CAPITOLO SESTO
QUESTIONE D.ONORE.

 

C'è un proverbio che dice che la rana che gracchia in fondo a un pozzo verrà spaventata dalla rimbombante voce della rana gigante che le risponde.

 

Quando furono scoperti i grandi giacimenti di gas naturale della valle di Needle nella provincia di Q., il comportamento antipatriottico degli intemperanti membri delle tribù locali divenne una questione d'interesse nazionale. Dopo che la squadra di trivellatori, topografi e scienziati mandata a Needle per organizzare l'estrazione del butano fu assalita dai tribali che violentarono ogni suo membro diciotto volte virgola sessantasei in media (di cui tredici aggressioni virgola novantasette da dietro e solo quattro virgola sessantanove alla bocca) prima di tagliare il cento per cento delle gole degli esperti, il primo ministro dello stato, Aladdin Gichki, chiese l'intervento dei militari. Il comandante delle forze mandate a proteggere i preziosissimi giacimenti di gas era nientemeno che Raza Hyder, l'eroe della spedizione di Aansu-ki-Wadi, già asceso al grado di colonnello. Era una nomina gradita alle folle. «Chi è più adatto a difendere la nostra preziosa valle di montagna», domandava retoricamente «Guerra», il più importante quotidiano della nazione, «del conquistatore di un altro gioiello simile?». E Vecchio Rasoio fece personalmente questa dichiarazione a un cronista dello stesso giornale sui gradini del nuovo treno postale con aria condizionata diretto a ovest: «Questi briganti sono le rane nel pozzo, caro signore, e, con l'aiuto di Dio, io intendo essere il gigante che li farà morire di spavento».

 

A quell'epoca, sua figlia Sufiya Zinobia aveva quindici mesi. La piccola e Bilquìs accompagnarono il colonnello Hyder nel viaggio verso le Montagne impossibili. Ma appena il treno uscì dalla stazione rumori di "gozzoviglia pagana" (la frase è di Raza) cominciarono a filtrare nel loro scompartimento. Raza s'informò dal capotreno sull'identità dei suoi vicini. «Grandissimi personaggi, signore», fu la risposta, «alcuni dirigenti e anche alcune dive di una famosa casa cinematografica». Raza Hyder alzò le spalle. «Dobbiamo allora rassegnarci a questo baccano, perché io non mi abbasserò mai a discutere con gente del cinema». Udendo le sue parole, Bilquìs atteggiò le labbra in un teso ed esangue sorriso e i suoi occhi fissarono con ferocia lo specchio sulla parete che la divideva dagli imperi del proprio passato. Era una vettura di nuovo modello, con un corridoio su cui si aprivano le porte degli scompartimenti, e poche ore dopo, mentre Bilquìs stava tornando dalla toilette per le signore, un giovane con le labbra carnose come quelle di Iskander Harappa si sporse dal depravato scompartimento dei cineasti e le scoccò una serie di baci, sussurrando affettuosità inzuppate di whisky: «Datemi retta, yaar, tenetevele le vostre merci d'importazione, i prodotti nazionali sono i migliori, non c'è il minimo dubbio». Bilquìs poteva sentire i suoi occhi che le stringevano il seno, ma per qualche inspiegabile ragione non accennò a questo insulto subìto nel proprio onore quando tornò accanto al marito. Anche l'onore di Raza Hyder fu duramente insultato durante quel viaggio o, più precisamente, alla sua conclusione, perché quando arrivarono alla stazione del Cantt di Q.

trovarono una folla fitta come uno sciame di cavallette che aspettava sulla banchina, cantando canzoni di successo, lanciando fiori e agitando bandiere e cartelli di benvenuto, e, pur avendo visto Raza arricciarsi i baffi, le sorridenti labbra di Bilquìs non fecero alcun movimento per avvertirlo dell'evidente verità, e cioè del fatto che il benvenuto non era per il colonnello ma per la squallida marmaglia dello scompartimento accanto. Hyder scese dal treno con le braccia spalancate e un discorso a garanzia della sicurezza degli indispensabili filoni di gas che gli gocciolava dalle labbra, e fu quasi buttato a terra dalla calca dei cacciatori d'autografi e dei baciatori di orli di vestiti, avviati verso le pudicissime attrici. (E, avendo perso l'equilibrio, non s'accorse di un giovane dalle labbra carnose che agitava le dita per dire addio a Bilquìs.) L'offesa subìta dal suo orgoglio spiega molte delle cose che seguirono; con la logica degli umiliati, cominciò a prendersela con la moglie, che aveva un passato cinematografico in comune con i suoi avversari dopo di che si risvegliò la sua collera per la reincarnazione mal riuscita del suo unico figlio maschio, che percorse i ponti appena ricostruiti tra sua moglie e i fan cinematografici, finché Raza non arrivò inconsciamente ad attribuire le proprie difficoltà generatrici ai frivoli frequentatori dei cinema di Q. La crisi di un matrimonio è come l'acqua dei monsoni che s'accumula su un tetto piatto. Non t'accorgi della sua presenza, ma diventa sempre più pesante, va in cerca dei punti deboli e un bel giorno ti casca sulla testa l'intero tetto....

Allontanandosi da Sindbad Mengal, il ragazzo con le labbra bacianti che era il figlio minore del presidente della casa cinematografica e che era qui per assumersi la responsabilità dell'attività filmica nella regione con promesse di cambiamenti settimanali di programma, di nuove sale e di regolari apparizioni personali di divi famosi e di cantanti in playback, gli Hyder accantonarono le loro certezze di trionfo e si fecero strada a spintoni tra la folla giubilante per uscire dalla stazione. Al Flashman's Hotel furono accompagnati in un appartamento per lune di miele, che puzzava in maniera opprimente di palline di naftalina, da un debilitato cameriere accompagnato dall'ultima delle scimmie ammaestrate in divisa da fattorino, e l'uomo, nell'abisso della sua disperazione, non poté trattenersi dal toccare Raza Hyder su un braccio e dal chiedergli: «La prego, eccellenza, lei sa quando torneranno i sahib angrez?» E Rani Harappa? Ovunque lei guardi ci sono visi che sbirciano; ovunque ascolti, ci sono voci che usano un vocabolario di così policroma oscenità da tingere le sue orecchie di tutti i colori dell'arcobaleno.

Si sveglia una mattina subito dopo il suo arrivo nella nuova casa e trova delle contadinotte che frugano nei cassetti dei suoi indumenti, tirando fuori e sollevando biancheria di pizzo importata, esaminando rossetti color rosso cupo. «Cosa state facendo?». Le due ragazze, senza la minima vergogna, si voltano a guardarla, ma non posano né gli indumenti, né i cosmetici, né i pettini. «Oh, moglie di Isky, non devi preoccuparti. Ce lo ha detto la ayah di Isky di guardare». «Abbiamo lucidato i pavimenti e lei ci ha dato il permesso». «Ehi, moglie di Isky, guarda i pavimenti che abbiamo lucidato! Più lisci del culo di una scimmia, te lo giuro!». Rani, a letto, si solleva sui gomiti; la sua voce cerca di scacciare il sonno. «Fuori! Non vi vergognate di venire qui! Andatevene prima che...» Le ragazze si fanno vento come se ardesse un fuoco nella stanza. «Oh Dio che caldo!». «Ehi, moglie di Isky, bagna la lingua nell'acqua!» Lei grida: «Non fate le insol...» ma loro la interrompono. «Non t'agitare, signora, in questa casa si fa ancora quello che dice la ayah di Isky.» Le ragazze, dimenando sfacciatamente i fianchi, si avviano verso la porta. Ma si fermano sulla soglia per un'ultima stoccata: «Merda, quell'Isky a sua moglie regala dei gran bei vestiti, il meglio che ci sia, non c'è che dire,»

«è vero. Ma se un pavone danza nella giungla, non c'è nessuno che guardi la sua coda,»

«E dite a Isky, dite all'ayah che voglio vedere mia figlia», strilla lei, ma le ragazze hanno chiuso la porta e al di là di essa una di loro grida: «Perché tanto strepito? La bambina verrà quando sarà pronta».

Rani Harappa non piange più, non dice più al suo specchio: «Non è possibile che possa succedere questo,» né sospira con vaga nostalgia per il dormitorio dei quaranta ladroni. Con in più una figlia, con in meno un marito, è ora abbandonata in questo angolo remoto dell'universo, Mohenjo, la proprietà di campagna di Harappa nel Sind, che si estende da un orizzonte all'altro, afflitta da una cronica mancanza d'acqua, popolata di mostri ridenti e sprezzanti, «autentici Frankenstein». Non crede più che Iskander non sappia come la trattano. «Lo sa», dice allo specchio. Il suo amato marito, lo sposo sul vassoio d'oro. «Una donna s'affloscia dopo che ha avuto un figlio», confida allo specchio, «e al mio Isky piacciono le cose molto tese.» Poi si copre le labbra con una mano e corre alla porta e alle finestre per accertarsi che nessuno l'abbia udita. Più tardi, si siede in shalwar e kurta di crepe-de-chine italiano sulla più fresca delle verande, a ricamare uno scialle e a guardare una piccola nube di polvere all'orizzonte. No, non può essere Isky, è in città col suo amico del cuore, con Shakil; l'ho capito subito che quello era una minaccia, l'ho capito dal momento stesso in cui l'ho visto, quel grasso mastello di carne di porco. Sarà probabilmente uno di quei piccoli vortici di vento che passano sulla boscaglia. La terra di Mohenjo è ribelle. Cuoce le persone indurendole come pietre. I cavalli nelle scuderie sono fatti di ferro, i bovini hanno ossa di diamante. Gli uccelli beccano zolle di terra, sputano, si costruiscono nidi col fango; gli alberi sono rari, tranne che nel boschetto incantato, davanti al quale recalcitrano persino i cavalli di ferro... un gufo, mentre Rani ricama, giace addormentato in una buca del terreno. Se ne vede soltanto una punta di un'ala. «Se venissi ammazzata qui, la notizia non uscirebbe mai dalla proprietà». Rani non sa se ha parlato o no ad alta voce. I suoi pensieri, liberati dalla solitudine, irrompono spesso in questi giorni oltre le sue labbra inconsapevoli; e spesso si contraddicono, perché la prima idea che si forma nella sua mente mentre sta seduta sulla veranda dal pesante cornicione è questa: «Mi piace la casa».

Scorrono verande lungo tutti e quattro i muri; un lungo sentiero coperto da una zanzariera collega la casa al bungalow della cucina. è uno dei miracoli del luogo il fatto che i chapati non si raffreddino percorrendo questo viale dal pavimento di legno per raggiungere la sala da pranzo, e che i soufflés non s'affloscino mai. E quadri a olio e lampadari e soffitti alti e un tetto piatto coperto di macadam sul quale una volta, prima che lui la lasciasse sola, si era inginocchiata un mattino a ridacchiare attraverso un lucernario al marito ancora a letto. La casa di famiglia di Iskander Harappa. «Se non altro mi resta questo pezzo di lui, questa terra, la sua prima casa. Che svergognata devo essere, Bilquìs, per accontentarmi di una parte così piccola del mio uomo». E Bilquìs, al telefono da Q.: «Forse andrà bene per te, cara, ma io non potrei mai sopportarlo, nossignore, sì, certo, il mio Raza adesso è via a sorvegliare il gas, ma risparmiami la tua simpatia, cara, quando viene a casa può essere stanco come una bestia ma non è mai troppo stanco, non so se mi spiego». La nube di polvere è ormai arrivata al villaggio di Mir, e quindi è un visitatore, non un turbine di vento. Lei cerca di reprimere la propria agitazione. Il villaggio porta il nome del padre di Iskander, Sir Mir Harappa, ora deceduto, e creato un tempo cavaliere dalle autorità angrez per i servizi resi. Ogni giorno si ripulisce la sua statua equestre della merda d'uccelli. Sir Mir in pietra fissa con eguale alterigia l'ospedale del villaggio e il bordello, l'epitome di uno zamindar illuminato... «Un visitatore.» Rani batte le mani, suona un campanello. Niente. Fin quando l'ayah di Isky, una donna ossuta con morbide mani senza calli, non arriva con un succo di melagrana. «Non c'è bisogno di far tanto rumore, moglie di Isky, la gente di tuo marito sa come si riceve». Dietro la ayah c'è il vecchio Gulbaba, sordo e semicieco, e dietro di lui una scia di pistacchi rovesciati a partire dal vassoio semivuoto che tiene in mano. «Oh Dio, i tuoi servi, cara», Bilquìs le ha offerto pareri interurbani, «tutti quei matusa che stanno lì da cinquecento anni. Dovresti portarli da un medico e fargli fare un'iniezione per addormentarli. Cosa non ti tocca sopportare! Sei regina di nome, ma devi diventarlo anche di fatto!» Si dondola sulla sedia nella veranda, e l'ago si muove senza fretta e lei si sente spremere via la giovinezza e l'allegria, goccia a goccia, dalla pressione dei momenti che passano, e poi i cavalieri entrano nel cortile e Raza riconosce il cugino di Iskander, Piccolo Mir Harappa della proprietà Daro che comincia appena oltre l'orizzonte a nord. Da queste parti sono gli orizzonti che servono da confini. «Rani begum», grida il piccolo Mir dalla sua sella, «non devi prendertela con me per questo. Prenditela con tuo marito, dovresti tenerlo un po' più a freno. Scusami, ma quello è un vero figlio di puttana, mi ha proprio fatto incazzare». Smonta di sella una dozzina di cavalieri armati che cominciano a saccheggiare, mentre Mir fa ruotare e impennare la sua bestia e lancia spiegazioni alla moglie del cugino, colto da un'inebriante nitrente frenesia che scioglie la sua lingua da qualsiasi freno. «Cosa sai tu, signora, di quel buco di culo d'un manzo? Mettimelo in bocca, ma io so tutto. Quel cazzo di porco omosessuale. Fatti raccontare da quelli del villaggio del suo grande padre che chiudeva a chiave la moglie e passava tutte le notti al bordello e di quella puttana che sparì quando il suo ventre gonfio non poteva più essere spiegato da quello che mangiava, e dopo un po' la signora Harappa teneva tra le braccia un bambino, quando tutti sapevano che non veniva più scopata da un decennio. Tale il padre, tale il figlio, questa è la mia sincera opinione, e se non ti garba pazienza.

Quel fottuto bastardo di avvoltoi mangia-carogne. Crede forse di potermi insultare in pubblico e passarsela liscia? Chi è il più anziano, io o quel succhiatore di merda dal culo di asini malati? Chi è il più grosso proprietario, io o lui con quei suoi venti centimetri di terra dove non riescono a ingrassare neanche i pidocchi? Diglielo tu chi è il re da queste parti. Digli chi è che qua attorno può fare quello che gli piace, e digli anche che dovrebbe strisciare a baciarmi i piedi come un fottuto stupratore di sua nonna e chiedermi perdono. Quel mordicchiatore del capezzolo sinistro di un corvo. Oggi lo capirà chi è il capo». I saccheggiatori staccano dalle cornici dorate quadri della scuola di Rubens; sedie Sheraton si vedono amputare le gambe. Antichi pezzi d'argenteria finiscono in vecchie e logore borse da sella. Caraffe di vetro tagliato vanno in frantumi su tappeti con mille nodi. Lei, Rani, continua a ricamare in mezzo a quest'orgia punitiva. I vecchi servi, la ayah, Gulbaba, le ragazze che lucidano, gli stallieri, gli abitanti del villaggio di Mir se ne stanno in piedi a guardare, s'accovacciano ad ascoltare. Piccolo Mir, fiera figura equestre, alto e rapace avatar della statua nel villaggio, tace solo quando i suoi uomini sono rimontati in sella. «L'onore di un uomo è nelle sue donne», grida.

«Perciò quando mi ha portato via quella puttana, mi ha preso anche il mio onore, diglielo a quel piccolo e presuntuoso bevipiscia. Raccontagli della rana nel pozzo e di come le rispose la rana gigante. Digli di aver paura e di considerarsi fortunato perché io sono un mite. Avrei potuto riconquistare il mio onore privandolo del suo. Avrei potuto farti qualsiasi cosa, signora, qualsiasi cosa, e chi avrebbe osato dirmi di no? Qui è la mia legge, la legge di Mir, che comanda. Salaam aleikum».

La polvere dei cavalieri che s'allontanano si posa sulla superficie dell'intatto succo di melagrana; poi scende a formare un denso sedimento in fondo alla brocca. «Non posso ancora raccontarglielo», dice Rani a Bilquìs per telefono. «Mi vergogno troppo.»

«Oh Rani, lo so che hai i tuoi problemi, mia cara», simpatizza Bilquìs al telefono dell'esercito. «Cosa intendi dire che non lo sai? Io me ne sto qui, abbandonata proprio come te, ma persino in questa città da niente so che cosa sta dicendo tutta Karachi. Cara, chi non ha visto il tuo Isky e quel ciccione di un dottore agli spettacoli di danza del ventre e nelle piscine degli alberghi internazionali dove vanno le donne bianche nude? Perché credi che ti abbia relegata lì? Alcool, gioco, oppio e chissà che altro. Quelle donne con le loro foglie di fico impermeabili. Scusami, cara, ma qualcuno doveva pur dirtelo.

Combattimenti di galli, combattimenti di orsi, combattimenti di serpenti e manguste, organizza tutto quello Shakil, come un ruffiano o qualcosa del genere. E quante donne! Oh baba. Sotto i tavoli dei banchetti afferrano le loro cosce. Dicono anche che i due siano andati nel quartiere delle luci rosse con le cineprese. Ma è chiaro che cosa ha in mente quello Shakil, a nessuno al mondo la bella vita viene offerta su un vassoio, forse qualcuna di queste donne è disposta a passare dall'uno all'altro, briciole dalla tavola di un ricco, non so se mi spiego.

Comunque la cosa importante, cara, è che il tuo Isky ha soffiato al cugino la sua più succosa puttanella francese e proprio sotto il suo naso, in occasione di non so quale importante ricevimento culturale. Mi spiace dirlo ma ne parla tutta la città, doveva essere divertente vedere Mir piantato lì come uno stupido mentre Isky se ne andava con quella sgualdrina. Oh Dio, non capisco perché non ti metti a piangere. E adesso perché ti scaldi tanto, dovresti sapere chi ti è amica e chi diffama il tuo nome alle tue spalle. Dovresti sentirmi al telefono, cara, come ti difendo, come una tigre, non hai idea, tesoro, tu che te ne stai lì seduta a signoreggiare sul tuo decrepito Gulbaba e su tutti gli altri».

Incontra la ayah che chioccia melanconica tra i relitti della sala da pranzo. «Ha esagerato», dice la ayah. «Il mio Isky è tanto birichino. Fa sempre arrabbiare il suo cuginetto. Ha esagerato. Quel piccolo teppista». Ovunque lei guardi ci sono visi che sbirciano, ovunque ascolti ci sono voci. La tengono d'occhio anche quando, arrossendo per l'umiliazione, telefona a Iskander per dargli la notizia. (Le ci sono voluti cinque giorni per trovare il coraggio.) Iskander Harappa dice soltanto quattro parole: «La vita è lunga». Raza Hyder condusse i suoi soldati nella valle di Needle, dopo una settimana durante la quale il loro comportamento aveva talmente turbato la città che il primo ministro dello stato, Gichki, ordinò a Raza di mettersi al più presto in cammino prima che la riserva di vergini a disposizione degli scapoli di Q.

s'assottigliasse al punto da mettere a repentaglio la stabilità morale della regione. Accompagnava i soldati un buon numero di architetti, di ingegneri e di muratori, tutti in uno stato di panico che inumidiva loro i calzoni, perché per motivi di sicurezza non erano stati informati della sorte della squadra esplorativa prima del loro arrivo a Q., dove udirono immediatamente versioni splendidamente elaborate di questa storia da ogni paan-wallah stazionante agli angoli delle strade. I muratori singhiozzavano nei furgoni chiusi; i soldati di guardia li schernivano: «Paurosi! Neonati! Donne!». Raza, sulla jeep di bandiera, non udiva nulla di tutto questo. Non riusciva a distogliere i propri pensieri dagli eventi del giorno prima, quando in albergo aveva ricevuto la visita di uno gnomo ossequioso, i cui ampi indumenti emettevano un fortissimo odore di gas di scappamento di motoscooter: il Maulana Dawood, il vecchissimo santone, al cui collo sottile come quello di una gallina, pendeva un tempo una collana di scarpe. «Signore, eccellenza, io guardo la sua fronte di eroe e mi sento ispirato». L'ammaccatura della devozione sulla fronte di Raza, non poteva passare inosservata.

«No, grande saggio, sono io che mi sento insieme umiliato ed esaltato dalla sua visita». Raza Hyder era pronto a continuare su questo tono per almeno undici minuti e restò un po' deluso quando il santone annuì e disse sbrigativamente: «Bene, passiamo agli affari. Lei sa tutto di Gichki naturalmente. Non c'è da fidarsene.»

«No?,> «Assolutamente no. Un uomo estremamente corrotto. Ma questo risulterà già dai suoi dossier». «Mi permetta di beneficiare delle conoscenze di chi vive sul posto...»

«E come tutti i politici di oggi. Nessun timore di Dio e tante attività di contrabbando. Ma io la sto annoiando; l'esercito è informatissimo di queste cose.»

«Continui, la prego». «Diavolerie straniere, signore. Niente di meno.

Cose diaboliche importate dall'estero.» Ecco ciò che Gichki era accusato di importare illegalmente nella pura terra di Dio: frigoriferi, macchine per cucire azionate con i piedi, musica di consumo americana registrata a 78 giri al minuto, romanzi d'amore illustrati che infiammavano le passioni delle vergini locali, impianti d'aria condizionata per uso domestico, macchinette per il caffè, gonne, occhiali da sole tedeschi, concentrati di cola, giocattoli di plastica, sigarette francesi, antifecondativi, veicoli a motore esenti da imposte, teste di biella, tappeti di Axminster, fucili a ripetizione, profumi peccaminosi, reggiseni, mutandine di rayon, macchine agricole, libri, matite con gomma incorporata e copertoni di bicicletta senza camere d'aria. Il doganiere del posto di frontiera era diventato pazzo e quella svergognata di sua figlia era dispostissima a chiudere gli occhi in cambio di regolari bustarelle. Di conseguenza tutti questi articoli venuti dall'inferno arrivavano in pieno giorno dalla strada pubblica e trovavano il modo di raggiungere i mercati degli zingari, persino nella capitale. «L'esercito», disse Dawood con una voce che era divenuta un sussurro, «non può limitarsi a schiacciare i tribali. In nome di Dio, signore». «Venga al punto, signore». «Il punto è questo, signore. La preghiera è la spada della fede. Analogamente, la spada del fedele, maneggiata nel nome di Dio, non è forse una forma di santa preghiera?».

Gli occhi di Hyder divennero opachi. Volse il capo per guardare, oltre la finestra, un'enorme casa silenziosa. Da una finestra all'ultimo piano, un ragazzo stava puntando un binocolo sull'albergo. Raza tornò a voltarsi verso il Maulana. «Gichki, ha detto». «Qui abbiamo Gichki. Ma le cose vanno dappertutto nello stesso modo. Ministri!». «Sì», disse Hyder distrattamente, «sono ministri, è vero». «E adesso che ho detto quel che dovevo dirle, prendo congedo, inchinandomi a lei per il privilegio di questo incontro. Dio è grande». «Siamo nelle mani di Dio».

Raza partì per i minacciati giacimenti di gas con questa conversazione nell'orecchio della sua mente; e nell'occhio della sua mente c'era l'immagine di un ragazzino col binocolo, solo a una finestra dell'ultimo piano. Un ragazzino che era figlio di qualcuno; comparve una lacrima sulla guancia di Vecchio Rasoio, ma fu soffiata via dal vento. «Partito per un minimo di tre mesi», sospirò Bilquìs al telefono. «E io che faccio? Sono giovane, non posso certo restare seduta qui tutto il giorno come un bufalo nel fango.

 

Grazie a Dio posso sempre andare al cinema». Ogni sera, lasciando la bambina alle cure di un'ayah assunta sul posto Bilquìs andava a sedersi in un cinema nuovo di zecca chiamato Mengal Mahal. Ma Q. era un città piccola, gli occhi vedevano anche al buio... su questo tema però tornerò più avanti, perché non posso trascurare oltre la storia della mia povera eroina. Due mesi dopo la partenza di Raza Hyder per la landa dove doveva combattere i dacoit dei giacimenti di gas, la sua unica figlia Sufiya Zinobia contrasse una febbre cerebrale che fece di lei un'idiota. Si udì Bilquis che, strappandosi con eguale passione il sari e i capelli, proferiva una frase misteriosa: «è un giudizio,» gridava, accanto al letto della bimba. Non avendo più speranza nei medici civili e militari, si rivolse a un hakim del luogo, il quale preparò un costosissimo liquido, distillato da radici di cactus, polvere d'avorio e penne di pavone, che salvò la vita alla piccola ma che (come lo stregone aveva avvertito) fece di lei una ritardata mentale per il resto dei suoi giorni, perché uno dei deplorevoli effetti collaterali di una pozione così ricca di elementi di longevità consisteva nel rallentare il procedere del tempo nel corpo di colui o di colei cui veniva somministrata. Quando Raza tornò in licenza, Sufiya Zinobia non aveva più la febbre, ma Bilquis era convinta di poter già riconoscere nella bimba, che non aveva ancora due anni, gli effetti di quell'irreversibile decelerazione interna. «E se c'è questo effetto,» temeva, «chissà cos'altro può esserci? Chi lo può dire?» In balia di un senso di colpa talmente estremo che persino la sofferenza della sua unica figlia pareva insufficiente a spiegarlo, un senso di colpa nel quale, se fossi lingua scandalosamente maligna, potrei dire che c'era anche qualcosa di Mengaliano, qualcosa che aveva a che fare con le serate al cinema e con i giovani dalle labbra carnose, Bilquis Hyder passò la notte precedente il ritorno di Raza camminando insonne su e giù per l'appartamento per lune di miele del Flashman's Hotel, e bisognerebbe forse notare che con una delle mani, agendo apparentemente di propria iniziativa, continuava ad accarezzare la zona intorno al proprio ombelico. Alle quattro del mattino riuscì a mettersi in contatto telefonico interurbano con Rani Harappa a Mohenjo e pronunciò queste sconsiderate parole: «è un giudizio, Rani, cos'altro può essere? Lui voleva un maschio e io invece gli do una femmina idiota. è la verità, scusami. Non posso farci niente.

Una imbecille, una cretina, Rani! Niente in testa! Paglia tra un orecchio e l'altro al posto del cervello. Una zucca vuota. Cosa si può fare? Ma nulla, cara. Quel cervello di gallina, quel topo! Ma mi tocca accettarla: è la mia vergogna». Quando Raza Hyder tornò a Q., il ragazzo era di nuovo alla finestra della grande casa disabitata. Una delle guide locali, rispondendo a una domanda del colonnello, gli raccontò che la casa apparteneva a tre streghe folli e peccaminose che, senza mai uscirne, riuscivano egualmente a produrre bambini. Il ragazzo alla finestra era il loro secondogenito: da vere streghe, pretendevano di avere in comune la loro prole. «Ma si dice, signore, che in quella casa ci siano più ricchezze che nel tesoro di Alessandro Magno». Hyder ribatté in un tono che parve sprezzante: «Sarà. Ma se un pavone danza nella giungla, chi vedrà mai la sua coda?» I suoi occhi tuttavia non abbandonarono mai il ragazzo alla finestra, finché la jeep non arrivò all'albergo, dove trovò la moglie che lo aspettava, coi capelli sciolti e il viso lavato sino a cancellare le sopracciglia: pareva insomma l'incarnazione stessa della tragedia, e Raza apprese ciò di cui lei si era troppo vergognata per mandargliene notizia. La malattia della figlia e la visione del ragazzino col binocolo si congiunsero nell'animo di Hyder con i rigori dei novanta giorni nel deserto e lo fecero uscire furiosamente dall'appartamento per lune di miele, sentendosi così terribilmente in collera che per la sua sicurezza personale aveva bisogno di trovare al più presto uno sfogo. Ordinò dunque un'auto dello stato maggiore e si fece portare alla residenza del primo ministro Gichki nel Cantonment, dove, senza perder tempo in cerimonie, informò il ministro che a Needle i lavori di costruzione erano ormai avviati, ma che non sarebbe mai stato possibile eliminare la minaccia dei tribali se lui, Hyder, non fosse stato autorizzato a prendere misure punitive draconiane. «Con l'aiuto di Dio riusciamo a difendere il territorio, ma è tempo di smetterla con le mezze misure. Signore, lei deve mettere la legge nelle mie mani. Carta bianca. In certi momenti la legge civile deve inchinarsi alle necessità militari. La violenza è la lingua di quei selvaggi; ma la legge ci obbliga a parlare nella screditata lingua femminea del minimo di forza. Non serve, signore. Non posso garantire risultati». E quando Gichki replicò che in nessun caso le leggi dello stato potevano essere violate dalle forze armate - «Non vogliamo barbarie su quelle colline, signore! Né torture, né gente appesa per i piedi, almeno finché sarò io il primo ministro!» Raza con voce sgarbatamente sonora che uscì dalle porte e dalle finestre dell'ufficio di Gichki e terrorizzò i fattorini che stavano fuori, perché veniva dalle labbra di un uomo solitamente così cortese, ammonì il primo ministro in questi termini: «L'esercito oggi sta osservando, Gic hki sahib. In tutto il paese gli occhi di onesti soldati vedono ciò che vedono, e non siamo per niente soddisfatti, nossignore. La gente si agita, signore. E quando smetteranno di dar retta ai politici, dove cercheranno la purezza?». Raza Hyder nella sua ira lasciò Gichki piccolo, testa tonda e rapata, piatto viso cinese - occupato a formulare una risposta che non sarebbe mai stata pronunciata; e trovò Dawood che lo stava aspettando accanto all'auto dello stato maggiore. Soldato e santone viaggiarono sul sedile posteriore, con una lastra di vetro che li proteggeva dall'indiscrezione dell'autista. Sembra probabile che dietro questo schermo un nome sia passato dalla lingua divina all'orecchio marziale; un nome che si portava dietro elementi di scandalo. Ma Dawood informò davvero Hyder degli incontri di Bilquìs con il suo Sindbad? Io dico solo che sembra probabile. Innocente finché non si dimostra la colpevolezza è un eccellente principio. Quella notte il direttore di cinematografo Sindbad Mengal lasciò come al solito il suo ufficio al Mengal Mahal dalla porta di servizio, emergendo in un buio vicoletto dietro lo schermo. Stava fischiettando un motivo triste, la melodia di un uomo che non può incontrarsi con l'amata benché ci sia la luna piena. Nonostante la tristezza del motivo, era come al solito elegantissimo: il suo vivace vestito europeo, la sua camicia sahariana e i suoi pantaloni di flanella luccicavano nel vicolo, e la malinconica luce della luna rimbalzava sui suoi capelli impomatati. è probabile che non si sia mai accorto che le ombre del vicolo avevano cominciato a circondarlo; il coltello, che la luna avrebbe illuminato, rimase evidentemente nella guaina sino all'ultimo istante. Sappiamo questo perché Sindbad Mengal non smise di fischiettare se non quando il coltello gli entrò nelle viscere, dopo di che qualcun altro riprese lo stesso motivo, nell'eventualità che un passante si incuriosisse. Mentre il coltello compiva il suo lavoro, una mano coprì la bocca di Sindbad.

Nei giorni successivi l'assenza di Mengal dal suo ufficio attirò inevitabilmente l'attenzione, ma fu solo quando parecchi spettatori si lamentarono del deterioramento della qualità del suono stereofonico del cinema che un tecnico andò a ispezionare gli altoparlanti dietro lo schermo e trovò, nascosti all'interno, frammenti della camicia bianca e dei pantaloni di flanella di Sindbad Mengal, nonché un paio di scarpe Oxford nere. Gli indumenti affettati dal coltello contenevano ancora le rispettive appropriate parti del direttore del cinema. I genitali erano stati tagliati e conficcati nel retto. La testa non fu mai trovata e l'assassino non fu mai consegnato alla giustizia. La vita non è sempre lunga.

 

Quella notte Raza fece l'amore con Bilquìs con una grossolanità che lei decise d'attribuire ai mesi trascorsi nel deserto. Il nome di Mengal non venne mai menzionato nei loro discorsi, nemmeno quando l'intera città spettegolava sulla faccenda dell'assassinio, e poco tempo dopo Raza tornò nella valle di Needle. Bilquìs smise d'andare al cinema e in questo periodo, pur conservando la sua calma da regina, aveva l'aria di stare su un affioramento friabile sopra un abisso, perché era divenuta soggetta ad attacchi di vertigine. Una volta, quando raccolse la sua menomata figlioletta per il gioco tradizionale del portatore d'acqua, caricandosi Sufiya Zinobia sulla spalla e facendo finta che fosse un otre d'acqua, crollò sul pavimento sotto la bimba, contentissima, prima d'aver finito di versarla. Poco dopo telefonò a Rani Harappa e le annunciò di essere incinta. Mentre comunicava questa informazione, la palpebra del suo occhio sinistro cominciò, inspiegabilmente, a battere.

 

Un palmo che prude significa denaro all'orizzonte. Scarpe incrociate sul pavimento annunciano un viaggio: scarpe capovolte presagiscono una tragedia. Forbici che tagliano l'aria attestano una lite in famiglia. E un occhio sinistro che ammicca vuol dire che tra poco arriveranno brutte notizie. «Nella mia prossima licenza», scrisse Raza a Bilquìs, «andrò a Karachi. Ci sono questioni di famiglia e c'è inoltre un ricevimento del maresciallo Aurangzeb. Non si rifiuta un invito del proprio comandante in capo. Nelle tue condizioni, però, farai meglio a riposare. Sarebbe egoista da parte mia chiederti di accompagnarmi in questo viaggio non obbligatorio e molto faticoso.» La gentilezza può essere una trappola e Bilquìs rimase impigliata nella rete della cortesia del marito. «Come vuoi,» gli rispose, e ciò che la indusse a scrivere in questi termini non era soltanto il senso di colpa ma anche qualcosa d'intraducibile, una legge che la obbligava a fingere che le parole di Raza significassero soltanto ciò che dicevano. Questa legge si chiama takallouf. Per colpire una società, cercate le sue parole intraducibili.

Takallouf fa parte di quella opaca setta di concetti, diffusa in tutto il mondo, che si rifiutano di viaggiare oltre le frontiere linguistiche; definisce una forma di ammutolente etichetta, un riserbo sociale portato al punto da rendere impossibile alla vittima l'espressione di ciò che intende realmente dire, una specie di ironia obbligatoria che pretende, per un riguardo alle convenzioni, di essere presa alla lettera. Quando tra marito e moglie s'instaura il takallouf, bisogna stare attenti. Raza andò dunque alla capitale da solo... e adesso che una parola intraducibile ha portato Hyder e Harappa, non gravati da spose, vicinissimi a un nuovo incontro, è venuto il momento di valutare attentamente la situazione, perché tra poco i nostri duellanti cominceranno a scontrarsi. In questo momento la causa del loro primo alterco si sta facendo oliare e intrecciare i capelli da una serva.

Atiyah Aurangzeb, che gli intimi chiamano «Pinkie», si prepara tranquillamente alla serata che ha deciso di organizzare in nome del suo quasi rimbambito marito, il cadente maresciallo Aurangzeb, capo di stato maggiore generale. Pinkie Aurangzeb ha circa trentacinque anni, molti più di Raza e di Iskander, ma questo non diminuisce il suo fascino; le donne mature, come tutti sanno, hanno le loro attrattive. Prigioniera di un matrimonio con un vecchio rammollito, Pinkie trova il suo piacere dove può. Intanto due mogli vivono abbandonate nei loro separati esilii, ciascuna con una figlia che sarebbe dovuta essere un maschio (bisognerà dire di più della piccola Arjumand Harappa; si scriverà sicuramente di più della povera, idiota Sufiya Zinobia). Sono state abbozzate due soluzioni diverse del problema della vendetta. E mentre Iskander Harappa fa comunella con un grasso mastello di carne di porco di nome Omar Khayyam Shakil, a fini di dissolutezza ecc., Raza Hyder sembra caduto sotto l'influenza di un'eminenza grigia che gli sussurra austeri segreti sui sedili posteriori di berline dell'esercito. Cinematografi, figli di streghe, ammaccature sulla fronte, rane e pavoni hanno contribuito a creare un'atmosfera nella quale è onnipresente il puzzo dell'onore. Sì, è proprio tempo che i combattenti entrino in campo.

 

Il fatto è che Raza Hyder fu colpito da Pinkie Aurangzeb proprio in mezzo agli occhi. La desiderava talmente che gli doleva la gatta, ma la perse a vantaggio di Iskander Harappa, proprio lì, al ricevimento del maresciallo, mentre il vecchio soldato dormiva su una poltrona, ai margini della splendente folla, ma senza mai versare, anche in quella condizione di sonnolento rimbambimento da becco, una sola goccia dal bicchiere colmo sino all'orlo di whisky-and soda che teneva stretto nella mano addormentata. In quella fatale occasione ebbe inizio un duello che continuò almeno sino alla morte dei due protagonisti, se non oltre. Il suo oggetto iniziale fu il corpo della moglie del maresciallo, e divenne in seguito cose ben più alte. Ma cominciamo dall'inizio: e il corpo di Pinkie, eccitantemente esibito in un sari verde portato pericolosamente in basso sui fianchi come usano le donne della Provincia orientale, con orecchini d'argento e diamanti a forma di stella-e-mezzaluna che penzolano luccicanti dai suoi lobi forati; e che tiene sulle spalle irresistibilmente vulnerabili un leggero scialle la cui miracolosa lavorazione può solo essere opera delle leggendarie ricamatrici di Aansu perché tra i suoi minuscoli arabeschi sono state raffigurate in fili d'oro mille e una storia, e con tale vivezza da dar l'impressione che i minuscoli cavalieri stiano effettivamente galoppando sulla sua clavicola, mentre minuscoli uccelli sembrano volare, letteralmente volare, sul leggiadro meridiano della sua spina dorsale...

è un corpo su cui val la pena soffermarsi. E chi su di esso si stava soffermando, quando Raza riuscì finalmente ad aprirsi con la forza una strada tra vortici e mulinelli di giovani damerini e di donne invidiose, era il semi-ubriaco Iskander Harappa, playboy numero uno della città, cui questa splendida visione stava sorridendo con un calore che raggelò la densa traspirazione del desiderio sui baffi impomatati di Raza, mentre quel famoso degenerato, con la sua lingua sboccata che faceva arrossire persino suo cugino Mir, raccontava alla dea barzellette oscene. Raza Hyder, irrigidito e imbarazzato sull'attenti, con l'indumento della sua libidine indurito dall'amido del takallouf ... e Isky con un singhiozzo: «Guarda chi c'è! Il nostro fottuto eroe, il tilyar,» Pinkie ridacchiò, e Iskander assunse un atteggiamento professorale, sistemandosi un invisibile pince-nez. «Il tilyar, signora, come lei forse sa, è un piccolo e sparuto uccello migratore che non sa far altro che guizzare dal cielo». Un gorgogliare di risate si propagò all'esterno, oltre i turbinanti damerini. Pinkie, annientando Raza con un'occhiata, mormorò: «Piacere di conoscerla», e Raza si trovò a rispondere con una cerimoniosità rovinosamente goffa ed enfatica: «L'onore è mio, signora, e devo dire che a mio parere e con l'aiuto di Dio, il nuovo sangue porterà al successo la nostra nuova grande nazione», ma Pinkie Aurangzeb stava cercando di soffocare una risata.

«Vaffanculo, tilyar», gridò allegramente Iskander Harappa. «Questa è una festa, yaar, e non vogliamo discorsi fottuti, per l'amor di Dio». La collera di Hyder, sepolta sotto le buone maniere, stava ribollendo, ma non poteva nulla contro questa raffinatezza che autorizzava le oscenità e le bestemmie e sapeva uccidere il desiderio e l'orgoglio di un uomo con una furba risata. «Cugino», tentò con esito catastrofico, «io sono solo un soldato», ma a questo punto la padrona di casa non finse più di non ridere di lui, si strinse lo scialle intorno alle spalle, posò una mano sul braccio di Iskander Harappa e disse: «Portami in giardino, Isky. Qui con l'aria condizionata fa troppo freddo, mentre fuori è bello e tiepido». «Al caldo, al caldo!», gridò galantemente Harappa, deponendo il proprio bicchiere nella mano di Raza perché glielo custodisse. «Per te, Pinkie, entrerei nelle fornaci dell'inferno, se ti servirà protezione quando ci arriverai. Il mio astemio parente Raza non è meno coraggioso», aggiunse, voltando la testa mentre si allontanava, «solo che lui non va all'inferno per le signore, ma per il gas». A guardare dai bordi del campo Iskander Harappa che si portava via il suo trofeo nell'intimo e muschiato crepuscolo del giardino c'era la flaccida figura himalayana del nostro eroe marginale, il dottor Omar Khayyam Shakil.

 

Non fatevi un'idea troppo bassa di Atiyah Aurangzeb. Rimase infatti fedele a Iskander Harappa, anche quando lui divenne serio e rinunciò ai suoi servizi, e senza una parola di protesta si ritirò nella stoica tragedia della propria vita privata sino al giorno della sua morte, quando, dopo aver dato alle fiamme un vecchio scialle ricamato, si tagliò via il cuore con un coltello da cucina di ventidue centimetri. E anche Isky, a suo modo, le fu fedele. Da quando divenne il suo amante, smise completamente di andare a letto con la moglie Rani per evitare che gli desse altri figli; in tal modo sarebbe stato lui l'ultimo della sua schiatta, idea questa che, come disse a Omar Khayyam Shakil, non era priva di fascino. (A questo punto dovrei spiegare la faccenda delle figlie che-sarebbero-dovute-essere-maschi. Sufiya Zinobia era il «miracolo andato a male» perché suo padre avrebbe voluto un maschio; ma il problema di Arjumand Harappa non era questo. Arjumand, la famosa "Vergine Mutandediferro", era scontenta del proprio sesso per ragioni che non avevano nulla a che vedere con i genitori. «Questo corpo di donna», disse a suo padre il giorno in cui divenne adulta, «non porta altro che bambini, pizzicotti, e vergogna.» Iskander rientrò dal giardino mentre Raza si preparava ad andarsene e tentò di far la pace.

Con una cerimoniosità pari a quella di Raza disse: «Caro amico, prima di tornare a Needle devi venire a Mohenjo. Rani ne sarebbe così felice.

Povera ragazza, vorrei tanto che potesse godersi la vita di città... e voglio assolutamente che tu faccia venire anche Billoo. Così le signore potranno godersi una bella chiacchierata mentre noi passeremo le giornate sparando ai tilyar. Cosa ne dici?». E il takallouf obbligò Raza a rispondere: «Sì, grazie,» Il giorno prima che lo condannassero a morte, Iskander Harappa fu autorizzato a telefonare alla figlia esattamente per un minuto. Le ultime parole che le rivolse in privato erano inasprite da una disperata nostalgia per quei tempi remoti: «Arjumand, amore mio, avrei dovuto uscire a battermi con quel fotti-bufali di Hyder quando si legò a un paletto. Ma io lasciai la cosa incompiuta; fu il mio più grave errore». Anche quando faceva il playboy, Iskander ogni tanto si sentiva a disagio per l'isolamento cui aveva costretto la moglie. In quelle occasioni, radunava qualche amico, li caricava su delle giardinette e guidava un convoglio di allegria cittadina sino alla sua proprietà di campagna. Pinkie Aurangzeb brillava per la sua assenza; e per un giorno la regina era Rani. Quando Raza Hyder accettò l'invito di Isky a Mohenjo, i due partirono insieme, seguiti da altri cinque veicoli che ospitavano un'ampia riserva di whisky, di stelline cinematografiche, di figli di industriali tessili, di diplomatici europei, di sifoni di soda e di mogli. Bilquìs, Sufiya Zinobia e la ayah furono prelevate a una stazione ferroviaria privata che Sir Mir Harappa aveva fatto costruire sulla linea tra la capitale e Q. E, per un giorno, non accadde nulla.

 

Dopo la morte di Isky Harappa, Rani e Arjumand Harappa rimasero prigioniere a Mohenjo per qualche anno, e per riempire i silenzi la madre raccontò alla figlia la faccenda dello scialle. «Avevo cominciato a ricamarlo prima di sapere che mi toccava dividere mio marito con la donna di Piccolo Mir, la quale però era soltanto il preannuncio di tutta un'altra donna». Ma Arjumand Harappa era già arrivata al punto in cui non voleva ascoltare niente di negativo su suo padre. Ribatté quindi: «Allah, mamma, non sai far altro che sparlare del segretario. Se non ti amava, avevi fatto certamente qualcosa per meritartelo». Rani Harappa alzò le spalle. «Il segretario Iskander Harappa, tuo padre, che io ho sempre amato», replicò, «era campione mondiale di spudoratezza; era un farabutto internazionale e un bastardo di primissima forza. Vedi, figlia, io ricordo ancora quei giorni, ricordo Raza Hyder quando non era un diavolo con le corna e la coda e ricordo anche Isky prima che diventasse un santo». La brutta cosa che accadde a Mohenjo durante la visita degli Hyder fu messa in moto da un uomo grasso che aveva bevuto troppo. Accadde la seconda sera del loro soggiorno, su quella stessa veranda dove Rani Harappa era rimasta seduta a ricamare mentre gli uomini di Piccolo Mir le saccheggiavano la casa - una scorreria di cui si potevano ancora vedere gli effetti, nelle vuote cornici dei quadri con frammenti di tela rimasti attaccati agli angoli, nei sofà la cui imbottitura spuntava attraverso il cuoio squarciato, nell'assortimento di posate scompagnate al tavolo da pranzo e negli slogan osceni nel salone, ancora leggibili sotto gli strati d'intonaco. La parziale demolizione della casa di Mohenjo dava agli ospiti la sensazione di far festa nel cuore di un disastro e li induceva ad aspettarsi altri guai, ed era per questo che la risata argentina della divetta Zehra acquisiva punte d'isterismo e gli uomini bevevano tutti troppo in fretta. Intanto Rani Harappa sedeva sulla sua sedia a dondolo e lavorava allo scialle, lasciando l'organizzazione di Mohenjo alla ayah che si agitava intorno a Iskander come se fosse stato un bambino di tre anni o una divinità o le due cose insieme. Alla fine arrivarono i guai e poiché era destino di Omar Khayyam Shakil influire, dalla sua posizione marginale, sui grandi eventi che avevano a protagoniste altre persone, ma che tutti assieme costituivano la sua vita, fu lui a dire, con una lingua troppo sciolta dalle nevrotiche ingestioni di alcool della serata, che la signora Bilquìs Hyder poteva dirsi fortunata, perché Iskander le aveva fatto il favore di soffiare Pinkie Aurangzeb da sotto il naso di Raza. «Se non ci fosse stato Isky, la begum del nostro eroe avrebbe forse dovuto consolarsi con le sue bambine, perché non avrebbe più avuto un uomo a riempirle il letto». Shakil aveva parlato troppo forte, per conquistarsi l'attenzione della divetta Zehra, decisamente più interessata alle occhiate più che ardenti che le scoccava un certo Akbar Junejo, notissimo giocatore e produttore cinematografico; e quando Zehra lo piantò lì senza neanche preoccuparsi di inventare una scusa, Shakil si trovò davanti lo spettacolo di una Bilquìs dagli occhi spalancati, appena uscita sulla veranda dopo aver messo a letto la figlia, con i segni della gravidanza già visibili con eccessivo anticipo... e quindi chissà se fu questa la ragione della presa di posizione di Bilquìs, se stava semplicemente cercando di scaricare la propria colpa sulle spalle di un marito la cui probità era ora divenuta a sua volta argomento di pettegolezzi? - Ecco comunque che cosa accadde: dopo che agli ospiti risultò evidente che le parole di Omar Khayywam erano state ascoltate e capite dalla donna che se ne stava avvampando sulla veranda, calò un grande silenzio, una quiete che ridusse la festa a un tableau di paura, e in quella quiete Bilquìs Hyder gridò il nome del marito. Non dobbiamo dimenticare che era una donna cui era rimasta attaccata la dupatta dell'onore femminile anche quando tutti gli altri indumenti le erano stati strappati dal corpo; non era quindi una donna che potesse restar sorda alle pubbliche calunnie. Raza Hyder e Iskander Harappa si guardarono senza una parola, mentre Bilquìs puntava un indice dall'unghia lunghissima direttamente al cuore di Omar Khayyam Shakil.

«Lo hai sentito quell'uomo, marito? Hai sentito come mi sta coprendo di vergogna?» Oh, il silenzio, il mutismo, come una nube che oscurasse l'orizzonte! Persino i gufi si astenevano dallo stridere. Raza Hyder si fece attento perché, una volta destato dal sonno, l'afrit dell'onore non si sarebbe più allontanato se prima non fosse stato soddisfatto.

«Iskander,» disse Raza, «io non voglio battermi in casa tua». Fece allora una cosa strana e avventata. Uscì sulla veranda, entrò nelle scuderie e tornò con un paletto di legno, un mazzuolo e un pezzo di buona, solida corda. Il paletto fu piantato nella terra dura come roccia; e subito dopo il colonnello Hyder, il futuro presidente, si legò ad esso per la caviglia e gettò via il mazzuolo. «Qui sto», gridò, «e che colui che ha calunniato il mio onore venga fuori a cercarmi». Rimase lì tutta la notte, perché Omar Khayyam Shakil si precipitò in casa, dove svenne per l'alcool e per la paura. Hyder girava in tondo come un toro, e la corda era un raggio teso dal paletto alla caviglia. La notte s'addensò; gli ospiti, imbarazzati, sgusciarono a letto. Ma Isky Harappa rimase sulla veranda, sapendo benissimo che, benché la sciocchezza l'avesse fatta il ciccione, la vera contesa era tra il colonnello e lui.

La divetta Zehra, avviandosi verso un letto che sarebbe un pettegolezzo imperdonabile da parte mia insinuare fosse già occupato - e quindi sull'argomento non dirò assolutamente nulla - fece dono di un consiglio al padrone di casa: «Non metterti in testa idee stupide, Isky caro, capito? Non arrischiarti a uscire. è un soldato lui, guardalo, sembra un carro armato, t'ammazzerebbe di sicuro. Lascia che si calmi, okay?» Rani Harappa invece non espresse al marito il proprio parere. «Vedi, Arjumand», avrebbe raccontato alla figlia diversi anni dopo, «io ricordo tuo papà quando era troppo spaventato per prendere la sua medicina come un vero uomo». Come finì: male, e non poteva che finire così. Poco prima dell'alba. Cercate di capire: Raza era rimasto sveglio tutta la notte.

battendo i piedi nel cerchio del suo orgoglio con gli occhi arrossati dalla rabbia e dalla stanchezza. Gli occhi rossi non vedono chiaramente - e la luce era scarsa e del resto chi vede mai arrivare i servi - ciò che sto cercando di dire è che il vecchio Gulbaba si era svegliato presto e stava attraversando il cortile con una lotah di ottone per fare le sue abluzioni prima della preghiera del mattino; e, vedendo il colonnello Hyder legato a un paletto, strisciò dietro di lui per chiedergli: ma signore, che cosa sta facendo non sarebbe meglio se venisse...? I vecchi servi si prendono delle libertà. E il privilegio dei loro anni. Ma Raza, assordato dal sonno, udì soltanto dei passi, una voce; si sentì dare un colpetto sulla spalla; si voltò di scatto; e con un colpo terribile abbatté Gulbaba come un ramoscello. La violenza liberò qualcosa all'interno del vecchio; possiamo chiamarla vita, perché nel giro di un mese il vecchio Gul morì, con un'espressione confusa in volto, come uno che sa d'aver smarrito un oggetto importante e non riesce a ricordare quale. Immediatamente dopo quel pugno omicida, Bilquìs si placò emergendo dalla penombra della casa per convincere Raza a sciogliersi dal paletto. «Quella povera ragazza, Raza, non farti vedere così». E quando Raza tornò sulla veranda, Iskander Harappa, anche lui insonne e non rasato, tese le braccia verso di lui, e Raza, con notevole cortesia, abbracciò Isky, permettendo così un incontro tra i loro colli, come si suol dire. Quando l'indomani Rani Harappa emerse dal proprio salottino per congedarsi dal marito, Iskander impallidì nel vedere lo scialle che si era avvolta intorno alle spalle, uno scialle ormai completato e delicatamente lavorato come un prodotto delle artigiane di Aansu, un capolavoro tra i cui piccolissimi arabeschi erano state raffigurate mille e una storia, con tanta arte che pareva che i cavalieri stessero effettivamente galoppando sulla sua clavicola, mentre minuscoli uccelli volavano lungo il morbido meridiano della sua spina dorsale. «Addio, Iskander», gli disse, «e non dimenticare che l'amore di certe donne non è cieco». Bene, bene, amicizia è una parola sbagliata per definire ciò che esisteva tra Raza e Iskander, ma dopo l'episodio del paletto fu per un lungo periodo quella che usarono entrambi. Certe volte non si riesce a trovare la parola giusta.

 

Ha sempre desiderato di essere una regina, ma ora che Raza Hyder è finalmente una sorta di principe l'ambizione le si è inacidita sulle labbra. Ha nuovamente partorito, con sei settimane d'anticipo, ma Raza non ha pronunciato neanche una parola che esprimesse sospetto. Un'altra femmina, ma nemmeno di questo si è lamentato, ha solo detto che è giusto che il primo sia un maschio e la seconda una femmina, e non si può quindi rimproverare alla nuova arrivata lo sbaglio della sorella maggiore. La piccola è stata chiamata Naveed, che vuol dire Buone Notizie, ed è una bambina modello. Ma la madre è stata menomata dalla sua nascita. Si è lacerato qualcosa dentro di lei ed è opinione dei medici che non debba più avere figli. Raza Hyder non avrà mai un maschio. Ha parlato, una sola volta, del ragazzo col binocolo alla finestra della casa delle streghe, ma anche questo argomento è ormai chiuso. Si sta allontanando da lui nei corridoi della propria mente e si chiude le porte alle spalle. Sindbad Mengal, Mohenjo, amore: sono tutte porte ormai chiuse. Lei dorme sola, e le antiche paure l'hanno quindi alla loro mercé; è in questi giorni che comincia a temere il caldo vento pomeridiano che soffia con tanta violenza dal suo passato.

 

è stata proclamata la legge marziale. Raza ha arrestato il primo ministro Gichki e lo hanno nominato governatore della regione. Si è trasferito con moglie e figlie nella residenza ministeriale, abbandonando ai suoi ricordi quello scricchiolante albergo dove l'ultima scimmia ammaestrata si è messa a vagare svogliata tra le palme morenti della sala da pranzo, mentre suonatori invecchiati sfregano i loro marci violini per un pubblico di tavoli vuoti. Lei non vede spesso Raza in questi giorni. è troppo occupato. I lavori per il gasdotto procedono bene, e adesso che Gichki è stato tolto di mezzo si è varato un programma che consiste nell'usare per dare esempi i tribali arrestati.

Lei teme che i cadaveri degli impiccati possano mettere gli abitanti di Q. contro suo marito, ma non glielo dice. Lui ha scelto una linea severa e il Maulana Dawood gli dà tutti i consigli di cui ha bisogno.

 

L'ultima volta che sono stato nel Pakistan, mi hanno raccontato questa barzelletta. Dio scende nel Pakistan per vedere come vanno le cose.

Domanda al generale Ayyub Khan come mai il paese è così malridotto.

Ayyub risponde: «Sono quei fannulloni e quei corrotti dei civili, signore. Devi solo sbarazzarmi di loro e poi ci penso io" Dio allora elimina i politici. Dopo un po' torna, e le cose vanno ancora peggio di prima. Stavolta domanda spiegazioni a Yahya Khan. Yahya attribuisce tutti i guai a Ayyub, ai suoi figli e ai loro tirapiedi. «Fa' quanto occorre», lo supplica Yahya. «e io rimetterò il paese in perfetto ordine». Allora i fulmini di Dio eliminano Ayyub. Nella Sua terza visita, trova una situazione catastrofica e concorda quindi con Zulfikar Ali Bhutto sulla necessità di ristabilire la democrazia. Trasforma Yahya in uno scarafaggio e lo spazza sotto un tappeto; ma, qualche anno dopo, si rende conto che la situazione è ancora spaventosa. Va allora dal generale Zia e gli offre il potere supremo, ma a una condizione.

«Qualsiasi cosa, Dio", replica il generale, «non hai che da chiedere!».

E Dio: «Rispondi a una mia domanda e io schiaccerò Bhutto come un chapati". "Parla», dice Zia. E allora Dio gli sussurra all'orecchio: «Senti, io faccio tutte queste cose per il paese, mac'è una cosa che non capisco: perché la gente sembra non volermi più bene?» Sembra chiaro che il presidente del Pakistan riuscì a dare a Dio una risposta soddisfacente. Mi domando quale fosse.