26
Il telefono in cucina non smetteva di suonare.
«Fammi rispondere», disse Maura.
«Dobbiamo andarcene.» Il ragazzo stava svuotando gli armadietti della dispensa e gettando il cibo nello zaino.
«Ho visto una pala sul portico posteriore. Prendila.»
«È la mia amica, cerca di raggiungermi.»
«Arriverà la polizia.»
«È tutto a posto, Rat. Ti puoi fidare di lei.»
«Ma di loro no.» Il telefono stava di nuovo suonando. Maura si girò per rispondere, ma il ragazzo afferrò il filo e lo strappò dal muro. «Vuoi morire?» urlò.
Maura lasciò cadere il ricevitore muto e indietreggiò. In preda al panico il ragazzo incuteva paura, sembrava addirittura pericoloso. Lanciò un'occhiata al cavo che gli penzolava dal pugno. Un pugno abbastanza possente da massacrare una faccia, da fracassare una trachea.
Gettò a terra il cavo e fece un respiro. «Se vuoi venire con me, dobbiamo partire ora.»
«Mi dispiace, Rat», rispose calma.
«Ma non vengo con te. Aspetterò qui la mia amica.»
Ciò che vide nei suoi occhi non era rabbia ma dolore. Si legò lo zaino in silenzio e prese le sue racchette, di cui Maura non avrebbe più avuto bisogno. Senza voltarsi a guardare, senza nemmeno un saluto si girò verso la porta.
«Andiamo Bear», esclamò.
Il cane esitò guardando ora l'uno ora l'altra come se cercasse di capire quei pazzi umani.
«Bear.»
«Aspetta», disse Maura.
«Resta con me. Torneremo in città insieme.»
«La città non è il mio mondo, signora. Non lo è mai stato.»
«Non puoi vagabondare là fuori da solo.»
«Io non vagabondo là fuori. So dove andare.» Guardò di nuovo il cane e stavolta Bear lo seguì.
Maura osservò il ragazzo uscire dalla porta posteriore con il cane alle calcagna. Dalla finestra rotta della cucina li vide arrancare nella neve verso il bosco. Il ragazzo selvaggio e il suo compagno che tornavano tra i monti. Un attimo dopo scomparvero tra gli alberi e si chiese se fossero mai esistiti. Se nella sua paura e nel suo isolamento non si fosse inventata due salvatori immaginari. Ma no, vedeva le impronte sulla neve. Il ragazzo era reale.
Reale come la voce di Jane al telefono. Il mondo esterno, dopotutto, non era scomparso. Al di là di quei monti c'erano ancora città, ancora persone che svolgevano le loro normali attività. Persone che non si rintanavano nei boschi come animali braccati. Per troppo tempo era rimasta bloccata in compagnia del ragazzo, aveva quasi iniziato a credere come lui che la natura selvaggia fosse l'unico luogo sicuro.
Era tempo di tornare al mondo reale. Al suo mondo.
Studiò il telefono e vide che il cavo era troppo danneggiato per poter essere ricollegato, ma non dubitava che Jane sarebbe riuscita a individuare lo stesso il posto in cui si trovava. Ora tutto quello che devo fare è aspettare, pensò. Jane sa che sono viva. Qualcuno verrà a prendermi.
Andò in soggiorno e si sedette sul divano. Lo chalet non era riscaldato e il vento entrava dalla finestra rotta della cucina, perciò tenne la giacca chiusa. Si sentiva in colpa per la finestra che Rat aveva fracassato per poter entrare. Poi c'era il cavo danneggiato del telefono e la dispensa saccheggiata, tutti danni che ovviamente avrebbe pagato. Avrebbe spedito un assegno accompagnato da scuse sincere. Seduta nella casa di uno sconosciuto, in cui si era introdotta illegalmente, fissò le fotografie sulle mensole dei libri. Vide le immagini di tre bambini piccoli in varie pose e una donna dai capelli grigi che sollevava fiera una trota impressionante.
I libri della biblioteca erano letture leggere per l'estate. Mary Higgins Clark e Danielle Steel, la raccolta di una donna dai gusti tradizionali che amava le storie d'amore e i gattini di ceramica. Una donna che probabilmente non avrebbe mai incontrato di persona ma a cui sarebbe sempre stata grata. Il tuo telefono mi ha salvato la vita.
Qualcuno batté sulla porta d'ingresso.
Maura schizzò in piedi. Non aveva sentito l'auto fermarsi davanti alla casa, ma dalla finestra del soggiorno vide un suv del Dipartimento dello sceriffo della contea di Sublette. Finalmente l'incubo è finito, pensò mentre apriva la porta. Torno a casa.
Sul portico c'era un giovane agente con la targhetta Martineau. Aveva i capelli rasati e il portamento severo di un uomo che prendeva sul serio il suo lavoro.
«Signora?» disse. «E' stata lei a telefonare?»
«Sì! Sì, sì, sì.»
Maura avrebbe voluto gettargli le braccia al collo, ma non sembrava un poliziotto amante degli abbracci.
«Non ha idea di quanto sia contenta di vederla!»
«Posso sapere il suo nome per favore?»
«Sono la dottoressa Maura Isles. Credo si siano diffuse voci premature sulla mia morte.»
La sua risata suonò smodata, folle.
«Ovviamente non sono vere!» Lui guardò attentamente alle sue spalle, all'interno della casa.
«Come è arrivata in questa abitazione? Qualcuno l'ha fatta entrare?»
Maura si sentì arrossire in preda al senso di colpa.
«Mi spiace, abbiamo dovuto rompere una finestra per entrare. E c'è qualche altro danno. Ma prometto che pagherò tutto.»
«Abbiamo?»
Maura tacque temendo all'improvviso di aver messo nei guai il ragazzo.
«Non avevo scelta», rispose.
«Dovevo raggiungere un telefono. Perciò mi sono introdotta in casa. Spero che da queste parti non sia un reato da impiccagione.» Il poliziotto alla fine sorrise, ma in quel sorriso c'era qualcosa di strano. Non gli sfiorò nemmeno gli occhi.
«Ora la riporteremo in città», disse.
«Potrà raccontarci tutto.»
Mentre saliva sul sedile posteriore e chiudeva la portiera, Maura cercava ancora di capire che cosa la inquietasse di quel giovane agente. Il suv era un mezzo del Dipartimento dello sceriffo e una grata metallica la isolava sul sedile di dietro, bloccandola in una gabbia concepita per trattenere un prigioniero.
Quando l'agente si mise al volante, la radio si animò con un crepitio.
«Bobby, qui la centrale», disse una voce femminile.
«Sei già arrivato a Doyle Mountain?»
«Dieci quattro, Jan. Ho appena controllato l'intera casa», rispose l'agente Martineau.
«L'hai trovata? Perché quella poliziotta di Boston ci sta col fiato sul collo.»
«No, mi spiace.»
«Non c'era nessuno?»
«Dev'essere stato uno scherzo perché qui non c'è nessuno. Adesso lascio la scena, dieci diciassette.»
Maura fissò oltre la grata e d'un tratto incrociò lo sguardo dell'agente nel retrovisore. L'occhiata che le diede le gelò il sangue nelle vene. Lo avevo visto nel suo sorriso. Sapevo che qualcosa non andava.
«Sono qui!» gridò Maura. «Aiutatemi! Sono quii»
L'agente Martineau aveva già spento la radio.
Si allungò verso la maniglia della portiera, ma non c'era niente da afferrare. Un'auto della polizia. Non c'era modo di uscire. Picchiò frenetica sui finestrini gridando, ignara del dolore dei pugni che sbattevano contro il vetro. Lui avviò il motore. Cosa sarebbe accaduto dopo, un viaggio verso una località solitaria e l'esecuzione?
Il suo corpo lasciato alla mercé dei mangiatori di carogne? Afferrò la grata in preda al panico, ma ossa e carne non potevano reggere il confronto con l'acciaio.
Il poliziotto girò il suv sulla stradina e schiacciò all'improvviso il freno.
«Merda», bofonchiò.
«Tu da dove spunti?»
Il cane era in mezzo alla strada e bloccava l'auto.
L'agente Martineau si chinò sul clacson.
«Togliti dai piedi, cazzo!» urlò.
Anziché battere in ritirata, Bear si alzò sulle zampe posteriori, piantò due zampe sul cofano e iniziò ad abbaiare.
Per un momento l'agente fissò l'animale chiedendosi se premere l'acceleratore e investirlo.
«Merda. Non ha senso sporcare di sangue tutto il paraurti», brontolò e scese dal suv.
Bear si rimise a quattro zampe e avanzò lento verso di lui ringhiando.
Il poliziotto sollevò l'arma e prese la mira. Era tanto concentrato a colpire il bersaglio che non notò la pala che si stava avvicinando alla sua testa. Questa gli si abbatté sul cranio e lui barcollò finendo contro l'auto mentre l'arma volava nella neve.
«Nessuno spara al mio cane», affermò Rat. Spalancò la portiera di Maura.
«E' ora di andare, signora.»
«Aspetta, la radio! Possiamo chiamare aiuto!»
«Non mi ascolti proprio mai ?»
Lei si affannò a uscire dal suv e vide che l'agente era in ginocchio, e aveva recuperato l'arma.
Proprio mentre la sollevava, il ragazzo gli si gettò addosso. I due piombarono a terra. Rotolarono più volte nella neve lottando per prendere la pistola.
L'esplosione sembrò fermare il tempo.
Nel silenzio improvviso il cane si bloccò. Poi lentamente Rat rotolò via e si rimise in piedi vacillando. Aveva la parte davanti della giacca schizzata di rosso. Ma non era il suo sangue.
Maura si inginocchiò accanto al poliziotto. Era ancora vivo con gli occhi aperti e lo sguardo sconvolto. Il sangue gli zampillava dal collo. Fece pressione sulla ferita per arrestare il fiotto arterioso, ma già il sangue stava impregnando la neve. Già la luce gli stava svanendo dagli occhi.
«Va' alla radio», gridò al ragazzo. «Chiedi aiuto.»
«Non volevo», mormorò lui. «La pistola ha sparato...»
Dalla gola dell'uomo provenne un gorgoglio. L'ultimo alito gli uscì dal corpo, e con esso l'anima. Maura guardò i suoi occhi offuscarsi, i muscoli del collo diventare flaccidi. Il sangue che sgorgava dalla ferita rallentò fino a trasformarsi in un gocciolio. Troppo stordita per muoversi, restò in ginocchio nella neve pestata e non sentì il veicolo in avvicinamento.
Rat invece sì. La tirò su per un braccio con forza tale da rimetterla dritta in piedi. Solo allora scorse il pick-up svoltare nella stradina.
Rat raccolse l'arma del poliziotto proprio mentre il colpo di fucile centrava il suv.
Un secondo colpo fece saltare il finestrino e la gragnola di frammenti di vetro la investì sulla testa.
Non sono colpi di avvertimento; cerca di uccidere.
Rat scattò verso gli alberi e lei gli fu subito alle calcagna. Quando il pick-up si fermò dietro l'auto dell'agente, stavano già correndo affannosamente nel bosco.
Maura sentì un terzo colpo di fucile, ma non si voltò a guardare. Tenne lo sguardo fisso su Rat che li stava conducendo sempre più al riparo, appesantito dall'ingombrante zaino.
Si fermò solo per porgerle le racchette da neve.
In un secondo le indossò.
Poi ripresero a muoversi con il ragazzo che faceva strada via via che si addentravano nella natura selvaggia.