CAPITOLO 5.
«MA'... ma'... sei sveglia?» Emma chiamò a bassa voce restando sulla soglia. Ma nessuno le rispose.
La ragazza indugiò, incerta sul da farsi e tendendo l'orecchio al minimo rumore, ma la stanza era immobile e silenziosa Come una tomba. Nervosamente si strinse lo scialletto attorno alle esili spalle, rabbrividendo nella sottile camicia da notte per il freddo pungente di quel primo mattino, il volto pallidissimo nella penombra.
«Ma'! Mamma!» ripeté in un bisbiglio allarmato avanzando cautamente a tentoni in mezzo alla misera mobilia della stanza, gli occhi non ancora abituati all'oscurità. Poi ebbe un brivido di repulsione quando alle narici le giunse l'odore di umido, di biancheria sporca e di sudore rappreso: l'inequivocabile odore della miseria e della malattia. Emma trattenne il fiato e si costrinse ad avanzare.
Giunta alla sponda del letto il cuore le si fermò in petto alla vista della donna malata che giaceva esanime sotto le coperte scomposte. Sua madre stava morendo. Forse era già morta. Un'ondata di panico fece sussultare il suo Corpicino fragile. Si chinò in avanti e premette il viso contro il corpo della madre, protesa verso quella forma inerte come per infonderle nuovo vigore e nuova vita. Strinse convulsamente le palpebre e recitò una muta preghiera. Ti prego, buon Dio, non permettere che la mia mamma muoia! Sarò buona per il resto della mia vita. Farò tutto quello che vorrai, buon Dio. Sì, Signore caro, quello che vorrai tu! Ma non permettere che la mia mamma muoia. Emma credeva in un Dio buono e misericordioso. La mamma le aveva detto che Dio era infinita bontà e che perdonava alle sue creature. Emma non credeva in un Dio vendicativo come quello che il ministro metodista descriveva nei suoi sermoni domenicali.
Sua madre le diceva sempre che Dio era amore e la mamma sapeva tutto. Il Dio di Emma era misericordioso e avrebbe risposto alle sue preghiere.
Riaprì gli occhi e carezzò la fronte madida della donna febbricitante. «Ma'! Ma'! Mi senti? Stai bene?» chiese di nuovo con voce tremante per la paura. Ma non ottenne alcuna risposta.
Nella luce tremula della candela il volto della donna, generalmente pallido, era bianco come il gesso e lucido per il velo di sudore che lo copriva. I capelli castani, una volta magnifici, cadevano opachi e senza vita in un groviglio sul cuscino. Nel suo volto c'era una dolcezza che né il dolore né la sofferenza erano riusciti ad alterare, ma ogni traccia della bellezza di un tempo era stata cancellata dalle devastazioni della miseria, dagli anni di lotta per la sopravvivenza e infine dalla malattia.
Un'aura di morte circondava Elizabeth Harte, che non sarebbe vissuta abbastanza per vedere esplodere la primavera ormai quasi alle porte. Era consumata da una malattia implacabile che giorno dopo giorno divorava il suo giovane corpo trasformandolo in quello di una vecchia raggrinzita. Non aveva ancora trentaquattro anni.
La stanza nella quale giaceva era cupa e squallida nella sua nudità. Il letto occupava quasi tutto lo spazio libero sotto il tetto spiovente. Oltre a quello nella stanza c'era ben poco. In un angolo fra il letto e la finestra c'era un tavolo zoppicante con una consunta Bibbia nera, una tazza di terracotta e la pozione prescritta dal dottor Malcolm. Accanto alla porta c'era un rozzo cassettone di legno mentre un catino sbeccato si trovava sul lato opposto della finestra. Il cottage era ai piedi delle brulle colline ed era quindi estremamente umido in tutte le stagioni dell'anno, ma soprattutto d'inverno, l'inclemente inverno nordico, quando venti impetuosi saturi di pioggia e nevischio soffiavano implacabili dalle colline. Eppure, nonostante l'umidità, la nudità che rasentava la miseria e la desolazione generale, la stanza era scrupolosamente pulita. Tende di cotone fresche di bucato e inamidate ornavano la finestra e i mobili erano lucidati con la cera d'api dalle mani instancabili di Emma. Non un granello di polvere sul pavimento di legno in parte coperto da un rozzo tappeto composto da avanzi di lana multicolore. Solo il letto era trascurato e in disordine dal momento che Emma poteva cambiare le lenzuola solo una volta alla settimana, quando tornava a casa da Fairley Hall dove era a servizio.
In quel momento Elizabeth si mosse faticosamente. «Sei tu, Emma cara?» La sua voce carica di tristezza si sentiva a malapena.
«Sì, mamma, sono io», esclamò Emma prendendole la mano.
«Che ore sono?»
«Appena le quattro. Il vecchio Willy ci ha buttati giù dal letto di buon'ora stamane. Mi spiace svegliarti, mamma, ma volevo essere sicura che ti sentissi bene prima di partire per Fairley Hall.»
Elizabeth sospirò. «Certo, figlia mia. Non peggio del solito.
Non agitarti adesso. Fra poco mi alzo e...» Si interruppe, squassata da un violento accesso di tosse. Emma corse a versare la pozione nella tazza, quindi, passando il braccio attorno alle fragili spalle della madre per sorreggerla, l'aiutò a bere. «Bevi questo, mamma, ti farà bene», esclamò con una spensieratezza che era ben lungi dal provare. Fra un colpo e l'altro di tosse Elizabeth si sforzò di mandar giù qualche sorso di medicina.
Poi, pur essendo sfinita da quell'attacco crudele, riuscì a dire:
«Sarà meglio che tu scenda a badare a tuo padre e ai ragazzi, tesoro. Io mi riposerò un po' e magari prima di andare al lavoro mi porterai un tè». La luce febbrile aveva abbandonato il suo sguardo e per un attimo Elizabeth sembrò più lucida e consapevole di quanto la circondava.
Emma si chinò a baciare la guancia scarna della madre e, a rimboccarle amorevolmente le coperte. «Sì, mamma, sì.» Uscì dalla camera chiudendosi dolcemente la porta alle spalle. Mentre scendeva la ripida scala di pietra fu raggiunta dal suono minaccioso di voci alterate. Emma si fermò di botto, la gola stretta dalla nausea alla prospettiva della scena che l'attendeva.
Suo fratello Winston e suo padre stavano di nuovo litigando e la violenza dell'alterco era anche troppo evidente a giudicare dalle loro voci. Il terrore che potessero giungere fino a sua madre la fece gemere involontariamente. Se sua madre li avesse sentiti si sarebbe trascinata di sotto per metter pace fra loro, anche se ciò avesse dovuto costarle l'ultima goccia del suo sangue. Durante quelle settimane Elizabeth era stata troppo debole per lasciare il letto, diventando una vera e propria prigioniera in quella misera stanzetta sotto il tetto. Eppure ogni volta che udiva le urla irose dei suoi uomini piangeva a lungo disperatamente, con il risultato che la febbre aumentava e la tosse la squassava da capo a piedi.
«Sciocchi!» esclamò Emma ad alta voce. Uomini adulti che Si comportavano come marmocchi troppo egoisti per pensare alla povera mamma. Quel pensiero la indusse a continuare a scendere, spinta da una gelida furia. Spalancò la porta della cucina e si fermò sulla soglia, le dita contratte attorno alla maniglia.
Al contrario della triste camera al piano di sopra, la stanza al piano terra che fungeva da soggiorno e cucina era calda e accogliente. Un bel fuoco scoppiettava nel camino e un grosso bollitore fischiava con insistenza. La tappezzeria a grandi rose colorate aveva da un pezzo perso il suo splendore estivo, ma le tracce di rosa che ancora restavano conferivano una gradevole sfumatura di calore alle pareti. Ai lati del camino scintillavano alcune rifiniture di ottone ben lucidate. La parte centrale della stanza era interamente occupata da un grande tavolo di legno circondato da sei sedie imbottite. Tende di pizzo bianco rallegravano le finestre e il pavimento era lucido.
Era una visione che Emma si portava nel cuore soprattutto quando si trovava lontano, a Fairley Hall, e che le dava un senso di benessere ogni volta che si sentiva sola e triste. Ma in quel momento quell'immagine era rovinata. Ogni cosa era ancora al suo posto, nulla era stato tolto o spostato, eppure l'atmosfera era satura di ostilità mentre parole irose risuonavano rimbalzando contro le pareti. I due uomini, suo padre e suo fratello, si fronteggiavano come animali, dimentichi di lei e di tutto all'infuori dell'odio reciproco.
John Harte, soprannominato Jack il Grosso, era un uomo alto e forte, come suggeriva il suo soprannome. Superava il metro e ottantacinque di statura e aveva un portamento fiero ed eretto.
Nel 1900 aveva combattuto contro i boeri in Africa e di lui si diceva che potesse abbattere un uomo con uno solo dei suoi pugni poderosi. Di corporatura ben fatta, Jack aveva un viso attraente, anche se di una bellezza piuttosto rude, incorniciato da folti capelli corvini e ondulati.
In quel momento torreggiava sopra Winston, suo figlio, con il braccio alzato già pronto a colpire. «Non voglio più sentirti parlare di arruolarti in Marina, ragazzo, capito? Sei minorenne e non avrai mai la mia autorizzazione. Adesso finiscila se non vuoi sentire la carezza della cinghia sulla schiena!»
Winston fissò il padre con sguardo furente, il bel viso paonazzo e contorto dall'ira, gli occhi azzurri che mandavano lampi.
«Se voglio andare ci andrò e basta!» urlò. «Non potrai fermarmi se decido di scappare, e lo farò, da questo buco dimenticato da Dio dove non c'è altro che miseria, desolazione e morte...»
«Mostriciattolo! Come osi rispondermi? Lo vedremo chi comanda qui, adesso!»
Il ragazzo restò paralizzato per un attimo, quindi fece un passo in avanti, il braccio sollevato come per colpire suo padre.
Poi, scorgendo la luce minacciosa nei suoi occhi, impallidì e arretrò terrorizzato dalla forza del suo avversario. Pur non essendo alto e grosso come suo padre, Winston era ben fatto anche se più delicato, come se in lui scorresse soprattutto il sangue di sua madre. D'altra parte Winston si rendeva perfettamente conto di non potercela fare contro il padre. A quindici anni era già straordinariamente acuto ed era ogni giorno più consapevole della sua straordinaria bellezza e del fatto che essa costituiva la più potente delle sue armi.
«Non credere che non ti abbia visto, Winston! Adesso ti insegno io ad alzare il braccio contro tuo padre, ragazzo. Lo vedrai. Ti darò una strigliata che te la ricorderai finché campi!»
Intanto avvolgeva la cintura di pesante cuoio nero dei calzoni attorno al polso.
«Non mi fai paura, papà!» urlò Winston con voce acuta arretrando prudentemente verso la credenza e mettendo fra loro il tavolo.
«Non oserai colpirmi. La mamma non te lo perdonerebbe mai se mi sfiori con quella cinghia!»
Ma Jack il Grosso sembrava sordo mentre avanzava implacabilmente con il braccio già a mezz'aria. Avrebbe sicuramente colpito se proprio in quel momento Emma non si fosse precipitata su di lui fermandolo con tutte le sue forze. Tremante di rabbia la ragazza affrontò il padre senza un attimo di esitazione.
In quella casa era l'unica, oltre a sua madre, che osasse sfidarlo e generalmente riusciva a renderlo docile come un agnello.
Quando parlò la sua voce era bassa, ma piena di autorità.
«Zitto, papà! Che cosa ti è preso? Urlare come un ossesso a quest'ora del mattino mentre la mamma di sopra sta male.
Dovresti vergognarti, papà! Adesso mettiti seduto e bevi il tuo tè senza fare tanto baccano, altrimenti sarò io a scappare di casa e che ne sarebbe allora di tutti voi, eh?» Intanto continuava a stringere con forza il braccio del padre. «Su, papà», proseguì con voce dolce, «non essere testardo. Il nostro Winston non si arruolerà da nessuna parte. Sono solo chiacchiere.»
«Già, questo è quello che pensi tu signorina ficcanaso», si intromise il fratello che ormai si sentiva al sicuro. «Ma questa volta, signorinella mia, ti sbagli di grosso. Proprio così!»
Emma si girò di scatto a guardare il fratello. «Adesso finiscila, Winston», sibilò. «Fra un attimo farete scendere la mamma e sapete tutti e due quanto le costerebbe. E finiscila con questa sciocchezza di arruolarti in Marina. Papà ha ragione, sei troppo giovane. E se te ne andassi spezzeresti il cuore alla mamma.
Quindi finiscila e subito!»
Gli occhi di Winston scintillavano di un'insolita ostilità. «Una signorinella ficcanaso e petulante, ecco che cosa sei» esclamò sarcastico. «Fatti gli affari tuoi, mia cara. Sempre a impicciarti di tutto. Mi fai venire il voltastomaco. Sei solo quattro ossa in croce e che ne sai tu della vita, Emma Harte?» Tuttavia nonostante la cattiveria di quelle parole, Winston si ritrasse sotto lo sguardo penetrante della sorella, della quale aveva paura pur non rendendosene completamente conto. Quindi, quasi per confermare quell'oscura sensazione, prese fiato ed esclamò:
«Una gradassa, ecco quello che sei, Emma Harte!» Ma la ragazza strinse i denti e si costrinse a ignorare quell'ultima ingiuria.
Intanto Jack sembrava del tutto dimentico della lite fra i due figli maggiori, nello sforzo di ritrovare il controllo di sé.
Voltando lentamente la testa dalla folta criniera leonina disse con voce calma: «Adesso basta, Winston. Lascia in pace tua sorella. Hai già fatto abbastanza guai per oggi e passerà molto tempo prima che riesca a scordarmene. Lascia che te lo dica, ragazzo mio!»
«Ma lei caccia sempre il naso nei miei affari...» cominciò a dire Winston prima di interrompersi raggelato dall'espressione del padre. Con grazia felina scivolò attraverso la stanza verso l'angolo nel quale suo fratello Frank, di qualche anno più giovane, si era rifugiato durante la lite.
Emma non perdeva d'occhio le mosse del fratello. Fumava letteralmente di rabbia di fronte alla sua stupidità e alla sua imprudenza nel provocare le ire del padre, incapace per una volta di tenere a posto la lingua. Guardandolo consolare il fratellino Emma fu folgorata dall'idea che forse se fosse fuggito davvero sarebbe stato meglio per tutti. Quel pensiero la turbò al punto che lasciò andare la presa al braccio del padre. Winston era sempre stato il suo alleato, il suo amico più fedele, tanto che la sua presenza nella casa le era sempre sembrata indispensabile. La constatazione che forse non era così la lasciò senza fiato.
D'impulso si girò di nuovo verso il padre e gli disse a bassa voce: «Su, papà, vieni a sederti adesso».
Per un attimo Jack Harte non cedette sotto la pressione leggera, ma ferma della mano di Emma. Guardò la ragazza e vedendo quanto era esile si rese conto che avrebbe potuto farla volare dall'altra parte della stanza con un semplice gesto del braccio. Ma Jack non aveva mai colpito la figlia e mai l'avrebbe fatto. Si lasciò andare e docilmente le permise di spingerlo verso una grossa poltrona. Contemplò il visetto pallido, sempre serio e riflessivo, ancora alterato per la paura e si commosse come solo davanti a Emma, fra tutti i suoi figlioli, riusciva a fare. In quel momento, fissando la figlia, l'unica fra tutti che osasse sfidarlo, capì con un'improvvisa intuizione di trovarsi di fronte a una volontà irriducibile, una volontà di ferro ancora più terrificante poiché si rivelava in una ragazza così giovane.
Quell'implacabile atteggiamento lo riempì di una emozione tutta nuova, fatta di fierezza e di timore. Era fiero della forza di Emma, eppure in un certo senso ne aveva paura. Prima o poi l'avrebbe messa nei guai, ne era certo. Era una donna indipendente e al mondo non c'era posto per gli spiriti indipendenti. La gente della loro classe veniva inesorabilmente schiacciata sotto i piedi dei padroni. La fierezza di Emma un giorno sarebbe stata infranta e Jack temette quel momento. Pregò il cielo di non essere più al mondo per assistere a quell'umiliazione perché gli avrebbe spezzato il cuore così come avrebbe spezzato quello di lei.
Con lo sguardo fisso su Emma la vide lucidamente per la prima volta in tutti quegli anni. Vide il corpicino denutrito, il collo sottile, le spalle ossute sotto la camiciola da notte. Ma vide anche qualcos'altro. Vide la trasparenza della pelle, bianca come la neve che ancora ammantava le colline più alte. Vide gli occhi scintillanti di un fuoco smeraldino, la copia esatta dei suoi.
Vide la massa dei capelli ramati e la linea pura dell'attaccatura a punta sulla fronte di alabastro. Vide nel corpo acerbo di bimba la bellezza in boccio. Ma sarebbe mai fiorita quella bellezza? Il cuore gli si strinse in una morsa di angoscia e di rabbia alla prospettiva della vita di stenti e di duro lavoro che l'aspettava.
Già l'aveva conosciuto il duro lavoro, in casa e a Fairley Hall, ed era ancora quasi una bambina. La voce ancora acerba di Emma lo distolse dalle sue elucubrazioni. «Pa', pa'! Ti senti male, pa'? Hai un'aria strana.»
«Niente, niente piccola, non ho niente. Sei già stata a vedere come sta tua madre?»
«Non stava molto bene prima che scendessi, ma adesso sta riposando. Fra qualche minuto le porto su un po' di tè.»
Emma fece per allontanarsi e Jack le sorrise con affetto.
Ma Emma non lo ricambiò come si era aspettato, si limitò ad accarezzarlo sul braccio e a lanciargli una lunga occhiata che lo fece sentire stranamente in colpa, come se dei due il bambino fosse lui ed Emma la madre. Ne fu enormemente turbato dal momento che Emma era la sua figliola prediletta e non voleva sentirsi sminuito ai suoi occhi. Aveva bisogno della sua stima.
Meccanicamente si chinò e prese gli scarponi dalla mensola del camino.
Si stava facendo tardi e presto avrebbe dovuto mettersi in cammino per la cava di mattoni dei Fairley dove lavorava insieme con Winston. La cava era sulla strada per Pudsey e ci voleva un'ora buona di cammino per arrivarci.
Con rinnovata energia Emma si diede da fare in cucina. Voleva dissipare quell'atmosfera pesante perché non era nel suo carattere mantenere a lungo il broncio. Con la coda dell'occhio squadrò Frank che con gesti meticolosi stava spalmando il grasso d'arrosto sul pane da portare via per il pranzo. Tirandosi su le maniche corse verso di lui con aria battagliera.
«Ma che cosa credi di fare, Frank, ragazzo mio?» esclamò quando gli fu accanto. «Spalmi quel grasso come se il domani non esistesse!» Strappò il coltello dalle mani del ragazzo, stupefatto, e tolse una dose generosa di grasso che rimise nel vaso. «Non siamo signori, Frank mio», proseguì terminando lei stessa di preparare i panini e tagliandoli in due con gesti esperti.
Con i grandi occhi nocciola pieni di lacrime Frank fece un passo indietro. Aveva capelli biondo pallido, morbidi come seta, una carnagione di latte e un viso delicato, quasi femmineo nella sua squisita bellezza. Con sua grande umiliazione, il suo aspetto soave gli aveva procurato l'appellativo di «Signorinella» allo stabilimento Fairley dove lavorava come garzone.
Rivolgendosi ansiosamente a Winston, che in quel momento stava terminando di sciacquare il lavandino, Frank esclamò con voce lamentosa: «Non volevo fare niente di male, Winston». Le lacrime gli scorrevano copiose giù per le guance. «Emma non me l'ha mai detto prima che mettevo troppo grasso sul pane.»
L'umiliazione per l'immeritato rimprovero causò un nuovo torrente di lacrime.
Winston aveva assistito alla scena dapprima con stupore e quindi con divertimento, avendo capito al volo che i modi bruschi della sorella erano in realtà un sistema per ristabilire la sua figura materna in mezzo a loro. Sapeva che i suoi rimbrotti riguardo ai panini erano pretestuosi quanto innocui. Così mise giù lo straccio che stava usando e tirò teneramente a sé il ragazzino.
Intanto Emma continuava a protestare con voce colma di rimprovero.
«Non avreste potuto mangiare quel pane neppure se ve lo avessi permesso. Con tutto quel grasso vi sarebbe venuto il volta stomaco al secondo boccone, proprio così!»
I due ragazzi e il padre fissarono attoniti Emma che agitava ancora il coltello verso di loro, il viso paonazzo per l'indignazione; infine, incapace di reprimere oltre la sua ilarità, Winston scoppiò a ridere. Rendendosi conto che non c'era cattiveria nella risata del figlio maggiore e che Emma era sempre più confusa Jack Harte scoppiò anche lui a ridere dandosi grandi pacche sulle gambe.
Emma li fulminò entrambi con lo sguardo, quindi, contagiata dall'ilarità dei due uomini, cominciò anche lei a ridere, dapprima a malincuore poi sempre più forte. «Quanto rumore per quattro panini», borbottò fra i denti mettendo giù il coltello.
Frank guardò interdetto da uno all'altro, poi rendendosi conto della situazione si asciugò gli occhi e il naso con la manica della giacca. «Non prendertela, Frank, tesoro. Non volevo sgridarti così. E non pulirti il naso con la manica della giacca!» terminò Emma tirandolo teneramente a sé e scompigliandogli i capelli.
Quel momento di ilarità ruppe la tensione che si era addensata nella stanza e in breve una sensazione di reciproco affetto e di solidarietà tornò a stabilirsi fra loro. Emma riprese a darsi da fare con le consuete maniere autoritarie. «Bene, sarà meglio che vi sbrighiate se non volete far tardi al lavoro», esclamò lanciando un'occhiata all'orologio sulla mensola del camino.
Mancava un quarto d'ora alle cinque e Winston e suo padre dovevano mettersi in cammino alle cinque in punto per essere alla cava alle sei. Tastò la teiera, era ancora bollente. «Su, Frank, dammi una mano e porta su il tè alla mamma», lo esortò versando una dose generosa di latte e di zucchero nella tazza. «Chiedile se vuole anche un po' di pane e marmellata. E vedi di sbrigarti, ragazzo mio, ci sono ancora parecchie cose da fare prima di mettersi per strada.» Frank afferrò la tazza con entrambe le mani e camminò cautamente sul pavimento di mattoni rossi diretto verso le scale.
Fischiettando Winston sparecchiò mentre Jack si occupava della legna per il camino. Emma sorrise. La pace era tornata fra loro.
Mentre con gesti meticolosi metteva nel camino i ciocchi di legna misti a preziosi pezzi di carbone, perché la fiamma durasse fino al momento in cui zia Lily sarebbe arrivata per tenere compagnia a Elizabeth, Jack fissava con la coda dell'occhio Winston occupato a lavare le tazze con gesti meccanici rimpiangendo la sua esplosione di rabbia di poco prima. Fra loro non esisteva un vero odio, solo un'ostilità che diventava sempre più difficile reprimere. Jack non riusciva neppure a biasimare il ragazzo per il suo desiderio di lasciare Fairley, tuttavia non poteva assolutamente permettergli di farlo. Il dottor Malcolm non aveva detto nulla di particolare riguardo la salute di Elizabeth, ma Jack non aveva bisogno di essere un medico per capire ciò che stava accadendo. Elizabeth stava morendo. La partenza di Winston avrebbe costituito per lei il colpo di grazia.
Era il suo figliolo preferito, forse perché era il maggiore o perché aveva preso tanto da lei. Jack non osava permettergli di andarsene né riusciva a decidersi a spiegargliene il motivo. «E lui sceglie sempre il momento peggiore per parlarne», borbottò fra i denti mettendo il parafuoco davanti al camino. Per un attimo si appoggiò alla mensola, sopraffatto dalla disperazione.
Era la disperazione per Elizabeth, così maltrattata dalla vita, disperazione per i suoi figli che sarebbero rimasti senza mamma prima dello sciogliersi delle ultime nevi.
Si sentì sfiorare il braccio e capì che era Emma. Deglutì faticosamente, la gola stretta dal dolore, quindi si raddrizzò cercando di sorridere. «Sì, tesoro che c'è?»
«Sarà meglio che tu salga subito a vedere la mamma se non vuoi fare tardi, papà.»
«Sì, ragazza mia, mi lavo le mani e salgo.» Si avvicinò al lavello dove Winston stava asciugando le tazze. «Sali a salutare tua madre, ragazzo mio. Ti raggiungo fra un attimo. Sai anche tu come se la prende se non saliamo tutti a salutarla prima di uscire.» Winston annuì nervosamente e imboccò le scale.
Jack guardò Emma in piedi davanti ai fornelli, con il bollitore in mano. «Ti prenderai un malanno con quella camicia, Emma, e quello scialletto è troppo leggero. Sarà meglio che vada a vestirti.
Finisco io qui.»
«Sì, papà, ho finito», replicò Emma mentre un sorriso radioso le illuminava il viso solitamente grave. I suoi occhi profondi scintillavano come due smeraldi e Jack capì che l'affetto della figlia per lui era intatto. La ragazza attraversò di corsa la stanza e gettò le braccia al collo del padre sussurrandogli: «Ci vediamo sabato prossimo, pa'». Travolto da un'ondata di tenerezza Jack la trattenne contro di sé in una stretta protettiva.
«Certo, tesoro, e abbi cura di te, mi raccomando.» Prima che avesse tempo di rendersene conto Emma si era divincolata dalla sua stretta, aveva attraversato come una freccia la stanza ed era scomparsa. Jack si trovò solo in cucina.
Con un sospiro prese il soprabito dal gancio dietro la porta e tastò nelle tasche alla ricerca delle striscette di cuoio che usava per fermare i pantaloni alle caviglie in modo da impedire che la polvere si insinuasse su per le gambe. Poi, mentre le legava con gesti esperti, si chiese se dovesse dire a Elizabeth di essersi licenziato dalla cava. Era stata una decisione dura da prendere, dal momento che il lavoro scarseggiava e già in molti erano disoccupati. Per giunta a Jack piaceva lavorare all'aria aperta quantunque gettare la viscida creta bagnata negli stampi per dieci ore al giorno non fosse certo uno scherzo. Il duro lavoro non gli faceva paura, ciò che non gli andava era la paga che gli davano e quel venerdì sera se ne era lamentato con Stan, il capomastro. «Diciotto scellini e dieci sono ben poca cosa da portare a casa a fine settimana, Stan. E io sono sposato con tre figli. Certo, per questo non posso biasimare altri che me, lo so bene, ma quel fottuto vecchio Fairley ci paga dei salari da fame. Proprio così, Stan, e tu lo sai», gli aveva detto con sorda violenza.
Stan aveva scosso la testa e sebbene le sue parole fossero piene di comprensione non se l'era sentita di incontrare lo sguardo di Jack. «Già, già, Jack, c'è qualcosa di vero in quello che dici. Un vero peccato, proprio così. Ma pensa che anche i capisquadra guadagnano poco più di venti scellini la settimana. Io stesso non ne prendo di più. Non posso farci nulla. Prendere o lasciare, amico.» Jack aveva lasciato e il sabato mattina aveva ingoiato il suo orgoglio e si era recato con il cappello in mano alla fabbrica Fairley. Laggiù aveva parlato con Eddie, il caporeparto, suo amico fin dall'infanzia, che lo aveva assunto a venti scellini la settimana. Non era molto, ma era sempre un miglioramento.
Così quella mattina Jack aveva riflettuto se parlarne a Elizabeth, ma alla fine aveva deciso di non farne nulla.
La moglie sapeva che odiava il lavoro in fabbrica e darle quella notizia sarebbe servito soltanto ad aggravare le sue condizioni.
Non le avrebbe detto nulla finché non fosse stato un fatto compiuto. Una sola cosa lo consolava. La fabbrica si trovava in fondo al villaggio, nella valle sulle sponde del fiume Aire, a soli dieci minuti di cammino dal cottage. Sarebbe stato vicino se Elizabeth avesse avuto bisogno di lui, se ci fosse stata un'emergenza.
L'orologio della chiesa batté le cinque e Jack balzò in piedi e attraversò la stanza con quella grazia felina che molti uomini alti possiedono senza rendersene conto.
Giunto in camera trovò Emma, già vestita, accanto al letto insieme con Winston e con Frank. Formavano un ben misero terzetto con i loro abiti consunti e rammendati. Eppure, nonostante la palese povertà, ciascuno dei ragazzi aveva in sé qualcosa di indefinito, di dignitoso che rendeva insignificante ciò che indossava. Vedendo entrare Jack i ragazzi si mossero per fargli posto.
Elizabeth giaceva su una montagna di cuscini, pallida ed emaciata, ma l'espressione febbrile che l'aveva divorata poco prima era scomparsa per lasciare posto a una relativa serenità.
Emma le aveva lavato il viso e pettinato i capelli e lo scialle azzurro che le aveva avvolto attorno alle spalle metteva in risalto il colore delicato dei suoi occhi stupendi e i capelli sparsi sul cuscino, setosi. Non c'era colore sulle sue guance pallide e alla luce tremula delle candele quel volto sembrò a Jack simile alle statue di avorio intagliato viste in Africa. Nel vedere Jack il viso di Elizabeth si illuminò. Tese le braccia e lo tirò a sé quasi con ferocia, trattenendo il corpo vigoroso del marito contro il suo come se non volesse lasciarlo andare mai più.
«Hai un aspetto infinitamente migliore, Elizabeth, amore mio», disse Jack con un'insolita dolcezza nella voce.
«Mi sento meglio», dichiarò la donna con un'espressione coraggiosa sul viso. «Stasera quando tornerai a casa sarò in piedi e ti farò trovare pronto un bel brodo di montone, con gnocchetti di pasta e pane fresco.»
L'uomo si sciolse dolcemente dall'abbraccio e depose Elizabeth sui cuscini. Mentre fissava quel volto devastato dalla malattia vide la ragazza stupenda che aveva avuto accanto tutta la vita.
Elizabeth lo fissò a sua volta con tale adorazione che il cuore di Jack si strinse per il dolore e per la rabbia nella consapevolezza che non c'era nulla che potesse fare per salvarla.
Ancora una volta provò quello strano impulso, un impulso che negli ultimi tempi si faceva sempre più insistente, di prenderla fra le braccia, di portarla fuori da quella misera stanza e di correre in cima alle colline che lei amava tanto. Lassù sulle vette più impervie dove l'aria era pura e cristallina e il cielo era lo specchio dei suoi occhi, Jack aveva l'inesplicabile sensazione che la crudele malattia sarebbe stata spazzata via dai venti impetuosi facendola rivivere con rinnovato vigore.
Ma le pallide tinte lavanda e le brume vaporose delle lunghe giornate estive erano state travolte dai venti nordici. Se solo fosse stata estate l'avrebbe portata lassù, al Tetto del Mondo come lo chiamava lei, l'avrebbe deposta sopra un cuscino d'erica, tra le tenere felci e le foglie di mirtillo e le sarebbe stato vicino, al riparo dei picchi di Ramsden Crags, scaldandosi al sole.
Ma non era possibile. In quella stagione la terra era fredda e dura per il gelo e le alture erano solitarie e desolate sotto il cielo gonfio di pioggia.
«Amore mio, hai sentito quello che ti ho detto?» La voce di Elizabeth lo scosse dalle sue fantasticherie. «Stasera sarò in piedi e ceneremo tutti insieme davanti al fuoco, come facevamo prima che mi ammalassi.» C'era una nota di nuova vitalità nella voce di Elizabeth e gli occhi le splendevano, indubbiamente per la presenza del marito.
«Invece non devi mettere neppure un piede fuori del letto, amore», l'ammonì lui con voce roca. «Il dottore dice che devi stare a riposo completo. Lily verrà più tardi a occuparsi di te e a preparare la cena per tutti quanti. E adesso promettimi che non farai sciocchezze, amore mio, Prometti.»
«Oh, sei così ansioso, John Harte. Ma te lo prometto, se questo serve a farti stare più tranquillo. Starò a letto.» Elizabeth aveva sempre rifiutato di chiamare il marito con il diminutivo Jack.
Jack si protese verso la moglie, in modo che solo lei potesse sentirlo. «Ti amo, Elizabeth, con tutto il cuore», le sussurrò.
Elizabeth lo guardò e in fondo agli occhi scorse l'amore di un tempo, immutato e immutabile. «Anch'io ti amo, John, fino al giorno della mia morte e anche oltre», gli rispose.
Jack la baciò, senza guardarla, e quando si tirò su dal letto lo fece con gesti rigidi e automatici come se avesse perso il controllo del suo corpo forte. «Vieni, Winston», esclamò attraversando la stanza a grandi passi. «Da' un bacio a tua madre e mettiamoci in cammino. Si sta facendo tardi, ragazzo.»
Imitato dal fratello, Winston salutò la madre e uscì. Rimasta sola nella stanza Emma sedette sulla sponda del letto. «Ti serve nulla prima che vada, ma'?»
Elizabeth scosse il capo. «Il tè era ottimo, tesoro. Non mi serve altro finché non arriva zia Lily. Non ho fame.»
Non ha mai fame. Come fa a rimettersi se non mangia? si chiese Emma, poi con forzata allegria disse: «E va bene, ma', ma devi assolutamente mangiare quello che zia Lily ti porterà.
Devi mantenerti in forze».
Elizabeth sorrise debolmente. «Sta' tranquilla, tesoro.»
«Vuoi che ti spenga la candela?» chiese ancora Emma accingendosi a uscire.
Elizabeth guardò la ragazza con occhi pieni di tenerezza.
«Sì, cara, per favore. Riposerò un po'. Sei una brava ragazza, Emma. Non so che farei senza di te. E adesso corri. Non voglio che tu faccia tardi quando Mrs. Turner ti permette di venirmi a trovare a metà settimana. E fa' la brava, mi raccomando. Mrs. Fairley è una vera signora. Questo è sacrosanto.»
«Sì, ma'», sussurrò Emma ricacciando indietro le lacrime.
Baciò teneramente la madre, riordinò le lenzuola e i cuscini con la solita efficienza e rimboccò le coperte attorno alle spalle di Elizabeth. «Venerdì sera tornando a casa cercherò un po' d'erica da portarti, ma'. Forse fra le rocce ce n'è ancora qualche ciuffo che ha resistito al gelo.»