Aprì lo sportello della credenzina di alluminio dove si conservavano le chiavi delle cappelle private. Gli impiegati che lo avevano preceduto negli anni avevano suddiviso il cimitero in zone. Zona A, alla quale corrispondeva il mazzo di chiavi numero 1. Zona B numero 2, e così via, fino alla zona F, la più antica del cimitero, dove ci si sarebbe aspettata la chiave numero 6, e invece la chiave era segnata con il numero 7. Il perché non ci fosse il numero 6 restava oscuro ad Alfonso Ci-bruscola, guardiano in forze dal 1994. Ci aveva riflettuto sopra nelle lunghe giornate grigie e noiose in compagnia di sepolture e nuvole basse, ed era arrivato alla conclusione che non si trattava di una semplice dimenticanza, ma di una forma di scaramanzia verso il numero 6 che ripetuto per tre volte avrebbe forse regalato alle chiavi un potere magico e sinistro, quello di aprire non le porte delle cappelle ma della sostanza malefica del mondo.

Il mazzo numero 7 non era nella credenzina. «Uffa...» mormorò fra i denti, e cominciò a cercarlo fra i cassetti della scrivania e i ripiani della piccola libreria dell’ufficio. D’altra parte le chiavi della zona F, angolo remoto del camposanto dove raramente parenti o affini andavano a fare visita ai propri cari, non venivano mai richieste. La maggior parte delle famiglie che riposavano lì s’erano estinte, e molti defunti non avevano più nessuno che andasse a dare una spolverata alle lapidi, a cambiare l’acqua ai vasi e a dire un paio di preghiere il giorno dei morti. Dopo dieci minuti Alfonso trovò il mazzo dimenticato in fondo a un cassetto, nascosto dietro le ricevute di un vivaio. «Oh, finalmente!» esclamò prendendo il cerchio di ferro con le chiavi lunghe e brunite dal tempo.

Fuori lo aspettavano i due muratori del Comune che masticavano una gomma americana perfettamente accordati nel rumore e nel movimento. «Andiamo, gente!» gli disse e si incamminò. I due operai abbassarono la testa, presero i loro attrezzi e seguirono Alfonso lungo il vialetto bordato dai cipressi. Il vento di fine settembre s’era calmato e il freddo sembrava voler dare una tregua alla città.

«Ci spieghi quello che dobbiamo fare?» disse Maurice, il più anziano dei due, con un naso enorme e rosso come una rapa bollita.

«Dobbiamo traslare il corpo di Veronica Guerlen Bresson dalla cappella di famiglia del marito nella zona F a quella dei Brionati, nella zona B».

«Ma i documenti e tutto il resto? Mica mi voglio prendere una denuncia» disse il più giovane.

Alfonso si bloccò in mezzo al viale. «Ma sei scemo, Damiano? È chiaro che c’è tutto. Le firme, gli atti e compagnia cantando. Oh! Il primo a prendersi una denuncia sarei io! E comunque, il direttore Asl ha chiamato e non viene, il sindaco non richiede la presenza di cittadini, a parte noi tre. Quindi diamoci una mossa».

Ripresero il cammino. Unici rumori i passi nella ghiaia, i ferri che sballottolavano dentro le cassette degli attrezzi, le mandibole che biascicavano le gomme americane. Lì la città non si sentiva più.

«Che poi vorrei sapere...» riprese Damiano, al quale era evidente fosse la prima volta che capitava una cosa simile, «perché dobbiamo spostare il corpo da una cappella a un’altra?».

«Mah... io so solo che dobbiamo trasferire la signora Veronica Guerlen Bresson».

Arrivarono alla zona F del cimitero. Muschi e licheni avevano preso il sopravvento sulle scritte delle lapidi in pietra, tanto che a guardare la prima tomba a stento si riusciva a leggere «QUI GIAC... GIOV... DUP... 182..-..74».

Superarono il primo gruppo di sepolture, girarono l’angolo e giunsero a un vialetto cieco che terminava con due cappelle. Alfonso si avvicinò a quella di destra, costruita a imitazione del Tempio della Concordia. A terra davanti all’ingresso, c’era una rosa bianca. Alfonso scosse il capo, si chinò, raccolse il fiore per lanciarlo dietro un cespuglio di bosso. «Io vorrei sapere chi mette queste rose qui davanti. Ogni mese ce n’è una! » e infilò la chiave nella serratura. Forzò un poco, diede tre giri grattando ruggine e polvere dei meccanismi poco oliati e infine il cancello di ferro nero cigolando si aprì. Dentro la cappella c’erano sei tombe. Tre a destra più recenti, una per defunto, e tre a sinistra che invece contenevano ciascuna quattro ospiti della famiglia. Erano gli avi, le cui ossa erano già state estumulate e rinchiuse in cassette più piccole. Al centro, sotto una finestrella tonda, un piccolo altare sul quale poggiavano tre vasi di marmo vuoti. Avrebbero dovuto contenere fiori, ma quel luogo non veniva visitato da anni. Stava cadendo a pezzi e Francesco Guerlen Bresson, l’unico superstite dell’antica casata, se ne sbatteva dei suoi defunti. A destra, sul marmo della sepoltura centrale, una scritta dorata recitava: «Qui giace Veronica Guerlen Bresson. Amata moglie, amata madre. 1920-1983». Sopra la tomba dell’amata moglie e madre c’era quella dell’amato padre, Carlo Guerlen Bresson, 1918-1993. Nelle altre c’erano i Guerlen Bresson dei secoli passati. Si andava da un Didier morto nel 1840 a una Marianna che s’era spenta nel lontanissimo 1798. Tre secoli di morti. Damiano e Maurice posarono i secchi e la cassetta degli attrezzi a terra. Alfonso invece bussò sulla lapide di Veronica.

«Quanto ci mettete ad aprirla?».

Maurice si avvicinò a controllare. «Dieci minuti» e prese martello e scalpello per menare i primi colpi.

«Vabbè, allora io vado a controllare l’altra cappella dove dobbiamo traslare il corpo. Mi raccomando, appena aperto non toccate niente! Devo essere presente io».

« E non ci dovrebbe essere anche un parente? » fece Damiano.

Alfonso sorrise: «Ancora? Ti ho già detto che il figlio ha firmato tutti i documenti».

«Non gliene frega niente che gli spostiamo la madre?».

«Pare di no».

Il guardiano lasciò i due muratori al lavoro. Il primo colpo di Maurice rimbombò fra le tombe disturbando l’eterno riposo.

Gli operai avvolsero una corda intorno alla lastra di marmo ormai scalzata dal suo alveo e lentamente la tirarono fino a depositarla a terra fra le schegge di cemento e stucco. Ora bisognava estrarre la bara di Veronica. Damiano e Maurice asciugandosi il sudore guardarono il tumulo appena scoperto. Qualcosa non andava. Adagiato sulla bara di Veronica Guerlen Bresson c’era il corpo di un uomo. Vestito in giacca e cravatta, scarpe coi lacci e un anello al dito anulare. I due operai si scambiarono un’occhiata. «E... è normale?».

«Mi sa di no. Anche perché questo sulla bara non può essere Veronica. Ha i pantaloni» osservò astutamente Maurice. I due non riuscivano a staccare gli occhi da quello spettacolo.

«E poi pure se fosse stata la signora, cosa che non è, dovrebbe stare dentro la bara, non fuori a prendere aria, no?».

«Allora avete fatto?» chiese Alfonso entrando nella cappella. Maurice quasi divertito indicò la bara nera e ammuffita di Veronica con quel corpo sconosciuto sdraiato sopra.

«Ma che...?» disse il guardiano. Si avvicinò. « E questo?». Poi si mise le mani nei capelli. «E adesso?».

«E adesso?» urlò Rocco Schiavone guardando il telefono che continuava a squillare. «Chi è che spacca di prima mattina?».

Fino a quel momento il vicequestore se l’era presa comoda con la solita operazione sveglia-doccia-colazione al bar-canna mattutina, e gli era sfuggito il senso del tempo. Le dieci erano già suonate da un pezzo. Alzò la cornetta. «Schiavone!».

«La disturbo? Sono De Dominicis...».

Era il padrone di casa di rue Piave. «Ah, mi dica...».

«Senta, mi dispiace chiamarla in ufficio, però l’inquilino del piano di sotto lamenta una perdita sul soffitto in corrispondenza del suo bagno. Lei per caso ha lasciato l’acqua aperta?».

«No. Non credo».

«Potrebbe fare un salto?».

Rocco alzò gli occhi al cielo. Era arrivato ad Aosta da neanche tre settimane, e se questi erano gli inizi del rapporto col padrone di casa urgeva trovarsi una nuova sistemazione. «Ascolti, mi trova nel mezzo di una situazione difficilissima. Sono qui in riunione con l’assessore alla viabilità per la focalizzazione del meccano-ricettore».

«Capisco» rispose incerto De Dominicis.

«Lei ha le mie chiavi. Le chiedo la cortesia di salire a dare un’occhiata».

«Va bene... lei conosce un idraulico?».

Che palle, pensò Rocco. «A Roma ne conoscevo trentadue. Qui ne sono sprovvisto».

«Le dispiace se faccio venire il mio?».

«Ma si figuri. La parcella la intesti pure a me. Faccia come se fosse casa sua. Che poi, detto fra noi, quella è casa sua».

«Infatti. La ringrazio».

«Sono io che ringrazio lei» e abbassò il telefono. Neanche il tempo di staccare la mano dall’apparecchio e bussarono alla porta. Rocco sniffò l’aria. L’odore della cannabis era troppo presente. Si alzò per andare ad aprire la finestra. Una bava di sole illuminava la città. «Non ti sprecare, eh?» disse rivolto all’astro celeste, poi a passi lunghi e regolari si avvicinò alla porta. Era D’Intino.

«Che vuoi?».

«Ci sta un problema».

«Di che si tratta?».

«Hanno trovato un cadavere sopra a un altro».

Rocco fece un respiro profondo. «No, D’Intino, non ce la posso fare. Non parlare, stai zitto e mandami subito Pierron».

«Non ci sta. S’ha pijato lu giorno libbero».

«Caterina Rispoli?».

«La vice s’è pijata la giornata libbera pure lei».

Stronzi, pensò Rocco. Gli unici due colleghi con un po’ di sale in zucca avevano approfittato di quei pochi raggi di sole smunto per prendersi una giornata di ferie. In quelle poche settimane aveva imparato una cosa di quella città: i suoi abitanti sfruttavano qualsiasi spicchio di sole fuori stagione, coscienti che per mesi avrebbe potuto essere l’ultimo.

«Chi c’è allora in quest’ufficio dimenticato da Dio e dagli uomini?» urlò.

«Ci so’ io, Deruta, Casella...».

«Annamo bene... Allora, ripetimi la cosa con calma».

«Come le so detto, ci sta un cadavere sopra un altro».

«Che cazzo vuol dire, D’Intino? Che significa c’è un cadavere sopra un altro?».

«Così m’hanno riferito. Che è strano pure per me. Comunque ci stanno ’sti due cadaveri accavallati».

«Procediamo con calma. Dove sono questi cadaveri ammucchiati?».

«A lu cimitero».

«E questo cadavere sopra l’altro dov’è esattamente?».

«Nella bara. Uno. L’altro sopra la bara».

«Ci sono due cadaveri uno nella bara...».

«E uno fuori».

«Facciamo una cosa. Andiamo a vedere al cimitero. Famo prima».

«Io veramente sto ancora convalescente...».

Rocco annuì. Lento chiuse la porta in faccia a D’Intino. Andò all’attaccapanni, prese il loden, tornò alla porta ed aprì. L’agente abruzzese stava ancora lì. «Vattene» gli disse.

«Dove?».

«Dove ti pare. Ma levati dai coglioni! Vado da solo».

Lo superò e attraversò il corridoio a passi veloci. In portineria c’era Casella, l’agente che superava di qualche decimale il QI di Deruta e D’Intino.

Meglio che niente, pensò. Decise di portarsi lui. «Casella, che fai in portineria?».

«Sono di turno».

«Mettici D’Intino e vieni con me. T’aspetto in auto».

«Grazie, dottore! » e il poliziotto si alzò di scatto felice di lasciare l’angusto ufficetto della portineria.

Alfonso Cibruscola andò subito incontro ai due poliziotti. Pallido in viso, gli occhi cerchiati, i capelli neri ormai diradati sulla sommità del cranio, magro, ma con un’epa prominente dovuta all’eccesso di carboidrati e di birra.

«Cazzarola» disse Casella sottovoce al vicequestore, «sembra uno della famiglia Addams!».

«E che vuoi fare? Si finisce per somigliare al proprio lavoro. Questo sta coi morti tutti i giorni...».

«Io e lei, dottore, a cosa somigliamo?».

«Meglio che non te lo dico».

L’uomo in nero li aveva raggiunti. «Piacere, Alfonso Cibruscola, sono il responsabile comunale del cimitero».

«Schiavone. Posso vedere di che si tratta?».

«Certo, certo, venga. È nella zona F, la più antica». Fece strada. C’era un buon odore di cipressi e di resina, le automobili non si sentivano più. Solo i passi sulla ghiaia.

«L’abbiamo trovato stamattina. Dovevamo fare un’estumulazione. Siamo andati ad aprire il tumulo e ci si è presentata la sorpresa».

Rocco si accese una sigaretta. «Perché dovevate traslare un corpo?».

«Dovevamo portare il corpo di Veronica dalla cappella dei Guerlen Bresson a quella della famiglia Brionati».

«Perché?».

«Disposizioni testamentarie. L’ingegnere Gustavo Brionati, deceduto un mese fa, ha lasciato nel testamento la volontà, accompagnata da una lettera olografa della Veronica Guerlen Bresson, di voler riposare accanto alla donna per l’eternità».

«Ma pensa un po’...» sospirò Rocco seguendo il guardiano del cimitero. «E la famiglia della defunta?».

«Non si è opposta. Che poi famiglia si fa per dire. In realtà c’è solo il figlio, Francesco. E non gliene frega niente di dove mettiamo sua madre. Prego, siamo arrivati».

Seduti su una panchina fuori dalla cappella c’erano Damiano e Maurice. Fumavano, e salutarono con un gesto i poliziotti. «L’hanno trovato loro» disse Alfonso indicandoli. Rocco entrò nella cappella Guerlen Bresson. Nel tumulo centrale, appena aperto, c’era una bara nera, ammuffita e squarciata di lato. Sopra la bara il corpo di un uomo in avanzato stato di decomposizione vestito di tutto punto. Una giacca verdognola, colore forse dovuto alla presenza di funghi e parassiti, un paio di pantaloni più chiari, scarpe coi lacci e calzini.

«Che ci fa un cadavere su una bara?» chiese Rocco a se stesso.

«Non lo so» rispose il guardiano.

«Non lo chiedevo a lei».

«L’ha detto ad alta voce, credevo stesse...».

«Casella, chiama Fumagalli. Digli di venire. Abbiamo bisogno di lui...».

L’agente afferrò il cellulare e uscì dalla cappella.

«Ma cosa dice il diritto su questa cosa?» chiese il guardiano.

«Mah... Lei sa meglio di me che le estumulazioni vengono fatte quando scadono le concessioni oppure quando un discendente ne fa istanza. Ma parliamo di un corpo sepolto con tanto di nome e cognome. In questo caso io chi sia quel signore lì sopra proprio non lo so. E glielo dico francamente, è un problema che si prenderà sul groppone il giudice Baldi».

Alberto Fumagalli se ne stava chino a osservare quel cadavere in giacca e cravatta adagiato su una bara non sua. Decise di aver trascorso davanti alla sepoltura violata un tempo sufficiente e uscì dalla cappella. Raggiunse Rocco che fumava guardando il cielo. Dalla prima volta che s’erano incontrati avevano deciso di non salutarsi. Nessuno dei due ne aveva sentito la necessità. Forse per una somiglianza caratteriale, o forse solo per noia reciproca.

«Allora, caro vicequestore Schiavone. Non servo solo io. Il corpo è parecchio decomposto. Ha già dei bei pezzi di scheletro all’aria. Qui ci vuole anche un biologo forense».

«Ce l’hai?».

«Chiamo Mascini. È il migliore che conosca. Però sta a Torino, prima di domani non arriva».

«Non mi dici altro?».

«Certo. Si tratta di un uomo sopra il metro e settantacinque, due molari piombati. Per risalire all’età e al resto devo fare un po’ di analisi».

«E sulla causa della morte?».

«Questo è un altro paio di maniche. Difficile risponderti su due piedi. Ci devo studiare un po’. Ma ti avverto: ghiandole da esaminare non ne ho. Potrò dare un’occhiata se ci sono ferite sulle ossa, se l’osso ioide è a posto...».

«Se non lo fosse sarebbe strangolamento?».

«Cominci a darmi soddisfazioni, Schiavone. Vedi che piano piano a stare accanto ai geni si migliora? Per l’avvelenamento posso guardare quello che mi resta dei tessuti. Ma è passato del tempo. Insomma, non è semplice».

«Ma tu sei il numero uno e ce la farai, dico bene?».

«Togliti immediatamente quel sorrisino ironico dalla faccia, perché si dà il caso tu stia parlando con il numero uno. Anzi, direi numero due. Il numero uno rimane sempre il compianto professor Baronchelli. Pace all’anima sua!».

«Non era un ciclista, Baronchelli?».

«Ignorante, era il mio professore, cattedra di medicina legale, lui mi ha fatto innamorare del mio mestiere».

«Quindi ora sappiamo di chi è la colpa. Statti bene, io vado».

«Dove?».

«Dal giudice, a parlare coi parenti, hai presente quelle rotture di coglioni? Ecco, me le devo fare tutte. Ci vediamo». Si alzò, fece un cenno all’agente Casella che subito lo seguì.

«Però...» gli urlò dietro il medico. «Non vuoi sapere da quanto è sepolto lì dentro?».

«Perché, tu lo sai?».

«Un corpo in un tumulo per decomporsi ci mette una decina di anni. Questo a occhio e croce sta lì da un cinque anni. Poi coi tessuti, la giacca e i pantaloni, ti saprò dire meglio».

«Fumaga’, sei tu il numero uno, senti a me, altro che quel Bitossi».

«Baronchelli!».

La residenza di Francesco Guerlen Bresson era presso l’Hotel Norden Palace, a corso Battaglione Aosta, vicinissimo alla questura. Rocco c’era passato davanti centinaia di volte. E ci aveva anche abitato i primi tre giorni del suo arrivo nel ridente capoluogo. Francesco stava in una camera al secondo piano insieme a Doriangray, un siamese di quattro anni.

«Cosa vuole? Sono solo, senza figli e senza famiglia. Stare in albergo è molto più comodo» aveva esordito Guerlen Bresson stringendo la mano di Rocco. Sessantanni portati da schifo, pancia e gambe molli e grasse, barba incolta e un sospetto di riporto.

«Posso offrirle qualcosa?».

«No grazie, devo ancora pranzare».

«Quale motivo la spinge qui?».

«Si tratta di sua madre. Come saprà, oggi avrebbero dovuto fare l’estumulazione del corpo e portarlo in un’altra cappella».

«Sì, certo, lo so. Da Gustavo. E allora?».

«È successo che sopra la bara di sua madre abbiamo trovato il corpo di un uomo».

Francesco scoppiò a ridere. «Mi dica che non è vero!». Dovette sedersi sul divano per le convulsioni, la pancia rimbalzava gelatinosa. «Anche da morta? Roba da matti. Io pensavo che con il sonno eterno si sarebbe calmata, quel puttanone!».

Rocco sgranò gli occhi. Non aveva mai sentito nessuno chiamare la madre a quel modo. Anzi a Trastevere un appellativo del genere significava aprire una faida che si sarebbe conclusa solo dopo la morte dell’ultimogenito della quinta generazione di una delle due parti. «Cosa vuole dire?».

Francesco tossì, poi sembrò calmarsi. Fece un respiro e scuotendo la testa prese una sigaretta dalla tasca e se l’accese.

«Ma si può? Non c’è l’allarme?».

«No, in questa stanza l’ho fatto staccare. Vede, dottor...?».

«Schiavone».

«Schiavone. Ho perso mia madre che avevo trent’anni, ma mi creda, in tutta la mia vita l’avrò vista sei volte. Tre delle quali abbarbicata ad un uomo che non era mio padre».

«Capisco».

«No. Non può capire». Si alzò dal divano con qualche difficoltà e andò alla libreria dove riposavano decine di libri. Insieme alla scrivania ricolma di carte e soprammobili era l’unico tocco personale che Francesco aveva portato a quella stanza. L’uomo afferrò un volume enorme con la copertina di pelle, lo sfogliò e poi lo avvicinò al vicequestore. «Ecco, guardi qui».

Era una fotografia in bianco e nero che ritraeva una semidea in costume da bagno. Sotto, una scritta: «Forte dei Marmi, estate ’58».

«Qui mamma aveva 36 anni. Che mi dice?».

«Era una donna bellissima».

«Per farle un esempio, io nel ’58 avevo 5 anni. E non mi vedrà né qui né in altre foto, insieme a mia madre. Vede, lei si dava molto da fare. E io sono cresciuto con una tata russa. Che almeno mi ha insegnato una lingua. Vuole sentire come canto l’Internazionale?».

«Lasci perdere». Rocco restituì il librone a Francesco.

«Mamma ha avuto più amanti che capelli, e ha guardato bene la foto? La sua chioma era molto folta». Ridacchiò ancora fra sé. «Mio padre ne era molto innamorato. Però a un certo punto non ce la fece più, poveraccio. Si separarono. Quando mia madre passò a miglior vita, stava con l’ingegnere Gustavo Brionati. S’era calmata, aveva trovato un uomo discreto che la sopportava e la riempiva di attenzioni. Voleva sposarla, sa? Ma non lo fecero perché per motivi a me sconosciuti il divorzio fra papà e mia madre non arrivò mai».

«E questa storia del testamento?».

«Mah, che le devo dire? Una stronzata. Gustavo la voleva accanto a sé per il resto dei suoi giorni. È morto un mese fa e così oggi avrebbe concluso il suo viaggio d’amore con quel puttanone di mia madre. Chissà cosa starà facendo l’ingegnere adesso che l’avete trovata nella tomba con un altro!» e riprese a ridere. Gli occhi umidi sembravano pronti a schizzare fuori dalle orbite. «Mi tolga una curiosità, dottor...?».

«Schiavone».

«Dottor Schiavone, sapete chi è l’uomo acciambellato sul feretro di mia madre?».

«No, non lo sappiamo. E sinceramente non sappiamo neanche perché sia lì. E chi ce l’abbia messo».

«Roba da matti. Uscirà sul giornale?».

«Credo di sì».

«Bene! Così rinfreschiamo alla cittadinanza la memoria di mia madre. Sa, ai suoi tempi era sulla bocca di tutti ad Aosta... mentre lei teneva impegnata la sua...». E riscoppiò a ridere. Rocco cominciò a sentire un formicolio alle gambe, aveva solo voglia di lasciare quell’uomo e quella camera d’albergo.

«Senta una cosa, dottor...?».

«Schiavone, e tre. La prossima volta che mi domanda il nome le mollo un cazzotto in faccia».

La reazione di Rocco disegnò una smorfia preoccupata sul volto di Francesco Guerlen Bresson. «Mi... mi scusi...».

«Cosa voleva sapere?».

«Mi tocca venire a fare da testimone da qualche parte? No, perché io avrei da fare un viaggio. Parto dopodomani per tre settimane. Vado in Thailandia».

«Che io sappia no. Non vedo a cosa possa servire la sua presenza. Suo padre ha sofferto molto alla morte di sua madre?».

«Chi può dirlo? All’epoca io stavo a Londra e a casa non tornavo da anni. E chiaramente non l’ho fatto neanche per il funerale». Il gatto ne decise di saltare in grembo al suo padrone, che cominciò a carezzarlo. «Lo so, le sembro uno privo di sentimenti e un po’ stronzo. Ma mi creda, mia madre è la persona che ho detestato di più in tutta la mia vita. E se pensa che una madre è nell’esistenza di un uomo quella con cui si ha il rapporto più intimo e totale, può capire quello che provo. Quando morì mi sentii liberato. Da una parte. Dall’altra non avevo più il muro contro cui giocare a tennis. Mi sono ritrovato in campo aperto, con tanto di rete e avversari. E non è stato facile. Lei ha avuto una bella madre?».

«Magnifica».

«Beato lei, dottor...».

Si guardarono. Ci fu un momento di tensione, poi Francesco gli fece l’occhiolino «... Schiavone!» e scoppiarono a ridere insieme.

«Mi spiego meglio. Quello che dovete fare...» ripetè Rocco agli agenti che aveva davanti «è cercare fra le denunce di scomparsa degli ultimi... diciamo cinque anni?».

«Cinque anni?». Casella sbiancò. «Ma è tantissimo!».

«Per ora. Se Alberto Fumagalli dalla morgue ci dice che il corpo ne ha di più, andiamo indietro nel tempo. Comunque cercate solo uomini, alti uno e settantacinque...».

«Magri...» intervenne Deruta.

«Perché magri?».

«Be’, a quanto dice Casella che era al cimitero, il tipo non era molto in carne, no?».

D’Intino, Deruta e Casella sghignazzarono. Rocco rimase serio. Tanto da smorzare in gola il riso ai tre agenti. «Datevi da fare. E per qualsiasi cosa, visto che Caterina non c’è, relazionate a me e solo a me. Chiaro?».

I tre agenti abbassarono la testa contemporaneamente.

I fratelli Brionati, figli di quel Gustavo intenzionato ad ospitare la sua amante nella tomba, erano stati avvertiti dell’arrivo del vicequestore e si erano fatti trovare a casa di Marta, la primogenita, poco fuori Saint-Vincent. Rocco parcheggiò la sua auto e diede un’occhiata alla casa. Era una costruzione degli anni ’60 che stonava con le montagne e le altre abitazioni lì intorno. Non avrebbe sfigurato, nella periferia sud di Roma.

All’interno un arredamento moderno e minimale riscattava l’edificio. Marta aveva superato la sessantina, suo fratello Giorgio invece frequentava ancora i 50 con un fisico orgogliosamente sportivo. «Dottor Schiavone, prego, si accomodi. Posso offrire qualcosa? Un caffè?».

«Nulla, grazie». Si sedettero sui divani bianchi davanti alle finestre. «C’era bisogno anche di mio marito?».

«Assolutamente no, signora. Riguarda vostro padre».

I fratelli si concentrarono sul poliziotto.

«Vi hanno raccontato cosa è successo al cimitero?».

«Sì» rispose Marta. «Una cosa da non crederci! Cosa ci faceva un corpo sulla bara della povera Veronica?».

Rocco allargò le braccia. «E chi lo sa?».

«Ma non si sa neanche chi è?» chiese il fratello.

«No. Ora, mi spiegate meglio questa storia del testamento?».

Marta prese la parola. «Quando mamma morì nell’80, papà cominciò a frequentare Veronica. E se ne innamorò. Anche noi ci affezionammo a lei. Era una persona eccezionale. Timida, attenta, per noi fu come una seconda madre».

Rocco ripensò alle parole di Francesco.

«Non riuscirono a sposarsi perché la buonanima di Carlo Guerlen Bresson non le concesse mai il divorzio. Credo l’amasse alla follia».

Giorgio fece un’espressione buffa stravaccandosi sul divano. «Perché, non è così?» gli chiese la sorella, cui non era sfuggita quella reazione.

«Non direi» fece lui. «Non le concesse il divorzio semplicemente per le proprietà. Vede, i Guerlen Bresson all’epoca erano una famiglia molto ricca e importante, e avevano moltissime proprietà. Divorziare sarebbe stato un problema, per Carlo. Insomma, case, terreni, un bel casino, no? E allora...».

Marta continuava a scuotere la testa. «Questa è un’idea tua».

«Ed era anche l’idea di papà».

«Ma adesso cos’è successo alle proprietà dei Guerlen Bresson? Non mi pare che Francesco viva nel lusso».

Marta riprese la parola: «I motivi sono tanti. Carenza di un’amministrazione oculata, qualche investimento sbagliato... E soprattutto c’era il fratello di Carlo, Luigi. Fece una serie di truffe che sono costate a Carlo un patrimonio. Anzi, il patrimonio di famiglia. Luigi finì pure in carcere. Poi scappò in Francia e sparì».

«Ma Francesco, che vive in albergo» chiese Schiavone, «in realtà che lavoro fa?».

«Bella domanda» disse Giorgio. «Non s’è mai capito che lavoro faccia. Pubbliche relazioni? Organizzatore d’eventi? Blogger? Giornalista free lance?».

«Per un periodo è anche stato pittore e incisore».

«Con scarsi risultati, mi creda. Da qualche parte Marta dovrebbe avere un suo disegno. Vuol dare un’occhiata?».

«Passerei la mano, grazie» disse il vicequestore. «Torniamo al testamento?».

«Papà e Veronica si erano promessi di riposare insieme. E fecero questo accordo con Carlo Guerlen. Tanto che Veronica lasciò anche una sua lettera firmata. Stava molto male, sapeva di avere pochi mesi di vita. L’accordo era semplice: il giorno della morte di mio padre, Veronica sarebbe stata portata nella nostra cappella».

«Ma allora perché Veronica è stata sepolta dai Guerlen Bresson?» chiese Rocco. «Non faceva prima a farsi seppellire direttamente da voi?».

«Lo vede anche lei dottore?» e Marta allargò le braccia per sottolineare la sua versione. «Se la sono divisa anche dopo la morte. È amore».

«Ma quale amore, Marta!». Giorgio si tirò su. «Il motivo era Luigi, il fratello di Carlo, quello scappato in Francia. Carlo non lo poteva vedere, e non si può biasimarlo. Aveva dilapidato un patrimonio! Mettendo lì Veronica avrebbe occupato l’ultimo posto libero della cappella Guerlen Bresson. E infatti Luigi è sepolto da qualche parte nella Camargue. E a nessuno verrà mai in mente di riportarlo in Italia. Ce lo vede Francesco a darsi da fare per una cosa simile?».

Marta fece una smorfia al fratello. La versione di Giorgio sembrava molto più solida della sua, tirata fuori da qualche romanzo rosa.

Rocco si alzò. «Bene!». I due fratelli lo imitarono. «Vi ringrazio. Siete stati preziosi. Avete qualche idea di chi possa essere il cadavere tumulato sopra la bara di Veronica?».

«No...».

«E se fosse proprio di quel Luigi?» propose Marta. «Magari Carlo alla fine s’è ravveduto e l’ha messo lì».

«Una famiglia di matti» fece Giorgio.

«Mica tanto» obbiettò Rocco. «Mia madre aveva una sorella, anche lei innamorata di mio padre. Mio padre morì e mamma lo portò al Verano. Poi morì la sorella. E mamma la mise dall’altra parte del cimitero, perché non si fidava a lasciarla accanto al suo uomo. Era lei che doveva riposare lì. Come vede, famiglie curiose ce ne sono parecchie».

Giorgio e Marta sorrisero.

«Cos’è questa storia, Schiavone?» riecheggiò la voce del giudice Baldi nella cornetta del telefono. Rocco, seduto sulla poltrona di pelle, cordless all’orecchio, aveva poggiato i piedi sulla scrivania e fumava tranquillo una sigaretta. «Devo aspettare di saperne di più, dottore. Per ora pare solo che la signora Veronica Guerlen Bresson fosse stata una che in vita si dava molto da fare. E che l’unico suo erede, il figlio, vada ogni notte al cimitero a ballare sulla sua tomba».

«È una metafora, vero?».

«Direi di sì».

«Glielo chiedo perché ormai comincio a credere a tutto».

Rocco rise. «Stiamo valutando la prima cosa da fare. Guardare fra gli scomparsi degli ultimi anni. Ho sguinzagliato i miei agenti. Spero domani di saperne di più».

«Mi tenga aggiornato. Roba da matti, una doppia tumulazione».

«È un’idea, però».

«In che senso?».

«Un bel risparmio sulle pratiche funerarie, no?».

«Già. Tumuli a una piazza e mezzo. Non ci resta che quello. La saluto, Schiavone».

Appena rientrò nell’appartamento trovò le tracce del proprietario di casa e dell’idraulico. Avevano cambiato il termosifone in camera da letto. Ne avevano montato uno di quelli alti un metro e novanta, un monolite di alluminio che sarebbe bastato a riscaldare un condominio. Sul tavolo il solerte idraulico aveva lasciato un’inutile ricevuta: 230 euro più Iva.

Coraggioso, pensò Rocco. Un modo scaltro di proporre a un vicequestore della polizia di Stato un pagamento senza fatturazione. Sul foglietto il numero di cellulare dell’idraulico. Rocco lo chiamò immediatamente. «Schiavone. Appartamento a rue Piave».

«Ah, sì. Sono passato e ho fatto il lavoro».

«Chi le ha detto di montare una specie di obice semovente al posto del termosifone?».

«Di obice?».

«Di carrarmato, se preferisce».

«Ma è chiaro, è stato il padrone di casa, il dottor De Dominicis» rispose quello.

«E allora se lo faccia pagare dal dottor De Dominicis. E con l’iva, mi raccomando».

«Veramente lui mi ha detto che...».

«Sticazzi cosa le ha detto. Avete messo in camera da letto ’sto mammatrone? Ottimo. Se lo pagasse lui. 230 euro, dico, ma che vi siete rimbecilliti?» e chiuse la telefonata.

Risolto il problema condominiale, era il momento di prepararsi una bella cena.

«Vediamo cosa abbiamo» e aprì il frigorifero.

Era una situazione di causa effetto che la mente di Rocco tendeva a ignorare, eppure era di una semplicità disarmante. Se non si fa la spesa, il frigorifero resta vuoto. A parte un limone vecchio, una bottiglia di acqua minerale, una mezza cipolla che aveva messo su un tappetino di muffa, una bottiglietta di tabasco e una confezione di uova portatrici sane di salmonellosi.

«Cazzo...» mormorò. Gli toccava scendere in rosticceria.

Rocco si svegliò alle nove passate. Deambulò fino alla cucina per preparare il primo caffè. Avrebbe usato la cialda strong, quella che funzionava più da cazzotto in faccia che da bevanda.

Marina mi guarda. Se ne sta appoggiata al lavello mentre il caffè esce bollente dalla macchinetta.

«Non hai sentito la sveglia?».

«Non l’ho messa».

«Arriverai tardi in ufficio».

«Non c’è niente di urgente».

«Hai ripensato al triangolo amoroso fra Veronica, l’ingegnere e Carlo?».

«È una sciocchezza. E poi pare che quella Veronica, più. che triangoli, avesse storie a dodecaedro ».

«Non ci credi, eh? Come reagiresti se aprendo la mia di tomba ci trovassi un altro?».

« Piantala! Non mi fai ridere».

«Stai diventando sempre più scorbutico. Dai, rispondi, sono curiosa».

«Se invece di parlare ti girassi verso destra, vedresti che il posto accanto a te è libero. Perché è il mio».

«E se te ne vai in Provenza?».

«Allora prima vengo a prenderti».

«E se io volessi restare a Roma?».

Quando si comporta così mi fa andare il sangue alla testa. «Senti Marina, mi sono appena svegliato, non

mi va di parlare di questa cosa e non mi va di ascoltarti».

«Sei uno scemo!» e scoppia a ridere. Com'è che cambia il tempo quando ride? Sembra sia entrato il sole in cucina. E invece guardo fuori. E tutto coperto. «Io ti seguo Rocco, ti seguo fin quando vorrai».

«Sempre!».

«Beviti questa ciofeca e vai a farti la doccia!».

«Diobono, è come ti dico io» esclamò Alberto Fumagalli nel suo studio mentre fuori aveva cominciato a piovere. «Questo tipo di cui non conosciamo l’identità è stato chiuso in quel tumulo non più di cinque anni fa».

«Cosa te lo fa dire?».

«Una nottata passata al microscopio. Cos’è? Ti devo spiegare l’avvicendarsi delle stagioni e degli anni in base ai funghi vivi e morti trovati sui vestiti? Le spore? I batteri? Sono come i cerchi nel tronco dell’albero. Non così precisi, ma ti fai un’idea. Se vuoi possiamo parlare dei tessuti ancora presenti, vado avanti?».

«Cinque anni, dici».

«Al massimo. Sulla causa della morte devo sospendere. Non ci sono tracce di morte violenta. E sui tessuti, per quel poco che vale dopo cinque anni, io non ho riscontrato presenze di veleni. Insomma, siamo solo all’inizio. Mascini, il biologo forense, mi sta dando una mano. È di là al lavoro sullo scheletro. Ci vuoi parlare?».

Emanuele Mascini era un uomo alto e magro. Bianco come il latte, se si escludevano le venuzze rosse intorno al naso. Rocco lo aveva immaginato un individuo triste ed emotivamente disidratato dal suo mestiere. Invece Emanuele era sorridente, gli occhi sprizzavano scintille di energia. Doveva possedere la stessa follia di Fumagalli, quella pazzia di chi sta a contatto 24 ore al giorno con cadaveri, funghi, spore, insetti morti e ossa spolpate dal tempo. Appena il vicequestore entrò nella morgue dove Emanuele aveva piazzato degli strani ordigni, lenti, luci violacee e curiose pinze di acciaio, l’antropologo si alzò di scatto. «Ehilà. Eccovi! Bene bene bene! Come va?» e strinse calorosamente la mano a Rocco. «Emanuele Mascini».

«Rocco Schiavone».

«Vi presento Burt». E indicò il corpo.

«Burt?».

«Dà un nome ad ogni corpo che esamina finché non si scopre l’identità. Sai com’è, è abituato con scheletri e ossa» bisbigliò Fumagalli.

«Cosa vi posso dire? Un po’ di cose. Allora, il soggetto in questione è un uomo, caucasoide, lo si evince dalla forma e dall’apertura del cranio. Ora l’età!». Si avvicinò ai poveri resti, afferrò gli incisivi. «Voi direte, come avrà fatto a capire l’età se manca il terzo molare? Chissenefrega! Abbiamo... lo smalto!».

Rocco gettò un’occhiata perplessa ad Alberto che invece aveva tutta l’aria di godersi quello spettacolo. «E, che rimanga fra noi, Burt non ha un bello smalto. Burt ha superato i 60 anni. Anche se guardiamo la cartilagine articolare e le giunture del cranio, bah! 60 anni sono forse un complimento, vero?».

«Condivido» rispose Alberto.

«Ma perché Burt?» chiese Rocco, che non si teneva più.

«Perché assomiglia a Burt Lancaster» rispose ovvio Mascini.

«Burt Lancaster?».

«Certo. Andiamo avanti...».

Chi era Rocco per giudicare? Lui, che cercava sempre le somiglianze fra gli uomini e gli animali della sua vecchia enciclopedia.

«C’è una vecchia frattura, brutta, scomposta, alla tibia e al perone sinistro... ricalcificata malissimo. E vi posso dire che Burt lavorava».

«Vabbè, non mi pare una gran scoperta...».

«Aspetti, dottor Schiavone. Lavorava e faceva un lavoro pesante. A guardare come sono ridotte le mani direi... contadino? Metalmeccanico? Saldatore? Ci sono tre microfratture mai curate, vedete? Prossimale dell’indice e falange media dell’anulare...» e tirò su la mano destra di Burt. «E anche qui, alla seconda falange del medio...» guardò soddisfatto il vicequestore che s’era avvicinato per osservare da vicino quelle mani quasi scheletriche. «Un operaio, insomma» disse mentre il suo sguardo correva lungo quei resti giallastri di ossa confuse nei rimasugli di pelle che una volta erano state mani che avevano toccato, lavorato, accarezzato.

«Sono d’accordo con Alberto. Burt se n’è andato non più di cinque anni fa».

«Perfetto...» intervenne l’anatomopatologo. «È come ti ho detto, Rocco».

«Ma questa cosa qui?» disse Rocco, che era rimasto a guardare le dita del defunto. «Che cos’è?».

Mascini raggiunse il vicequestore che indicava un punto sulla falange dell’anulare della mano sinistra. «Faccia vedere...».

Sulla pelle era visibile un segno scuro, circolare. «Sì, l’avevo notato. È il segno di un anello. A occhio direi argento oppure una lega con rame o cose del genere. L’avete trovato?».

«L’anello? No, non mi pare».

«Strano. Perché la traccia c’è. E non credo che Burt se lo sia sfilato prima di venire qui in laboratorio».

«Direi di no».

«Chi è entrato dopo di noi nella cappella?» chiese Rocco al guardiano che stava riaprendo il cancelletto di ferro battuto.

«Nessuno. Ho chiuso come mi ha ordinato lei».

«Apra, per favore».

Alfonso eseguì. Rocco, accompagnato dall’agente Pierron, penetrò nella sepoltura. La lastra di marmo era ancora a terra. Il tumulo di Veronica Guerlen Bresson era vuoto. Il corpo era stato trasferito.

Italo e il vicequestore si misero carponi a guardare per terra fra polvere, terra e detriti di calce e intonaco.

«Che stiamo cercando?» chiese il custode.

«Un anello» rispose Rocco.

«Capirai, un ago in un pagliaio» disse Italo scansando una foglia secca.

«L’aveva al dito, Italo. E deve essere per forza qui».

Alfonso Cibruscola si mise a quattro zampe. «Che poi io sono astigmatico e miope, vedo a malapena il pavimento».

«E allora lasci perdere, Alfo’».

Passarono dieci minuti silenziosi. Poi Rocco si rialzò. Si spolverò i pantaloni e buttò l’occhio all’interno del tumulo. Un antro nero, sembrava una vecchia bocca sdentata. Un’ombra chiara disegnava un rettangolo dove la bara di Veronica aveva riposato per anni. Ma nessun anello.

«Questa cosa è strana» fece Italo.

«E non è l’unica cosa strana» disse il guardiano. «Vuol sapere? Ogni tanto io davanti alla cappella trovo una rosa bianca. Anche ieri c’era».

«Immagino lei non sappia chi ce la porti, vero?».

«No. Gliel’ho detto, questa parte vecchia del cimitero non è molto frequentata. In particolare questa tomba dei Guerlen Bresson».

«Ma l’anello, dottore?» insistè Italo. «Che fine ha fatto?».

Rocco sorrise. Guardò il custode: «Mi accompagni nel suo ufficio».

Li trovò/in un bar di via Chabod con un bianco davanti e un panino in mano. Quando videro il vicequestore entrare insieme a Pierron, Maurice e Damiano quasi scattarono in piedi.

«Maurice... sono contento ci sia anche Damiano. Sono andato a casa sua. Sua moglie mi ha detto che l’avrei trovata qui».

Il naso di Maurice acquistò almeno due tonalità di rosso. «Sono contento. Che possiamo fare per lei, dottore?».

«Dov’è?» chiese Rocco guardando l’operaio negli occhi.

«Dov’è cosa?» rispose Maurice.

«Andiamo, Maurice, non mi far perdere tempo. Non ti succederà niente. Dov’è?».

Fu Damiano ad abbassare la testa e a mettersi la mano in tasca. Nel palmo stringeva un vecchio anello d’argento. Lo allungò a Rocco.

«Che cos’è?» gli chiese il compagno. Ma Damiano non rispose.

Era una fede, lucida e ripulita.

«È alpacca» disse Damiano. «Non vale niente. L’ho pulita... la volevo vendere e farci due soldi».

«Si può sapere dove l’hai presa?» gli chiese Maurice a brutto muso.

«L’aveva quel corpo al dito... ieri... quando abbiamo aperto la tomba».

«Sei un pezzo di merda!» sibilò fra i denti Maurice. Rocco lo calmò poggiandogli una mano sul braccio. «È tutto a posto, Maurice. Damiano ha trovato questa cosa per terra, fuori dalla cappella. Vero, Damiano?».

Il ragazzo annuì. Poi allargò le braccia: «Scusatemi... è che proprio... insomma, qualche euro in più mi faceva comodo».

Mentre Italo annuiva sorridendo in direzione dell’operaio, Rocco aveva messo l’anello controluce. «C’è una scritta».

«Sì, l’ho letta quando l’ho pulito. Franca e Mario sposi, 22-10-1960».

Rocco sorrise. «Mario. Bene. Burt adesso ha un nome».

«Chi è Burt?» chiese Italo.

«Come si riduce la gente, a rubare ai cadaveri...» sentenziò l’agente salendo in macchina sotto una pioggia leggere ma insistente.

«La questione è posta male, Italo». Rocco si accese una sigaretta. «La domanda corretta è un’altra: come si può ridurre la gente a costringerla a rubare ai cadaveri?». Aprì il finestrino per far uscire il fumo. Teneva l’anello sul palmo. «Ora ti metti a cercare nelle parrocchie di Aosta e al Comune un matrimonio celebrato più di 50 anni fa». «Io?».

«Tu e Caterina. Ieri ve la siete goduta con la giornata libera? E oggi ve la faccio pagare».

«Lei è...» ma Italo non si azzardò ad andare oltre. Poco più di tre settimane di frequentazione non erano bastate a conoscere meglio il vicequestore.

«Io sono semplicemente il tuo superiore e vedi di non farmi innervosire... ricordati che Sacile del Friuli aspetta sempre un nuovo agente di polizia».

Italo annuì. «Mi scusi...» disse.

Casella aveva consegnato la lista a Rocco. Maschi sui 60 anni scomparsi nella Valle negli ultimi cinque anni ce n’era una quantità spaventosa. L’occhio del vicequestore correva su quell’elenco alla ricerca di un nome: Mario. Ne trovò tre.

«Abbiamo tre Mario scomparsi nel 2007, nel 2008 e uno nel 2011». Con un evidenziatore sottolineò quei nomi. «Micheli, Curcio e Badalamenti. Scartiamo Badalamenti del 2011, troppo recente».

«Tutti autoctoni» disse Italo sorridendo.

«Già, tutti di fuori. Voglio i loro stati di famiglia... e soprattutto sapere se erano sposati, quando e contro chi si sono sposati».

«Contro?» chiese il viceispettore Rispoli.

«Contro, Caterina, contro» insistè Rocco. «Allora, Italo, questa te la vedi tu. Se uno di questi due scomparsi ha sposato una tale Franca il 22 ottobre del 1960, chiamami sul cellulare, altrimenti ci vediamo stasera. Caterina deve fare la ricerca sui matrimoni. Se ’sto Mario e Franca si sono sposati ad Aosta, risulterà sicuramente. Buon lavoro».

«E io?» chiese Casella.

«Tu stattene tranquillo. Finora non hai fatto danni, ma non chiederei di più alla sorte».

Gettò il foglio sulla scrivania, prese il loden e uscì dalla stanza. I tre agenti si guardarono negli occhi. Solo Italo ebbe il coraggio di dare voce ai loro pensieri: «Che palle!».

Incrociò Francesco Guerlen Bresson nella hall dell’albergo. «Non la volevo disturbare».

«Dottor Schiavone! Ho un appuntamento dal medico. Devo partire e stare fuori due settimane. È una cosa lunga?».

«Rapidissima. I nomi Franca e Mario, le dicono niente?».

Francesco alzò gli occhi al cielo passandosi la lingua sulle labbra. In quel momento somigliava tantissimo al suo gatto soriano. «Franca e Mario... Franca e Mario... mah, così non mi viene in mente nulla. Mi ci faccia riflettere. La chiamo dovesse accendersi la lampadina».

«La ringrazio. Lascio il mio numero alla reception, non le faccio perdere tempo».

«Grazie, dottor Schiavone. Spero a più tardi» e a passo molle e incerto infilò la porta girevole delThotel. Se non altro aveva smesso di piovere.

Il sole era sceso da un pezzo e con lui anche la temperatura. Rocco, in piedi davanti alla finestra del suo ufficio, osservava il traffico lento delle auto. Le luci dei fari erano lame bianche puntellate di gocce di umidità. Entrarono i suoi uomini preferiti, Pierron e il viceispettore Caterina Rispoli.

«Allora, prima di andare tutti a casa... novità?».

«Niente da fare» attaccò Italo. «Mario Micheli e Mario Curcio, spariti nel 2007 e nel 2008, non hanno più nessuno. Erano entrambi ospiti dell’ospedale, Neurologia e Chirurgia 1. Il primo era vedovo e sua moglie si chiamava Annabella. Il secondo non era neanche sposato».

«Buco nell’acqua. Tu?» e guardò Caterina.

«Matrimoni celebrati il 22 ottobre 1960 ad Aosta ce ne sono stati due. Ma nessuno di Franca e Mario».

«Non si sono sposati qui. Secondo buco nell’acqua». Rocco si accese una sigaretta. «Andatevene a casa. Per oggi è tutto».

«Stavo pensando a una cosa» disse Italo. «Sappiamo che aveva sui 60 anni, quindi probabilmente era in pensione, e sappiamo che era un operaio».

«E allora?». Rocco spense la Carnei nel portacenere. Sapeva di ferro. «Operaio in pensione. Hai detto niente! No, io sono certo che in qualche modo ha a che fare con la famiglia Guerlen Bresson. Altrimenti, perché scegliere proprio quella cappella per farsi tumulare di nascosto?».

«Già...» fece Caterina. «Un amante?».

«Anche tu...» disse Rocco.

«Anche tu cosa?».

«Non sei la prima che pensa a un’impossibile storia d’amore che si completa solo nella morte. Ma quale amore? C’è altro. Ma io non riesco a capire cosa».

I pensieri del vicequestore furono interrotti dalla suoneria del cellulare. Sul display un numero sconosciuto. «Sì? Chi parla?».

«Dottore, sono Francesco Guerlen Bresson. Mi sono ricordato! Franca è stata per anni la nostra donna di servizio. Non so come ho fatto a non pensarci subito».

«Bene! Ottimo. Aveva un marito?».

«Certo. Quando entrò a casa nostra era già sposata. E io il marito lo ricordo vagamente».

«Si chiamava Mario?».

«Ecco, non potrei giurarci. Comunque lei si chiamava, o si chiama se è ancora viva, Franca Ferri».

Rocco segnò l’appunto su un foglio.

«Però non so se era il suo cognome da ragazza o da sposata. Una cosa la so: veniva da Alessandria».

«Bene. Grazie, Francesco, lei è stato eccezionale! Grazie ancora! E buona Thailandia».

Rocco chiuse la comunicazione. Il campo di ricerca si era notevolmente ristretto.

Era tardi, gli uffici erano tutti chiusi, la giornata era finita. Un amico, ecco cosa mancava a Rocco. Un amico vero con cui passare la serata, mangiare un boccone, parlare del presente, poco del futuro e molto dei giorni passati. Avrebbe potuto chiamare Sebastiano o Furio o Brizio giù a Roma. Ma non lo fece. Per soli cinque minuti al telefono avrebbe dovuto sopportare un gusto amaro in bocca fino al giorno dopo. Poco più di tre settimane che era in forza ad Aosta e già non ce la faceva più. Forse una donna avrebbe potuto aiutarlo ad alleviare quella solitudine. Ma lo stancava il solo pensiero di intraprendere il lento e sfibrante lavoro del corteggiamento. Avrebbe potuto fare almeno la spesa. Ma era in ritardo anche per quello. Si preparò a passare la solita serata: rosticceria, televisione, letto.

Alle undici del mattino seguente il viceispettore Rispoli arrivò nell’ufficio di Rocco con l’incartamento del Comune. Franca Bugnoli, sposata Ferri, era residente ad Aosta, viale Europa 64. Con lei convivevano il figlio Luigi e il marito Mario.

«Ma cazzo...» disse Rocco. «Com’è? Allora Mario Ferri è vivo? Abbiamo sbagliato tutto?».

«Così sembra, dottore...».

Il vicequestore continuava a leggere gli incarti. «Mario Ferri, pensionato, operaio del Comune di Aosta, nato a Tortona, provincia di Alessandria, il 20 maggio 1935». L’anello di argentone trovato sul cadavere era ancora lì, sulla sua scrivania. Rocco lo prese fra le dita. Lo osservò a lungo. «Caterina, dammi un’opinione. Questa è una fede nuziale. Chi si fa la fede nuziale in alpacca?».

«Nessuno, dottore. Guardi, i miei genitori erano contadini poverissimi, anche i nonni, e così i loro padri. Ma nessuno s’è mai sposato senza le fedi d’oro. Solo i nonni poveretti le hanno date via. C’era la guerra...».

«Già. L’oro alla patria. Anche i miei nonni diedero le fedi d’oro al duce».

«Contravvenendo al motto dell’antico generale Fabio Furio Camillo: non con l’oro si difende la patria...».

«... ma col ferro» concluse Rocco la frase. «E infatti sappiamo come andò a finire. Tutte le fedi d’oro buttate nel calderone e i nonni poveracci in tempo di guerra se le rifecero di ferro e stagno». Rocco guardò Caterina.

«Ma che c’entra, scusi? Questi si sono sposati nel 1960. Il ventennio non c’entra niente».

«Il ventennio no, ma la povertà sì».

«Lei crede che...?».

«Non so cosa credo. Però è strano. È arrivato il momento di andare a trovare Franca Bugnoli maritata Ferri».

Bussarono a lungo, ma nessuno venne ad aprire. Dall’altra parte del pianerottolo si aprì una porta e insieme ad un odore di cavoli bolliti si affacciò una donna sui 70 anni vestita con una vestaglia a fiori. «Chi cercate?».

«I Ferri» rispose Rocco.

«Non ci sono. Stamattina ho visto Franca uscire per fare la spesa, ma non l’ho sentita rientrare. Forse sono ancora fuori».

«E il figlio?».

«Mah...».

«Lei sa dove lavora il figlio?».

La dirimpettaia dei Ferri sorrise. «Lavora? Lei non sa quanto sarei felice di poterle dire dove lavora. No, dottore. Luigi non lavora. Da tempo... faceva il muratore, come il padre. Ma lavoro non ce n’è più... io gliel’ho sempre detto a Franca, doveva entrare in polizia, come lei».

Rocco annuì. «Certo, il posto fisso è sempre il posto fisso».

«Infatti» disse lei chiudendosi la vestaglia sul petto.

Rocco guardò quella donna coi capelli quasi azzurri, la vestaglia di qualche materiale altamente infiammabile," scarpe nere senza lacci, ortopediche, calze spesse e rinforzate. La vicina si passò una mano fra i capelli. «Che c’è?».

Rocco le guardò la mano. «Niente. Niente. Ci scusi. Se dovesse vedere i Ferri può dirgli che siamo venuti a trovarli?».

«Certo. Chi devo dire?».

«Vicequestore Rocco Schiavone».

Insieme a Caterina scesero le scale della palazzina, che aveva bisogno di un restauro. «Dottore, che idea s’è fatto?».

Ma Rocco non rispose subito. Aspettò di uscire all’aria aperta sotto il cielo nuvoloso di Aosta, raggiungere la macchina, prendere le chiavi dalle mani di Caterina. «Tu te ne stai qui, mettiti dietro l’angolo, casomai quella donna dovesse uscire dal palazzo».

«Perché?».

«Fai come ti dico. Io devo andare al cimitero. La storia è tutta lì». E salì in macchina.

Trovò Alfonso Cibruscola che spazzava l’uscio della cappella della famiglia Guerlen Bresson. «Ci sono novità, dottore?».

«Ora io le faccio un nome. Mario Ferri. Le dice niente?».

Alfonso sorrise. «Mi vuole prendere in giro? Certo che mi dice qualcosa. Mario lavorava qui al cimitero. Prima era semplice operaio, poi ebbe un brutto incidente e si spezzò la gamba. Zoppicava, non potendo più fare lavori manuali lo passarono in ufficio e divenne il custode. Quando andò in pensione, io presi il suo posto. Ma perché?».

L’impiegato del Comune notò la nuvola nera passare sul volto del poliziotto. Una specie di velo grigio gli si era posato sugli occhi, sulla pelle e sulla bocca. Cibruscola non poteva saperlo, ma quella reazione evidente sul volto del vicequestore prendeva forma quando Schiavone era arrivato a una conclusione. Scomoda, squallida, triste, più del cielo di quella città.

«Ma perché? Che succede?».

Senza aggiungere altro, il vicequestore chinò la testa e lasciò Alfonso Cibruscola a spazzare le vecchie tombe dimenticate da parenti e affini.

Rocco tornò a viale Europa. Caterina era ancora lì, a pochi metri dal civico 64. Andò incontro al suo superiore. «Che succede?».

«È uscito qualcuno?».

«Un vecchietto con il cane. Avrei dovuto seguirlo?».

«Cateri’, non mi ti trasformare in D’Intino anche tu. Altrimenti in questura io sono perduto! Vieni con me».

Entrarono nel civico 64 e risalirono i tre piani di scale che sfoggiavano macchie di muffa simili a enormi mappe geografiche. Bussarono direttamente alla porta della vicina. Dopo un minuto quella aprì, ancora stretta nella sua vestagliela a fiori. «Siete ancora voi? Gliel’ho detto. Non ci sono!».

Rocco si avvicinò, aprì la porta spingendo il battente con forza e superò la dirimpettaia.

«Ma che...?».

Entrò in casa della vicina. Sul divano c’erano un uomo e una donna sui 40 anni. Appena videro il vicequestore e la divisa blu del viceispettore Rispoli sobbalzarono. L’uomo impallidì. La donna guardava stupita con gli occhi ingigantiti dalle lenti la scena che si stava svolgendo davanti a lei. Schiavone prese delicatamente la mano della dirimpettaia, la alzò e guardò la fede all’anulare della mano sinistra. «Franca Ferri...».

La donna abbassò la testa. «Io non...» e scoppiò a piangere. Rocco guardò l’uomo: «Lei è Luigi Ferri?».

Quello si limitò ad annuire.

«E lei chi è?» chiese alla donna dagli occhiali enormi. «Io sono Wanda. La vicina» si scusò con una vocina fragile e sottile.

«Quando le avete impegnate le fedi?».

Franca cercò di dominare i singhiozzi. «Due mesi prima che Mario se ne andasse...».

Caterina si avvicinò alla donna. Prese una sedia e la fece accomodare.

«Quand’è morto Mario?».

«Papà è morto nel 2007» rispose Luigi.

«Perché?».

«Un infarto. Lo ha stroncato».

«Andiamo a casa vostra. Stare qui dalla signora mi sembra inutile».

La quarantenne occhialuta si alzò. Le gambe le tremavano. «Mi dispiace, io ho cercato...».

Rocco la interruppe con un gesto della mano. «L’esperienza mi dice che in questi momenti le parole sono pietre, signora. Quindi conviene tacere».

La mobilia era semplice e vecchia. A giocarsi il ruolo da protagonista erano la fòrmica e la finta pelle. Ragnatele di crepe che partivano dal soffitto fino al pavimento disegnavano le pareti oramai ingrigite. Le tende a fioroni gialli e marroni erano strappate in più punti. Il salone e la cucina erano la stessa stanza. Un divano fungeva anche da letto. Due porte conducevano nella camera matrimoniale e nel bagno. Questa era la casa dei Ferri.

«Ci abitiamo dall’81 » disse Franca entrando, come se si volesse scusare. Sul tavolo della cucina, che era anche quello del salone, stavano due arance e una bottiglia di vino marrone senza etichetta. «Posso offrirvi qualcosa?».

I poliziotti non risposero. «Mario è morto nel 2007. E voi non avete mai denunciato la cosa».

Madre e figlio fecero no con la testa contemporaneamente. Rocco si avvicinò alla finestra. Dava sul palazzo di fronte che nascondeva quasi del tutto la luce. «Lavori, Luigi?».

«Non lavoro da tre anni. E non è che prima...».

«Sempre lavori saltuari» intervenne la madre. «Lui è geometra, sa? Però non ha mai vinto un concorso...».

«Mamma, per favore...».

«Lo guardi, dottore. Lo guardi! Ha 42 anni. Non ha mai avuto una moglie, una casa, una vita!».

«Mamma, piantala!».

«Perché? Non devi vergognarti, Luigi. Io e Mario siamo stati sempre onesti e sinceri. Ero a servizio dai Guerlen Bresson prima che... che quel fetente dello zio Luigi sperperasse tutto...».

«Di chi è stata l’idea?» chiese freddo il vicequestore. Luigi alzò la mano. «Papà aveva le chiavi del cimitero. Io sapevo come andavano le cose in quella famiglia. Non potevo immaginare che... sì, insomma, la signora... che l’avrebbero portata da un’altra parte». Luigi appoggiò i gomiti alle ginocchia e affondò la testa nei palmi delle mani.

«Mario è morto di là, sul suo letto». Franca si stava asciugando le lacrime con un fazzoletto lercio che aveva recuperato dalla tasca della vestaglia. «Come facevamo io e Luigi? Me lo spiega? Noi campavamo con la pensione di Mario e...».

«Signora, la legge parla chiaro. La pensione di suo marito le spetta di diritto».

«L’80 per cento. Anzi forse il 60, mi ha detto l’avvocato, perché mio figlio non è più a carico nostro». E guardò Luigi come solo una madre può fare. «Non bastava. Solo di affitto questa casa costa metà della pensione di Mario... come campavamo? Sono diabetica, e i medici? Le medicine? Con Luigi che riesce a lavorare sì e no un mese all’anno? Quanto pensa che prendeva mio marito di pensione?».

«Neanche ottocento euro» intervenne Luigi. «Più trecento di quella di mamma. E ce la facevamo appena».

«Lo sa?» disse la donna guardandosi la punta delle scarpe ortopediche, «ho pensato anche a togliermi di mezzo. Solo che Luigi non avrebbe più preso un soldo... sarebbe rimasto solo, ad aspettare qualcosa che non arriva mai. Una madre una cosa del genere non la può fare. E allora abbiamo deciso... di portarlo lì. Solo io e Luigi avremmo saputo».

«Sei stato tu?» chiese il vicequestore all’uomo.

«La notte dopo la morte. Avevo le chiavi, sapevo che nella zona vecchia non ci va mai nessuno. Sono entrato e all’alba avevo già finito. Una cosa che non scorderò mai. Mai!».

Il vicequestore si voltò a guardare Caterina. L’ispettore aveva gli occhi pieni di lacrime. Le tratteneva a stento. «Ispettore, scenda giù e vada ad aspettarmi in auto» ordinò perentorio Rocco. Caterina, che non chiedeva di meglio, fuggì via dall’appartamento.

Schiavone guardò la casa. Le poltroncine in finta pelle, il televisore piccolo, riparato con lo scotch da carrozziere. Due piatti a fiori messi ad asciugare sul lavello, i bicchieri di vetro fumé, le stampe alle pareti prese da vecchi calendari. Il divano, che era anche il letto di Luigi, sul quale non riposava corpo di donna da chissà quanti anni. Franca si alzò dalla sedia di paglia. Lentamente andò alla porta della camera da letto. L’aprì.

Rocco non capiva. «Venga. Venga a vedere».

Accese la luce perché finestre non ce n’erano. Il letto era appena rifatto, una coperta gialla, una bambola che sorrideva dai cuscini. Sopra la testata in noce lucida c’era una Madonna, sorrideva anche lei. Un armadio a due ante di legno chiaro stava sulla destra. Franca l’aprì. C’era un solo vestito e due camicie da uomo. «Ecco, questo è tutto quello che aveva mio marito».

«La portava lei la rosa a Mario?».

«Sì. Una ogni mese. Perché una tomba doveva averla. Vede, possiamo anche vivere così, senza una speranza, ma almeno nella morte la dignità dobbiamo conservarla. Ho cercato di lasciargli almeno quella, a Mario».

«Lei deve venire in questura con me. Si vesta, l’aspetto giù».

«Cosa? No, io...».

«Stia tranquilla, signora Ferri. Mi deve solo firmare una denuncia».

Quando Rocco uscì in strada, trovò Caterina appoggiata al cofano dell’auto. I due poliziotti aprirono la portiera. Caterina, alla guida, girò la chiave. Il motore si accese. Poi l’ispettore guardò il suo capo.

«Per una pensione?».

«Per una pensione, Cateri’...».

«Quindi l’identità del cadavere?».

«Si chiamava Alfred Goetze, dottore. Era un marinaio di Amburgo. Fu un amante della signora Veronica Guerlen Bresson». Mentre parlava al telefono con il giudice Baldi, Rocco teneva gli occhi bassi sfuggendo gli sguardi dei suoi agenti. «Ci siamo arrivati grazie alla testimonianza del figlio Francesco».

«Mmm» fece il giudice. «Le cause della morte?».

«Fumagalli è stato lapidario: infarto».

«Ma chi l’ha sepolto lì dentro? E perché?».

«Per amore, dottore. Una promessa che i due s’erano fatti di restare accanto anche nell’altra vita. E siccome il tedesco non era bene accetto dalla famiglia di Veronica, lo hanno fatto di nascosto, con la complicità di un vecchio guardiano del cimitero, tale Mario Ferri che si prestò a quest’assurdo atto d’amore un po’ démodé, se mi permette».

«Sì, e anche un po’ macabro».

«D’accordissimo con lei. Ma le cose sono andate così. Una storia d’amore d’altri tempi».

«Avete avvertito i parenti di questo Goetze?».

«Non ne ha. Era vedovo e senza figli. Parlo di figli riconosciuti. Era un marinaio... si sa cosa fanno quelli, in ogni porto».

«Dobbiamo inquisire però questo tale Mario Ferri... insomma, il vecchio guardiano».

Rocco prese un respiro: «Non possiamo. Proprio oggi i familiari ne hanno segnalato la scomparsa. Ho la denuncia qui sul tavolo».

« Schiavone, perché ho la scomoda sensazione che lei si stia arrampicando sugli specchi?».

«Perché è una storia talmente assurda che sembra uscita da un romanzo, vero?».

«E che magari un giorno, leggendo qua e là, ritroverò pari pari su un libro con la copertina rosa? Vabbè, Schiavone, caso chiuso e i miei complimenti per la rapidità».

«Grazie, dottore. A presto!».

Rocco abbassò la cornetta e alzò gli occhi sui suoi agenti. Casella e Italo sorridevano. Caterina continuava ad asciugarsi le lacrime. «Ben fatto capo!» disse Italo. «Immagino quanto le sia costato!».

«Una cena il primo lunedì di ogni mese fino a novembre».

«Come? Che vuol dire?».

«È il prezzo per il silenzio di quel bastardo di Fumagalli. Vabbè, io me ne vado a casa. Per oggi le cose possono pure bastare».

«Chiudiamo qui?».

«Sicuro, Italo. E neanche una parola esce da quest’ufficio, siamo d’accordo?».

I tre poliziotti annuirono all’unisono.

«Ma con l’Inps che facciamo? Denunciamo la morte di Mario?» chiese Casella.

« Sei cretino? Denunciamo la scomparsa. Poi si vedrà».

« Ma posso chiedere dove seppelliranno adesso il corpo di Mario Ferri?».

«Verrà cremato. E se lo tengono in salotto. E a guardare bene, capace che diventerà l’oggetto più allegro dell’arredamento».

Mentre tornava a casa a piedi, respirando l’aria che si andava raffreddando man mano che la giornata volgeva al termine, Rocco fu colpito da un pensiero, un’intuizione che gli avrebbe cambiato la serata e che lo riempì d’orgoglio e di entusiasmo.

S’era ricordato di andare a fare la spesa.