CAPITOLO QUARTO
DIETRO LO SCHERMO.
Questo è un romanzo su Sufiya Zinobia, figlia maggiore del generale Raza Hyder e di sua moglie Bilquìs, su ciò che accadde tra suo padre e il segretario Iskander Harappa, ex primo ministro, ora defunto, e sul suo sorprendente matrimonio con un certo Omar Khayyam Shakil, medico, ciccione e per un certo periodo intimo amico del succitato Isky Harappa, il cui collo aveva il miracoloso potere di rimanere privo d'ammaccature benché stretto dal cappio di un boia. Ma sarebbe forse più esatto, anche se più oscuro, dire che Sufiya Zinobia è su questo romanzo. Non è comunque possibile cominciare a conoscere una persona senza aver prima fatto conoscenza col suo ambiente familiare; devo dunque procedere in questo modo, spiegando come avvenne che Bilquìs arrivò ad aver paura di quel caldo vento pomeridiano che noi chiamiamo il Loo. L'ultima mattina della sua vita, il padre di lei Mahmoud Kemal, detto Mahmoud la Donna, vestito come al solito di un luccicante spezzato blu, striato da scintillanti righe rosse, si contemplò con ammirazione all'elaborato specchio che aveva sottratto al ridotto del proprio cinematografo, affascinato dalla sua irresistibile cornice di cherubini nudi che scoccavano frecce e soffiavano in corni dorati, abbracciò la figlia diciottenne e annunciò: «E ora vedi, ragazza, tuo padre elegantemente vestito, come si addice al principale funzionario amministrativo di un glorioso Impero.» E a colazione, quando lei cominciò rispettosamente a versare cucchiaiate di khichri nel suo piatto, urlò con furia bonaria: «Perché alzi la mano, figlia? Una principessa non deve servire». Bilquìs chinò il capo e lo guardò dall'angolo in basso a sinistra degli occhi, e suo padre batté fragorosamente le mani: «Oh, è troppo bello, Billoo! Che numero da grande attrice!». è un fatto, strano ma vero, che la città di idolatri in cui si svolgeva questa scena - chiamiamola Indraprastha, Puranaqila, o anche Delhi - era stata spesso governata da uomini che (come Mahmoud) credevano in Allah, Il Dio. Le loro opere ingombrano tuttora la città: antichi osservatori e torri della vittoria e, naturalmente, quella grande fortezza rossa, Al-Hambra, La Rossa, che avrà parte importante nella nostra storia. Non solo, ma molti di questi devoti governanti avevano avuto origini umilissime; qualsiasi scolaro ha sentito parlare dei Re-schiavi... ma il punto è che la faccenda del governare un Impero era solo una battuta scherzosa, perché il dominio di Mahmoud era soltanto l'Empire Talkies, uno squallido cinematografo nella città vecchia. «La grandezza di un cinematografo», amava dire Mahmoud, «può essere dedotta dalla turbolenza dei suoi clienti. Andate in quei sontuosi locali della città nuova, guardate quelle poltrone che paiono troni di velluto e quegli specchi che rivestono tutti i corridoi, sentite i condizionatori e capirete perché gli spettatori se ne stanno così spaventosamente tranquilli. C'è a domarli lo splendore dell'ambiente, e anche il prezzo dei biglietti. Ma all'Empire di Mahmoud, gli spettatori paganti fanno un baccano d'inferno, calmandosi solo quando appaiono i numeri con le canzoni di successo. Noi non siamo monarchi assoluti, bambina, non dimenticarlo mai; specialmente in questi tempi, quando i poliziotti ci si rivoltano contro e si rifiutano di venire a espellere persino i peggiori teppisti che fischiano talmente forte da spaccarti i timpani. Ma pazienza. Si tratta, dopo tutto, di una questione di libertà individuale». Sì, era un Impero di quint'ordine. Ma per Mahmoud era decisamente qualcosa, il regno di un re-schiavo: non aveva forse iniziato la carriera nelle strade suppuranti come uno di quei trascurabili individui che spingono per la città carriole con i cartelloni pubblicitari dei film, gridando: «Lo si proietta oggi!» e «La pianta si sta riempiendo in fretta!» e non sedeva ora in un ufficio di direttore con cassetta dei soldi e relative chiavi? Ma vedete: nelle famiglie ogni battuta scherzosa corre sempre il rischio di essere presa sul serio, e nella natura del padre e della figlia s'annidava un'assenza d'immaginazione e di senso dell'umorismo, la cui conseguenza fu che Bilquìs crebbe con un'inconfessata fantasia di regalità che ribolliva negli angoli dei suoi occhi abbassati. «Credimi?», diceva all'angelico specchio dopo che suo padre se n'era andato a lavorare, «per me o controllo assoluto o niente! Se fossi io a comandare, quei teppisti non se la passerebbero liscia con i loro fischi!». Bilquìs insomma si inventò un io segreto ben più imperioso di quello di suo padre l'imperatore. E nel buio del suo Empire, sera dopo sera, studiava le gigantesche e tremolanti illusioni delle principesse che danzavano davanti ai chiassosi spettatori, sotto la dorata figura equestre di un cavaliere medioevale in armatura, munita di uno stendardo su cui era scritta una parola priva di senso, Excelsior. Le illusioni alimentavano le illusioni, e Bilquìs cominciò a comportarsi come s'addiceva a un'imperatrice di sogno, scambiando per complimenti gli sfottò dei monelli nei vicoli intorno a casa sua. «Tantara!» la salutavano quando incedeva accanto a loro, «Abbi misericordia, O graziosa signora, O Rani di Khansi!». Khansi-ki-Rani, la chiamavano: regina delle tossi, cioè dell'aria espulsa, della malattia e del vento caldo. «Fa' attenzione», l'ammoniva suo padre, «le cose stanno cambiando in città; anche i nomignoli più affettuosi acquistano nuovi e minacciosi significati».
Questo avveniva immediatamente prima della famosa tarlata partizione che spaccò il paese e ne consegnò ad Allah alcune fette corrose dagli insetti, qualche ettaro di polvere a occidente e qualche giungla paludosa a oriente di cui gli infedeli erano ben lieti di sbarazzarsi.
(La nuova nazione di Allah: due pezzi di terra a mille miglia di distanza tra loro.Un paese talmente improbabile che quasi poteva esistere.) Ma non lasciamoci prendere dai sentimenti e limitiamoci a constatare che gli animi erano talmente eccitati che persino andare al cinema era divenuto un atto politico. I monoteisti andavano in certi cinema e gli adoratori degli dèi di pietra in certi altri; i fanatici dello schermo erano già stati ripartiti prima che lo fosse quella terra vecchia e stanca. Quelli degli dèi di pietra avevano, ovviamente, in mano l'industria cinematografica, ed essendo vegetariani produssero un film molto famoso, Gai-Wallah. Possibile che non ne abbiate mai sentito parlare? Un'insolita fantasia su un solitario eroe mascherato che percorreva la piana dell'Indo-Gange liberando mandrie di bovini dai loro guardiani e salvando dal mattatoio le sacre, cornute e mammellute bestie. La banda degli dèi di pietra affollava i cinema che presentavano questo film; i monoteisti replicavano accorrendo a vedere western non vegetariani d'importazione in cui le vacche venivano massacrate e i buoni festeggiavano mangiando bistecche. E squadracce di adirati fanatici attaccavano le sale dei loro nemici... Insomma, era un periodo propizio a ogni genere di follia, tutto qui. Mahmoud la Donna perse il suo Empire per un unico errore, conseguenza di un difetto fatale della sua personalità, e precisamente per la sua tolleranza. «è venuto il momento di mostrarci superiori a questa stupidaggine della partizione», comunicò un mattino al suo specchio, e quello stesso giorno prenotò per il suo locale un doppio programma: Randolph Scott e Gai-Wallah si sarebbero susseguiti l'uno all'altro sul suo schermo. Il primo giorno di questo doppio programma della sua distruzione, cambiò per sempre il significato del suo nomignolo. Era stato soprannominato La Donna dai monelli della strada perché, rimasto vedovo, aveva dovuto far da madre a Bilquìs essendogli morta la moglie quando la piccola aveva appena due anni. Ma ormai questo affettuoso nomignolo denotava qualcosa di ben più pericoloso, e quando i ragazzi parlavano di Mahmoud la Donna intendevano dire Mahmoud il Debole, il Vergognoso, lo Stupido. «Donna», sospirava lui rassegnato alla figlia, «che parola! Ma non finiranno mai i fardelli che questa parola è costretta a sopportare? C'è mai stata una parola con le spalle così larghe e nello steso tempo così oscena?». Come andò a finire la faccenda del doppio programma: entrambe le parti, vegetariani e non vegetariani, boicottarono l'Empire. Per cinque, sei, sette giorni i film furono proiettati in una sala deserta dove l'intonaco scrostato e i ventilatori che ruotavano lentamente e i venditori di ceci negli intervalli contemplavano file e file di sedie indubbiamente traballanti e altrettanto sicuramente non occupate; alle proiezioni delle tre e mezza, delle sei e mezza e delle nove e mezza il risultato era il medesimo, neanche le proiezioni speciali della domenica mattina sollecitavano la gente a varcare la porta a vento. «Arrenditi», insisteva Bilquìs con suo padre. «Che cosa stai cercando? Hai nostalgia della tua carriola?». Ma a questo punto Mahmoud la Donna era stato preso da un'insolita testardaggine e annunciò che il doppio programma sarebbe stato replicato per una Seconda Sensazionale Settimana. I ragazzi delle carriole lo abbandonarono; nessuno aveva voglia di strillare quelle ambigue merci nei vicoli elettrizzati; nessuna voce osava annunciare: "sono aperte le prenotazioni!» o «Non aspettate o sarà troppo tardi!».
Mahmoud e Bilquìs abitavano in una casa alta e sottile dietro l'Empire, «proprio oltre lo schermo», come diceva lui; e in quel pomeriggio in cui il mondo finì e ricominciò da capo, la figlia dell'imperatore, sola in casa con la domestica, si sentì improvvisamente soffocare dalla certezza che il padre avesse scelto, nella folle logica del suo romanticismo, di insistere in quel progetto pazzesco fino a lasciarci la pelle.
Terrorizzata da un suono simile al battito delle ali di un angelo, un suono di cui in seguito non avrebbe saputo dare una spiegazione attendibile, ma che le rimbombava nelle orecchie sino a farle venire mal di testa, corse fuori di casa, fermandosi soltanto per avvolgersi intorno alle spalle la verde dupatta del pudore; e fu così che le accadde di fermarsi, a riprender fiato, davanti alle pesanti porte del cinema, oltre le quali suo padre sedeva arcigno a guardare i film, proprio quando cominciò a soffiare il caldo vento infocato dell'apocalisse. I muri dell'impero di suo padre si gonfiarono all'esterno come un puri rovente, mentre quel vento, simile alla tosse di un gigante malato, le bruciava le sopracciglia (che non sarebbero mai più ricresciute) e le strappava gli abiti di dosso fino a lasciarla nuda come una neonata in mezzo alla strada; ma non poteva accorgersi della propria nudità perché era l'universo che stava finendo; e nell'estraneità piena di echi di quel vento micidiale i suoi occhi roventi videro volar fuori ogni cosa, sedie, blocchetti di biglietti, ventilatori e poi brandelli del cadavere di suo padre e cocci carbonizzati del futuro. «Suicida!», inveì allora contro Mahmoud la Donna al massimo della propria voce resa stridula dalla bomba. «L'hai voluto tu!», e voltandosi e mettendosi a correre verso casa, vide che il muro posteriore del cinema era stato soffiato via e che incastrata all'ultimo piano della sua casa alta e sottile c'era la dorata figura di un cavaliere sul cui stendardo non aveva bisogno di leggere la parola buffamente sconosciuta, Excelsior. Non chiedetemi chi aveva piantato la bomba; in quei giorni erano numerosi questi piantatori, questi giardinieri della violenza. Poteva persino essere una bomba monoteista, seminata nell'Empire da uno dei più fanatici correligionari di Mahmoud, perché sembra che il timer avesse raggiunto lo zero durante una scena d'amore particolarmente suggestiva, e noi sappiamo che cosa pensano i fedeli dell'amore, o delle sue rappresentazioni illusorie, specie quando bisogna pagare il biglietto per vederle... sono Contro. Le eliminano.
L'amore corrompe. Oh Bilquìs! Nuda e senza sopracciglia sotto il cavaliere dorato, avvolta nel delirio del vento di fuoco, vide fuggire davanti a sé la propria giovinezza, portata via sulle ali dell'esplosione che stavano ancora battendo nelle sue orecchie. Tutti gli emigranti si lasciano dietro il proprio passato, anche se alcuni cercano d'impacchettarlo in scatole e fagotti - ma durante il viaggio di quei cari ricordi e di quelle vecchie fotografie si perde sempre qualcosa, finché gli stessi proprietari non sanno più riconoscerli, perché è destino degli emigranti essere spogliati di storia, rimanere nudi di fronte al disprezzo di stranieri su cui vedono i ricchi indumenti, i broccati della continuità e le sopracciglia dell'inserimento - comunque quello che voglio dire è che il passato di Bilquìs l'abbandonò ancor prima che lei lasciasse la città; ferma in un vicolo, denudata dal suicidio di suo padre, lo guardò andar via. Negli anni successivi esso sarebbe a volte tornato a trovarla, come può venire a farci visita un parente dimenticato, ma per molto tempo lei diffidò della storia, era la moglie di un eroe con un grande avvenire, e così era per lei naturale allontanare da sé il passato, nello stesso modo in cui si respingono quei cugini poveri che vengono a chiederci soldi in prestito. Doveva aver camminato, o corso, a meno che non si fosse verificato un miracolo e qualche potenza divina l'avesse sottratta al vento della sua desolazione. Riprendendo i sensi, sentì la pressione della pietra rossa contro la pelle; era notte e la pietra era fresca sulla sua schiena nel caldo buio e secco. Persone avanzavano davanti a lei in grandi branchi, una folla così numerosa e incalzante che il suo primo pensiero fu che l'avesse scaraventata fin lì qualche inimmaginabile esplosione. «Un'altra bomba, Dio mio, tutta questa gente soffiata via dalla sua potenza!". Ma non si trattava di una bomba.
Bilquìs si rese conto di essersi appoggiata al muro interminabile della rossa fortezza che domina la città vecchia, mentre i soldati guidavano la folla oltre i suoi cancelli spalancati; i suoi piedi cominciarono a muoversi, rapidi più del cervello, e la condussero in mezzo alla calca.
Un attimo dopo si sentì sopraffatta dalla rinata consapevolezza della propria nudità e si mise a gridare: «Datemi un panno!» finché non s'accorse che nessuno l'ascoltava, che nessuno degnava di un'occhiata il corpo della ragazza nuda, bruciacchiato ma ancora bello; e sentì intorno al collo i resti di una pezza di tela indiana. La dupatta della pudicizia le si era incollata al corpo, fissatavi dal sangue coagulato di tagli e graffi numerosi della cui esistenza sino a quel momento non s'era neppure accorta. Coprendo coi resti anneriti di quell'indumento dell'onore femminile le proprie parti segrete, entrò nel rosso opaco del forte e udì il rimbombo delle sue porte che si chiudevano. A Delhi, nei giorni precedenti la partizione, le autorità radunavano tutti i musulmani, per metterli al sicuro, dicevano, e li rinchiudevano nella rossa fortezza allontanandoli così dalla rabbia di chi andava a fare il bucato sulle pietre. Intere famiglie vi venivano tenute prigioniere, nonne bambini piccoli, zii birichini... persino membri della mia stessa famiglia. è bello immaginare che i miei parenti, mentre s'aggiravano per il Forte Rosso nell'universo parallelo della storia, abbiano avuto qualche sospetto della presenza fittizia di Bilquìs Kemal, che correva davanti a loro nuda e ferita come un fantasma... o viceversa. Sì. O viceversa. Quella marea di esseri umani si trascinò appresso Bilquìs sino al padiglione grande, basso e elaboratamente rettangolare che era stato un tempo la sala per le pubbliche udienze di un imperatore; e in quel diwan pieno di echi travolta dall'umiliazione dell'essere discinta, lei svenne. In quella generazione molte donne, signore normali perbene rispettabili, di quelle a cui non succede mai nulla se non matrimonio bambini morte, avrebbero potuto raccontare strane storie del genere. Era un periodo ricco di storie, se sopravvivevi tanto da raccontarle. Poco prima dello scandaloso matrimonio della sua figlia minore, Buone Notizie Hyder, Bilquìs raccontò alla ragazza come aveva conosciuto suo marito.
«Quando mi svegliai», disse, «era mezzogiorno ed ero avvolta nel cappotto di un ufficiale. Ma di chi credi che fosse, scema, era suo naturalmente, di tuo padre, di Raza; cosa vuoi che ti dica, mi vide lì sdraiata, con tutte le mie merci in vetrina, per così dire, e a quel giovanotto baldanzoso evidentemente piacque quel che era in mostra».
Buone Notizie disse haa! e tch tch! fingendosi scandalizzata dalla sfacciataggine materna e Bilquìs aggiunse timidamente: «Incontri del genere non erano rari allora.» E Buone Notizie replicò con rispetto: «Be' mamma, il fatto che fosse rimasto colpito, non mi sorprende affatto». Raza, entrando nella sala delle pubbliche udienze, scattò sull'attenti davanti a Bilquìs, ora decentemente coperta; batté i tacchi, salutò, sorrise. «Durante un corteggiamento», disse alla sua futura moglie, «è normale che si abbiano dei vestiti addosso. Ed è privilegio di un marito poter un giorno toglierli... ma nel nostro caso invece avverrà esattamente l'opposto. A me tocca vestirti dalla testa ai piedi come s'addice a una sposa pudica». (Buone Notizie, piena di succhi matrimoniali, sospirò nell'udire queste parole: «Le sue prime parole!
Dio, com'è romantico! Come lui parve a Bilquìs avvolta nel cappotto militare: «Così alto! Con la pelle così chiara! E così fiero, sembrava un re!». Non si fecero fotografie del loro incontro, ma dobbiamo tener conto del suo stato d'animo. Raza Hyder misurava un metro e settanta: non certo un gigante, ammetterete. In quanto alla sua pelle, era sicuramente più scuro di quanto gli occhi adoranti di Bilquìs fossero disposti ad ammettere. E fiero come un re? Questo è probabile. Era solo un capitano, allora; ma è egualmente una definizione attendibile.
Cos'altro si può correttamente dire di Raza Hyder: che aveva energia sufficiente a illuminare una strada; che i suoi modi erano sempre impeccabili: persino quando diventò presidente, riceveva la gente in un atteggiamento di tale umiltà (non inconciliabile con l'orgoglio) che ben pochi erano poi disposti a parlar male di lui, e quelli che lo facevano si sentivano, già mentre spettegolavano, come se stessero tradendo un amico; e che aveva sulla fronte la leggera ma permanente ammaccatura che abbiamo già notato sulla devota fronte di Ibadalla, il postino di Q.: la gatta rivelava in Raza un uomo religioso. Un ultimo particolare. Si raccontava del capitano Hyder che fosse stato centoventi ore senza dormire da quando i musulmani erano stati radunati nel Forte Rosso, e questo potrebbe spiegare le nere borse che aveva sotto gli occhi. Queste borse sarebbero poi diventate sempre più nere e gonfie con il crescere del suo potere, portandolo a un punto in cui non aveva più bisogno di mettersi gli occhiali da sole come gli altri pezzi grossi, perché aveva l'aria di portarne sempre un paio, persino a letto. Il futuro generale Hyder: Razzoo, Raz-Matazz, Vecchio Rasoio in persona! Come avrebbe potuto Bilquìs resistere a un tale uomo? Ne fu conquistata a passo di carica. Durante le giornate che passarono al forte, il capitano con le borse sotto gli occhi veniva regolarmente a trovarla portandole sempre capi di vestiario o prodotti di bellezza: camicette, sari, sandali, matite per le ciglia con cui sostituire i peli perduti, reggiseni, rossetti furono riversati su di lei. Le tecniche del bombardamento a tappeto servono per costringere a una rapida resa... e quando il suo guardaroba divenne sufficientemente vasto per permetterle di fare a meno del cappotto militare, Bilquìs si mise in mostra per lui nella sala.
«Adesso che ci penso», raccontò poi a Buone Notizie, «forse fu allora che pronunciò quella frase sul vestirmi». Ricordava infatti come gli aveva risposto: abbassando gli occhi in quell'atteggiamento da somma attrice che suo padre aveva un tempo elogiato, disse con tristezza: «Ma quale marito potrei mai trovare io, che non ho alcuna speranza di dote?
Certamente non un capitano così generoso che veste signore sconosciute come regine». Raza e Bilquìs si fidanzarono sotto gli occhi inaspriti delle espropriate moltitudini; e poi i doni continuarono, dolci e anche braccialetti, bibite analcoliche e veri e propri pasti e anche anelli ed henné. Raza sistemò la fidanzata dietro uno schermo di pietra ingraticciata, e mise di guardia un giovane soldato di fanteria per difendere quel territorio. Isolata così dalla rabbia sorda e debilitata della folla Bilquìs sognava il giorno delle sue nozze, e a difenderla da ogni senso di colpa era quel vecchio sogno di regalità che aveva inventato tanto tempo prima. «Tch, tch», rimproverava i rifugiati che la guardavano minacciosi, «la vostra invidia è una cosa davvero orribile».
Frecciate venivano lanciate attraverso il graticcio di pietra: «Ehi, gran dama! Dove credi che li prenda quei tuoi meravigliosi vestiti? Da' un'occhiata ai pantani del fiume sotto le mura del forte, conta i corpi nudi e saccheggiati che vi sono scaraventati ogni notte». Parole pericolose penetravano oltre il graticcio: profittatrice di cadaveri, sgualdrina, puttana. Ma Bilquìs serrava le mascelle contro tanta volgarità e diceva a se stessa: «Sarebbe davvero ineducato chiedere a un uomo dove ha preso i suoi doni! Non mi macchierei mai di tanta volgarità, mai!». Questo sentimento, che era la sua risposta agli scherni degli altri rifugiati, in realtà non passò mai oltre le sue labbra, ma le riempiva la bocca, gonfiandola in un'espressione imbronciata. Io non la giudico. In quei giorni la gente sopravviveva come poteva.
L'esercito fu suddiviso come tutto il resto, e il capitano Hyder si trasferì a occidente nella nuova e tarmata terra di Dio. Ci fu una cerimonia nuziale, dopo di che Bilquìs Hyder sedette accanto al nuovo marito su un aereo militare: una nuova donna, sposata da poco, che volava verso un luminoso mondo nuovo. «Che cosa non farai là, Raz!", esclamava. «Quale grandezza! Quale fama!». Le orecchie di Raza diventavano rosse sotto gli occhi (accesi dal divertimento) dei suoi compagni su quel sobbalzante e rumoroso Dakota; ma pareva egualmente soddisfatto. E la profezia di Bilquìs, dopo tutto, si avverò. Lei, la cui vita era saltata in aria privandola della storia e lasciando al proprio posto soltanto quell'oscuro sogno di maestà, quell'illusione così potente da pretendere di entrare nella sfera del reale - lei, la sradicata Bilquìs che ora ambiva alla stabilità, alla fine delle esplosioni, aveva individuato in Raza le caratteristiche del macigno su cui avrebbe costruito la propria vita. Era un uomo saldamente radicato in un'immodificabile consapevolezza di sé, e questo lo faceva apparire invincibile. «Sei un vero gigante.» lo adulava, sussurrandogli queste parole all'orecchio per non scatenare le risatine degli altri ufficiali nella cabina, «e splendi come gli attori sullo schermo». Mi sto domandando quale sia il modo migliore per descrivere Bilquìs. Come una donna che fu spogliata dal cambiamento, ma che si avvolse nelle certezze; o come una ragazza che divenne una regina, ma perse la capacità che ogni mendicante possiede, cioè il potere di generare figli maschi; o come quella signora che aveva come padre una Donna e il cui figlio finì per rivelarsi a sua volta una ragazza; e il cui superuomo, il suo Razzoo o Raz-Matazz, fu costretto, alla fine, a indossare l'umiliante sudario nero della femminilità; o anche come una creatura nelle grinfie misteriose del fato - il cordone ombelicale che soffocò suo figlio non ebbe forse un'eco in un'altra e più terribile corda?...
Ma mi accorgo che, in fin dei conti, devo tornare al punto di partenza, perché per me lei è, e sarà sempre, la Bilquìs che aveva paura del vento. Siamo giusti: a nessuno piace il Loo, quel caldo soffocante soffio pomeridiano. Abbassiamo le tapparelle, appendiamo panni bagnati alle finestre, cerchiamo di dormire. Ma in Bilquìs, man mano che invecchiava, il vento suscitava strane paure. Marito e figlie notavano che nel pomeriggio diventava nervosa e irascibile; che aveva preso l'abitudine di girare per casa sbattendo porte e chiudendole a chiave, finché Raza Hyder non cominciò a ribellarsi all'idea di vivere in una casa dove dovevi chiedere una chiave a tua moglie per andare al cesso.
Dal suo polso snello pendeva, tintinnando, il mazzo di chiavi da dieci tonnellate della sua nevrosi. Arrivò a provare orrore per ogni movimento e decretò un embargo sullo spostamento di qualsiasi oggetto della casa, anche del più banale. Sedie, portacenere, vasi di fiori mettevano radici, immobilizzati dalla forza della sua spaventata volontà. <.Al signor Hyder piace che tutto sia al suo posto», diceva, ma era lei la maniaca della fissità. E c'erano giorni in cui bisognava tenerla in casa praticamente come una prigioniera, perché sarebbe stata una vergogna e uno scandalo se un estraneo l'avesse vista in quelle condizioni; quando soffiava il Loo, strideva come un hoosh o un afrit o qualche altro diavolo, urlava perché i servi venissero a tener fermi i mobili che altrimenti il vento avrebbe soffiato via come il contenuto di un Impero da tempo perduto e strillava alle figlie (quando erano presenti) di aggrapparsi forte a qualcosa di pesante, di fisso, per impedire al vento infocato di portarsele in cielo.
Il Loo è un vento diabolico.
Se questo fosse un romanzo realistico sul Pakistan, non scriverei di Bilquìs e del vento; parlerei della mia sorella minore. Che ha ventidue anni e studia ingegneria a Karachi; che non può più star seduta sui propri capelli e che, a differenza di me, è cittadina pakistana. Nelle mie giornate buone, penso a lei come al Pakistan, e allora voglio molto bene a quel paese e trovo facile perdonare il suo amore (che lei condivide) per la Coca-Cola, le discoteche e le macchine veloci d'importazione. Pur conoscendo il Pakistan da tempo, non vi ho mai vissuto per più di sei mesi consecutivi. Una volta ci sono andato solo per due settimane. Tra questi semestri e queste quindicine ci sono stati periodi di varia durata. Ho conosciuto il Pakistan a fette, e nello stesso modo ho conosciuto la mia crescente sorella. L'ho vista per la prima volta quando di anni ne aveva zero e io, quattordicenne, mi chinai sulla sua culla mentre lei mi urlava in faccia); e poi a tre, quattro, sei, sette, dieci, quattordici, diciotto e ventun anni. Insomma ho dovuto imparare a conoscere nove sorelle minori. E mi sono sentito più vicino a ciascuna delle incarnazioni successive che alla precedente.
(Questo vale anche per il paese.) Penso che ciò che sto confessando è che, in qualunque modo io scelga di scrivere di laggiù, sono obbligato a riflettere quel mondo in frammenti di specchi rotti, nello stesso modo in cui Farah Zoroaster vedeva il proprio viso sui paletti della frontiera. Devo rassegnarmi all'inevitabilità dei particolari mancanti.
Ma immaginiamo che questo sia un romanzo realistico! Pensate quante altre cose avrei potuto metterci. La faccenda, per esempio, dell'installazione illegale, da parte degli abitanti più ricchi della «Difesa,>, di segrete pompe sotterranee che rubano acqua alle condutture dei vicini - tanto è vero che si possono sempre riconoscere le persone più influenti dal verde dei loro prati (e queste indicazioni non valgono soltanto per il Cantonment di Q.) -. Dovrei anche descrivere il Sind Club di Karachi, dove c'è ancora un cartello con la scritta: «Donne e cani non sono autorizzati a spingersi oltre questo punto»? O analizzare la sottile logica di una programmazione industriale che riesce a costruire reattori nucleari, ma non un frigorifero? Ahimè, e i manuali scolastici che dicono «L'Inghilterra non è un paese agricolo» e l'insegnante che una volta tolse due voti al tema di geografia di mia sorella perché differiva in due punti dall'esatta formulazione di quel medesimo manuale... come potrebbe risultare imbarazzante tutto questo, caro lettore. Quanti materiali tratti dalla realtà diventerebbero obbligatori! Il caso per esempio di quel vicepresidente dell'Assemblea nazionale che tanto tempo fa fu ucciso dai rappresentanti eletti che gli lanciarono contro dei mobili; o di quel censore che applicò la matita rossa a tutte le inquadrature della scena del film La notte dei generali in cui il generale Peter O'Toole visitò una galleria d'arte, e cancellò con un frego tutti i quadri di donne nude appesi alle pareti, e gli spettatori assistettero così abbacinati allo spettacolo surreale del generale Peter che percorre una galleria di danzanti macchie rosse; o di quell'alto dirigente della TV che una volta mi disse solennemente che porco è una parola oscena; o di quel numero di «Times» (o si trattava di «Newsweek»?) che non arrivò mai nel paese perché conteneva un servizio sul presunto conto del presidente Ayyub Khan in una banca svizzera; o dei banditi sulle camionabili condannati perché fanno, come iniziativa privata, ciò che il governo fa come politica pubblica; o del genocidio nel Baluchistan; o delle recenti assegnazioni preferenziali delle borse di studio governative per finanziare studi di perfezionamento all'estero a membri del fanatico partito Jamaat; o del tentativo di fare del sari un indumento osceno; o delle impiccagioni in più - le prime dopo vent'anni - ordinate per dare legittimità all'esecuzione capitale del signor Zulfikar Ali Bhutto; o del motivo per cui il boia di Bhutto è sparito senza lasciar traccia, come i tanti monelli di strada che vengono quotidianamente rapiti in pieno giorno; o dell'antisemitismo, fenomeno interessante, sotto la cui influenza persone che non hanno mai visto un ebreo diffamano tutti gli ebrei per mostrarsi solidali con gli stati arabi che offrono, di questi tempi, ai lavoratori pakistani posti di lavoro e preziosa valuta straniera; o del contrabbando, del boom dell'esportazione d'eroina, dei dittatori militari, dei civili venali, dei funzionari pubblici corrotti, dei giudici comprati, dei giornali dei cui articoli l'unica cosa certa è che sono tutte bugie; o della distribuzione del bilancio nazionale, con particolare riferimento alle percentuali destinate alla difesa (enormi) e all'istruzione (non enormi). Immaginate le mie difficoltà! Ma se stessi scrivendo un libro del genere, mi sarebbe inutile affermare che scrivo sull'universo, e non soltanto sul Pakistan. Il libro verrebbe messo al bando, buttato nei bidoni della spazzatura, dato alle fiamme. Tanta fatica per niente! Il realismo può spezzare il cuore di uno scrittore. Ma per fortuna sto solo raccontando una sorta di fiaba moderna, e quindi va tutto bene; nessuno deve sentirsi turbato o prendere sul serio le cose che dico. Non è neanche necessario ricorrere a drastici provvedimenti. Che sollievo!
E ora devo smetterla di dire di che cosa non sto scrivendo, perché in questo non c'è niente di speciale; qualsiasi storia uno scelga di raccontare è sempre una specie di censura, in quanto impedisce che si raccontino altre storie... Devo dunque tornare alla mia fiaba, perché mentre facevo tutte queste chiacchiere sono accadute molte cose.
Tornando al mio racconto, scavalco Omar Khayyam Shakil, il mio eroe sussidiario, in paziente attesa che io arrivi al punto in cui la sua futura sposa, la povera Sufiya Zinobia potrà entrare nella storia, con la testa in avanti lungo il canale uterino. Non dovrà aspettare molto, sta quasi per arrivare. Mi soffermerò soltanto per osservare (non essendo improprio accennarvi in questo momento) che nel corso della sua vita coniugale Omar Khayyam fu costretto ad accettare senza discutere la passione infantile di Sufiya Zinobia per spostare i mobili. Intensamente eccitata da questi atti proibiti, risistemava tavoli, sedie e lampade ogni volta che nessuno la vedeva, come se si trattasse di un prediletto gioco segreto, cui si dedicava con una solennità spaventosamente caparbia. Omar Khayyam si sentiva montare alle labbra parole di protesta, ma le reingoiava, sapendo che dire qualcosa sarebbe stato inutile. «Sinceramente, moglie», avrebbe voluto esclamare, «Dio sa che cosa speri di cambiare con tutti questi spostamenti».