CAPITOLO SETTIMO
ARROSSIRE.

 

Non molto tempo fa, nell'East End londinese, un padre pakistano assassinò la sua unica figlia che, amoreggiando con un ragazzo bianco, aveva attirato sulLa famiglia un tale disonore da lasciare una macchia cancellabile solo col suo sangue.

La tragedia era accentuata dall'immenso ed evidente amore del padre per la figlia assassinata e dalla cauta riluttanza di amici e parenti (tutti «asiatici», per usare lo sconcertante termine di questi giorni difficili) a condannare il suo atto. Palesemente afflitti, raccontarono ai microfoni delle radio e alle telecamere che capivano il punto di vista del padre e continuarono a sostenerlo anche quando si venne a scoprire che in realtà la ragazza con il suo boyfriend non era mai «andata sino in fondo». Questa storia mi sgomentò quando la udii, e mi sgomentò per ragioni abbastanza ovvie. Da poco tempo ero diventato padre ed ero quindi in grado di valutare di quale forza colossale avesse bisogno un uomo per volgere la lama di un coltello contro la carne della propria carne. Ma ancor più sgomentante fu il rendermi conto che anch'io, come gli amici ecc. intervistati, capivo l'assassino. La notizia non suscitava in me ripugnanza. Noi, cresciuti con una dieta d'onore e di vergogna, possiamo ancora comprendere ciò che deve sembrare assurdo a quanti vivono dopo la morte di Dio e della tragedia: che gli uomini sono pronti a sacrificare il loro amore più caro sugli altari del proprio orgoglio. (E non soltanto gli uomini. Ho saputo in seguito di una donna che commise il medesimo delitto per le medesime ragioni.) E tra la vergogna e la spudoratezza l'asse su cui noi ruotiamo; su entrambi questi poli le condizioni meteorologiche sono le più estreme, le più feroci. Spudoratezza e vergogna: le radici della violenza. La mia Sufiya Zinobia nacque dal cadavere di quella ragazza assassinata, anche se lei (non abbiate paura) non verrà ammazzata da Raza Hyder. Volendo scrivere sulla vergogna, fui dapprima ossessionato dallo spettro immaginato di quel corpo morto, con la gola tagliata come un pollo halal, che giaceva in una notte londinese su un passaggio pedonale a strisce, crollata sul nero e bianco, nero e bianco, mentre sopra di lei lampeggiava un segnalatore, arancione, non arancione, arancione.

Immaginavo che il delitto fosse stato compiuto proprio lì, pubblicamente, ritualmente, con tanti occhi alle finestre. E non una bocca s'aprì a protestare. E quando i poliziotti bussarono alle porte, che speranza d'aiuto potevano avere? L'imperscrutabilità dei visi «asiatici» sotto gli occhi del nemico. Sembrava che persino gli insonni alla finestra avessero chiuso le palpebre e non avessero visto nulla. E il padre rimase col suo nome purificato dal sangue e con il suo dolore.

Arrivai persino a dare un nome alla ragazza morta: Anahita Muhammad, detta Anna. Nella mia immaginazione parlava con l'accento di East London, ma portava i jeans blu marrone rosa, per un'atavica riluttanza a mostrar le gambe. Capiva sicuramente la lingua che i suoi genitori parlavano in casa, ma si rifiutava con ostinazione di pronunciarne una sola parola. Anna Muhammad: vivace, sicuramente attraente, forse in misura un po' troppo pericolosa a sedici anni. La Mecca per lei erano le sale da ballo, le ruotanti sfere d'argento, le luci stroboscopiche, i ragazzi. Danzava dietro i miei occhi e il suo carattere cambiava ogni volta che la guardavo: ora ingenua, ora puttana, e poi una terza cosa e una quarta. Ma finì per sfuggirmi, diventò un fantasma, e mi resi conto che per scrivere di lei, della vergogna, dovevo tornare in Oriente, lasciare che questo concetto respirasse la sua aria preferita. Anna, deportata, rimpatriata in un paese che non aveva mai visto, si prese una febbre cerebrale e divenne una specie di idiota.

 

Perché le ho fatto questo? Ma forse la febbre era una bugia, un parto dell'immaginazione di Bilquìs Hyder, al fine di nascondere il danno recato dai ripetuti colpi alla testa: l'odio può trasformare un miracolo andato a male in una creatura priva dei quattro arti. E quella pozione hakimi non sembra molto convincente. Come è difficile inchiodare la verità, specie quando si è costretti a vedere il mondo a fette; le istantanee celano le cose almeno quanto aiutano a capirle. Tutti i racconti sono assillati dai fantasmi dei racconti che sarebbero potuti essere. Anna Muhammad assilla questo libro, ora so che non scriverò mai di lei. E ci sono anche altri spettri, immagini più antiche e ormai ectoplasmiche che collegano la vergogna alla violenza. Questi fantasmi vivono, come Anna, in un paese che non ha nulla di fantasmatico: non lo spettrale «Peccavistan», ma la rispettabile Londra. Ne citerò due: una ragazza aggredita a tarda notte in un treno della metropolitana da un gruppo d'adolescenti è la prima. La ragazza è naturalmente "asiatica", i ragazzi prevedibilmente bianchi. In seguito, ricordando le percosse subìte, non sente rabbia, ma vergogna. Non vuole parlare di ciò che è accaduto, non presenta denunce formali, spera che la storia non si diffonda: è una reazione tipica e la ragazza non è un'unica ragazza ma tante. Guardando le città fumanti sul mio televisore, vedo gruppi di giovani che corrono per le strade, con la vergogna che brucia sulle loro fronti, e danno fuoco a negozi, scudi di poliziotti, automobili. Mi ricordano la mia ragazza anonima. Umiliate la gente per un periodo abbastanza lungo e ne esplode una furia. Poi, mentre guardano i disastri prodotti dalla loro rabbia, appaiono sconcertati, ottusi, giovani.

Abbiamo fatto noi queste cose? Proprio noi? Ma noi siamo ragazzi normali, perbene, non sapevamo di poter... poi, lentamente, nasce in loro l'orgoglio, l'orgoglio del loro potere, dell'aver imparato a ribattere. E io immagino cosa sarebbe accaduto se una simile furia si fosse potuta liberare nella ragazza della metropolitana; come avrebbe picchiato i ragazzi bianchi sino a far sfiorare loro la morte, spaccando braccia gambe nasi palle, senza sapere da dove veniva questa violenza, senza capire come faceva lei, con quella figura così esile, a disporre di una forza così terrificante. E loro, cosa avrebbero fatto? Come raccontare ai poliziotti di essere stati picchiati da una ragazza qualunque, da una debole femmina sola contro tutti loro? Come guardare anco ra in faccia i compagni? è un'idea che mi riempie d'allegria: è una cosa affascinante, serica, questa violenza, sì, lo è davvero. Non ho mai dato un nome a questa seconda ragazza. Ma c'è anche lei adesso all'interno di Sufiya Zinobia, e la riconoscerete quando salterà fuori.

L'ultimo fantasma all'interno della mia eroina è un maschio, un ragazzo conosciuto in un ritaglio di giornale. Voi forse avete letto qualcosa di lui, o almeno del suo prototipo; lo trovarono che bruciava in un parcheggio, con tutta la pelle in fiamme. Morì ustionato e gli esperti che esaminarono il suo corpo e il luogo dell'incidente furono costretti ad ammettere ciò che sembrava impossibile: e cioè che il ragazzo aveva preso fuoco spontaneamente, senza versarsi petrolio addosso o applicare qualsiasi altro tipo di fiamma esterna. Noi siamo energia; siamo fuoco; siamo luce. Avendo trovato la chiave, essendo entrato con questa nella verità, un ragazzo cominciò a bruciare. Basta. Dieci anni sono trascorsi nella mia storia mentre io vedevo fantasmi. Ma un'ultima parola sull'argomento: la prima volta che mi sedetti a riflettere su Anahita Muhammad, mi tornò in mente l'ultima frase del Processo di Franz Kafka, la frase in cui Josef K. viene accoltellato a morte. La mia Anna, come il Josef di Kafka, è morta sotto un coltello. Sufiya Zinobia Hyder no; ma quella frase, il fantasma d'un'epigrafe, incombe egualmente sulla sua storia: «"Come un cane", disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere».

 

L'anno del ritorno degli Hyder da Q., la capitale era ormai cresciuta, Karachi era diventata grassa, e chi era già lì all'inizio non riusciva più a riconoscere la snella adolescente città della propria giovinezza in questa obesa vecchiaccia di una metropoli. Le grandi pieghe carnose della sua interminabile espansione avevano inghiottito le paludi salate d'un tempo e lungo tutte le cave di sabbia erano spuntate, come foruncoli, le case sulla spiaggia dei ricchi vistosamente dipinte. Le strade erano riempite dalle facce abbuiate di giovani che, attirati dal fascino già sfiorito di questa dipinta signora, avevano poi scoperto che il suo prezzo era troppo alto per loro; c'era sulla loro fronte qualcosa di puritano e di violento e faceva paura camminare nel caldo tra queste delusioni. La notte racchiudeva contrabbandieri che correvano in scooter-risciò verso la costa, e al potere c'era, naturalmente, l'esercito. Raza Hyder scese dal treno venuto da occidente avvolto nelle voci. Era il periodo immediatamente successivo alla sparizione dell'ex primo ministro Aladdin Gichki, finalmente liberato dalla prigione per mancanza di solide prove a suo danno; visse poi tranquillo con moglie e cane per qualche settimana, sino al giorno in cui uscì per portar fuori l'alsaziano e non fece più ritorno, sebbene le sue ultime parole a begum Gichki fossero state: «Di' alla cuoca di fare una dozzina di polpette in più per cena, ho una fame da morire oggi». Le polpette, dall'uno al dodici, fumavano speranzose su un piatto, ma qualcosa doveva aver guastato l'appetito a Gichki, perché non le mangiò mai. O forse non aveva saputo resistere ai morsi della fame e aveva invece mangiato l'alsaziano, perché neanche il cane fu più ritrovato, nemmeno un pelo della sua coda. Il mistero Gichki continuava ad affiorare nelle conversazioni, e anche il nome di Hyder entrava spesso in queste chiacchiere, forse perché era ben noto l'odio reciproco tra Gichki e il santone Maulana Dawood e non era un segreto neppure la stretta amicizia tra Dawood e Hyder. Strane storie filtravano da Q. a Karachi e persistevano a lungo nell'aria condizionata della città. Secondo la versione ufficiale, il periodo di potere di Hyder all'ovest era stato un completo successo e la sua carriera continuava il proprio cammino ascensionale. Il brigantaggio era stato eliminato, le moschee erano piene, gli organi dello stato erano stati epurati dal gichkismo e dal morbo della corruzione e il separatismo era finito. Vecchio Rasoio era adesso generale di brigata... ma, come amava dire Iskander Harappa a Omar Khayyam Shakil quando erano entrambi brilli: «Mettimelo in bocca, yaar, ma tutti sanno che quei tribali laggiù continuano a scatenarsi perché Hyder si limita ad appendere per le palle degli innocenti». Si sussurrava anche di dissapori coniugali in casa Hyder. Persino a Rani Harappa, nel suo esilio, arrivavano voci di dissensi, della bambina idiota che la madre chiamava "Vergogna" e trattava come fango, della lesione interna che rendeva impossibili altri figli e che stava conducendo Bilquìs in bui corridoi destinati a sfociare in un crollo nervoso, ma lei, Rani, non sapeva come parlare a Bilquìs di queste cose, e il ricevitore del telefono rimaneva intatto sul suo gancio. Di certe cose non si parlava. Nessuno accennava mai a un ragazzo dalla bocca carnosa di nome Sindbad Mengal o faceva congetture sulla paternità della minore delle ragazze Hyder... Il generale di brigata Raza Hyder fu condotto direttamente dalla stazione allo studio personale del presidente, il feldmaresciallo Mohammad A., dove, secondo certe voci, fu abbracciato con affetto e gli si fecero ganascini in segno d'amicizia, mentre altri insinuavano che la folata d'aria rabbiosa che veniva dai buchi delle serrature di quella stanza era così intensamente calda che Raza Hyder, in piedi sull'attenti davanti al suo offesissimo presidente, doveva esserne stato malamente strinato. Quel che è certo è che uscì dall'udienza presidenziale ministro dell'istruzione, dell'informazione e del turismo, mentre qualcun altro salì sul treno per l'ovest ad assumere il governatorato di Q. E le sopracciglia di Raza Hyder rimasero intatte.

Rimase intatta anche l'alleanza tra Raza e il Maulana Dawood, che aveva accompagnato gli Hyder a Karachi e che, una volta installato nella residenza ufficiale del neo-ministro, si distinse immediatamente varando una fragorosa campagna contro il consumo di gamberi e granchi, che, cibandosi di rifiuti, erano impuri come i maiali e che, benché comprensibilmente irreperibili nella remota Q., erano invece abbondanti e popolari nella capitale sul mare. Per il Maulana era profondamente offensivo vedere questi mostri corazzati degli abissi liberamente disponibili nei mercati del pesce e riuscì ad assicurarsi l'appoggio dei santoni cittadini che non sapevano come opporsi. I pescatori locali s'accorsero che le vendite dei crostacei cominciavano a calare in misura allarmante e furono quindi costretti a contare più che mai sui redditi assicurati dall'importazione clandestina di merci di contrabbando.

Bevande alcoliche e sigarette sostituirono i granchi nelle stive di molti sambuchi. Ma né l'alcool né il tabacco arrivavano mai alla residenza degli Hyder. Dawood irrompeva senza preavviso negli alloggi della servitù per accertarsi che fosse Dio a comandare. "Anche una città infestata di mostruosità", garantiva a Raza Hyder, «può essere purificata con l'aiuto dell'Onnipotente». Tre anni dopo il ritorno di Raza Hyder da Q., fu chiaro che la sua stella era ormai segretamente in declino, perché le voci provenienti da Q. (Mengal, Gichki, tribali appesi per le palle) non si spegnevano mai del tutto; sicché quando la capitale fu spostata da Karachi e trasferita nella limpida aria di montagna del nord, installandosi in nuovi orribili edifici appositamente costruiti con questo scopo, Raza Hyder rimase sulla costa. Il ministero dell'istruzione dell'informazione e del turismo si spostò a nord con il resto del governo; ma Raza Hyder (per parlarci chiaro) fu messo alla porta. Tornò così a compiti militari e gli fu affidata la carica senza avvenire di comandante dell'Accademia d'addestramento dell'esercito. Gli permisero di conservare la sua casa, ma Dawood gli disse: «Che importanza ha se hai ancora i tuoi muri di marmo? Hanno fatto di te un granchio in un guscio di marmo. Na-pak: impuro». Ma abbiamo fatto un salto troppo lungo; è tempo di concludere le nostre osservazioni sulle voci e sui crostacei. Sufiya Zinobia, l'idiota, sta arrossendo. Le ho fatto questo, credo, per renderla pura. Non mi è venuto in mente un altro modo per creare purezza in quella che dovrebbe essere la Terra dei puri... e gli idioti sono innocenti per definizione. è un uso troppo romantico della menomazione mentale? Può darsi; ma è troppo tardi per questi dubbi. Sufiya Zinobia è cresciuta, più lentamente nella mente che nel corpo, e, proprio a causa di questa lentezza, per me resta in certo qual modo pulita anche in un mondo sporco. Guardate come, crescendo, accarezza il ciottolo che tiene in mano senza poter dire perché la bontà sembri risiedere in quella pietra liscia e piatta; come s'illumina di piacere quando sente parole affettuose, che pure sono quasi sempre destinate a qualcun altro... Bilquìs riversava tutto il suo affetto sulla figlia minore, Naveed. «Buone Notizie» il nomignolo le è rimasto, come una smorfia nel vento, era inzuppata da questo monsone d'amore, mentre Sufiya Zinobia, il fardello dei suoi genitori, la vergogna di sua madre, rimaneva asciutta come un deserto. Piovevano invece su di lei gemiti e insulti, persino i colpi furiosi dell'esasperazione; ma erano piogge che non producevano umidità. Il suo spirito inaridiva per mancanza d'affetto ma, quando l'amore era nelle vicinanze, riusciva egualmente a illuminarsi felice per la semplice prossimità di questa cosa tanto preziosa. E poi arrossiva. Ricorderete che arrossì appena nata. Dieci anni dopo, i suoi genitori erano ancora sconcertati da queste vampate, da questi rossori simili a fiamme. La spaventosa incandescenza di Sufiya Zinobia era stata apparentemente accentuata dagli anni nel deserto a Q. Quando gli Hyder resero l'obbligatoria visita di cortesia a Bariamma e alla sua tribù, la vecchia signora si chinò a baciare le bambine e si spaventò scoprendo che le sue labbra erano state strinate da un'improvvisa vampata di calore sulla guancia di Sufiya Zinobia; l'ustione era tale da richiedere una settimana di applicazioni di una pomata per le labbra, due volte al giorno. Lo scorretto comportamento dei meccanismi termostatici della bimba destò in sua madre quella che sembrava una collera abituale: «Quella deficiente», gridò Bilquìs sotto lo sguardo divertito di Duniyad Begum e delle altre, «non guardatela neanche! Ma cos'è questa storia? Basta che uno le metta gli occhi addosso o le dica due parole e diventa subito rossa come un peperoncino! Quale bambina normale s'infiamma come una barbabietola sino a farsi puzzare i vestiti di bruciato? Ma non c'è niente da fare, è riuscita male, e noi non possiamo far altro che sorridere e sopportare».

Anche la delusione degli Hyder per la loro figlia maggiore si era indurita sotto i raggi meridiani del deserto diventando spietata come quel sole che frigge persino l'ombra. Il disturbo era reale. La signorina Shahbanou, la ayah parsi che Bilquìs aveva assunto appena tornata a Karachi, si lamentò, sin dal primo giorno in cui fece fare il bagno a Sufiya Zinobia, che l'acqua le aveva scottato le mani, essendo stata portata quasi all'ebollizione da una rossa fiamma d'imbarazzo che si estendeva dalle radici dei capelli della poverina sino alle dita contratte dei suoi piedi. Per parlar chiaro: Sufiya Zinobia arrossiva incontrollabilmente ogni volta che qualcun altro s'accorgeva della sua presenza nel mondo. Ma arrossiva, credo, anche per il mondo.

Permettetemi di formulare un sospetto: la febbre cerebrale che rese Sufiya Zinobia preternaturalmente sensibile a tutte le cose che fluttuavano nell'etere le permetteva anche d'assorbire, come una spugna, una quantità di sentimenti non sentiti. Dove credete che vadano? Intendo dire le emozioni che avremmo dovuto provare e non abbiamo provato - come il pentimento per una parola dura, il rimorso per un delitto, l'imbarazzo, la vergogna? Cercate di immaginare la vergogna come un liquido, diciamo una bibita dolce, frizzante, che rovina i denti, contenuta in un distributore automatico. Premete il bottone giusto e scende con un tonfo una tazza sotto un flusso pisciante di liquido. Come premere il bottone? Non ci vuol niente. Basta dire una bugia, andare a letto con un ragazzo bianco, nascere del sesso sbagliato. Ed ecco che sgorga questa gorgogliante emozione e puoi berla a sazietà... ma quanti esseri umani non vogliono seguire queste semplici istruzioni! E fanno cose vergognose: bugie, dissolutezze, mancanza di rispetto per i propri vecchi, disamore per la bandiera nazionale, votazioni scorrette alle elezioni, eccessi a tavola, rapporti sessuali extraconiugali, contrabbando, fiaschi agli esami, romanzi autobiografici, barano alle carte, maltrattano le donne, sbagliano la battuta in una fase cruciale di un importante incontro di cricket: e le fanno senza vergogna. Che succede allora di questa vergogna non sentita? Delle tazze non bevute?

Pensate ancora al distributore automatico. Il bottone è stato premuto, ma ecco che la mano spudorata interviene e tira via la tazza! Chi ha premuto il bottone non può più bere ciò che ha ordinato; e il fluido della vergogna trabocca, spargendosi in un lago schiumoso sul pavimento.

Ma stiamo parlando di qualcosa d'astratto, di un distributore automatico totalmente etereo; ed è nell'etere che finisce la vergogna non sentita del mondo. E da lì, sostengo viene travasata nei pochi sfortunati, nei portinai dell'invisibile, e le loro anime sono i secchi in cui gocciola ciò che è traboccato. Questi secchi li conserviamo in credenze particolari. E non ne abbiamo una grande opinione, anche se depurano le nostre acque sporche.

 

Insomma, Sufiya la deficiente arrossiva. Sua madre disse ai parenti riuniti: «Lo fa per attirare l'attenzione. Oh, non potete immaginare cosa sia, che disordine, che angoscia, e per che cosa? Per non riceverne la minima ricompensa. Niente. Ringrazio Dio di avere Buone Notizie». Ma, imbecille o no, Sufiya Zinobia - arrossendo furiosamente ogni volta che sua madre guardava di traverso suo padre - rivelò agli occhi attenti della famiglia che tra quei due stava per succedere qualcosa. Sì. Gli idioti queste cose le sentono.

 

L'arrossire è un lento bruciare. Ma è anche un'altra cosa: è un evento psicosomatico. Cito: «Una chiusura improvvisa delle anastomosi arterio-venose del viso inonda i capillari di sangue, producendo la caratteristica intensificazione del colorito. Coloro che non credono negli eventi psicosomatici e non credono che la mente possa influenzare il corpo attraverso sentieri nervosi diretti dovrebbero riflettere sul

 

rossore, che in persone di accentuata sensibilità può essere provocato persino dal ricordo di una situazione imbarazzante in cui si sono trovate, e che è uno dei più chiari esempi di predominio dello spirito sulla materia che si possano desiderare». Come gli autori di queste parole, il nostro eroe, Omar Khayyam Shakil, esercita la professione del medico. Per di più è interessato all'azione dello spirito sulla materia: per esempio, al comportamento sotto ipnosi; alle automutilazioni in stato di trance di quei fanatici sciiti che Iskander Harappa chiama sprezzantemente «cimici»; ai rossori. Di conseguenza non passerà molto tempo prima che Sufiya Zinobia e Omar Khayyam, paziente e medico, futura moglie e futuro marito, si incontrino. è indispensabile; perché quella che voglio raccontare è e non si può definirla altrimenti, una storia d'amore. Un rapporto su ciò che accadde quell'anno, il quarantesimo della vita di Isky Harappa nonché di Raza Hyder, dovrebbe probabilmente iniziare nel momento in cui Iskander venne a sapere che suo cugino Piccolo Mir si era ingraziato il presidente e stava per essere elevato a un'alta carica. Appresa la notizia, saltò subito giù dal letto, ma Pinkie Aurangzeb, padrona del letto e fonte di questa informazione, non si mosse, pur sapendo che per lei era scoppiata una crisi e che il suo corpo quarantatreenne, che Isky aveva scoperto saltando giù dal letto senza mollare il lenzuolo, non irradiava più quel tipo di luce che sapeva distrarre le menti degli uomini qualunque cosa li stesse ossessionando. «Merda sulla tomba di mia madre», gridò Iskander Harappa, «prima fanno ministro Hyder e adesso lui. La vita diventa seria quando un uomo s'avvicina ai quaranta». «Le cose cominciano ad avvizzire», pensò Pinkie Aurangzeb restando sdraiata a fumare undici sigarette consecutive, mentre Iskander camminava su e giù per la stanza avvolto nel lenzuolo. Accese la dodicesima, mentre Isky lasciava cadere distrattamente il lenzuolo. Lo vide allora nella nudità dei suoi anni migliori, vicino a rompere qualsiasi legame col proprio presente e a volgersi verso il futuro. Pinkie era vedova; il vecchio maresciallo Aurangzeb aveva finalmente tirato le cuoia, e ora le sue serate non erano più eventi così essenziali e da qualche tempo i pettegolezzi cominciavano a lambirla. «I greci antichi», disse improvvisamente Iskander, facendo spandere a Pinkie la cenere della sigaretta, «non registravano alle Olimpiadi i nomi dei secondi arrivati». Poi si vestì in fretta, ma con quel meticoloso dandysmo che le era sempre piaciuto, e la lasciò per non tornare mai più; quella frase fu l'unica spiegazione che lei poté mai avere. Ma negli anni del suo isolamento la elaborò e capì che la Storia aveva atteso a lungo che Iskander Harappa s'accorgesse di Lei, e un uomo che attira l'attenzione della Storia si trova legato a un'amante cui non potrà mai sfuggire. La Storia è selezione naturale. Versioni mutanti del passato lottano per prevalere; si presentano nuove specie di fatti e le vecchie verità radicate finiscono al muro, con gli occhi bendati e l'ultima sigaretta in bocca.

Solo le mutazioni dei forti sopravvivono. I deboli, gli anonimi, i vinti lasciano poche tracce: contorni di campi, teste di scuri, brocche rotte, tumuli sepolcrali, il ricordo sempre più sbiadito della loro bellezza giovanile. La Storia ama solo coloro che la dominano: è un rapporto di reciproco asservimento. Non c'è spazio in lei per Pinkie; e nemmeno, secondo Isky, per quelli come Omar Khayyam Shakil. Gli Alessandri rinati, gli aspiranti campioni olimpici devono sottoporsi ai più severi allenamenti. Così, dopo aver lasciato Pinkie Aurangzeb, Isky Harappa giurò anche di astenersi da tutto il resto che poteva distrarre il suo spirito. Sua figlia Arjumand avrebbe sempre ricordato che da allora aveva rinunciato alla teresina, allo chemin de fer, alle serate intorno a una roulette, a truccare le corse dei cavalli, alla cucina francese, all'oppio e ai sonniferi; che aveva perso l'abitudine di cercare sotto le tavole dei banchetti cariche d'argenteria le caviglie eccitate e le ginocchia compiacenti delle bellezze del gran mondo e che aveva smesso di render visita alle puttane che amava riprendere con una cinepresa Paillard Bolex a otto millimetri mentre compivano, isolate o in trio, sulla sua persona o su quella di Omar Khayyam, i loro languidi riti odorosi di muschio. Fu l'inizio di una carriera politica leggendaria, culminata con la vittoria sulla morte. Questi primi trionfi, essendo soltanto vittorie su se stesso, furono necessariamente meno clamorosi.

Espunse dal suo pubblico vocabolario urbano il suo enciclopedico repertorio di oscene e vigorose bestemmie paesane, di imprecazioni capaci di far volar via bicchieri di vetro tagliato colmi sino all'orlo dalle mani degli uomini e di ridurli in frantumi prima che toccassero il pavimento. (Ma quando faceva comizi nei villaggi lasciava che l'aria ridiventasse verde per le oscenità, conoscendo il potere di attirar voti di un linguaggio sboccato.) Soffocò per sempre l'acuta risatina della propria inattendibile personalità di playboy, sostituendola con una ricca risata a piena gola da uomo di stato. Cessò di scherzare con le domestiche nella sua casa di città. Quale uomo sacrificò mai tanto per il proprio popolo? Rinunciò alle lotte dei galli, ai combattimenti degli orsi, ai duelli tra serpenti e manguste; nonché alle serate danzanti in discoteca e a quelle che trascorreva una volta al mese nella casa del censore cinematografico, per assistere a speciali montaggi dei brani più piccanti espunti dai film stranieri importati. Decise anche di rinunciare a Omar Khayyam Shakil. «Quando si presenterà quel degenerato,» ordinò Iskander al suo portinaio, «butta fuori quel badmash sulle sue chiappe di ciccione e guardalo rimbalzare.» Dopo di che si ritirò nella propria camera rococò bianca e dorata nel fresco cuore della sua dimora nella .Difesa" un edificio in cemento armato e placcato di pietre che assomigliava a un radiogrammofono Telefunken a piani sfalsati, e s'immerse nella meditazione. Ma per un lungo periodo, sorprendentemente, Omar Khayyam non telefonò e non andò a trovare il suo vecchio amico. Trascorsero quaranta giorni prima che il medico potesse rendersi conto del cambiamento sopravvenuto nel suo mondo spensierato e privo di vergogna... Chi siede ai piedi di suo padre mentre altrove Pinkie Aurangzeb invecchia in una casa vuota? Arjumand Harappa: a tredici anni e con un'espressione di enorme soddisfazione, siede con le gambe incrociate sul pavimento di marmo screziato di una camera da letto rococò, guardando Isky che sta completando il processo della propria rigenerazione; Arjumand, che non ha ancora acquisito il famigerato nomignolo (la «Vergine Mutandediferro») che le rimarrà appiccicato per quasi tutta la vita. Ha sempre saputo, nella precocità dei suoi anni, che all'interno di suo padre c'era un secondo uomo, che cresceva, aspettava e ora è finalmente traboccato, mentre il vecchio Iskander scivola arrugginito e abbandonato sul pavimento, una raggrinzita pelle di serpente in un duro rombo di luce solare. E che piacere le dà questa trasformazione, l'avere finalmente il padre che lei merita! «Ho fatto io questo», dice a Iskander, «l'ho voluto con tanta ostinazione che finalmente sei stato costretto ad aprire gli occhi». Harappa sorride alla figlia, oltre i suoi capelli: «Accade a volte». «Ed è finita con lo zio Omar», aggiunge Arjumand. «Un bel repulisti!». Arjumand Harappa, la Vergine Mutandediferro, passerà sempre da un estremo all'altro. A tredici anni ha già la capacità di odiare; e anche di adulare. Chi odia: Shakil, la grassa scimmia che siede sulla spalla di suo padre, tenendolo nel fango; e poi sua madre, Rani, nella sua Mohenjo delle civette delle tane, l'epitome della sconfitta. Arjumand ha convinto il padre a lasciarla vivere e andare a scuola in città; e per il padre ha una venerazione che confina con l'idolatria. E adesso che il suo culto ha finalmente trovato un oggetto degno di sé, Arjumand non sa trattenere la sua gioia. «Che cosa non farai!», esclama. «Aspetta e vedrai!». Il corpaccio assente di Omar Khayyam porta via con sé le ombre del passato.

Iskander, sdraiato su un letto bianco e oro e immerso in frenetiche fantasticherie, dichiara con improvvisa lucidità: «Il mondo è degli uomini, Arjumand. Sollevati crescendo al disopra del tuo sesso. Questo non è un posto per essere donna». La malinconica nostalgia di queste frasi segna gli ultimi rantoli dell'amore di Iskander per Pinkie Aurangzeb, ma sua figlia lo prende in parola, e quando il seno comincia a gonfiare se lo lega stretto con bende di tela, con una tale ferocia da diventar rossa per il male. Finirà per provar piacere in questa guerra contro il proprio corpo, nella lenta temporanea vittoria sulla morbida carne disprezzata... ma lasciamoli lì, padre e figlia, lei che si sta già costruendo in cuore quel mito alessandrino di Harappa cui potrà dare libero sfogo solo dopo la sua morte, lui che progetta nei concili della sua nuova purezza le strategie del suo futuro trionfo, del suo corteggiamento dell'epoca.

 

Dov'è Omar Khayyam Shakil? Che ne è stato del nostro eroe marginale?

Anche lui, come Pinkie, è invecchiato, è sui quarantacinque adesso.

L'età lo ha trattato bene, inargentandogli i capelli e la barbetta a punta. Ricordiamo che ai suoi tempi era uno studente brillante; e che l'intelligenza dello studioso non è stata offuscata; sarà magari un libertino e un dissoluto, ma è anche la personalità più importante del maggior ospedale cittadino e un immunologo di non trascurabile fama internazionale. Negli anni trascorsi da quando lo abbiamo conosciuto bene per l'ultima volta, ha partecipato a seminari in America, ha pubblicato monografie sulla possibilità che si verifichino eventi psicosomatici entro il sistema d'immunizzazione del corpo, è diventato un uomo autorevole. E ancora grasso e brutto, ma ora veste con una certa distinzione, Iskander gli ha in parte trasmesso le sue brillanti abitudini sartoriali. Omar Khayyam veste sempre di grigio, completi, cappelli, cravatte grigie, scarpe scamosciate grigie, mutande di seta grigia, sperando che questo smorto colore attenui l'effetto sgargiante della sua fisionomia. Porta con sé un regalo del suo amico Iskander: un bastone animato col pomo d'argento proveniente dalla valle di Aansu, trenta centimetri d'acciaio lucente in un involucro di noce elaboratamente inciso. A questo punto dorme soltanto due ore e mezza per notte, ma ogni tanto torna a turbarlo il sogno di cadere dal confine del mondo. A volte lo fa anche da sveglio, perché per quelli che dormono troppo poco può diventare difficile presidiare i confini tra il mondo del sonno e quello della veglia. Ci sono cose che s'infilano tra i paletti non sorvegliati, evitando gli uffici doganali... in queste occasioni lo prende una vertigine spaventosa, come se si trovasse in cima a una montagna che si sta sgretolando, e s'appoggia pesantemente al bastone animato per non cadere. Bisognerebbe aggiungere che il suo successo professionale e la sua amicizia con Iskander Harappa sono serviti a ridurre la frequenza di questi capogiri, e a tenere un po' più saldi per terra i piedi del nostro eroe. Ma ogni tanto la vertigine ritorna, a ricordargli quanto è vicino, e lo sarà sempre, il bordo. Ma dov'è finito? Perché non telefona, non viene in visita non si fa buttar fuori rimbalzando sul sedere? Lo scopro a Q., nella casa fortezza delle sue tre madri, e capisco subito che deve esserci stata una catastrofe, perché nient'altro avrebbe potuto attirare nuovamente Omar Khayyam nella sua città natale. Non ha più messo piede a «Nishapur» dal giorno in cui è partito con i piedi su un blocco di ghiaccio; in sua vece sono stati mandati ordini di pagamento delle banche. Il suo denaro ha compensato la sua assenza... ma ci sono stati anche altri costi. E una fuga non è mai definitiva. La voluta rottura col passato si mescola all'insonnia deliberata delle sue notti; il loro effetto congiunto è di appannare il suo senso morale, di fare di lui una sorta di etico zombi: insomma questo atto di distacco totale lo aiuta a obbedire all'antica ingiunzione delle sue madri: è un uomo che non sente vergogna. Conserva i suoi occhi mesmerici, la sua voce pacata d'ipnotizzatore. Per molti anni Iskander Harappa ha accompagnato questi occhi e questa voce all'International Hotel e ha permesso loro di operare nel suo interesse.

La bruttezza fuori misura, unita agli occhi e alla voce, rende Omar Khayyam affascinante per le donne bianche di un certo tipo. Soccombono alle sue scherzose offerte d'ipnosi, alle sue tacite promesse dei misteri d'oriente; e lui le porta in un appartamento d'albergo e le ipnotizza. Liberate così dalle loro inibizioni, in effetti minime, offrono a Isky e a Omar rapporti sessuali di grande intensità. Shakil difende il proprio comportamento: «è impossibile convincere un soggetto a fare una cosa che non sia disposto a fare». Iskander Harappa, invece, non si è mai preoccupato di trovare scuse... e anche questo è parte di ciò che Isky - senza che Omar Khayyam ne sappia ancora niente - ha abbandonato. Per amore della Storia. Omar Khayyam è a «Nishapur» perché suo fratello, Babar, è morto. Il fratello che lui non ha mai visto, è morto prima di compiere ventun anni, e tutto ciò che rimane di lui è un fascio di sporchi taccuini che Omar Khayyam porterà con sé tornando a Karachi dopo i quaranta giorni di lutto. Un fratello ridotto a un mucchio di parole sbrindellate e scarabocchiate. Babar è stato ucciso e l'ordine di sparargli è stato dato da.. . ma no, prima i taccuini.

 

Quando portarono il suo corpo dalle Montagne impossibili, fetido di capre e di putrefazione, i taccuini trovati nelle sue tasche furono restituiti alla famiglia con molte pagine in meno. Tra i resti sbrindellati di quei brutalizzati quaderni era possibile decifrare una serie di poesie d'amore a una famosa cantante in playback che lui, Babar Shakil, non poteva assolutamente aver mai incontrato. E inframmezzato alle espressioni irregolarmente metriche di questo amore astratto, nelle quali gli inni alla spiritualità della voce di lei mal si mescolavano a versi liberi di una sensualità decisamente pornografica, si trovò un resoconto del suo soggiorno in un precedente inferno, la storia del tormento di essere il fratello minore di Omar Khayyam. L'ombra del figlio maggiore aveva infestato ogni angolo di "Nishapur". Le tre madri, che vivevano ora delle rimesse del dottore e non avevano più rapporti con l'uomo del banco dei pegni, avevano cospirato nella loro gratitudine per fare dell'infanzia di Babar un viaggio immobile in un immutabile santuario, le cui pareti erano impregnate di applausi per il glorioso e lontano primogenito. E poiché Omar Khayyam era di tanto più anziano di lui e aveva da tempo abbandonato quella provincia polverosa nelle cui strade, ora, operai ubriachi dei giacimenti di gas rissavano saltuariamente con minatori a riposo di antracite, bauxite, onice, rame e cromo, e sui cui tetti presiedeva in modo sempre più lugubre la cupola incrinata del Flashman's Hotel, il figlio minore, Babar, aveva la sensazione di essere stato insieme oppresso e abbandonato da un secondo padre; e in quella casa di donne atrofizzate dai troppi ieri festeggiò il suo ventesimo compleanno portando certificati d'esami e medaglie d'oro e ritagli di giornali e vecchi testi scolastici e lettere archiviate e mazze da cricket e, insomma, tutti i ricordi del suo illustre fratello, nell'ombrosa oscurità del cortile centrale e dando fuoco a tutto quanto prima che le sue tre madri riuscissero a fermarlo.

Dopo di che, volte le spalle all'inglorioso spettacolo delle vecchie megere che frugavano tra le ceneri ancor calde per recuperare angoli carbonizzati d'istantanee e medaglie il cui oro era stato trasformato in rame dal fuoco, Babar raggiunse, tramite il montavivande, le strade di Q., con pensieri rallentati dalla incertezza sul proprio avvenire. E mentre vagava senza meta, rimuginando sulle proprie limitate possibilità, cominciò il terremoto. Lo scambiò dapprima per un brivido all'interno del proprio corpo, ma un colpo inflitto alla sua guancia da una minuscola scheggia di penetrante acutezza sgombrò le nebbie dell'assorbimento in se stesso gli occhi dell'aspirante poeta. «Sta piovendo vetro», pensò sorpreso e batté rapidamente le palpebre nella direzione dei viottoli del bazar dove i suoi piedi lo avevano condotto senza che lui se ne fosse accorto, viottoli di piccole baracche dove il suo presunto brivido interiore stava combinando un bel disastro: meloni esplodevano ai suoi piedi, pantofole appuntite cadevano da tremolanti scaffali, gemme e broccati e terrecotte e pettini ruzzolavano alla rinfusa nei vicoli impolverati di vetro. Rimase stupidamente immobile in quel vitreo acquazzone di finestre rotte, incapace di scrollarsi di dosso la sensazione di aver imposto i suoi tumulti personali al mondo che lo circondava e resistendo al folle impulso di afferrare qualcuno, chiunque, nella folla disordinata e spaventata dei borsaioli, dei venditori e degli acquirenti, per scusarsi del guaio che aveva provocato. «Questo terremoto», scrisse Babar Shakil nel suo taccuino, «ha liberato improvvisamente qualcosa dentro di me. Una piccola scossa, ma forse è servita anche a rimettere a posto qualcosa.» Quando il mondo tornò a calmarsi, Babar s'avviò verso un'osteria a buon mercato, facendosi strada tra frammenti di vetro e passando oltre gli strilli del pari penetranti del proprietario; e al suo ingresso (affermava il taccuino), notò con la coda dell'occhio sinistro un uomo alato e scintillante d'oro che lo guardava da un tetto; ma quando alzò il capo, l'angelo era scomparso. In seguito, quando andò sulle montagne con i guerriglieri separatisti, gli raccontarono la storia degli angeli e dei terremoti e del paradiso sotterraneo; la convinzione che gli angeli dorati fossero dalla loro parte dava ai guerriglieri una fiducia incrollabile nella giustizia della propria causa e rendeva loro facile morire per essa. "Il separatismo", scrisse Babar, «è la convinzione di essere sufficientemente buoni per sfuggire alle grinfie dell'inferno.»

Babar Shakil trascorse il suo compleanno ubriacandosi in quell'antro di bottiglie rotte, ed estraendo, più di una volta, lunghe schegge di vetro dalla bocca, sino a trovarsi, al termine della serata, con il mento striato di sangue; ma gli spruzzi di liquore avevano disinfettato i tagli riducendo al minimo i pericoli d'infezione tetanica. Nell'osteria: tribali, una prostituta affetta da glaucoma, girovaghi con trombe e tamburi. Le battute diventavano sempre più grevi col trascorrere della notte, e la miscela di alcool e di buffoneria era un cocktail che causò a Babar postumi di sbornia di proporzioni così colossali che non ne guarì mai più. E che battute! Oscenità del genere ma-che-cosa-stai-dicendo-uomo-qualcuno-potrebbe-sentirti: - Ehi, yaar, sai che quando i bambini vengono circoncisi quello che li circoncide pronuncia parole sacre? - Sì, uomo, lo so. - E che cosa ha detto quando ha circonciso Vecchio Rasoio? - Non lo so, cosa? - Solo una parola, yaar, una parola e poi lo ha buttato fuori! - Dio, deve essere stata una parola ben brutta, uomo, dai, dimmela. - Eccola: «Ops». Babar Shakil in un pericoloso velo di brandy. La comicità gli entra nel sangue, compie una mutazione permanente. - Ehi, uomo, sai cosa dicono di noi tribali?

Troppo poco patriottismo e troppa libidine. Be', è vero, e vuoi sapere perché? - Sì. - Prendiamo per esempio il patriottismo. Numero uno, il governo ci porta via il riso per darlo ai soldati, e noi dovremmo esserne fieri, no, e invece ci lamentiamo perché non ne rimane più per noi. Numero due, il governo estrae minerali e l'economia riceve una spinta, ma noi ci lagniamo perché qui nessuno vede mai un quattrino.

Numero tre, il gas di Needle copre ora il sessanta per cento del fabbisogno nazionale, eppure non siamo contenti, gemiamo in continuazione perché da queste parti non c'è gas a disposizione per gli usi domestici. E allora come potrebbe la gente essere patriottica? devi ammetterlo. Ma per fortuna il nostro governo ci vuole ancora bene, tant'è vero che ha fatto della nostra libidine la massima priorità nazionale. - In che modo? - Ma è evidente: questo governo è tutto contento di continuare a fotterci sino al giorno del giudizio. «Oh, è troppo bella, yaar, troppo bella!». L'indomani Babar uscì di casa prima dell'alba per unirsi ai guerriglieri e la sua famiglia non lo rivide più vivo. Dalle casse senza fondo di «Nishapur» recuperò un vecchio fucile con relative scatole di cartucce, più qualche libro e una delle medaglie accademiche di Omar Khayyam che il fuoco aveva trasformato in vile metallo; sicuramente per ricordare a se stesso le cause del proprio atto di separatismo e le origini di un odio così potente da provocare un terremoto. Nel suo nascondiglio sulle Montagne impossibili, Babar si fece crescere la barba, studiò la complicata struttura dei clan collinari, scrisse poesie, riposò tra un attacco e l'altro ad avamposti militari e linee ferroviarie e serbatoi d'acqua, e col tempo, grazie alle esigenze di questa disordinata esistenza, riuscì a discutere nei propri taccuini sui meriti relativi del copulare con le pecore e con le capre. C'erano guerriglieri che preferivano la passività delle pecore; altri che trovavano irresistibile la maggiore vivacità delle capre.

Molti compagni di Babar arrivarono a innamorarsi di queste amanti a quattro zampe e, benché ricercati, rischiavano la vita nei bazar di Q.

per acquistare doni destinati alle loro amate: compravano pettini per il loro vello, e anche nastri e campanelli per queste adorate caprette che non si degnavano mai d'esprimere la propria gratitudine. Lo spirito di Babar (se non il suo corpo) era al disopra di queste cose; egli rovesciava la propria riserva di passione non consumata sull'immagine mentale di una cantante pop dei cui lineamenti rimase ignaro sino al giorno della morte, avendola solo sentita cantare da una crepitante radio a transistor. I guerriglieri diedero a Babar un soprannome di cui era smodatamente orgoglioso; lo chiamavano <l'imperatore" in ricordo di quell'altro Babar cui avevano usurpato il trono e che si rifugiò sulle colline con un esercito di pezzenti, finendo poi per fondare quella famosa dinastia di monarchi il cui nome di famiglia è ancora in uso come titolo onorifico conferito ai magnati cinematografici. Babar, il Moghul delle Montagne impossibili... due giorni prima della partenza di Raza Hyder da Q., una sortita guidata personalmente per l'ultima volta dal grande capo, fu responsabile di aver fatto partire il proiettile che avrebbe abbattuto Babar. Ma ciò era irrilevante, perché lui aveva trascorso troppo tempo con gli angeli: lassù, su quelle montagne mutevoli e traditrici, li aveva visti col loro petto d'oro e le loro ali dorate. Arcangeli svolazzavano sopra la sua testa quando montavano di sentinella su un terribile affioramento roccioso. Sì, forse Jibreel in persona si era librato benigno sopra di lui come un elicottero dorato mentre lui violentava una pecora. E poco prima della sua morte, gli altri guerriglieri notarono che la pelle del loro barbuto compagno aveva cominciato ad emettere una luce gialla; e sulle sue spalle erano visibili i piccoli germogli di nuove ali. Era una trasformazione familiare agli abitanti delle Montagne impossibili. «Non resterai molto qui», dissero a Babar con una punta d'invidia nella voce, «stai per andartene, imperatore; finite per te le scopate con le pecore». La trasformazione in angelo di Babar doveva essere già più o meno compiuta al momento della sua morte, quando la sua unità di guerriglieri attaccò un treno merci apparentemente guasto, cadendo così nella trappola di Raza Hyder, perché sebbene diciotto pallottole gli fossero penetrate in corpo, che era un bersaglio facile nella notte, con quel suo giallo risplendere attraverso gli abiti, fu per lui semplicissimo sgusciar fuori dalla sua pelle e librarsi lucente ed alato nell'eternità delle montagne, dove si levò una grande nube di serafini mentre il mondo tremava e rombava, e dove al suono di flauti paradisiaci e di celestiali sarabande a sette corde e dumbì a tre, fu accolto nel ventre elisio della terra. Si racconta che il suo corpo, portato a valle, era inconsistente e leggero come la pelle abbandonata di un serpente, come ciò che cobra e playboy si lasciano alle spalle quando cambiano; se n'era andato, definitivamente, quello stupido. Naturalmente la sua morte non era descritta in nessun taccuino; avvenne nelle dolenti immaginazioni delle sue tre madri, perché, come dissero a Omar raccontando la metamorfosi del loro figlio in angelo, «è nostro diritto fargli dono di una buona morte, di una morte con la quale i vivi possano vivere». Sotto l'impatto della tragedia, Chhunni, Munnee e Bunny cominciarono a sgretolarsi internamente, a diventare mere facciate, esseri incorporei come il cadavere del figlio spogliato della sua pelle.

(Col tempo, però, ripresero animo.) Il corpo fu loro restituito qualche settimana dopo essere stato crivellato da diciotto pallottole.

Ricevettero una lettera su carta intestata ufficiale. «Solo il ricordo dell'antico prestigio della vostra famiglia vi protegge dalle conseguenze della grande infamia di vostro figlio. è nostra opinione che le famiglie di questi banditi abbiano molte cose di cui render conto».

La lettera era stata firmata, prima della sua partenza, dall'ex governatore Raza Hyder in persona; il quale quindi sapeva di aver ordito la morte del ragazzo che, anni prima, aveva visto intento a guardarlo con un binocolo dalle finestre all'ultimo piano di quella dimora ermeticamente chiusa tra il Cantt e il bazar. Per pura pietà per Omar Khayyam Shakil - per risparmiarci, diciamo, i suoi rossori - non descriverò la scena che si svolse davanti al portone della casa di città degli Harappa quando il dottore vi tornò finalmente in taxi con i taccuini del fratello in mano. Che lo abbiano fatto rimbalzare nella polvere è sufficiente; ci basta dire che sotto il freddo peso della ripulsa di Iskander, Omar Khayyam ebbe un attacco di vertigini talmente grave da vomitare sul sedile posteriore del taxi. (E anche su questo stendo uno schifiltoso velo.) Ancora una volta altri avevano agito e agendo avevano foggiato la storia della sua vita: la fuga di Babar, le pallottole di Hyder, l'elevazione di Mir Harappa e la conseguente alterazione nell'animo di Iskander si tradussero, per quanto riguarda il nostro eroe, in un personale calcio sui denti. In seguito, a casa sua "non abbiamo ancora messo piede nell'abitazione di Shakil: un appartamento privo d'attrattive in uno dei più vecchi quartieri residenziali cittadini, quattro stanze degne di nota solo per l'assenza quasi totale di qualsiasi mobile non assolutamente essenziale, come se Shakil divenuto adulto avesse inteso ribellarsi all'incredibile guazzabuglio della casa delle sue madri, in nome dell'ascetismo a pareti nude del padre che si era scelto, lo scomparso maestro Eduardo Rodrigues con la sua gabbia per uccelli. Un padre è insieme un monito e un allettamento), che l'offesissimo taxista lo aveva costretto a raggiungere puzzolente e a piedi, si mise subito a letto, sfibrato dal caldo e con la testa che ancora gli girava; posò un fascio di sbrindellati taccuini sul suo tavolino da notte e, scivolando nel sonno, disse: «Babar, la vita è lunga.» L'indomani tornò a lavorare; e il giorno dopo cominciò a innamorarsi.

 

C'era una volta un pezzo di terra. Godeva di una piacevole posizione nel Primo Lotto della Cooperativa edilizia dei funzionari del ministero della difesa; alla sua destra c'era la residenza ufficiale del ministro nazionale dell'istruzione, dell'informazione e del turismo, un imponente edificio i cui muri erano ricoperti di onice verde con venature rosse, e alla sua sinistra c'era la casa della vedova del defunto capo di stato maggiore generale, maresciallo Aurangzeb. Ma nonostante la posizione e i vicini, questo pezzo di terra rimaneva libero; non vi erano state scavate fondamenta, né si erano erette impalcature per costruire muri di cemento armato. Il pezzo di terra era situato, tragicamente per il suo proprietario, in un piccolo avvallamento; e quando arrivavano i due giorni di pioggia torrenziale di cui godeva annualmente la città, le acque inondavano il terreno e vi formavano un lago melmoso. Questo fenomeno insolito di un lago che esisteva solo due giorni all'anno per poi evaporare sotto i raggi del sole, lasciandosi dietro uno strato sottile di feci e rifiuti trasportati dall'acqua, era sufficiente a scoraggiare tutti i potenziali costruttori, sebbene il terreno, come si è già detto, godesse di una piacevole posizione: l'Aga Khan possedeva la villetta in cima alla collina e nelle vicinanze viveva anche il figlio maggiore del presidente, feldmaresciallo Mohammad A. Fu su questo sfortunato pezzo di terra che Pinkie Aurangzeb decise d'allevare tacchini. Abbandonata dall'amante vivo come dal marito morto, la vedova del maresciallo stabilì di dedicarsi agli affari. Profondamente colpita dal successo del nuovo allevamento di pulcini che la compagnia aerea nazionale aveva cominciato a gestire in batterie ai margini dell'aeroporto, Pinkie decise di puntare su volatili più grossi. I funzionari della cooperativa edilizia non seppero resistere al fascino della signora Aurangzeb (che poteva essere un po' appassito, ma era comunque sin troppo per degli impiegati) e chiusero gli occhi davanti agli stormi di gloglottanti volatili da lei liberati in quel terreno abbandonato e murato. L'arrivo dei tacchini fu considerato dalla signora Bilquìs Hyder un insulto personale. Donna molto nervosa, i cui problemi coniugali, a quanto si diceva, sottoponevano il suo cervello a una crescente tensione, prese l'abitudine d'affacciarsi alle finestre per insultare i rumorosi volatili. «Sciò! Fatela finita, matti! Si è mai visto che dei tacchini facciano tanto baccano vicino alla casa di un ministro! Vedrete se non vi taglierò la gola!». Quando Bilquìs pregò il marito di fare qualcosa con quei tacchini eternamente gloglottanti che stavano distruggendo la poca tranquillità d'animo che ancora le restava, Raza Hyder replicò con calma: «è la vedova del nostro grande maresciallo. Dobbiamo tenerne conto.» Il ministro dell'istruzione, dell'informazione e del turismo era stanco dopo una dura giornata di lavoro durante la quale aveva approvato provvedimenti che legalizzavano il plagio da parte del governo di testi scientifici occidentali; aveva sovrinteso di persona alla distruzione di una di quelle piccole presse portatili che servivano a stampare propaganda illegale contro lo stato, scoperta nel seminterrato di un laureato in arte appena tornato dall'Inghilterra e corrotto da ideologie straniere; e aveva discusso con i maggiori mercanti d'arte cittadini sul crescente problema dei furti di antichità nelle zone archeologiche del paese, e dobbiamo aggiungere che affrontò il problema con tanta sensibilità che i mercanti si sentirono in dovere di fargli dono, in segno di gratitudine per il suo atteggiamento, di una piccola testa in pietra di Taxila, risalente all'epoca della spedizione di Alessandro Magno nel nord. Per farla breve, Raza Hyder non aveva voglia d'occuparsi di tacchini. Bilquìs non aveva dimenticato ciò che un ciccione aveva insinuato tanti anni prima su suo marito e sulla signora Aurangzeb nella veranda di Mohenjo; ricordava anche quando suo marito era stato pronto a legarsi per lei a un paletto conficcato nel terreno; e a trentadue anni stava diventando sempre più petulante. Era l'anno in cui il Loo soffiava più ardente che mai e i casi di febbre e di pazzia erano aumentati del quattrocentoventi per cento... Bilquìs si mise le mani sui fianchi e gridò a Raza, presenti entrambe le figlie: «Oh, è proprio una bella giornata per me!

Adesso mi umilii con i tacchini». La figlia maggiore, la malata di mente, cominciò ad arrossire, poiché era chiaro che i gloglottanti tacchini segnavano un'ennesima vittoria di Pinkie Aurangzeb sulle mogli altrui, l'ultima di queste vittorie, di cui la vincitrice era del tutto ignara. E c'era una volta una figlia ritardata, cui per dodici anni si era fatto credere che incarnava la vergogna di sua madre. Sì, eccomi a te, Sufiya Zinobia, in quel cot, in quel letto enorme con i teli di gomma, in quella residenza ministeriale dai muri di marmo, in una camera al piano di sopra davanti alle cui finestre gloglottavano i tacchini, mentre tua sorella, seduta a una toilette di onice, strillava insultando la ayah che le stava tirando i capelli. A dodici anni Sufiya Zinobia aveva preso la brutta abitudine di strapparsi i capelli. Quando Shahbanou, la ayah parsi, le lavava i riccioli castano scuri, non faceva che strillare e scalciare; e ogni volta la ayah era costretta a smettere prima d'aver sciacquato gli ultimi residui di sapone. La presenza costante del detergente odoroso di legno di sandalo determinò un caso spaventoso di doppie punte e Sufiya Zinobia se ne stava seduta sull'enorme lettino che i suoi genitori avevano fatto costruire appositamente per lei (e che avevano portato da Q. con le sue sterminate lenzuola di gomma e con gigantesche tettarelle per neonati) ed estirpava dalle radici a uno a uno i suoi danneggiati capelli. Lo faceva con solenne sistematicità, come se si stesse infliggendo delle ferite rituali, imitando in questo le «cimici» di Iskander Harappa, i dervisci sciiti nelle processioni del 10 Muharram. E mentre compiva questa operazione c'era nei suoi occhi uno smorto scintillio, barlume di ghiaccio o di fuoco lontano, ben al disotto della loro superficie abitualmente opaca; e al sole la nube dei suoi capelli lacerati formava intorno al suo viso come un'aureola di distruzione. Era l'indomani della scenata di Bilquìs Hyder per i tacchini. Sufiya Zinobia si strappava i capelli sul suo lettino; e Buone Notizie, dal viso piatto come un chapati, era ben decisa a dimostrare che la sua grande e folta criniera era ormai talmente lunga da permetterle di sedercisi sopra. Tirando indietro la testa, gridava alla pallida Shahbanou: «Tira! Più forte che puoi! Cosa stai aspettando, cretina? Tira.» e la ayah, occhi infossati, fragile, cercava di rimboccare le punte dei capelli di Buone Notizie sotto il suo ossuto sedere. Lacrime di sofferenza comparivano negli occhi risoluti della ragazza. «La bellezza di una donna», boccheggiava Buone Notizie, «viene dai suoi capelli. Lo sanno tutti che gli uomini vanno matti per le chiome lucenti che puoi metterti sotto il deretano».

Shahbanou, con voce scialba, affermò: «Non servono a niente, bibi, assolutamente a niente». Buone Notizie prese a pugni la ayah e sfogò poi la propria collera sulla sorella. «Tu. Cosa. Guardati. Chi mai ti sposerebbe con quei capelli anche se avessi un cervello? Rapa.

Barbabietola. Ravanello angrez. Non vedi quanti guai mi procuri strappandoti i capelli? La sorella maggiore dovrebbe essere la prima a sposarsi, ma chi verrà mai a chiedere la sua mano, ayah? è la mia tragedia, lo giuro. Su, dai, tira ancora, e stavolta non far finta che non ci arrivino - no, non badare a quella scema adesso, lasciala con i suoi puzzolenti rossori e con il suo farsela addosso. Tanto lei non capisce, cosa vuoi che capisca, zero.» E Shahbanou, alzando le spalle, insensibile alle percosse di Naveed Hyder: «Non dovresti parlare così di tua sorella, bibi, uno di questi giorni la tua lingua diventerà nera e cascherà per terra,» Due sorelle in una stanza, mentre fuori comincia a soffiare il vento caldo. Si sono chiuse le imposte contro la violenza delle sue raffiche e oltre il muro del giardino i tacchini, nelle grinfie febbrili del gran vento, vengono presi dal panico. Man mano che la furia del Loo aumenta, la casa sprofonda nel sonno. Shahbanou su una stuoia stesa sul pavimento accanto al lettino di Sufiya Zinobia; Buone Notizie, esausta a forza di farsi tirare i capelli, abbandonata sul suo letto di decenne. Due sorelle addormentate: nel sonno della più giovane rivelava la propria bruttezza, venuta meno la ferma decisione delle ore di veglia di essere attraente; mentre l'imbecille perdeva, dormendo, la mite vacuità della propria espressione e l'austero classicismo dei suoi lineamenti sarebbe piaciuto a qualsiasi osservatore. Quale contrasto tra le due fanciulle! Sufiya Zinobia, imbarazzantemente piccola (no, eviteremo a qualunque costo di paragonarla a una miniatura orientale) e Buone Notizie, alta e slanciata. Sufiya e Naveed, vergogna e buone notizie: l'una tarda e taciturna, l'altra vispa e chiassosa. Buone Notizie guardava sfrontatamente in faccia i grandi; Sufiya distoglieva gli occhi. Ma Naveed Hyder era il piccolo angelo di sua madre e la faceva franca ogni volta. «Immaginate,» avrebbe pensato Omar Khayyam anni dopo, «se quel matrimonio scandaloso lo avesse fatto Sufiya Zinobia. Le avrebbero tagliato via la pelle e l'avrebbero mandata al dhobi)». Sentite: avreste potuto prendere tutto l'amore sororale racchiuso nel cuore di Buone Notizie Hyder, metterlo in una busta e spedirlo per posta aerea in qualunque punto del mondo senza pagare più di una rupia, tanto poco pesava... ma dov'ero arrivato? Ah sì, soffiava il vento caldo e il suo ululato era un coacervo di suoni che faceva scomparire qualsiasi altro rumore, quel vento secco che portava malattia e pazzia sulle ali appuntite dalla sabbia, il peggior Loo a memoria d'uomo, che scatenava demoni nel mondo, aprendosi un varco tra le imposte per tormentare Bilquìs con i fantasmi insopportabili del suo passato, e lei, pur tenendo la testa sepolta sotto un guanciale, aveva ancora davanti agli occhi una dorata figura equestre con uno stendardo su cui fiammeggiava una parola spaventosamente enigmatica, Excelsior!

No, neanche il gloglottare dei tacchini era percepibile in quella tormenta, mentre il mondo si metteva al riparo; poi le dita cauterizzanti del vento penetrarono in una camera da letto dove dormivano due sorelle e una di loro cominciò ad agitarsi. è facile dar la colpa a un vento. Forse quella folata pestilenziale ha una sua responsabilità - forse, quando la toccò, Sufiya Zinobia arrossì sotto la sua mano terribile, e arse, e forse fu per questo che si alzò, con occhi bianchi come latte, e lasciò la stanza - ma io preferisco credere che il vento sia stato solo una coincidenza, un pretesto; che ciò che accadde, accadde perché dieci anni di umiliazione senza amore chiedono il loro tributo, anche a un'idiota, e viene sempre il momento in cui una cosa si spezza, anche se non è possibile identificare con certezza quale sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: furono le preoccupazioni di Buone Notizie per il suo matrimonio? O l'indifferenza di Raza di fronte agli strilli di Bilquìs? Impossibile dirlo. Doveva essere in uno stato di sonnambulismo, perché quando la trovarono aveva un aspetto riposato, come dopo un bel sonno profondo. Quando cessò il vento e la casa si svegliò dal suo turbolento sonnellino pomeridiano, Shahbanou s'accorse subito del lettino vuoto e diede l'allarme. In seguito nessuno riuscì a capire come avesse fatto la ragazza a scappare, come fosse riuscita, da sonnambula, ad attraversare tutta una casa di mobili governativi e di sentinelle. Shahbanou avrebbe sostenuto che doveva essere stato un po' po' di vento per addormentare i soldati di guardia alle porte e produrre un miracolo di sonnambulismo di tale potenza da conferire al passaggio di Sufiya Zinobia dalla casa al giardino e oltre il muro la capacità di contagiare chiunque lei incontrava, facendolo immediatamente precipitare in trance. Ma a mio parere la fonte di quel potere, l'autrice di quel miracolo fu proprio Sufiya Zinobia; ci sarebbero state in seguito altre occasioni simili, di cui non si sarebbe potuto incolpare il vento. .. La trovarono, una volta calato il Loo, seduta e profondamente addormentata sotto un sole feroce nell'aia dei tacchini della vedova Aurangzeb, una figurina rannicchiata che russava dolcemente tra i cadaveri dei volatili. Sì, erano morti tutti i duecentodiciotto tacchini della solitudine di Pinkie, e la gente ne fu così sconvolta che per tutta una giornata si scordò di portar via i cadaveri, ma li lasciò marcire nel caldo e nella malinconia crepuscolare della sera e sotto le stelle di ghiaccio bollente, duecentodiciotto che non sarebbero mai arrivati nei forni o sui deschi.

Sufiya Zinobia aveva strappato loro la testa e aveva frugato nei loro corpi per estrarne, attraverso il collo, le viscere con le sue mani minuscole e disarmate. Shahbanou, che fu la prima a trovarla, non osò avvicinarsi; poi arrivarono Raza e Bilquìs, e dopo un po' tutti, sorella, domestici, vicini, erano lì a guardare a bocca aperta lo spettacolo della ragazza insanguinata e delle creature decapitate con gli intestini al posto della testa. Pinkie Aurangzeb contemplò con sguardo cupo la carneficina e fu colpita dall'odio dissennato che lesse negli occhi di Bilquìs; le due donne restarono in silenzio, preda ognuna di un orrore diverso, e fu Raza Hyder, i cui occhi acquosi e cerchiati di nero fissavano il viso della figlia e le sue labbra insanguinate, il primo a parlare, in un tono che esprimeva ammirazione oltre che ribrezzo. «A mani nude», tremò il neo-ministro, «cosa ha dato tanta forza alla bambina?». Spezzati così i cerchi di ferro del silenzio, Shahbanou la ayah cominciò a gemere con quanto fiato aveva in gola.

«Ullu-ullu-ullu!», un farfugliante lamento così acuto che strappò Sufiya Zinobia al suo sonno mortale; aprì allora gli occhi di latte annacquato e, vedendo la distruzione che le stava attorno, svenne, echeggiando così il comportamento di sua madre in quel giorno lontano in cui Bilquìs si era trovata nuda nella folla e aveva perso i sensi per la vergogna.

Quali forze avevano indotto l'assonnato cervello di treenne in quel corpo di dodici anni a ordinare una così radicale offensiva contro tacchini pennuti d'ambo i sessi? Possiamo solo avanzare ipotesi: che Sufiya Zinobia, da figlia premurosa, stesse cercando di sbarazzare sua madre di quella gloglottante molestia? O la rabbia, il fiero risentimento che Raza Hyder avrebbe dovuto sentire, ma si era rifiutato di sentire, preferendo invece cercare scuse per Pinkie, si fece invece strada nell'animo di sua figlia? Ciò che sembra certo è che Sufiya Zinobia, per tanto tempo oppressa dalla propria natura di miracolo andato a male, di vergogna familiare incarnata, aveva scoperto nei labirinti del proprio inconscio il sentiero nascosto che unisce la sharam alla violenza; e che svegliandosi era rimasta sorpresa come tutti dalla forza di ciò che si era scatenato. La bestia dentro la bella. Gli opposti elementi di una fiaba associati in un unico personaggio... In questa occasione Bilquìs non svenne. L'imbarazzo per l'impresa della figlia, il gelo di quest'ultima vergogna conferirono una paralizzata rigidità al suo portamento. «Smettila,» ordinò alla ululante ayah, «va' in casa a prendere le forbici». E prima che la ayah portasse a termine la sua enigmatica commissione, Bilquìs non permise a nessuno di toccare la ragazza; le girava attorno in un atteggiamento così minaccioso che nemmeno Raza Hyder osò avvicinarsi. Mentre Shahbanou correva a prender le forbici, Bilquìs parlò così sommessamente che poche parole soltanto arrivarono a marito, vedova figlia minore, servi, anonimi passanti: «...Strapparti i capelli... diritto di nascita... L'orgoglio di una donna... tutta crespa come un hubshee femmina... volgarità...

immorale... pazzesco», e poi arrivarono le forbici e ancora nessuno osò intervenire quando Bilquìs afferrò grandi manciate delle martoriate trecce della figlia e tagliò e tagliò e tagliò. S'alzò infine, ormai senza fiato, e continuando automaticamente ad aprire e chiudere le forbici, si allontanò. La testa di Sufiya Zinobia pareva un campo di grano dopo un incendio; una triste e nera stoppia, una catastrofica desolazione causata dalla collera materna. Raza Hyder prese in braccio la figlia con una delicatezza nata da un'infinita perplessità e la portò in casa, lontana dalle forbici che ancora tagliavano l'aria nella mano incontrollabile di Bilquìs. Le forbici che tagliano l'aria annunciano guai in famiglia. «Oh, mammina!» ridacchiò spaventata Buone Notizie.

«Cosa hai fatto? Sembra proprio...»

«Avevamo sempre voluto un maschio», replicò Bilquis, «ma è Dio che decide.» Pur essendo stata scossa, timidamente da Shahbanou e più rudemente da Buone Notizie, Sufiya Zinobia non si destò dal suo svenimento. La sera dopo aveva la febbre, un rovente rossore che la ricopriva dal cuoio capelluto alle piante dei piedi. La fragile ayah parsi, che con quegli occhi infossati dimostrava quarantatré anni ma ne aveva soltanto diciannove, non si allontanò mai dal grande lettino a sbarre, se non per preparare nuovi impacchi freddi per la fronte di Sufiya. «Voi parsi», disse Buone Notizie a Shahbanou, «avete un debole per i malati di mente, mi pare. Deve essere tutta la vostra esperienza».

Bilquìs non mostrò alcun interesse per l'applicazione degli impacchi. Se ne stava seduta in camera propria con le forbici che parevano incollate alle sue dita, a tagliare l'aria. «Febbre da vento», così Shahbanou definiva il misterioso disturbo, che aveva fatto avvampare la testa rasata della bambina; ma la seconda notte si calmò, Sufiya aprì gli occhi e tutti pensarono che si fosse rimessa. Il mattino dopo, però, Shahbanou notò che nel minuscolo corpo della ragazza stava cominciando ad accadere qualcosa di spaventoso. All'inizio si presentò in forma di enormi esantemi a chiazze, rosse e porpora con al centro piccoli e duri foruncoli; le si formavano pustole tra le dita dei piedi e la schiena si stava coprendo di singolarissime protuberanze vermiglie. Spaventosi bubboni neri comparivano sotto le sue ascelle. Come se l'oscura violenza generata in quel piccolo corpo si fosse rivolta all'interno, abbandonando i tacchini per attaccare invece la ragazza stessa; come se, a somiglianza di suo nonno Mahmoud la Donna, che sedeva in un cinema deserto aspettando di pagare il fio del suo doppio spettacolo o di un soldato che si butta sulla propria spada, Sufiya Zinobia avesse scelto un modo di morire. La piaga della vergogna - nella quale, insisto, deve essere inclusa la vergogna non provata da quanti le stavano attorno, non provata, per esempio, da Raza Hyder quando aveva abbattuto Babar Shakil nonché la vergogna interminabile della sua stessa esistenza e dei suoi capelli straziati la piaga, dicevo, si estese rapidamente su tutta quella tragica creatura, la cui caratteristica principale era una sensibilità eccessiva ai bacilli dell'umiliazione. La portarono all'ospedale con il pus che sgorgava dalle sue piaghe, sbavante, incontinente, e con in testa l'ispida rapata manifestazione dell'odio di sua madre.

 

Cos'è un santo? Un santo è una persona che soffre in nostra vece.

 

La notte in cui accadde tutto questo, Omar Khayyam Shakil era stato tormentato, durante il suo breve sonno, da vivide immagini del passato, in ognuna delle quali aveva parte importante la figura vestita di bianco dello sventurato maestro Eduardo Rodrigues. Nei sogni Omar Khayyam era ancora un ragazzo. Cercava di seguire Eduardo dappertutto, al gabinetto, a letto, convinto che se fosse riuscito a raggiungerlo avrebbe potuto saltare in lui ed essere finalmente felice; ma Eduardo continuava ad allontanarlo col suo cappello bianco, colpendolo, e facendogli segno di andarsene, di squagliarsela, di levarsi dai piedi. Tutto questo disorientò il dottore, che solo parecchi giorni dopo si rese conto che quei sogni erano stati ammonimenti profetici sui rischi dell'innamorarsi di femmine in età minorile e di seguirle poi in capo al mondo, dove inevitabilmente si sbarazzano di te e l'esplosione della loro ripulsa ti solleva e ti scaraventa nel grande nulla stellato oltre i confini della gravità e del buonsenso. Ricordava la fine del sogno, quando Eduardo, con i suoi bianchi indumenti ora anneriti e sbrindellati e bruciacchiati, pareva volar via da lui, levandosi al disopra di un'esplosiva nube di fuoco, con una mano levata sopra la testa, come per dirgli addio... un padre è un monito; ma è anche un allettamento, un precedente cui è impossibile resistere, e così quando Omar Khayyam decifrò i propri sogni era già troppo tardi per seguirne il consiglio, essendo lui ormai incappato nel proprio destino, Sufiya Zinobia, ragazza di dodici anni con un cervello di treenne, la figlia dell'uomo che aveva ucciso suo fratello.

 

Vi lascio immaginare quanto mi deprima il comportamento di Omar Khayyam Shakil. Mi domando per la seconda volta: che razza di eroe è mai questo?

Lo abbiamo lasciato vicino a perdere i sensi, puzzolente di vomito e intento a giurare vendetta; e adesso impazzisce per la figlia di Hyder.

Come spiegare un personaggio simile? è eccessivo chiedere un po' di coerenza? Accuso questo cosiddetto eroe di farmi venire il più orrendo dei mal di testa. Sicuramente (prendiamo la cosa con calma; niente gesti improvvisi, per favore), era turbato. Un fratello morto, più la ripulsa del suo migliore amico. Sono circostanze attenuanti E ne terremo conto.

è anche corretto supporre che la vertigine che lo aveva preso sul taxi fosse tornata, nei giorni successivi, a fargli nuovamente perdere l'equilibrio. C'è quindi un argomento sia pure fragile per la difesa.

Procediamo ora passo per passo. Si sveglia, sprofondato nel vuoto della propria vita, solo, nell'insonnia dell'alba. Si lava, si veste, va a lavorare; e scopre che immergendosi nei propri compiti riesce a tirare avanti; anche gli attacchi di vertigini sono sotto controllo. Qual è il settore della sua specializzazione? Lo sappiamo già: è un immunologo. Di conseguenza non possiamo gettare su di lui la colpa dell'arrivo nel suo ospedale della figlia di Hyder: Sufiya Zinobia, vittima di una crisi immunologica, è stata portata dal maggior esperto nazionale in questo campo. Attenti adesso. Evitiamo i rumori troppo forti. A un immunologo che cerca la calma assicurata da un lavoro impegnativo, Sufiya Zinobia si presenta come una manna. Delegando il più possibile le altre sue responsabilità, Omar Khayyam si dedica quasi a tempo pieno al caso della ragazza idiota, i cui meccanismi di difesa hanno dichiarato guerra a quella stessa vita che dovrebbero proteggere. La sua devozione è assolutamente sincera "la difesa non rinuncia a presentare altre prove); nelle settimane successive, si familiarizza con i precedenti medici della paziente e in seguito metterà per iscritto nel trattato il caso della signorina H. Le nuove importanti prove da lui scoperte sul potere dello spirito di influire «attraverso sentieri nervosi diretti» sul funzionamento del corpo. Il caso diventa famoso negli ambienti medici; dottore e paziente sono uniti per sempre nella storia della scienza. Ma questo rende più accettabile un altro tipo di unione, più personale? Mi riservo di rispondere più avanti. Facciamo ora un altro passo. Omar Khayyam si convince che Sufiya Zinobia intende danneggiare se stessa. è qui l'importanza del suo caso: dimostra che anche una mente mal funzionante è in grado di schierare macrofagi e polimorfi; anche un'intelligenza sottosviluppata può guidare una rivolta di palazzo, una ribellione suicida dei giannizzeri del corpo umano contro il castello.

«Crollo totale del sistema immunitario», annota dopo la prima visita alla paziente; «la più spaventosa insurrezione che io abbia mai visto».

 

Cerchiamo ora di esporre la cosa il più gentilmente possibile (ho anche in serbo altre accuse, ma dovranno aspettare). In seguito, per quanto furiosamente si concentri, cercando di esumare ogni minimo particolare di quei giorni dai pozzi avvelenati della memoria, non riuscirà a localizzare il momento in cui l'eccitazione professionale si è trasformata in un tragico amore. Non dice che Sufiya Zinobia gli abbia dato qualche incoraggiamento; date le circostanze, sarebbe palesemente assurdo. Ma a un certo punto, forse durante le veglie notturne al suo capezzale, trascorse controllando gli effetti dei farmaci antirigetto da lui prescritti, veglie durante le quali gli è accanto la ayah Shahbanou, che acconsente a mettersi cuffia, camice, guanti e maschera sterilizzati, ma si rifiuta assolutamente di lasciare la ragazza sola col dottore - sì, forse durante queste notti assurdamente sorvegliate da uno chaperon, o forse dopo, quando è chiaro che lui ha trionfato, che la rivolta pretoriana è stata soffocata, che mercenari farmaceutici hanno represso l'ammutinamento, e le orribili eruzioni della malattia di Sufiya Zinobia spariscono dal suo corpo e le sue guance riacquistano colore - a un certo punto, la cosa accade. Omar Khayyam stupidamente e irrimediabilmente si innamora. «Non è razionale,» si rimprovera; ma i suoi sentimenti, niente affatto scientifici, lo ignorano. Gli accade di comportarsi goffamente in sua presenza e nei sogni le corre dietro sino in capo al mondo, mentre i resti dolenti di Eduardo Rodrigues osservano impietositi dal cielo la sua ossessione. Anche lui pensa alle circostanze attenuanti, dice a se stesso che nelle sue sconvolte condizioni psicologiche, è divenuto vittima di un disturbo mentale, ma si vergogna troppo perché possa venirgli in mente di chiedere consigli... No, perdio! Mal di testa o no, non gli permetterò di cavarsela così a buon mercato. Lo accuso di essere brutto dentro quanto fuori, una Bestia, come Farah Zoroaster aveva intuito tanti anni fa. Lo accuso di assumersi la parte di Dio, o almeno di Pigmalione, di arrogarsi diritti di proprietà sull'innocente cui ha salvato la vita.

Accuso quel grasso mastello di carne di porco di aver calcolato che la sua sola possibilità di sposare una bella moglie era sposare una deficiente, sacrificando così l'intelligenza coniugale alla bellezza della carne. Omar Khayyam sostiene che l'ossessione per Sufiya Zinobia lo ha guarito dalle vertigini. Stupidaggini! Chiacchiere! Accuso lo scellerato di tentare una spudorata manovra d'arrampicamento sociale (non ha mai sofferto di capogiri nel far questo). Scaricato da uno dei grandi personaggi dell'epoca, Omar Khayyam cerca di aggrapparsi a un'altra stella. è talmente privo di scrupoli, talmente spudorato, da corteggiare un'idiota per conquistare suo padre. Un padre addirittura che ha impartito l'ordine in seguito al quale diciotto proiettili si sono conficcati nel corpo di Babar Shakil. Certo lo abbiamo udito mormorare: «Babar, la vita è lunga.» Sì, ma io non mi lascio imbrogliare da questo. Pensate a una trama di vendetta? a Omar Khayyam che, sposando la bambina non sposabile, riesce a star vicino a Hyder per anni, prima durante e dopo la sua presidenza, portando pazienza, perché la vendetta è paziente, e aspettando il momento opportuno? Sciocchezze! Fole! Quelle parole macabre (e sicuramente zuppe di whisky) di una balena prossima a svenire altro non erano se non un'eco vuota e sbiadita della minaccia preferita di Iskander Harappa, ex protettore, compagno di bagordi e grande amico del nostro eroe. Naturalmente non ha mai avuto questa intenzione, non è un tipo vendicativo. E poi sentiva davvero qualcosa per quel fratello morto che non aveva mai visto? Ne dubito, e ne dubitavano anche, come vedremo, le sue tre madri. Non è un'ipotesi che si possa prendere sul serio. Vendetta? Puah! Huh! Pfui! Se Omar Khayyam pensò mai alla morte del fratello, è più probabile che abbia pensato questo: «Stupido, terrorista, gangster. Cosa s'aspettava?» Mi resta un'ultima imputazione, la più incriminante. Gli uomini che negano il proprio passato sono incapaci di pensarlo come cosa reale. Assorbito nella grande città-puttana, dopo essersi lasciato ancora una volta alle spalle l'universo di frontiera di Q., il suo luogo natale sembra ora a Omar Khayyam Shakil una sorta di brutto sogno, una fantasia, un fantasma. La città e la frontiera sono due mondi incompatibili; scegliendo Karachi, Shakil rifiuta l'altro. Ed esso diventa per lui qualcosa di aereo, d'inconsistente, una pelle abbandonata. Non gli interessa più ciò che vi accade, la sua logica e le sue richieste. Non ha più una casa; in altre parole è un metropolitano fatto e finito. Una città è un accampamento per profughi. Che Dio lo maledica! Sono incollato a lui e al suo pestifero amore. Benissimo: andiamo avanti.

Mentre il mal di testa tuonava e batteva, ho perso altri sette anni del mio racconto. Sette anni, e ora ci sono matrimoni cui dobbiamo assistere. Come vola il tempo! Non mi piacciono i matrimoni combinati.

Ci sono sbagli dei quali non bisognerebbe mai poter incolpare i propri poveri genitori.