buio. Al centro il ring, i sacchi appesi al soffitto, i manifesti alle pareti, i pesi in fila sulle rastrelliere.

«Vuole vedere anche gli spogliatoi?» mi chiede il tizio. «Sì».

«Ecco, qui ci sono le docce. Sono state rifatte nuove due mesi fa».

«Bene».

«Lei che sport vuole fare?».

«Boxe».

«Boxe?». Il tizio mi studia con una smorfia.

«Qualcosa che non va?».

«È faticoso, lei lo sa?».

«Immagino».

«Io sono l’allenatore di boxe».

«Piacere, Lamanna».

«Venturino».

Mi stritola una mano, vuol farmi capire chi è il più forte. E infatti capisco.

«Ma a lei chi ce lo porta qui?».

«Me l’ha consigliato Fabrizio».

«Fabrizio chi?» chiede, mentre torniamo verso il ring.

«Fabrizio De Gregorio».

«Ho capito, Iron».

«Esatto, lo chiamano così».

«No, è lui che si fa chiamare così. È solo un ragazzino, la prima volta che gli hanno spaccato il naso non è più voluto entrare nel quadrato».

«Gli hanno spaccato il naso, perciò?».

«Prima o poi succede, per questo alcuni se lo fanno rompere prima, ma questo vale solo per i professionisti. Eravamo in allenamento, sarà stato una mesata fa, ha incassato male un destro, non mi ascolta mai quel ragazzo, e patapummete è caduto a terra con il naso rotto».

«È grave?».

«Ma che grave? Prima o poi succede. Solo che si è spaventato, è scappato via e ora si dedica solo ai pesi. È ancora convinto di fare boxe?».

«Ha detto un mese fa?».

«Sì, più o meno. Ma a lei che ci interessa?».

«Mi ricordo di averlo visto in quei giorni con la faccia gonfia così».

«Sarà stato il 10 giugno, perché quella sera abbiamo fatto la cena di fine corso con tutti gli allievi e lui non è venuto».

«Va bene, allora ci rivediamo a settembre» ma evito di stringergli la mano per salutarlo.

«Ci pensi bene».

«Non le sembro adatto per la boxe?».

«Vuole la verità?».

«Sì».

«Qua vicino, alla Favorita, c’è un campo da golf. Perché non prova lì?».

«Grazie della stima».

«Di niente».

Seduto sugli scalini della statua della Libertà, dal lato in ombra, mi accorgo che non ci avevo mai messo piede prima di oggi. E non ci ho mai visto nessuno. Ci sono piazze che nascono deserte, secondo me c’entra De Chirico.

Accendo un altro Antico Toscano dal pacchetto abbandonato da Totò Salemi, appoggio le spalle al granito, butto il fumo contro il cielo.

Mi era già successo un’altra volta. Avevo vent’anni e prima di partire per Barcellona con l’Erasmus, collaborai per sei mesi al giornale «L’Ora». Mi occupavo della movida palermitana, era il periodo in cui i palermitani scoprivano le gioie della città by night, scrivevo minchiate sulle feste, i locali, chi c’era e chi non c’era. Una sera inciampai in una notizia: all’Arenella c’era stata una rissa, una ventina di ragazzi si presero a legnate nemmeno ricordo per quale motivo, quando arrivò la polizia fermarono uno con un coltello a serramanico, era il figlio di un consigliere comunale che un giorno sì e un giorno sempre tuonava contro la deriva delle notti palermitane, contrarie alla decenza e all’ordine pubblico (immagino credesse confusamente che Palermo fosse una piccola Lugano).

Prima di portare la notizia al giornale girai per due ore in città, mi avvicinavo alla redazione e poi cambiavo strada. Ero l’unico a sapere quel retroscena - me l’aveva confidato un poliziotto figlio di un vicino di casa -, mi eccitava custodirlo. Detenere un segreto, malgrado non fosse la verità sul disastro di Ustica, dava quasi la vertigine. E mi pareva un peccato portare la notizia al giornale, farla diventare cosa di tutti. Purtroppo, quando decisi di presentarmi in redazione per scrivere, il giornale fece ammuffire le mie trenta righe in un cassetto, fin quando il «Giornale di Sicilia» non pubblicò la cosa senza fare nomi e non facendo capire niente. Almeno mi restò a lungo il ricordo di quelle ore in cui solo io sapevo.

La stessa cosa mi capita adesso.

Tiro un’altra boccata dal sigaro, penso a Totò Salemi.

Il fatto viene dopo. Forse ho capito.

Chiamo Serena.

«Ciao, sono Saverio. Tuo figlio ha litigato con quel ragazzo verso il 10 giugno?».

«La sera dell’11 giugno. Perché?».

«Niente, una mia idea. Ci sentiamo più tardi».

Un’auto della polizia municipale si ferma ai bordi della piazza, scende un vigile e si avvicina sistemandosi il berretto in testa.

«Buongiorno, si sente male?».

«No, perché?».

«Siccome abbiamo visto che era seduto qui ci siamo insospettiti» e indica il suo collega rimasto in auto.

«Questa è la statua della Libertà. C’è libertà di sedersi, dunque».

«La libertà c’è, ma non lo fa mai nessuno».

«Perché la gente non sa che c’è la libertà».

«O forse non gli interessa».

«E allora che libertà è?».

«Libertà inutile».

«Me ne vado, allora».

«No, se vuole può restare. Ma non c’è nessuno, vede?».

«Ha ragione. La libertà è una cosa troppo vuota».

Plin plon. L’ascensore all’ultimo piano.

Antonia è già sulla porta, dopo lo stupore al citofono.

«Ancora tu?».

«Ma non dovevamo vederci più?».

«Ti ho perdonato, basta che non mi parli di quella lì. Entra».

Gira con un caffettano di lino, mi pare che sotto non porti niente.

«Vuoi bere qualcosa?».

«Un goccio di Havana 7?».

«Forse sì, aspettami» e va lì dentro.

Il Depero da trentamila euro è sulla stessa pagina che avevo aperto io. Non è un libro dalla trama irresistibile.

«Ghiaccio?» grida Antonia dall’altra stanza.

«Sì, grazie».

Torna con il bicchiere.

«Non è un po’ presto per il rum?» mi fa.

«A Cuba lo bevono a colazione».

«Ma non siamo a Cuba. Accomodati. Cosa c’è?».

«Antonia, lascia perdere».

«Sei tornato per rompere le palle?».

«No, sono tornato per darti un consiglio da amico».

«E sarebbe?».

«A tuo figlio il naso lo hanno rotto in palestra».

«Che stai dicendo?».

«Ho i testimoni. Ti dico anche la data: 10 giugno, se non sbaglio era un martedì».

«L’hanno visto tutti che il figlio di quella lì ha spinto Fabrizio e lo ha fatto cadere».

«Certo, lo hanno visto cadere. Ma il naso ce l’aveva già rotto, magari questo non lo hanno visto o se lo sono dimenticati. Sono ragazzi, sai».

«Ho il referto medico».

«Sicuro. Perché l’indomani, appena hai capito la cosa, lo hai portato al pronto soccorso. E hai pensato di approfittarne».

Antonia si alza, il caffettano le scopre le gambe. Non mi lasciano mai indifferente, nemmeno adesso.

«Dimmi solo una cosa, Antonia. Tuo figlio la sa questa cosa o hai organizzato tutto tu?».

«Lascia stare Fabrizio, lui non c’entra. È minorenne».

«Ma tu sei maggiorenne».

«Hai una sigaretta?».

«No, solo toscani».

Si avvicina alla porta aperta sulla terrazza, nel controluce ricevo conferma: sotto il vestito niente.

«La legge è legge. Non posso fare altro» dice, guardando fuori.

«Puoi ritirare la denuncia».

«Per fare un piacere a te o alla tua amichetta?».

«Antonia, questa storia non regge».

«Le cose non sono andate come dici tu».

«Ti ricordi cosa mi hai detto quella volta a Capo Gallo?».

«Che c’entra adesso?».

«Mi hai detto che non mi avresti mentito mai. Il bugiardo sono io, tu sei la ragazza che dice sempre la verità».

Resta in silenzio. Guarda fuori. Col dito scrive qualcosa sul vetro. Una sirena passa lontano, da qualche parte in città.

«Saverio, non capisci. Quei soldi mi servono. Ci servono».

Scoppio a ridere.

«Vi servono? Settantamila euro? Ma se solo in questa stanza ci sono duecentomila euro».

«È tutto pignorato, Saverio».

«Che dici?».

«La casa, i mobili, i conti, i quadri, pure questo cazzo di libro è pignorato» addita il Depero.

«Ma se tuo marito è il principe dei commercialisti».

«Ma li leggi i giornali, Saverio? Non ci sono più soldi, non paga più nessuno. Mio marito da anni deve ricevere soldi dalla Regione, dai Comuni, dalla Asl, da tutti. E nessuno paga. Non ci sono più soldi, dicono. L’altro giorno un suo cliente gli ha portato una gallina scannata per sdebitarsi. Capisci? Una gallina! Come un secolo fa».

«E pensavi di rifarti su quella poveraccia di Serena».

«Solo la gente onesta paga ancora, Saverio. Serena paga, a costo di vendersi la casa. Ma i clienti di mio marito sono enti pubblici ed evasori fiscali. I primi non hanno più soldi, e gli evasori dicono di non averne mai avuti. Risultato: puff, tutto sparito».

«Vendete tutto, allora».

«Stanno già vendendo tutto. Le banche ci stanno vendendo le sedie da sotto il culo. Non so come campare, Saverio. Non pago la cameriera da sei mesi, infatti quella Stronza ormai vive qui come una signora, a tipo albergo. Va e viene quando le pare».

Speriamo che non pianga. Speriamo che non pianga, penso. Piange, invece.

La abbraccio, mi bagna di lacrime la camicia.

«Scusami, Saverio».

«Non ti preoccupare, Antonia. Forse è meglio che vado via».

«Sì, è meglio» e mi lascia un bacio sulla guancia.

Mi accompagna alla porta.

«Non dirlo a nessuno, però» mi dice.

«No».

«Nemmeno a Serena. La chiudiamo qui».

«Ciao».

Scendo giù in strada. Passo dal ristorantino di Gigi Mangia. Ordino per tre: ravioli di capesante in ragù di gamberoni, aragostine grigliate, semifreddo d’arancia e due bottiglie di Inzolia.

«Gigi, puoi mandare tutto a casa del dottor De Gregorio, quello che abita qua vicino?».

«Certo, fanno centotrentasette euro, per te centotrenta».

«Grazie, sei sempre un amico».

«Devo dire qualcosa al dottor De Gregorio?».

«Buon appetito».

Alla curva del belvedere di Castellammare del Golfo sento la fame. Mi fermo al furgoncino: pane, panelle e cazzilli con birra Moretti Baffo d’Oro.

Vado a sedere sul bordo del parapetto.

«Com’è finita?». Serena al telefono.

«Bene, Antonia ritira la denuncia».

«Come hai fatto a convincerla?».

«Non ha mai smesso d’amarmi».

«Neanche io».

«Non siete le sole».

«Cretino» sento che ride.

«Adesso devo lasciarti, ho molti impegni».

«Ti aspetto a Favignana. Anche con la tua ragazza, se non è gelosa».

«Non mischiamo le carte».

«Fai come vuoi. Cretino».

«Anche io ti voglio bene».

Al centro del golfo di Castellammare c’è una barca a vela, sembra immobile.

Da qualche parte arriva un canto di cicale.

Mio padre si fermava sempre qui, scendeva dalla 128 verde, mentre mia madre si lamentava perché perdevamo tempo: papà portava me e mia sorella al parapetto e respirava il mare del golfo. Non diceva niente, solo il gesto di chi mostra un quadro.

Avrò avuto nove o dieci anni. Giro la testa per vedere se c’è la 128 verde con mia madre che si fa aria col ventaglio, ma trovo due ciclisti che riprendono fiato.

Finisco il panino. Ottimo: panelle e cazzilli sono buoni solo se fritti con olio di motore e polvere di strada.

Mi domando per quanto tempo ancora quei due ragazzi, Guglielmo e Fabrizio, si ricorderanno del loro litigio a Mondello, mi chiedo se sapranno mai di essere più vicini di quanto credono nel gioco degli incontri e degli addii.

Mi scolo la Moretti.

Cerco nella giacca i fazzolettini per ripulirmi le mani dall’unto. Nella tasca della giacca trovo un quaderno. Il quaderno di Totò Salemi.

Lo apro. Al centro della prima pagina c’è scritto qualcosa in stampatello. Riconosco la grafia di Suleima.

Il fatto viene dopo.

Questa storia la devo scrivere. Per Totò Salemi. Per Suleima. E pure per me.