CAPITOLO QUINTO
IL MIRACOLO ANDATO A MALE.

 

Bilquìs giace completamente sveglia nel buio di una cavernosa camera da letto, con le mani incrociate sul seno. Quando dorme sola, le sue mani trovano abitualmente il modo di assumere questa posizione, che i parenti del marito non approvano. Non può farne a meno, di abbracciare se stessa, quasi avesse paura di perdere qualcosa.

Intorno a lei nell'oscurità si distinguono vagamente i contorni di altri letti, di vecchi charpoy con materassi sottili sui quali dormono altre donne sotto singoli lenzuoli bianchi; quaranta femmine in tutto, raggruppate intorno alla forma maestosamente esile della matriarca Bariamma che russa con gusto. Bilquìs sa già abbastanza di questa camera per poter dire che quasi tutti i corpi che s'intravvedono rivoltarsi nelle tenebre non sono più addormentati di lei. Persino il russare di Bariamma può essere un trucco. Le donne stanno aspettando l'arrivo degli uomini. Il pomo girevole della porta crepita come un tamburo. Cambia all'improvviso la natura della notte. C'è nell'aria una deliziosa malizia. Soffia una fresca brezza, come se l'ingresso del primo uomo fosse in parte riuscito a dissipare l'intenso calore dolciastro della stagione calda, permettendo ai ventilatori sul soffitto di ruotare con un po' più d'efficienza in quella densa atmosfera. Quaranta donne, una delle quali è Bilquìs, si agitano madide sotto i lenzuoli.. . entrano altri uomini. Percorrono in punta di piedi i corridoi notturni del dormitorio e le donne restano nel più assoluto silenzio, tutte tranne Bariamma. La matriarca russa più energicamente che mai. I suoi ronfi sono sirene che trasmettono un segnale di via libera e danno agli uomini il coraggio necessario. La ragazza sul letto accanto a quello di Bilquìs, Rani Humayun, che è nubile e quindi stanotte non aspetta visite, sussurra attraverso le tenebre: «Ecco che arrivano i quaranta ladroni». E ora si odono piccoli rumori nel buio: corde di charpoy che cedono leggermente sotto il peso aggiunto di un secondo corpo, fruscii di indumenti, le più pesanti esalazioni dei mariti invasori. A poco a poco l'oscurità acquista una sorta di ritmo, che accelera, raggiunge un acme, decresce. Poi un molteplice passo felpato verso la porta e più volte il rullio di tamburo del pomo girevole della porta stessa e infine silenzio, perché Bariamma, adesso che è educato farlo, ha smesso completamente di russare. Rani Humayun, che ha accalappiato uno dei migliori partiti della stagione matrimoniale e tra poco lascerà il dormitorio per sposare il giovane milionario Iskander Harappa, chiaro di pelle, educato all'estero e con labbra sensualmente carnose, e che ha, come Bilquìs, diciotto anni, ha fatto amicizia con la nuova sposa di suo cugino Raza. Bilquìs si gode (pur fingendo di scandalizzarsi) i maliziosi commenti di Rani sull'organizzazione notturna della casa.

«Figurati con quel buio», ridacchia Rani mentre macinano insieme le spezie per la giornata, «chi può sapere se è davvero suo marito che è venuto a trovarla? E chi potrebbe mai protestare? Dammi retta, Billoo, mariti e mogli se la spassano e come con questa sistemazione da collegio. Ti giuro, probabilmente zii con nipoti, fratelli con mogli di fratelli, non sapremo mai chi sono in realtà i babbi dei bambini!».

Bilquìs arrossisce con grazia e copre la bocca di Rani con una mano odorosa di coriandolo. «Smettila, cara! Che mentalità oscena!». Ma Rani è inesorabile: «No, Bilquìs, dammi retta, tu sei nuova qui, ma io sono cresciuta in questa casa, e per tutti i capelli della nostra Bariamma ti garantisco che questa sistemazione teoricamente ideata in nome del pudore eccetera è solo un pretesto per la più grande orgia sulla terra».

 

Bilquìs non le fa notare (sarebbe troppo scortese) che la minuscola, quasi nana, Bariamma non soltanto è cieca e sdentata, ma non ha neppure più un capello sulla sua antica testa. La matriarca porta la parrucca.

 

Dove siamo e quando? - In una grande dimora familiare nel quartiere vecchio di quella città costiera che, non avendo altra scelta, devo chiamare Karachi. Raza Hyder, orfano come la moglie, l'ha portata (immediatamente dopo essere sceso dal Dakota della loro fuga verso occidente) in seno alla sua famiglia da parte di madre; Bariamma è la sua nonna materna. «Devi restare qui,» ha detto a Bilquìs, «finché le cose non si sistemano e non arriviamo a capire che cosa si può fare e che cosa no». Così in questi giorni Hyder alloggia temporaneamente alla base militare, mentre la sua sposa giace tra parenti d'acquisto che fingono di dormire, sapendo che nessun uomo verrà a trovarla durante la notte. Sì, lo so, ho portato il mio racconto in una seconda sterminata dimora, che il lettore starà forse già confrontando con una lontanissima casa nella città di confine di Q.; ma quale contrasto! Questo non è infatti un fortino isolato; trabocca, trabocca letteralmente, di membri della famiglia e di parenti d'acquisto. «Vivono ancora come nel vecchio villaggio», disse RaZa a Bilquìs prima di depositarla in quella casa dove si era convinti che il semplice fatto d'essere sposata non assolvesse una donna dalla vergogna e dal disonore derivanti dal sapere che dorme regolarmente con un uomo; ed era per questo che Bariamma aveva escogitato, senza mai parlarne neanche una volta, l'idea dei quaranta ladroni. E naturalmente le donne negano che accada mai qualcosa di questo genere, e quando una di loro resta incinta, ciò avviene come per magia, come se tutti i concepimenti fossero immacolati e tutte le madri vergini. L'idea della partenogenesi è stata accettata in questa casa per escluderne altre, sgradevolmente fisiche. Bilquìs, la ragazza che sognava di diventar regina, pensava, ma senza dirlo: «Oh Dio! Ignoranti venuti chissà da dove. Questi retrogradi, questi idioti di villaggio, questi cafoni, e io che devo starmene appiccicata a loro!». Ad alta voce, disse umilmente a Raza: «Le antiche tradizioni hanno molti meriti». Raza annuì per mostrare il proprio assenso, e lei si sentì mancare il cuore ancora di più. Nell'impero di Bariamma, Bilquìs, l'ultima arrivata, la più giovane, non era ovviamente trattata come una regina.

 

«Vedrai se non avremo figli», disse Raza a Bilquìs. «Nella famiglia di mia madre i maschi crescono sugli alberi». Smarrita in quella foresta di nuovi parenti, vagante nella giungla carnale della casa matriarcale, Bilquìs consultò il Quran di famiglia alla ricerca di questi alberi genealogici, e ve li trovò, al loro posto tradizionale, boschetti d'araucaria di genealogie tracciati nelle ultime pagine del libro sacro.

Scoprì così che, dopo la generazione di Bariamma, che aveva avuto due sorelle, le prozie materne di Raza, entrambe rimaste vedove, nonché tre fratelli - un proprietario terriero, un fannullone e un matto da manicomio - dopo quella generazione sessualmente equilibrata, nell'intera famiglia erano nate solo due femmine. Una era la defunta madre di Raza; l'altra Rani Humayun, che non vedeva l'ora di fuggire da quella casa che i figli maschi non lasciavano mai, importandovi in compenso le proprie mogli perché vivessero e generassero in batteria, come galline. Da parte materna, Raza aveva un totale di undici zii legittimi, più, si credeva, almeno nove illegittimi, la prole del prozio fannullone e gran seduttore. Non contando Rani, poteva inoltre vantare un totale di trentadue cugini maschi nati da legittimi matrimoni. (La discendenza putativa degli zii bastardi non meritava menzione nel Quran.) Di questa enorme quantità di parenti, una percentuale cospicua viveva all'ombra minuscola ma onnipotente di Bariamma; il fannullone e il matto erano scapoli, ma quando il proprietario terriero venne ad abitare lì, sua moglie occupò uno dei letti dello zenana di Bariamma.

Nel periodo di cui sto parlando, c'erano ancora il proprietario terriero e la moglie; nonché otto degli undici zii legittimi, più le mogli; e ancora (Bilquìs aveva qualche difficoltà a contarli) ventinove cugini maschi circa e Rani Humayun. Ventisei mogli di cugini riempivano quel malizioso dormitorio, e con Bilquìs diventavano quaranta, calcolando anche le tre sorelle della generazione più vecchia. A Bilquìs Hyder girava la testa. Intrappolata in un linguaggio che comportava un nome specifico per ogni possibile parente, impedendo alla smarrita nuova arrivata di cavarsela con appellativi generici come zio, cugino e zia, e facendo sì che venisse costantemente presa in castagna per la sua insultante ignoranza, la lingua di Bilquìs fu ammutolita dalla folla dei parenti d'acquisto. Praticamente non parlava mai, se non quando rimaneva sola con Rani o con Raza; e si guadagnò così la triplice nomea di tenera bambina innocente, di vittima designata e di stupida. E poiché Raza era spesso assente per giorni e giorni, privandola così della protezione e dei complimenti che le altre donne ricevevano quotidianamente dai propri mariti, raggiunse anche la condizione della poverina, sicuramente non attenuata dalla mancanza di sopracciglia (che nessuna applicazione artistica della matita era in grado di mascherare. Grazie a tutto questo le affidavano un pochino di più della sua giusta parte di lavori domestici ed era inoltre oggetto di un pochino di più della sua giusta parte delle taglienti osservazioni di Bariamma. Era però anche ammirata, sia pure con riluttanza, perché la famiglia aveva un'alta opinione di Raza e le donne riconoscevano che era un brav'uomo perché non picchiava mai la moglie. Questa definizione della nonna mise in allarme Bilquìs, cui non era mai venuto in mente di poter essere picchiata, e la portò ad affrontare l'argomento con Rani. «Oh sì», replicò la sua cugina d'acquisto, «come picchiano tutti quanti! Taraap! Taraap! Certe volte ti fa bene al cuore assistere. Ma bisogna anche stare attente. Un brav'uomo può andare a male come la carne, se non lo tieni calmo». Come poverina ufficiale, Bilquìs era anche costretta a sedersi ogni sera ai piedi di Bariamma, mentre la vecchia cieca raccontava storie di famiglia. Erano storie sensazionali, con divorzi, fallimenti, siccità, amici imbroglioni, bambini morti, malattie del seno, uomini stroncati nel fiore degli anni, speranze fallite, bellezze perdute, donne divenute oscenamente grasse, affari di contrabbando, poeti oppiomani, vergini languenti, maledizioni, tifo, banditi, omosessualità, sterilità, frigidità, stupri, l'alto costo della vita, giocatori, ubriaconi, assassini, suicidi e Dio. Il racconto di Bariamma, leggermente biascicante, di questo catalogo degli orrori di famiglia, finiva in qualche modo per sdrammatizzarli, per renderli innocui, per imbalsamarli nel fluido mummificante della sua personale incontestabile rispettabilità. Queste storie inoltre dimostravano la capacità della famiglia di sopravvivere, di conservare, nonostante tutto, il controllo del proprio onore e un solido codice morale. «Per far parte della famiglia», disse Bariamma a Bilquìs, «devi conoscere le nostre cose e raccontarci le tue». Così una sera Bilquìs fu costretta (era presente anche Raza, ma non fece niente per proteggerla) a raccontare la fine di Mahmoud la Donna e la propria nudità nelle strade di Delhi. «Non preoccuparti», dichiarò Bariamma con approvazione, mentre Bilquìs tremava per la vergogna di ciò che stava rivelando, «sei almeno riuscita a tenerti addosso la dupatta». Dopo di che Bilquìs sentì spesso riraccontare la propria storia, ovunque si riunissero almeno due membri della famiglia, negli angoli caldi e popolati di lucertole del cortile o sui tetti illuminati dalle stelle delle notti estive, nelle nursery per spaventare i bambini e persino nel salotto di Rani, carica di gioielli e tinta di henné, la mattina delle sue nozze; perché le storie, queste storie, erano il mastice che teneva unito il clan, legando l'una all'altra le generazioni nella trama di sussurrati segreti. La sua storia subì all'inizio delle modifiche ogni volta che veniva raccontata, ma alla fine s'assestò e da quel momento nessuno, né chi narrava né chi ascoltava, avrebbe tollerato la minima deviazione dal testo sacro. Fu allora che Bilquìs comprese di essere diventata un membro della famiglia; nella santificazione della sua storia c'erano iniziazione, parentela, sangue. «Raccontare storie», le spiegò Raza, «è per noi un rito di sangue». Ma né Raza né Bilquìs potevano allora immaginare che la loro storia era appena cominciata, che sarebbe stata la più piccante e la più macabra di tutte quelle saghe macabropiccanti, e che, in futuro, sarebbe sempre cominciata con questa frase (che, secondo la famiglia, conteneva tutte le giuste risonanze per iniziare una narrazione come questa): «Fu il giorno in cui doveva reincarnarsi l'unico figlio maschio del futuro presidente Raza Hyder».

 

«Sì, sì.» plaudivano gli ascoltatori, «raccontaci questa, è la migliore».

 

In quella stagione calda le due nazioni da poco separate annunciarono l'inizio delle ostilità sulla frontiera del Kashmir. Non c'è niente di meglio di una guerra al nord nella stagione calda: ufficiali, fanti e cuochi erano molto contenti mentre s'avviavano verso il fresco delle colline. «Zara, possiamo dirci fortunati, no?». «Merda, fotti sorella, quest'anno almeno non morirò in quel caldo fottuto!». Oh, il cameratismo a pacche sulla schiena dei meteorologicamente fortunati! I javvan andarono alla guerra con lo spensierato abbandono di chi va in vacanza.

Ci furono, inevitabilmente, dei morti; ma gli organizzatori della guerra avevano provveduto anche a loro. Chi cadeva in battaglia volava direttamente, in prima classe, nei giardini profumati del Paradiso, dove per tutta l'eternità sarebbe stato servito da quattro splendide urì, mai toccate da uomo o gim. «Quale dei doni del tuo Signore», domanda il Quran, «vorresti rifiutare?» Il morale dell'esercito era alto; ma Rani Humayun era estremamente depressa, perché sarebbe stato antipatriottico organizzare un ricevimento nuziale in tempo di guerra. La funzione era stata rimandata e lei pestava i piedi. Raza Hyder, invece, salì tutto contento sulla jeep mimetizzata della sua fuga dalla ribollente follia della città estiva, e proprio in quel momento sua moglie gli sussurrò all'orecchio che stava aspettando un lieto evento di tipo diverso.

(Prendendo esempio da Bariamma, ho chiuso gli occhi e russato fragorosamente. quando Raza Hyder si recò in visita al dormitorio delle quaranta donne e rese possibile il miracolo.) Raza lanciò un urlo così carico di trionfo che Bariamma, seduta in casa sul suo takht, si convinse, nella confusione della propria sudata cecità, che il nipote avesse già avuto notizia di qualche memorabile vittoria, e quindi, qualche settimana dopo, quando arrivò di fatto una notizia del genere, disse soltanto: «Lo avete scoperto solo adesso? Io lo sapevo da un mese». (Questo avveniva prima che la gente venisse a sapere che la loro parte perde va quasi sempre, cosa che costringeva i capi della nazione a mostrarsi brillantemente all'altezza della situazione, perfezionando almeno mille e un modo di salvare l'onore dalla disfatta.) «Sta per arrivare!», Raza assordò sua moglie, facendo cadere brocche di terracotta dalla testa delle serve e spaventando le oche. «Cosa ti avevo detto, signora?». Si piantò più baldanzosamente il berretto in testa, diede una pacca un po' troppo forte al ventre della sposa, riunì i palmi delle mani in gesti da tuffatore: «Woosh!» gridò. «Vum, moglie! Eccolo che arriva!». E partì vociando per il nord, promettendo di conseguire una grande vittoria in onore del nascituro e lasciandosi dietro una Bilquìs che, lambita per la prima volta dai fluidi solipsistici della maternità, aveva trascurato di notare le lacrime negli occhi del marito, uno dei primi indizi del fatto che il futuro uomo forte della nazione era di quelli che piangono con troppa facilità... In privato, con la frustrata Rani Humayun, Bilquìs esultava orgogliosa: «Non pensare a questa stupidaggine della guerra; la notizia importante è che sto facendo un ragazzo perché sposi la tua futura figlia».

 

Ecco un estratto dalla saga familiare di Raza e Bilquìs, trascritto in quel linguaggio rituale che sarebbe grossolanamente sacrilego modificare: «Quando udimmo che il nostro Razzoo era riuscito a effettuare un attacco così audace che non rimase altra scelta che definirlo un trionfo, per prima cosa ci rifiutammo di credere alle nostre orecchie--perché già a quei tempi anche le orecchie più sottili rivelavano il difetto di diventare totalmente inattendibili quando si sintonizzavano sui notiziari radiofonici - occasioni nelle quali tutti udivano cose che non potevano assolutamente essere avvenute. Ma poi annuimmo, sapendo che un uomo cui la moglie sta per dare un figlio è capace di tutto. Sì, era il bambino non nato il responsabile di questo evento, dell'unica vittoria nella storia delle nostre forze armate che fu la base della fama di invincibilità di Raza, fama che divenne poi a sua volta invincibile - tanto che neppure i lunghi umilianti anni del suo declino riuscirono a distruggerla-. Tornò come un eroe, dopo aver conquistato per la nostra nuova terra santa una valle di montagna talmente alta e inaccessibile che persino le capre avevano difficoltà di respirazione; era così intrepido, così terribile, che tutti i veri patrioti non poterono che guardarlo a bocca aperta - e non dovete credere alla propaganda secondo la quale il nemico non si preoccupò di difendere quel luogo; la battaglia fu feroce come il ghiaccio, e con soli venti uomini egli s'impadronì della valle! Quella piccola banda di giganti, quel gruppo di temerari, e Vecchio Rasoio alla loro testa: chi avrebbe potuto resistere? Chi avrebbe potuto ostacolare la loro marcia?

«Per tutti i popoli ci sono luoghi che hanno un enorme significato.

"Aansu", piangevamo con orgoglio; era con vero patriottismo che singhiozzavamo: "Pensate un po', ha conquistato l'Aansu-ki-Wadi". è vero: la conquista di quella favolosa "valle di lacrime" ci fece piangere tutti incontrollabilmente e negli anni successivi il suo conquistatore divenne famoso per questa im presa. Ma dopo un po' fu chiaro che nessuno sapeva che farsene di quel luogo dove il tuo sputo congelava prima di toccare terra; tranne, naturalmente, Iskander Harappa il quale, con gli occhi come sempre asciutti, si presentò al Dipartimento enti tribali e comprò più o meno tutto quanto, polvere e neve, a prezzi stracciati, con denaro contante versato sull'unghia - e qualche anno dopo lassù c'erano impianti sciistici e voli organizzati e di notte avvenimenti all'europea che facevano svenire dalla vergogna i membri delle tribù locali. Ma Raza, il nostro grande eroe, vide mai niente di questa valuta straniera?» (a questo punto la narratrice si percuote invariabilmente la fronte col palmo della mano). «No, come poteva quel gran tanghero di militare? Isky arrivava sempre per primo.

Ma>, (ora la narratrice assume il tono più enigmatico e minaccioso di cui è capace) «è essere lì per ultimo ciò che conta». A questo punto devo interrompere la leggenda. Il duello tra Raza Hyder (promosso maggiore per la sua impresa di Aansu) e Iskander Harappa, che iniziò ma certo non finì ad Aansu, dovrà attendere ancora un poco; perché ora che Vecchio Rasoio è di nuovo in città, ed è tornata la pace, si sta per celebrare il matrimonio che farà dei due avversari mortali due cugini d'acquisto; due membri della famiglia.

 

Rani Humayun, con gli occhi abbassati, vede avvicinarsi in un anello-specchio il suo sposo; portato sulle spalle da una scorta d'amici in turbante, siede su un vassoio d'oro. In seguito, dopo essere svenuta sotto il peso dei suoi gioielli; dopo aver ripreso i sensi grazie alla gravida Bilquìs che subito dopo svenne a sua volta; dopo che ogni membro della famiglia a turno le ebbe gettato monete in grembo; dopo aver notato attraverso il velo il suo vecchio e lascivo prozio che pizzicava il sedere alle parenti femmine del nuovo marito, con la certezza che i suoi capelli grigi avrebbero loro impedito di lamentarsi; e dopo aver finalmente alzato il velo che aveva accanto mentre una mano sollevava il suo, e aver guardato a lungo e con attenzione il viso di Iskander Harappa, il cui irresistibile richiamo sessuale doveva molto alla morbidezza senza rughe delle sue guance di venticinquenne - intorno alle quali s'arricciavano lunghi capelli che avevano già, bizzarramente, il colore dell'argento puro e già si diradavano in alto rivelando la cupola dorata del suo cranio - e in mezzo alle quali scoprì anche labbra, pur esse arricciate la cui aristocratica crudeltà era alleviata dalla loro carnosità sensuale, le labbra, pensò lei, di un nero hubshee, idea questa che le procurò un brivido di piacere. . . singolarmente peccaminoso e poi, dopo aver viaggiato con lui verso una opulenta camera da letto piena di antiche spade e di arazzi francesi e di romanzi russi, dopo essere scesa piena di terrore da uno stallone bianco il cui sesso era chiaramente ritto sull'attenti, dopo aver udito chiudersi le porte delle proprie nozze in quest'altra casa la cui grandiosità faceva apparire in confronto la dimora di Bariamma un tugurio di paese - a questo punto, oliata e nuda su un letto davanti al quale l'uomo che l'aveva appena trasformata in una donna adulta stava guardando con insolenza dall'alto la sua bellezza, lei, Rani Harappa, pronunciò la sua prima vera battuta da moglie. «Chi era quell'individuo», domandò, «quel ciccione, il cui cavallo sprofondava sotto il suo peso quando è arrivato il tuo corteo? Credo che sia quel malefico personaggio, quel dottore o qualcosa del genere, che secondo le voci che girano in città ha su di te una così cattiva influenza». Iskander Harappa le voltò le spalle per accendersi un sigaro. «Mettiamo subito in chiaro una cosa», gli sentì dire Rani, «non sei tu a scegliere i miei amici». Ma Rani, colta da un'inarrestabile risata sotto l'influenza dell'evocata immagine di quel fiero stallone che s'afflosciava e s'abbandonava, allargando le zampe nei quattro punti cardinali, sotto il peso colossale di Omar Khayyam Shakil e anche crogiolandosi nel riposante calore di chi ha appena fatto l'amore - emise suoni pacificanti: «Volevo solo dire, Isky, che deve essere proprio uno spudorato, per portarsi appresso tutta quella pancia e il resto». Omar Khayyam a trent'anni: di cinque anni più vecchio di Iskander Harappa e di oltre un decennio più anziano della sposa di Isky, rientra nel nostro raccontino come un personaggio che gode di un'ottima fama come medico e di una pessima fama come uomo, un degenerato di cui si dice spesso che sembra non avere il minimo senso di vergogna, «non sa neanche cosa significhi questa parola», come se fosse stata trascurata una parte essenziale della sua educazione; o forse ha deliberatamente scelto di espungerla dal vocabolario, per evitare che la sua esplosiva presenza tra i ricordi delle sue azioni presenti e passate lo mandi in frantumi come un vecchio vaso. Rani Harappa ha identificato correttamente il proprio nemico e ora ricorda, rabbrividendo, per la centounesima volta da quando è successo, il momento in cui durante la cerimonia nuziale un servo ha portato a Iskander Harappa un messaggio telefonico con l'annuncio dell'assassinio del primo ministro. Quando Iskander Harappa si alzò, impose il silenzio e trasmise il messaggio agli invitati sgomenti, calò un imbarazzato silenzio per trenta secondi buoni, al termine dei quali la voce di Omar Khayyam Shakil, in cui ciascuno poteva udire gli schizzi dell'alcool, gridò: «Quel bastardo! Se è morto è morto. Ma perché deve venire qui a rovinarci la festa?».

 

A quei tempi tutto era più piccolo di oggi; persino Raza Hyder era soltanto un maggiore. Era come la città, aveva successo e cresceva in fretta, ma in maniera stupida: entrambi quanto più s'ingrandivano tanto più diventavano brutti. Devo spiegarvi come andavano le cose in quei primi giorni dopo la Partizione: i vecchi abitanti della città, abituati a vivere in una terra più antica del tempo, e quindi corrosi dai ritorni implacabili delle maree del passato, avevano subìto un brutto shock con l'indipendenza, perché si erano sentiti dire che dovevano considerare se stessi, nonché il paese, come qualcosa di nuovo. Be', la loro immaginazione non era assolutamente all'altezza del compito, dovreste capirlo; e quindi furono quelli veramente nuovi, i cugini lontani, i vaghi conoscenti e i perfetti estranei affluiti dall'est per stabilirsi nella Terra di Dio, che presero le cose in mano e le fecero funzionare.

La novità di quei giorni dava una sensazione di instabilità; era una situazione, per così dire, di spiazzamento, di mancanza di radici. In tutta la città (che, naturalmente, allora era la capitale) i costruttori imbrogliavano sul cemento usato per le fondamenta delle nuove case, persone - e non solo primi ministri - venivano ogni tanto ammazzate, si tagliavano gole nei vicoli, banditi diventavano milionari, ma tutto questo era scontato. La storia era vecchia e arrugginita, era una macchina che nessuno aveva più innescato per mille anni, e ora all'improvviso le si chiedeva di fornire il massimo rendimento. Nessuno si sorprendeva quando c'erano degli incidenti... be', non proprio, c'erano anche voci che dicevano: se è questo il paese che abbiamo dedicato al nostro Dio, che specie di Dio è quello che permette... - ma queste voci venivano fatte tacere quando ancora non avevano finito di formulare le loro domande, subivano calci negli stinchi sotto i tavoli, ma per il loro bene, in quanto ci sono cose che non si possono dire. No, è qualcosa di più: ci sono cose che non ci si può permettere che siano vere. In ogni modo: Raza Hyder ha già mostrato, con la presa di Aansu, i vantaggi dell'afflusso energetico degli emigranti, dei nuovi esseri; ma, energia o non energia, non riuscì a impedire che il suo primogenito morisse strangolato nell'utero.

 

Ancora una volta (a giudizio della sua nonna materna) pianse con troppa facilità. Proprio quando avrebbe dovuto dimostrare la propria capacità di tener duro, si metteva a piangere fragorosamente, persino in pubblico. Si videro lacrime scivolare dai suoi bulbosi baffi impomatati mentre le nere borse sotto gli occhi tornarono a luccicare come piccole pozze di petrolio. Sua moglie, Bilquìs, non versò invece neppure una lacrima. «Ehi, Raza», cercava di consolare il marito, con parole raggelate dalla fragile certezza della propria disperazione, «tirati su, Razzoo. Ci rifaremo la prossima volta». «Vecchio Rasoio un corno», sbuffò Bariamma a tutti quanti. «Lo sai che è stato lui a inventarsi questo nomignolo e ha obbligato i suoi soldati, ordinandoglielo, a chiamarlo così? Vecchio Serbatoio che fa acqua sarebbe stato più corretto». Un cordone ombelicale s'avvolse intorno al collo del nascituro e si trasformò in un cappio di carnefice (nel quale sono prefigurati altri cappi), nello strangolante rumal di seta di un thug; e un bimbo venne al mondo menomato dall'irreversibile disgrazia di essere morto prima di nascere. «Chissà perché Dio fa queste cose?», disse spietatamente Bariamma al nipote. «Ma noi ci rassegniamo, dobbiamo rassegnarci. E non piangere come bambini davanti alle donne». Tuttavia l'essere morto stecchito era un handicap che il bimbo riuscì, con commendevole coraggio, a superare. Nel giro di pochi mesi, il neonato tragicamente cadaverico aveva trionfato a scuola e all'università, combattuto da prode in guerra, sposato la più ricca bellezza della città e raggiunto un'alta posizione nel governo. Era fascinoso, popolare, bello e il fatto che fosse un cadavere era diventato non molto più rilevante di un leggero zoppicare o di un piccolo difetto di pronuncia.

Naturalmente so benissimo che in realtà il ragazzo morì prima ancora che avessero il tempo di dargli un nome. Le imprese successive le compì interamente nelle fantasie sconvolte di Raza e di Bilquìs, dove acquisirono una così solida concretezza da indurli a insistere sulla necessità di procurarsi un essere vivente che le attuasse e le rendesse reali. Ossessionati dai trionfi fittizi del figlio nato-morto, Raza e Bilquìs s'accoppiavano con accanimento, ansando silenziosamente nel cieco dormitorio delle mogli, convinti che una seconda gravidanza sarebbe stata un atto di sostituzione, che Dio (Raza, come sappiamo, era un devoto) aveva acconsentito a mandar loro gratuitamente un sostituto della merce avariata che avevano ricevuto con la prima consegna, come se Egli fosse stato il direttore di una rispettabile organizzazione di vendite per corrispondenza. Bariamma, che prima o poi veniva a sapere tutto, schioccava rumorosamente la lingua su questa faccenda della reincarnazione, sapendo benissimo che era un'idea importata, come un germe, da quella terra di idolatri da cui erano venuti, ma stranamente non fu mai dura con loro, avendo capito che la mente trova mezzi bizzarri per affrontare il dolore. Deve dunque accollarsi la sua parte di responsabilità per ciò che avvenne dopo, non avrebbe dovuto trascurare il proprio dovere solo perché era penoso, avrebbe dovuto mandare all'aria quell'idea di una rinascita quando ancora sarebbe stato possibile; essa però mise radici molto in fretta, e poi era già troppo tardi, la faccenda non era più in discussione. Molti anni dopo, sul banco degli imputati di un'aula di tribunale dove era in gioco la sua vita, con un viso grigio quanto l'abito d'importazione che aveva addosso, fatto su misura per lui quando pesava due volte tanto, Iskander Harappa attaccò Raza ricordandogli la sua ossessione per la reincarnazione. «Questo capo che prega sei volte al giorno, e per di più alla televisione di stato!», disse Isky con una voce le cui melodie da sirena erano state scordate dal carcere. «Ricordo quando dovetti rammentargli che l'idea degli avatara era un'eresia. Naturalmente non mi diede retta, ma per Raza Hyder è un'abitudine non prestare orecchio ai consigli amichevoli». E fuori del tribunale, si udirono i membri più audaci dell'entourage in disgregazione di Harappa sussurrare che il generale Hyder era stato allevato in uno stato nemico oltre la frontiera, dopo tutto, e che c'erano prove di una bisnonna indù da parte paterna, e quindi che queste filosofie pagane avevano da tempo infettato il suo sangue. Ed è vero che sia Iskander sia Rani cercarono di discutere con gli Hyder, ma le labbra di Bilquìs si tesero come un tamburo nell'ostinazione. A quel tempo Rani Harappa era incinta, e c'era riuscita in un batter d'occhio, e per Bilquìs era già una questione di principio non fare mai ciò che le consigliava la sua vecchia compagna di dormitorio, forse anche perché a lei, Bilquìs, nonostante tutti gli eventi notturni, era molto difficile concepire. Quando Rani mise al mondo una figlia, la sua incapacità di generare un maschio diede a Bilquìs una piccola consolazione, ma molto piccola, perché un altro dei suoi sogni era finito in polvere, la fantasia di un matrimonio tra i loro primogeniti. Adesso, ovviamente, la neonata signorina Arjumand Harappa era più vecchia di quanto sarebbe potuto esserlo qualsiasi futuro Hyder maschio, e quindi le nozze erano fuori questione. Rani aveva rispettato la sua parte dell'accordo; e la sua efficienza rese ancor più profonda la tristezza di Bilquìs, già profonda come un pozzo.

E sotto il tetto di Bariamma cominciarono a scoccare piccoli sogghigni e commenti verso questa femmina innaturale che non sapeva produrre altro che bambini morti; la famiglia era fiera della propria fertilità. Una sera, quando Bilquìs si era già messa a letto, dopo essersi lavata dal viso le sopracciglia e aver riacquistato un aspetto di coniglio spaventato, e stava guardando con invidia il letto vuoto che era stato un tempo di Rani Harappa, dall'altro lato, una cugina particolarmente maligna, certa Duniyazad Begum, cominciò a sibilare insulti nel buio della notte: «La disgrazia della tua sterilità non è soltanto tua. Non ti rendi conto che è una vergogna collettiva? La vergogna di una qualsiasi di noi ci umilia tutte e piega le nostre schiene. Guarda cosa stai facendo alle parenti di tuo marito, come ripaghi quelle che ti hanno accolto quando sei arrivata fuggiasca e senza un soldo dal paese dei senzadio». Bariamma aveva spento le luci - l'interruttore principale pendeva da una corda sopra il suo letto - e il suo russare dominava la camera dello zenana. Ma Bilquìs non rimase tranquilla nel suo letto; si alzò e si buttò addosso a Duniyazad Begum, che la stava aspettando con impazienza, e le due donne, con le mani impigliate nei capelli e le ginocchia che affondavano in cedevoli zone carnose, ruzzolarono in silenzio sul pavimento. La lotta si svolse senza rumore, tale era il potere della matriarca sulla notte; ma la notizia si diffuse in tutta la camera attraverso gorgoglii di tenebre e le donne si misero a sedere sui loro letti e a guardare. E quando arrivarono gli uomini, divennero anch'essi muti spettatori di questo mortale combattimento, nel corso del quale Duniyazad perse parecchie manciate di peli dalle sue ascelle lussureggianti e Bilquìs si ruppe un dente sulle dita graffianti dell'avversaria; finché non entrò nel dormitorio Raza Hyder che le separò. A questo punto Bariamma smise di russare e accese la luce, liberando nell'aria illuminata tutto il rumore, tutti gli applausi e gli urli che erano stati repressi dal buio. Mentre alcune delle donne si precipitavano a sollevare la calva e cieca matriarca sui gaotakia, i cuscini, Bilquìs, tutta tremante tra le braccia del marito, dichiarò di non voler più vivere sotto il tetto della sua diffamazione. «Marito, tu sai benissimo», disse avvolgendosi nei cenciosi brandelli della sua infanzia di regina, «che sono cresciuta in condizioni ben migliori di queste; e se non mi vengono figli è perché non posso farli qui, in questo zoo, come fanno le altre, quasi fossero animali o qualcosa del genere.»

«Sì, sì, lo sappiamo che ti credi troppo su per noi». Bariamma, lasciandosi cadere sui gaotakia con una sorta di sibilo, simile a quello di un pallone che si sgonfia, ebbe l'ultima parola. «E allora portatela via, Raza, ragazzo», disse con quella sua voce da gemito di calabrone.

«E tu, Billoo Begum, vattene! Quando lascerai questa casa la tua vergogna verrà via con te, e la nostra cara Duniya, che tu hai aggredito perché diceva la verità, dormirà più tranquilla. Su, mohajir!

Immigrante! Sbrigati a far le valigie e va' a sceglierti la fogna che preferisci». Anch'io so qualcosa di questa faccenda degli immigranti.

Sono infatti un emigrato da un paese (l'India) e un nuovo arrivato in due (l'Inghilterra, dove vivo, e il Pakistan dove si è trasferita la mia famiglia contro la mia volontà). E secondo la mia teoria i risentimenti che noi mohajir suscitiamo hanno qualche rapporto con la nostra vittoria sulla forza di gravità. Abbiamo compiuto l'atto che tutti gli uomini anticamente sognavano, la cosa che invidiano agli uccelli; insomma abbiamo volato. Sto paragonando la gravità all'inserimento. Sono due fenomeni che palesemente esistono. I miei piedi poggiano sul terreno e non mi sono mai tanto arrabbiato come il giorno in cui mio padre mi annunciò d'aver venduto la casa della mia infanzia a Bombay. Ma non sappiamo spiegare né l'uno né l'altro. Conosciamo la forza di gravità, ma non le sue origini; e per spiegare il nostro attaccamento ai luoghi in cui siamo nati, ci fingiamo alberi e parliamo di radici. Guardatevi sotto i piedi. Non vi troverete escrescenze nodose che spuntano dalle suole. Penso a volte che questo delle radici sia un mito conservatore, inventato per tenerci al nostro posto. Gli anti-miti rispetto alla gravità e all'inserimento hanno lo stesso nome: flight: Migrare, volo, fuga, trasferirsi, per esempio in fuga, da un luogo all'altro. Volare e fuggire: due modi di cercare la verità. . . e un aspetto curioso della gravità, tra parentesi, è che, pur essendo ancora inspiegabile, tutti sembrano comprendere con estrema facilità il concetto della sua controforza teorica, l'antigravità. L'anti-inserimento invece non è accettato dalla scienza moderna... supponiamo che ICI O Ciba-Geigy o Pfizer o Roche o anche, immagino, la NASA, scoprano una pillola anti-gravità. Le linee aeree di tutto il mondo fallirebbero, ovviamente, da un giorno all'altro. Gli ingoiatori di pillole si scollerebbero dalla terra e fluttuerebbero nell'aria sino ad affondare nelle nuvole.

Occorrerebbe inventare speciali indumenti di volo impermeabili. E una volta esauriti gli effetti della pillola, si tornerebbe a calare semplicemente e dolcemente sulla terra, ma in un luogo diverso, a causa dei venti prevalenti e della rotazione del pianeta. I viaggi internazionali personali potrebbero essere resi possibili da pillole di diversa efficacia per viaggi di differenti lunghezze. Bisognerebbe anche fabbricare un motore di spinta direzionale, magari in forma di zaino. La produzione in serie metterebbe tutto questo alla portata di ogni famiglia. Vedete dunque i collegamenti tra gravità e «radici»: la pillola ci trasformerebbe tutti in migratori. Resteremmo sospesi in aria, ci serviremmo dei nostri vettori per arrivare alla giusta latitudine e per il resto lasceremmo fare alla rotazione del pianeta.

Quando gli individui si scollano dalla loro terra natia, li chiamiamo emigranti. Quando le nazioni fanno la stessa cosa (Bangladesh) si parla di secessione. Qual è la migliore caratteristica dei singoli emigranti e delle nazioni secessioniste? Io credo che sia la fiducia. Guardate gli occhi di quella gente nelle vecchie fotografie. La speranza vi sfavilla limpida attraverso le sbiadite sfumature seppia. E qual è la caratteristica peggiore? Il vuoto del proprio bagaglio. Sto parlando di valigie invisibili, non di quelle fisiche, magari di cartone, che contengono alcuni ricordi svuotati di significato: ci siamo scollati da qualcosa di più che un paese. Ci siamo librati in aria staccandoci dalla storia, dalla memoria, dal Tempo. Io potrei essere una di queste persone. Il Pakistan potrebbe essere uno di questi paesi. Come tutti sanno, «Pakistan» è un acronimo, ideato in Inghilterra da un gruppo di intellettuali musulmani. P sta per punjabi, A per afghani, K per kashmiri, S per sindhi e il «tan», dicono, per Baluchistan. (Nessun accenno, notate, alla Provincia orientale: il Bangladesh non ebbe mai il suo nome nel titolo e arrivò col tempo a capire l'antifona e a staccarsi dagli scissionisti. E immaginate cosa può fare alla gente una doppia secessione!) è insomma una parola nata in esilio che si trasferì poi a oriente, vi fu tras-portata o tradotta e s'impose alla storia; un emigrante rimpatriato, che si sistema in una terra divisa, che sovrappone un palinsesto al passato. Un palinsesto nasconde ciò che gli sta sotto. Per costruire il Pakistan era necessario nascondere il passato indiano, negare che appena sotto la superficie dell'ora legale pakistana c'erano secoli indiani. Si riscrisse il passato; non si poteva fare altrimenti. Chi si assunse il compito di riscrivere la storia? Gli immigrati, i mohajir. In quali lingue? - L'urdu e l'inglese, due lingue importate, anche se una aveva viaggiato meno dell'altra. è possibile vedere nella successiva storia del Pakistan un duello tra due strati di tempo, il mondo represso che Si apre un varco per riaffiorare in ciò-che-è-stato-imposto. E reale desiderio di ogni artista imporre al mondo la propria visione, il Pakistan, questo scrostato, frammentato palinsesto, sempre più in guerra con se stesso, può essere definito un fallimento della mente sognante. Forse i pigmenti usati erano sbagliati, instabili, come quelli di Leonardo; o forse il posto è stato solo immaginato in modo insufficiente, un quadro pieno di elementi inconciliabili, i sari degli immigrati che tengono la pancia scoperta contro i pudichi shalwar-kurta degli indigeni sindhi, l'urdu contro il punjabi, l'oggi contro l'allora; un miracolo che è andato a male. In quanto a me: sono anch'io, come tutti i migratori, un immaginoso.

Costruisco paesi immaginari e cerco di sovrapporli a quelli esistenti.

Affronto anch'io il problema della storia; cosa conservare, cosa buttar via, come restare aggrappati a ciò che la memoria insiste ad abbandonare, come affrontare il cambiamento. E per tornare al concetto di «radici», dovrei dire che non sono riuscito a liberarmene del tutto.

A volte mi vedo come un albero, o meglio, con una certa grandiosità, come il frassino Yggdrasil, il mitico albero del mondo della mitologia scandinava. Il frassino Yggdrasil ha tre radici. Una scende sino allo stagno della conoscenza vicino al Valhalla, dove va a bere Odino. Una seconda viene lentamente consumata dal fuoco perenne di Muspellheim, il regno del dio-fiamma Surtur. La terza viene progressivamente rosicchiata da un'orribile bestia che si chiama Nidhogg. E quando il fuoco e il mostro ne avranno distrutte due su tre, il frassino cadrà e caleranno le tenebre. Il crepuscolo degli dèi: il sogno di morte di un albero. Il paese-palinsesto della mia storia non ha, ripeto, un nome. Lo scrittore ceco in esilio Kundera scrisse una volta: «Un nome significa continuità col passato e le persone senza un passato sono persone senza un nome».

Ma io mi occupo di un passato che non vuol saperne di restare represso, che si batte quotidianamente con il presente; e quindi da parte mia è forse severità eccessiva negare un nome al mio regno delle fate. Secondo un aneddoto apocrifo, Napier, dopo una vittoriosa campagna in quello che è oggi il Pakistan meridionale, mandò in inghilterra questo colpevole messaggio di una sola parola: «Peccavi». Ho peccato. Sono tentato di dare un nome al mio Pakistan speculare che sia un omaggio a questo gioco di parole bilingue (e fittizio, non essendo mai stato pronunciato nella realtà). Sia dunque Peccavistan. Era il giorno in cui doveva reincarnarsi l'unico figlio maschio del futuro generale Raza Hyder.

Bilquìs si era trasferita dalla presenza anticoncezionale di Bariamma in un semplice alloggio per ufficiali sposati nell'area della base militare; e non molto tempo dopo la sua fuga aveva concepito, realizzando così la sua stessa profezia. «Cosa ti avevo detto?», trionfò. «Raz, il nostro piccolo angelo sta per tornare, aspetta e vedrai». Bilquìs attribuiva la sua rinnovata fertilità al fatto che le era finalmente concesso di gridare quando faceva l'amore, «perché così il piccolo angelo, che aspetta di nascere, può udire quel che succede e rispondere di conseguenza», disse teneramente al marito, e la felicità con cui lei pronunciò questa frase impedì a lui di replicare che non erano soltanto gli angeli a portata d'orecchio dei suoi appassionati gemiti e ululati d'amore, ma anche tutti gli altri ufficiali sposati della base, compresi il suo superiore diretto e alcuni inferiori, e che di conseguenza era stato costretto a sopportare una discreta quantità di battute sfottenti alla mensa. A Bilquìs cominciarono le doglie - la rinascita era imminente -, Raza l'aspettava, rigidamente seduto in un'anticamera del reparto maternità dell'ospedale militare. E dopo otto ore di urla e di spinte e di vasi sanguigni che scoppiavano nelle sue guance e di parole oscene permesse alle signore solo quando partoriscono, alla fine, pop!, riuscì a farlo, il miracolo della vita.

La figlia di Raza Hyder nacque alle due e un quarto del pomeriggio e, quel che più conta, nacque vivacemente viva e scalciante, quanto era stato morto suo fratello maggiore. Quando la bimba, avvolta nelle fasce, fu portata a Bilquìs, costei non poté fare a meno di esclamare, molto debolmente: «Tutto qui, Dio mio? Tanto soffiare e sbuffare per liberare soltanto questo topolino?» L'eroina della nostra storia, il miracolo andato a male, Sufiya Zinobia, era piccola come un qualunque bambino piccolo che voi possiate mai aver visto. (Rimase piccola anche quando crebbe, avendo preso dalla quasi nana nonna paterna, il cui nome, Bariamma, Grande Madre, era sempre stato una sorta di barzelletta di famiglia.) Un fagotto sorprendentemente minuscolo fu restituito da Bilquìs alla levatrice, che lo portò al padre in ansia. «Una figlia, maggiore sahib, e bella come il sole, non trova?» Nella sala parto, fluiva silenzio dai pori della madre esausta; nell'anticamera taceva anche Raza. Il silenzio: l'antica lingua della disfatta! Disfatta? Ma lui era Vecchio Rasoio in persona, il conquistatore dei ghiacciai, il vincitore dei prati gelati e delle pecore di montagna col vello di ghiaccio! Possibile che il futuro uomo forte della nazione si lasciasse sgominare così facilmente? Ma niente affatto. La bomba della levatrice determinò una resa incondizionata? No di certo. Raza cominciò a discutere; e le parole arrivavano a ondate, inesorabili come carri armati. I muri dell'ospedale tremarono e batterono in ritirata; cavalli s'impennarono sui vicini campi di polo, sbalzando di sella i loro cavalieri. «Si fanno spesso sbagli!», gridò Raza. «Terribili errori sono tutt'altro che rari! Caspita, il mio quinto cugino per matrimonio quando è nato... Non c'è ma che tenga, donna, esigo di vedere il direttore dell'ospedale!». E ancor più forte: «I bambini non arrivano puliti in questo mondo!». E anche esplose dalle sue labbra come palle di cannone: «I! Genitali! Possono! Essere! Nascosti!». Raza Hyder tonante, furioso.

La levatrice s'irrigidì, salutò; era un ospedale militare, non dimentichiamolo, e Raza le era superiore in grado, e quindi fu costretta ad ammettere che sì, quello che stava dicendo il maggiore sahib era sicuramente possibile. E corse via. Rinacque la speranza negli occhi umidi del padre, e anche nelle pupille dilatate di Bilquìs, che naturalmente aveva udito tutto quel frastuono. E a questo Punto fu la bimba, di cui era in dubbio l'essenza stessa, ad ammutolire e a mettersi a riflettere. Il direttore (un generale di brigata) entrò nella tremante stanza dove il futuro presidente stava cercando di agire sulla biologia con un sovrumano atto di volontà. Le sue parole, autorevoli, definitive, superiori in grado a quelle di Raza, uccisero la speranza. Il figlio nato morto tornò a morire, e persino il suo fantasma fu spento dal fatale discorso del medico: «Non c'è possibilità d'errore. La prego notare che la bambina è stata lavata. Prima di essere avvolta nelle fasce. Il suo sesso è fuori discussione. Mi permetta di farle le mie congratulazioni,. Ma quale padre lascerebbe liquidare così il suo figlio maschio, due volte concepito, senza combattere? Raza tirò via le fasce; ed essendo così arrivato all'infante che esse contenevano, puntò un dito sulle sue parti basse. «Qui! Le domando, signore, che cos'è questo, secondo lei?»

«Abbiamo qui la configurazione prevista, e anche il non inconsueto rigonfiamento postnatale della femmina...». «Una protuberanza» strillò disperatamente Raza. «Non è forse, dottore, un'assoluta e incontestabile protuberanza?». Ma il generale di brigata aveva lasciato la stanza. «E a questo punto» - cito ancora la leggenda familiare «quando i suoi genitori dovettero riconoscere l'immutabilità del suo genere e sottomettersi a Dio, come la fede richiede; in quello stesso istante la creatura estremamente nuova e soporifica che stava tra le braccia di Raza cominciò - è vero! - ad arrossire». Oh, arrossente Sufiya Zinobia!

E possibile che questo episodio sia stato un poco abbellito a forza di essere raccontato e riraccontato; ma non sarò io a revocare in dubbio la veridicità della tradizione orale. Dicono che la piccola arrossì appena nata. Allora, persino allora, si vergognava con troppa facilità.