CAPITOLO SECONDO
UNA COLLANA DI SCARPE.
Poche settimane dopo l'entrata delle truppe russe in Afghanistan, io tornai a casa per rivedere i miei genitori e le mie sorelle e per mostrare loro il mio primogenito. La mia famiglia abita nella «Difesa», la Cooperativa edilizia dei funzionari del ministero della Difesa del Pakistan, pur non essendo una famiglia di militari. La «Difesa» è una delle zone eleganti di Karachi: pochi dei soldati autorizzati a comprarvi terreni a prezzi stracciati potevano permettersi di costruirvi. Ma non potevano neanche vendere le aree. Per comprare da un ufficiale un lotto della «Difesa», bisognava stendere un contratto molto complicato. Secondo questo contratto, il terreno restava proprietà del venditore, anche se glielo avevi pagato al prezzo di mercato e se già stavi spendendo un piccolo capitale per costruirti una casa secondo le tue esigenze. In teoria, eri soltanto un uomo gentile, un benefattore che, per uno sconfinato spirito di carità, aveva deciso di regalare una casa al povero ufficiale. Il contratto obbligava però il venditore a nominare anche una terza parte, che avrebbe avuto pieni poteri sulla proprietà una volta terminata la costruzione della casa.
Questa terza parte la sceglievi tu ed era lei, una volta tornati a casa i muratori, che ti consegnava la proprietà. L'intero procedimento esigeva dunque due atti separati di buonuscita. Lo sviluppo della «Difesa» avveniva quasi interamente su queste basi. E questo spirito di cameratismo, di collaborazione altruistica per un obiettivo comune, è realmente degno di nota. Era anche un sistema elegante. Il venditore s'arricchiva, il mediatore incassava il suo onorario, tu ottenevi la tua casa, e nessuno violava la legge. è naturale quindi che non ci siano mai state proteste sul fatto che la più desiderabile area di sviluppo della città fosse stata assegnata ai servizi della difesa in questa maniera.
Tale atteggiamento è tuttora parte integrante delle fondamenta stesse della «Difesa»: qui l'aria è carica di domande non formulate. Ma il loro odore è debole, e i fiori dei molti giardini, gli alberi che costeggiano i viali, i profumi delle belle e raffinate signore del quartiere sopraffanno quest'altro aroma troppo astratto. Vanno e vengono diplomatici, uomini d'affari internazionali, figli di ex dittatori, divi della canzone, magnati dell'industria tessile, nazionali di cricket.
Sono numerose le auto Datsun e Toyota fresche di fabbrica. E il nome «Società della Difesa», che a certe orecchie può sembrare un simbolo (in quanto rappresenterebbe il rapporto reciprocamente vantaggioso tra le classi dirigenti del paese e le sue forze armate), non ha in città questa risonanza. è solo un nome. Una sera, poco dopo il mio arrivo, andai a trovare un vecchio amico, un poeta. Mi aspettavo una delle solite lunghe conversazioni, volevo sentire il suo parere sui recenti avvenimenti nel Pakistan e, naturalmente, sull'Afghanistan. La sua casa era come sempre piena di ospiti; ma nessuno sembrava interessato a toccare argomenti che non fossero gli incontri di cricket tra Pakistan e India. Mi sedetti a un tavolo con il mio amico e cominciai pigramente a giocare a scacchi. In realtà volevo informazioni attendibili su quanto era accaduto, e dopo un po' tirai fuori ciò che avevo in mente, cominciando con una domanda sull'impiccagione di Zulfikar Ali Bhutto. Ma dalle mie labbra poté uscire solo metà della domanda; l'altra andò a ingrossare le file dei molti interrogativi non formulati del quartiere, perché sentii una pedata estremamente dolorosa atterrare sui miei stinchi e, senza neanche un grido, a metà frase ripresi a parlare di sport. Discutemmo anche sull'incipiente boom televisivo. La gente entrava, usciva, circolava, rideva. Dopo una quarantina di minuti, il mio amico disse: «Adesso è tutto a posto.» Gli domandai: «Chi era?» E mi fece il nome di un informatore infiltratosi nel suo gruppo. Lo trattavano con cortesia, senza fargli capire che sapevano come mai era lì, perché altrimenti sarebbe scomparso e la volta dopo forse non avrebbero saputo chi era l'informatore. In seguito conobbi questa spia.
Era un tipo simpatico, un parlatore gradevole, una faccia onesta, ed era certamente contento di non udire mai nulla che valesse la pena riferire.
Si era arrivati a una sorta d'equilibrio. Mi colpì ancora una volta quanti tipi simpatici ci fossero nel Pakistan e quanta civiltà crescesse in quei giardini, profumando l'aria. Dopo la mia ultima visita a Karachi, il mio amico poeta aveva trascorso molti mesi in prigione, per motivi sociali. In altre parole conosceva un tale che conosceva una tale che era la moglie del secondo cugino per matrimonio dello zio d'acquisto di uno che forniva clandestinamente armi ai guerriglieri del Baluchistan. Nel Pakistan, se conosci gente, puoi arrivare dappertutto, persino in prigione. Il mio amico si rifiuta ancor oggi di parlare di ciò che gli accadde in quei mesi, ma altri mi hanno raccontato che, dopo essere uscito, rimase a lungo in pessime condizioni. Si diceva che lo avessero appeso a testa in giù per le caviglie e picchiato come un neonato di cui bisogna porre forzatamente in azione i polmoni perché possa emettere i primi strilli. Non gli ho mai chiesto se urlò, né se c'erano cime di montagne capovolte visibili attraverso una finestra.
Ovunque mi volti, c'è qualcosa di cui vergognarsi. Ma la vergogna è come tutto il resto: vivici insieme per un po' e diventa parte dell'arredamento. Nella «Difesa» la puoi trovare in ogni casa: brucia in un portacenere, pende incorniciata a un muro, ricopre un letto. Ma non c'è più nessuno che la noti. E tutti si sono civilizzati. Forse dovrebbe essere il mio amico a raccontare questa storia, oppure un'altra, la sua; ma lui ha smesso di scrivere poesie. Mi tocca quindi inventare cose che non mi sono mai accadute, e noterete che il mio eroe è già stato appeso per le caviglie e che porta il nome di un poeta famoso; ma nessuna quartina è mai uscita o uscirà mai dalla sua penna. Straniero! Intruso!
Tu non hai alcun diritto su questo argomento!. .. Lo so. Nessuno mi ha mai arrestato. E non è molto probabile che lo facciano. Bracconiere!
Pirata! Noi rifiutiamo la tua autorità. Noi ti conosciamo, con quella tua lingua straniera avvolta intorno al tuo corpo come una bandiera, parlando di noi con la tua lingua forcuta, che cosa puoi dire se non bugie? Ribatto con altre domande: dobbiamo considerare la storia proprietà esclusiva dei suoi protagonisti? In quali tribunali vengono delimitate queste proprietà, quale commissione assegna i territori?
Soltanto i morti possono parlare? Racconto a me stesso che questo sarà un romanzo di commiato, le mie ultime parole su quell'Oriente da cui cominciai a staccarmi molti anni fa. Non credo sempre a me stesso quando dico queste cose. è una parte del mondo cui, mi piaccia o no, sono ancora legato, se non altro da fasce elastiche. In quanto all'Afghanistan, tornato a Londra conobbi a cena un autorevole diplomatico britannico, specialista per carriera della «mia» parte del mondo. Disse che era del tutto corretto, «dopo l'Afghanistan», che l'Occidente appoggiasse la dittatura del presidente Zia ul-Haq. Non avrei dovuto perdere le staffe, ma le persi. Non servì a niente. Poi, mentre ci alzavamo da tavola, sua moglie, una signora tranquilla e civile, che aveva cercato di metter pace, mi disse: «Ma senta un po', perché i pakistani non si sbarazzano di Zia, come dire, nella maniera solita?» La vergogna, caro lettore, non è monopolio dell'Oriente. Il paese di questo racconto non è il Pakistan, o non lo è del tutto. Ci sono due paesi, uno reale e uno fittizio, che occupano lo stesso spazio, o quasi. La mia storia, il mio paese fittizio, sono, come me, leggermente discosti dalla realtà. Ho ritenuto che questa piccola deformazione fosse necessaria; ma il suo valore può essere contestato.
Mia opinione è che non sto scrivendo solo sul Pakistan. Non ho dato un nome al paese. Q. in realtà non è Quetta. Non intendo però fare il fanatico: quando arriverò alla grande città la chiamerò Karachi. E ci sarà anche una «Difesa».
La posizione di Omar Khayyam come poeta è curiosa. Non è mai stato molto popolare nella sua Persia natia: e in Occidente circola in una traduzione che è di fatto una rielaborazione radicale dei suoi versi, in molti casi ben diversa dallo spirito (per non parlare del contenuto) dell'originale. Anch'io sono un uomo tradotto. Sono stato portato oltre.
Si ritiene che in una traduzione si perda sempre qualcosa; io aderisco alla tesi - e cito, a prova, il successo di Fitzgerald Khayyam - che qualcosa si possa anche guadagnare. «L'averti vista attraverso il mio amato telescopio», disse Omar Khayyam Shakil a Farah Zoroaster il giorno in cui le dichiarò il suo amore, «mi ha dato la forza di spezzare il potere delle mie madri». «Guardone», replicò lei. «Io caco sulle tue parole. Le tue palle sono scese troppo presto, e adesso ti vengono i calori, tutto qui. Non scaricarmi addosso i tuoi problemi familiari».
Aveva due anni più di lui, ma Omar Khayyam fu egualmente costretto ad ammettere che la sua amata aveva un linguaggio sboccato... ... Oltre al nome di un grande poeta, era stato dato al bambino il cognome delle sue madri. E come per sottolineare i motivi per cui lo avevano chiamato come l'immortale Khayyam, le tre sorelle diedero un nome anche a quel male illuminato edificio tutto corridoi che era ormai l'unica terra che possedessero: la casa venne chiamata «Nishapur». In tal modo un secondo Omar crebbe in un secondo luogo che aveva quel nome, e di tanto in tanto, crescendo, coglieva uno strano sguardo nei sei occhi delle sue tre madri, uno sguardo che pareva dire: Sbrigati, stiamo aspettando le tue poesie. Ma (lo ripeto) dalla sua penna non uscì mai una rubaiyat. La sua infanzia era stata eccezionale sotto tutti i punti di vista, perché ciò che valeva per le madri e i domestici s'applicava ovviamente anche al nostro eroe marginale. Omar Khayyam trascorse dodici lunghi anni, i più importanti del suo sviluppo, prigioniero di quella dimora solitaria, di quel terzo mondo che non era né materiale né spirituale, ma una sorta di decrepitezza concentrata, fatta dei resti decomposti dei due tipi di cosmo più familiari, di un mondo dove incappava continuamente - oltre che in una profusione di oggetti in disfacimento coperti di naftalina, di ragnatele e di polvere - nei miasmi sbiaditi e persistenti di idee abbandonate e di sogni dimenticati. Il gesto squisitamente calcolato con cui le tre madri si erano isolate dal mondo aveva creato una zona soffocante, entropica, dove, nonostante tutto il decomporsi del passato, non sembrava poter più crescere niente di nuovo e fuggire al più presto divenne la principale ambizione giovanile di Omar Khayyam. Ignaro, in quell'universo di frontiera orribilmente indeterminato, della curvatura dello spazio e del tempo, grazie alla quale chi corre più a lungo e con più energie finisce inevitabilmente, ansando e soffiando, con i tendini slogati e dolenti, al punto di partenza, egli sognava vie d'uscita, sentendo che nella claustrofobia di «Nishapur» era in gioco la sua stessa vita. Lui, dopo tutto, era qualcosa di nuovo in quello sterile labirinto corroso dal tempo. Avete mai sentito parlare di quei bambini-lupo allattati dobbiamo supporre - dalle ferine molteplici mammelle di una pelosa genitrice che ulula alla luna? Liberati dal branco, mordono vergognosamente al braccio i loro salvatori; catturati e ingabbiati, vengono portati, fetidi di carne cruda e di materia fecale, alla luce emancipata del mondo, con cervelli troppo imperfettamente formati per acquisire qualcosa di più dei rudimenti fondamentali della civiltà... Anche Omar Khayyam poppò a troppe ghiandole mammarie; e vagò per circa quattromila giorni in quella giungla infestata di oggetti che era «Nishapur»; la sua foresta murata, la sua madre-patria; finché non riuscì a farsi aprire le frontiere esprimendo un desiderio di compleanno che niente di sollevabile con la macchina di Mistri Balloch poteva appagare. «Piantala con questa faccenda del figlio della giungla.»
sogghignò Farah quando Omar cercò di spiegarglielo, «tu non sei un fottuto uomo-scimmia, bambino». E, in termini pedagogici, aveva ragione; ma nello stesso tempo negava la sfrenatezza, il male che erano in lui; e lui le dimostrò sul suo stesso corpo che aveva torto. Ma procediamo con ordine: per dodici anni aveva avuto libero accesso a tutta la casa.
Poche cose (libertà a parte) gli venivano negate. Un ragazzo viziato e volpino; ogni volta che ululava, le sue madri lo accarezzavano... e quando cominciarono gli incubi e la sua rinuncia al sonno, si immerse sempre più negli abissi apparentemente senza fondo di quel regno in decomposizione. Credetemi quando vi dico che avanzò a tentoni in corridoi così a lungo non percorsi che i suoi piedi calzati da sandali sprofondavano nella polvere sino alle caviglie; che scoprì scale in rovina rese impraticabili da lontani terremoti che le avevano sollevate sino a trasformarle in montagne aguzze come denti o fatte crollare rivelando bui abissi di paura... nel silenzio della notte e nei primi rumori dell'alba esplorava di là dalla storia quella che pareva l'antichità palesemente archeologica di «Nishapur», scoprendo negli almirah, le cui porte di legno si sbriciolavano sotto le sue dita esitanti, le forme impossibili della ceramica neolitica dipinta nello stile Kotdiji; o in cucine di cui non si sospettava più neanche l'esistenza, contemplava ignaro utensili di bronzo d'età assolutamente favolosa; o nelle regioni di quel palazzo colossale abbandonate da tempo per il crollo dei loro impianti idraulici indagava sulle complicazioni, messe a nudo dai terremoti, di un sistema di scarico in mattoni, non più usato da secoli. Una volta si smarrì completamente e prese a correre frenetico qua e là, come un viaggiatore nel tempo che ha perduto la sua capsula magica e ha paura di non poter più emergere dalla storia in disgregazione della propria specie - e si fermò di botto, contemplando inorridito una stanza il cui muro esterno era stato in parte demolito da verdi e massicce radici di alberi in cerca di acqua. Aveva forse dieci anni quando ebbe la sua prima visione fugace e senza ostacoli del mondo esterno. Gli sarebbe bastato avanzare oltre quel muro in frantumi - ma era un regalo che gli era stato offerto bruscamente senza sufficiente preavviso e, preso alla sprovvista dalla traumatizzante presenza dell'alba che fluiva attraverso quell'apertura, voltò sui tacchi e fuggì condotto alla cieca dal proprio terrore, nella sua confortevole e confortante cameretta. In seguito, dopo aver avuto modo di rifletterci, cercò di tornare sui propri passi con l'aiuto di un gomitolo di corda trafugato, ma per quanto tentasse non ritrovò mai più quel punto del labirinto della sua infanzia in cui viveva il minotauro della proibita luce del sole. «Trovavo a volte degli scheletri», giurò all'incredula Farah, «umani e animali». E anche dove non c'erano ossa, gli abitanti da tempo defunti della casa assillavano ogni suo passo. Ma non come pensate voi! - Né gemiti, né sferragliar di catene! - ma sensazioni incorporee, i fumi soffocanti di antiche speranze, paure, amori; e infine, eccitato dalle fantasmatiche oppressioni, cariche d'antenati, dei remoti recessi di quel cadente edificio, Omar Khayyam (non molto tempo dopo l'episodio del muro rotto) si prese la sua vendetta su quell'ambiente innaturale.
Fremo nel raccontare il suo vandalismo: armato di scopa e di un'accetta rubata, vagò smaniando tra corridoi polverosi e verminose camere da letto, fracassando armadietti a vetri, abbattendo divani cosparsi d'oblio, polverizzando tarlate librerie; cristalli, dipinti, elmi arrugginiti, residui sottili come fogli di carta d'inestimabili tappeti di seta, tutto venne distrutto in modo irrimediabile. «Prendi questo», strillava tra i cadaveri della sua inutile massacrata storia, «prendi questo, vecchia robaccia!» e poi (lasciando cadere la colpevole accetta e la scopa che tutto ripuliva) scoppiò illogicamente in lacrime. Bisogna precisare che già a quei tempi nessuno credeva ai racconti del ragazzo sulle sterminate infinità della casa. «I figli unici», gracchiava Hashmat Bibi, «vivono sempre e poi sempre nella loro povera mente». E anche i tre servi maschi ridevano: «A sentirti, baba, ci sarebbe da credere che questa casa è diventata talmente enorme che al mondo non può esserci spazio per niente altro!». E le tre madri che sedevano tolleranti sul loro prediletto divano a dondolo, allungavano mani carezzevoli e chiudevano la discussione: «Se non altro, ha una immaginazione vivace», diceva Munnee-la-mediana, e mamma Bunny assentiva: «Gli viene da quel nome poetico». Preoccupata che fosse sonnambulo, mamma Chhunni ordinò a un servo di stendere la sua stuoia davanti alla camera di Omar Khayyam: ma a questo punto lui aveva deciso di considerare definitivamente off-limits le zone più fantasticate di «Nishapur». Dopo essere piombato sulle coorti della storia come un lupo (o un bambino-lupo) sul gregge, Omar Khayyam Shakil si isolò nelle regioni ben battute, spolverate e adoperate della casa. Qualcosa - forse il rimorso - lo condusse nello studio a pannelli scuri di suo nonno, una stanza rivestita di libri dove le tre sorelle non avevano più messo piede dalla morte del vecchio. E qui scoprì che quelle arie di grande erudito che si dava il signor Shamir erano solo una mistificazione, come il suo presunto acume finanziario; perché in ogni volume c'era l'ex libris di un certo colonnello Arthur Greenfield e molte pagine erano ancora intonse. Era la biblioteca di un gentiluomo, venduta in toto da questo sconosciuto colonnello, ed era rimasta inutilizzata per tutto il suo soggiorno a casa Shakil. Ora però Omar Khayyam le piombò addosso con energia. A questo punto devo fare gli elogi dei suoi talenti d'autodidatta. Prima di lasciare «Nishapur», aveva già imparato l'arabo e il persiano classici, nonché il latino, il francese e il tedesco; e tutto questo con l'aiuto dei dizionari rilegati in pelle e dei testi inutilizzati della menzognera vanità di suo nonno. E in quali libri s'immerse il ragazzo! Manoscritti miniati delle poesie di Ghalib: volumi di lettere degli imperatori Moghul ai loro figli; Alf laylah wa laylah nella traduzione di Burton e i viaggi di Ibn Battuta e i Qissa o racconti del leggendario avventuriero Hatim Tai... sì, sì, è chiaro, vedo che devo proprio rinunciare (come Farah aveva ordinato a Omar) all'ingannevole immagine del Mowgli, del figlio della giungla. Il passaggio continuo di oggetti dall'abitazione al banco dei pegni, tramite il montavivande, riportava alla luce a intervalli regolari tante cose nascoste. Quelle enormi camere stipate sino all'orlo con l'eredità materiale di generazioni d'antenati rapacemente avidi, furono lentamente svuotate tanto che quando Omar Khayyam aveva dieci anni e mezzo c'era ormai spazio sufficiente per circolare senza sbattere ad ogni passo contro qualche mobile. E un giorno le tre madri mandarono un servo nello studio perché facesse sparire dalle loro vite un paravento di noce squisitamente scolpito su cui era raffigurata la mitica montagna circolare di Qaf, con i relativi trenta uccelli che rappresentano Dio.
La fuga di questo parlamento di pennuti rivelò a Omar Khayyam una piccola libreria piena di volumi sulla teoria e la pratica dell'ipnosi: mantra sanscriti, compendi delle conoscenze dei maghi persiani, una copia in pelle del Kalevala finnico, un resoconto degli ipnoesorcismi di Padre Gassner di Klosters e uno studio sulla teoria del "magnetismo animale", opera di Franz Mesmer in persona; nonché (particolarmente utili) un certo numero di manuali a buon mercato del genere «fai da te».
Omar Khayyam cominciò a divorare avidamente questi libri, i soli della biblioteca che non portassero il nome del colto colonnello; erano la vera eredità di suo nonno e furono all'origine dell'interesse di tutta la sua vita per questa scienza arcana che ha, nel bene o nel male, un così spaventoso potere. I domestici della casa erano sottoccupati come lui; a poco a poco le sue madri erano diventate molto negligenti in attività come la pulizia e la cucina. I tre servi divennero così i primi volonterosi soggetti di Omar Khayyam. Esercitandosi con l'aiuto di una lucente moneta di quattro anna, egli riusciva a ipnotizzarli e scopriva con un certo orgoglio il suo talento in questa arte: tenendo senza fatica la propria voce in un tono piatto e monotono, li cullava sino a mandarli in trance, scoprendo, tra le altre cose, che gli impulsi sessuali, che le sue madri apparentemente avevano completamente perduto dopo la sua nascita, non si erano invece acquietati in questi uomini.
Ipnotizzati, confessavano allegramente i segreti delle loro reciproche carezze e benedicevano la trinità materna per aver modificato le circostanze della loro vita al punto da rivelargli i loro veri desideri.
Il soddisfatto terzetto amoroso dei servi faceva da curioso contrappunto all'amore, egualmente intenso ma totalmente platonico, che le tre sorelle provavano l'una per l'altra. (Ma Omar Khayyam, benché circondato da tante effusioni e da tanti affetti, era sempre più amareggiato.) Anche Hashmat Bibi accettò di «subire». Omar la indusse a immaginare che stava fluttuando su una rosea e morbida nube. «Stai sprofondando sempre di più», intonò mentre lei se ne stava sdraiata sulla sua stuoia, «vai sempre più a fondo nella nube. è bello stare nella nube; e tu vuoi sprofondare sempre più in basso». Questi esperimenti ebbero però un tragico effetto collaterale. Subito dopo il suo dodicesimo compleanno, le sue madri vennero a sapere dai tre servi innamorati, che mentre parlavano lanciavano occhiate d'accusa al giovane padrone, che Hashmat, a quanto pareva, si era uccisa; e nei suoi ultimi istanti l'avevano udita mormorare: «...sempre più a fondo nel cuore della rosea nube». La vecchia, avendo avuto visioni fugaci del non essere grazie ai poteri medianici della voce del giovane ipnotizzatore, aveva finalmente allentato quella ferrea volontà che le aveva permesso di restare aggrappata alla vita, a sentir lei, per oltre centoventi anni. Le tre madri smisero di dondolarsi sul loro divano e ordinarono a Omar Khayyam di rinunciare al mesmerismo. Ma a questo punto il mondo era cambiato. E devo tornare un po' indietro per descrivere questo mutamento. Cos'altro si trovò nelle stanze che s'andavano lentamente svuotando? un già menzionato telescopio. Con il quale Omar Khayyam spiava dalle finestre all'ultimo piano (perché quelle al pian terreno erano permanentemente chiuse e sbarrate): il mondo visto come un disco luminoso, una luna per il suo divertimento. Assisteva a duelli aerei tra pittoreschi patang caudati con fili neri e immersi nel vetro per renderli taglienti come rasoi; udiva le grida dei vincitori «Boi-oi-oi! Boi-oi!» - venire verso di lui trasportate dal vento sabbioso; e una volta un aquilone verde e bianco, cui era stato tagliato il filo, venne a cadere dentro la sua finestra aperta. E quando, poco prima del suo dodicesimo compleanno, si presentò su questa sua luna oculare la figura incomprensibilmente attraente di Farah Zoroaster, che non aveva più di quattordici anni, ma possedeva già un corpo che si muoveva con la sapienza fisica di una donna, allora, esattamente in quel momento, Omar si sentì spezzare la voce in gola, mentre sotto la sua cintura scivolavano in basso anche altre cose, per prendere il posto ad esse destinato, con un certo anticipo sul previsto, in sacchi precedentemente vuoti. Il suo desiderio del mondo esterno si trasformò immediatamente in un sordo dolore all'inguine, in una fitta ai lombi; ciò che seguì era forse inevitabile.
Non era libero. La disponibilità totale della casa non era che la pseudolibertà di un animale dello zoo; e le sue madri erano le sue amorevoli premurose guardiane. Le sue tre madri: chi se non loro gli conficcò in cuore la convinzione di essere una personalità ai margini, uno spettatore dalle quinte della propria vita? Le osservò per una dozzina d'anni e, sì, bisogna proprio dirlo, le odiava per la loro intimità, per il modo in cui si sedevano, con le braccia intrecciate, sul solito divano dondolante e cigolante, per la tendenza a scivolare ridacchiando nei linguaggi segreti dell'adolescenza, per come s'abbracciavano o accostavano l'una all'altra le tre teste e sussurravano chissà cosa, o completavano ognuna le frasi dell'altra.
Omar Khayyam, prigioniero a «Nishapur», era stato escluso dalla società umana da una curiosa decisione delle sue madri; e questo, la trinità di madri, accentuava il suo sentirsi escluso, l'essere, in mezzo a tanti oggetti, fuori delle cose. Dodici anni esigono il loro pedaggio. In un primo tempo, il grande orgoglio che aveva spinto Chhunni, Munnee e Bunny a rifiutare Dio, la memoria del loro padre e il loro posto nella società aveva loro permesso di mantenere quelle norme di comportamento che erano più o meno la loro sola eredità paterna. Si alzavano, ogni mattina, a pochi secondi di distanza l'una dall'altra, si spazzolavano i denti, su e giù e lateralmente, cinquanta volte a testa con bastoncini d'eucalipto, e poi, vestite in modo identico, si oliavano e si pettinavano a vicenda i capelli e intrecciavano fiori bianchi nelle nere crocchie in cui acconciavano le loro chiome. Parlavano ai servi, e anche tra loro, usando la forma cortese del pronome di seconda persona. La rigidità del loro portamento e la precisione delle istruzioni che impartivano avevano dato una legittimante lucentezza a ogni loro azione, compresa (ed era sicuramente questo il punto) la produzione di un figlio illegittimo. Ma lentamente, molto lentamente, si lasciarono andare. Il giorno della partenza di Omar Khayyam per la grande città, la maggiore delle sue madri gli svelò un segreto che fissava la data in cui era cominciato il loro declino. «Non avremmo mai voluto smettere di allattarti al seno», confessò. «A questo punto saprai certamente che non è abituale che un bambino di sei anni resti ancora attaccato al capezzolo; ma tu hai poppato a una mezza dozzina di capezzoli, uno per ogni anno. Il giorno del tuo sesto compleanno, rinunciammo al più grande dei nostri piaceri, e da allora niente fu più lo stesso, cominciammo a dimenticare il senso delle cose». Nei sei anni successivi, mentre le mammelle s'inaridivano e si restringevano, le tre sorelle persero quel tanto di sodo e di eretto che caratterizzava i loro corpi e cui si doveva in buona parte la loro bellezza. Divennero molli, si formarono nodi nei loro capelli, persero qualsiasi interesse per la cucina: i servi se la passavano liscia qualunque guaio combinassero. Continuavano però a declinare allo stesso ritmo e in maniera identica; i vincoli della loro identità rimanevano intatti. Ricordatevi: le sorelle Shakil non avevano mai avuto una vera educazione, eccetto che per le buone maniere, mentre il loro figlio, quando cambiò voce, era già una sorta di prodigioso autodidatta. Tentò di interessare le madri a ciò che aveva appreso; ma quando esponeva le più eleganti dimostrazioni dei teoremi euclidei o si diffondeva eloquentemente sull'immagine platonica della Caverna, esse s'affrettavano a respingere questi concetti non familiari.
«Farfugliamenti angrez», disse mamma Chhunni, e le tre madri in coro alzarono le spalle. «Chi li capisce i cervelli di quei matti?», domandò Munnee-la-mediana, in un tono di condanna senza appello. «Leggono i libri da sinistra a destra». Il filisteismo delle sue madri accentuò la sensazione, confusa e solo in parte formulata, di Omar Khayyam di essere un estraneo, sia perché era un ragazzo dotato le cui doti venivano rimandate al mittente dalle sue genitrici, sia perché, nonostante la sua erudizione, intuiva che il punto di vista delle madri lo stava frenando.
Era come se si fosse smarrito in una nuvola, le cui tende ogni tanto si aprivano per offrire immagini stuzzicanti del cielo... e a dispetto di ciò che aveva sussurrato a Hashmat Bibi, le nubi non avevano per questo ragazzo il minimo fascino.
Adesso, dunque, Omar Khayyam Shakil ha quasi dodici anni. è un po' troppo grasso, e il suo organo generativo, da poco potente, possiede anche una piega di pelle che avrebbe dovuto essere asportata. Le sue madri stanno diventando sempre più vaghe sulle ragioni della loro vita; mentre lui, per contrasto, è diventato improvvisamente capace di livelli d'aggressività un tempo estranei alla sua natura compiacente di bambino grasso. Propongo (e vi ho già accennato) tre spiegazioni: una, l'aver visto la quattordicenne Farah sulla luna della sua lente telescopica; due, l'imbarazzo in cui lo pone la modifica della sua voce, che oscilla incontrollata tra il rauco e lo stridulo, mentre un brutto nodo ballonzola nella sua gola come un tappo di sughero; e poi non bisogna dimenticare la terza, e cioè le venerande (o non venerande) mutazioni prodotte dalla biochimica puberale sulla personalità del maschio adolescente... ignare di questa congiunzione di forze diaboliche all'interno del loro figliolo, le tre madri commettono lo sbaglio di chiedere a Omar Khayyam che cosa vuole per il suo compleanno. Lui le sorprende mostrandosi imbronciato. «Tanto non me lo darete mai, e allora a che serve?». Inorriditi boccheggiamenti materni. Sei mani salgono veloci verso tre teste per assumere le posizioni del non-vedo-non-odo-non-parlo. Mamma Chhunni (mani sulle orecchie): «Come può dire una cosa simile? Cosa sta blaterando il ragazzo?». Munnee la-mediana, sbirciando tra le dita con aria tragica: «Qualcuno ha turbato il nostro angelo, è chiaro». E la piccola Bunny scosta le mani dalle labbra per non-parlar-male: «Chiedi! Chiedi soltanto! Cosa possiamo rifiutarti? Cosa c'è di tanto grosso che noi non siamo disposte a fare?». A questo punto erompe da lui la risposta, in un urlo: «Lasciatemi uscire da questa orribile casa», e poi, ben più sommessamente, nel doloroso silenzio creato dalle sue parole, «e ditemi come si chiama mio padre». «Che sfacciataggine! Che sfacciataggine questo ragazzo!» questo da Munnee, la madre intermedia; dopo di che le sorelle l'attirarono in un mucchio rivolto verso l'interno, con le braccia allacciate alle vite, in quella posa di oscena unità che per il ragazzo era così difficile sopportare. «Non ve l'avevo detto?» con grugniti e falsetti d'angoscia. «E allora perché avete voluto tirarmelo fuori a qualsiasi costo?». Adesso però si può notare un cambiamento.
Sillabe litigiose si levano dal mucchio materno, perché le richieste del ragazzo hanno diviso le sorelle per la prima volta da più di un decennio. Stanno discutendo e il dibattito è una faccenda arrugginita e faticosa, una disputa tra donne che si sforzano di ricordare le persone che erano un tempo. Quando riemergono dalle macerie della loro identità esplosa, tentano eroicamente di fingere con Omar, e con se stesse, che non sia accaduto niente di serio; ma, benché restino tutte e tre fedeli alla decisione collettiva che hanno preso, il ragazzo s'accorge che questa unanimità è una maschera mantenuta con considerevole difficoltà.
«Sono richieste ragionevoli», è la piccola Bunny la prima a parlare, «e almeno una bisognerebbe esaudirla». Il trionfo lo spaventa; il tappo che ha in gola spicca un balzo fin quasi alla lingua. «Qualequalequale?»
domanda spaventato. Interviene Munnee. «Ordineremo una cartella nuova, che arriverà con la macchina di Mistri», dichiara con solennità, «e tu andrai a scuola. Non essere troppo contento, però», aggiunge, «perché quando lascerai questa casa verrai ferito da tanti nomi offensivi che la gente ti getterà addosso, come coltelli, per la strada.» Munnee la più accesa avversaria della sua libertà, aveva affilato la lingua sull'acciaio della propria sconfitta. Disse infine la più anziana delle sue madri. «Vieni a casa senza picchiare nessuno», gli ordina, «altrimenti sapremo che hanno abbassato il tuo orgoglio e ti hanno fatto sentire l'emozione proibita della vergogna». «Sarebbe un effetto assolutamente avvilente», dice Munnee-la-mediana.
Questa parola: vergogna. No, devo scriverla nella sua forma originaria, non in questa strana lingua contaminata da concetti sbagliati e dall'accumularsi dei detriti dell'incorreggibile passato dei suoi proprietari, in questo angrezi in cui sono costretto a scrivere, e ad alterare quindi per sempre ciò che è scritto... La parola è sharam. E questo squallido «vergogna» ne è una traduzione del tutto inadeguata.
Tre lettere sha ra mm (scritte, naturalmente, da destra a sinistra); più accenti zabar che indicano i suoni vocalici brevi. Una parola corta, ma che contiene enciclopedie di sfumature. Non era solo la vergogna ciò che le sue madri vietavano a Omar Khayyam di provare, ma anche l'imbarazzo, il disagio, il pudore, la modestia, la timidezza, la sensazione di aver un proprio posto prestabilito nel mondo e altre espressioni dell'emozione per le quali l'inglese non ha equivalenti. Per quanto decisi si possa essere nel lasciare un paese, si è sempre costretti a portarsi appresso qualche bagaglio a mano; e chi può dubitare che Omar Khayyam (per concentrarci su di lui), cui era stato proibito di provar vergogna (verbo intransitivo: sharan) in tenera età, abbia continuato a subire l'influenza di quel veto singolare anche negli anni successivi, quando era da tempo fuggito dalla zona d'influenza delle sue madri?
Lettore: nessuno. Qual è il contrario della vergogna? Che cosa resta una volta sottratto lo sharam? è ovvio: la spudoratezza. A causa dell'orgoglio delle sue genitrici e delle singolari circostanze della sua vita, Omar Khayyam Shakil, a dodici anni, era del tutto ignaro dell'emozione alla quale gli veniva ora proibito d'indulgere. «Come ci si sente?» domandò, e le sue madri, vedendo il suo sbalordimento, tentarono qualche spiegazione. «Ti si infiamma la faccia», disse Bunny-la-più-giovane, «ma il tuo cuore comincia a rabbrividire». «Le donne hanno voglia di piangere e di morire», disse mamma Chhunni, «mentre gli uomini diventano furiosi». «Solo che a volte», mormorò la madre intermedia con profetico risentimento, «accade il contrario». La divisione delle tre madri in creature a sé stanti divenne sempre più evidente negli anni successivi. Bisticciavano per le inezie più allarmanti, per esempio su chi doveva scrivere i biglietti da lasciare nel montavivande, o se dovevano prendere il tè alla menta e i biscotti di metà mattina in salotto o sul pianerottolo. Come se, mandando il loro figlio nelle arene assolate della città, si fossero esposte proprio a ciò che gli avevano negato, la libertà di provare; come se il giorno in cui il mondo posò per la prima volta gli occhi sul loro Omar Khayyam le tre sorelle fossero state finalmente trafitte dalle frecce proibite dello sharam. I litigi cessarono quando lui fuggì per la seconda volta, ma a una vera e propria riunificazione arrivarono soltanto quando decisero di ripetere l'atto della maternità... C'è un'altra cosa ancor più strana che dobbiamo riferire. E questa: prima di essere divise dai desideri di Omar Khayyam per il suo compleanno, erano rimaste troppo a lungo indistinguibili per avere ancora una percezione esatta delle loro personalità d'una volta - e il risultato, per farla breve, fu che si suddivisero nel modo sbagliato, fecero insomma una gran confusione, sicché Bunny, la più giovane, prese a sfoggiare prematuri capelli grigi e ad assumere le arie regali che sarebbero dovute essere prerogativa della maggiore; mentre la grossa Chhunni parve diventare un'anima incerta e lacerata, una sorella di compromessi e di esitazioni; e Munnee sviluppò l'istrionica petulanza da tafano che caratterizza tradizionalmente la più piccola di ogni generazione e che non cessa mai di essere un suo diritto, per quanto lei possa invecchiare. Nel caos della rigenerazione le teste sbagliate erano finite sui corpi sbagliati; divennero psicologicamente dei centauri, delle sirene, degli ibridi; e naturalmente questa confusa separazione delle personalità implicava il fatto che non erano realmente distinte, in quanto si riusciva a comprenderle solo cogliendole nel loro assieme. Chi non avrebbe voluto sfuggire a madri di tal genere? Negli anni successivi, Omar Khayyam avrebbe ricordato la propria infanzia come un amante abbandonato ricorda la donna amata: inalterabile, incapace d'invecchiare, un ricordo tenuto prigioniero nel cerchio di fuoco del cuore. Solo che rammentava con odio, anziché con amore; non con le fiamme, ma gelidamente. L'altro Omar ispirato dall'amore scrisse grandi cose; la storia del nostro eroe è più meschina, sicuramente perché fu marinata nella bile. E sarebbe facile sostenere che sviluppò spiccate tendenze misogine sin dalla più tenera età. - Che tutti i suoi successivi rapporti con le donne furono atti di vendetta contro il ricordo delle proprie madri. Ma devo dire questo, a difesa di Omar Khayyam: per tutta la sua vita, qualunque cosa avesse fatto o qualunque persona fosse diventato, continuò a fare il proprio dovere di figlio e a pagare i loro conti. L'usuraio Chalaak Sahib smise di far visite al montavivande, il che attesta l'esistenza di un amore, di una specie d'amore... ma per adesso non è ancora un adulto. E appena arrivata la cartella, tramite la macchina di Mistri; ora penzola dalla spalla del dodicenne voglioso d'evadere; ora egli entra nel montavivande e la cartella inizia la sua discesa per tornare sulla terra. Il suo dodicesimo compleanno portò a Omar Khayyam la libertà anziché una torta; e in più, nella cartella, quaderni foderati d'azzurro, una lavagnetta, un'asse di legno lavabile e un po' di penne d'oca per esercitarsi nella sinuosa grafia della sua lingua madre, gessi, matite, una riga di legno e un astuccio di strumenti geometrici, goniometro, bussola, compasso.
Più una scatoletta eterizzante d'alluminio nella quale uccidere le rane.
Con le armi dell'apprendimento che gli penzolavano dalla spalla, Omar Khayyam si congedò dalle sue madri, che, senza una parola (e sempre all'unisono), lo salutarono agitando una mano. Omar Khayyam Shakil non dimenticò mai il momento in cui uscì dal montavivande nella polvere della terra di nessuno intorno all'alta dimora della propria infanzia, situata come un paria tra il Cantonment e la città; né la sua prima visione del comitato d'accoglienza, un membro del quale portava una ghirlanda d'un tipo assolutamente inaspettato. Quando la moglie del miglior mercante di pelletterie di Q. ricevette l'ordinazione di una cartella da scolaro, dal fattorino che ogni quindici giorni mandava al montavivande in obbedienza alla disposizione permanente delle Shakil, questa donna, Zeenat Kabuli, si precipitò subito a casa della sua migliore amica, la vedova Farida Balloch che viveva con suo fratello Bilal. I tre, che non avevano mai smesso di credere che la morte improvvisa di Yakoob Balloch fosse stata conseguenza diretta del suo essersi impegolato con le sorelle anacoretiche, concordarono che il prodotto in carne e ossa di quello scandalo lontano doveva essere vicino ad emergere alla luce del giorno. S'appostarono così davanti a casa Shakil ad aspettare l'evento, ma non prima che Zeenat Kabuli avesse estratto dal suo retrobottega un sacco di juta pieno di vecchie scarpe scalcagnate, di sandali e di pantofole, privi di qualsiasi valore per chiunque, di calzature annientate che aspettavano soltanto un'occasione del genere e che ora furono infilate insieme formando il peggiore di tutti gli insulti, una collana di scarpe. «E questa ghirlanda di scarpe», giurò la vedova Balloch a Zeenat Kabuli, «vedrai se non l'appendo al collo di quel ragazzo, con le mie stesse mani". La settimana di veglia di Farida, Zeenat e Bilal attirò inevitabilmente l'attenzione di molti, e quindi, quando Omar Khayyam balzò fuori dal montavivande? si erano uniti a loro vari altri sfaccendati e burloni, monelli cenciosi e impiegati disoccupati e lavandaie dirette ai ghat.
Era anche presente il postino Muhammad Ibadalla che aveva sulla fronte la gatta, o ammaccatura permanente, il segno caratteristico del fanatico religioso che batte la fronte sulla stuoia della preghiera almeno cinque volte al giorno, e probabilmente anche la sesta, facoltativa. Questo Ibadalla aveva trovato lavoro grazie alla malefica influenza del barbuto serpente che ora gli stava accanto nella calura, il famigerato Maulana Dawood, il quale girava in città su un motoscooter regalatogli dai sahib angrez, minacciando dannazione ai suoi concittadini. Si scoprì che Ibadalla era furioso perché le donne Shakil avevano deciso di non spedire per posta la loro lettera al direttore della scuola del Cantt.
Era stata invece inclusa nella busta che avevano mandato, tramite il montavivande, alla fioraia Azra, insieme a un piccolo compenso extra.
Ora Ibadala corteggiava da tempo questa Azra, che però rideva di lui.
«Non so che farmene di uno che passa tanto tempo col sedere più in alto della testa». La decisione delle sorelle di affidare a lei la lettera colpì dunque il postino come un insulto personale, un modo di screditare il suo prestigio, e inoltre come prova ulteriore della loro empietà: non si erano infatti alleate, con questo scellerato atto di corrispondenza, a una sfrontata che diceva spiritosaggini sulla preghiera? «Guardate», strillò energicamente Ibadalla non appena Omar Khayyam toccò terra, «ecco il seme del diavolo!». A questo punto accadde un deplorevole incidente. Ibadalla, furioso per la faccenda di Azra, aveva parlato per primo, scontentando così il suo protettore Maulana Dawood, e la perdita dell'appoggio divino rovinò per sempre qualsiasi possibilità di futura promozione del postino intensificando il suo odio per tutti gli Shakil; perché, ovviamente, il Maulana considerava suo diritto dare il via all'assalto contro quel povero simbolo, obeso e prematuramente pubescente, del peccato incarnato. Nel tentativo di riprendere l'iniziativa, Dawood si gettò in ginocchio nella polvere ai piedi di Omar; premette estaticamente la fronte sulla terra intorno alle sue scarpe, e gridò: «Oh Dio! Oh Signore fustigatore! Fa' cadere su questo abominio umano la Tua sfrigolante fontana di fuoco!». Eccetera eccetera.
Questa grottesca esibizione irritò moltissimo i tre che per primi avevano montato la guardia. «Chi è che ha perso il marito a causa di un montavivande?», sibilò Farida Balloch alla sua amica. «Forse quel vecchio sbraitante? E allora a chi tocca parlare adesso?». Suo fratello Bilal non perse tempo in chiacchiere; armato della sua treccia di scarpe, si fece avanti, gridando con quella sua voce stentorea quasi pari alla mitica voce del suo omonimo, il primo nero Bilal, il muezzin del Profeta: «Ragazzo! Carne d'infamia! Considerati fortunato se ti faccio soltanto questo! Credi forse che non saprei spiaccicarti come una zanzara?» E sullo sfondo, come rauchi echi, monelli lavandaie impiegati salmodiavano: «Seme del diavolo! - Fontana di fuoco! - Chi ha perso il marito? - Come una zanzara!» Si stavano tutti avvicinando, Ibadalla e il Maulana e i tre vigilanti vendicativi, mentre Omar se ne stava lì come una mangusta ipnotizzata da un cobra, e intorno a lui le cose si stavano scongelando, i pregiudizi della città, rimasti in sospeso per dodici anni, stavano tornando in vita... e Bilal non poté attendere oltre e si slanciò verso il ragazzo mentre Dawood si prostrava per la diciassettesima volta, la ghirlanda di scarpe venne scagliata in direzione di Omar; e proprio in quel momento il Maulana si raddrizzò per ululare a Dio frapponendo il suo collo scheletrico tra le calzature insultanti e il loro bersaglio, ed ecco che, prima cosa di cui tutti s'accorsero, la fatale collana si trovò a pendere dal collo accidentale del santone. Omar Khayyam si mise a ridere: tali possono essere gli effetti della paura. E i monelli risero con lui; e persino la vedova Balloch dovette reprimere la sua risata finché non le sgorgò come acqua dagli occhi. A quei tempi la gente non era così entusiasta dei servi di Dio come, ci dicono, lo è adesso... Il Maulana Dawood si rialzò con un'espressione omicida. Ma non essendo uno stupido, distolse immediatamente il viso dal gigantesco Bilal e allungò le grinfie verso Omar Khayyam, il quale fu salvato dalla provvidenziale figura, avanzante a spallate nella folla, Rodrigues, maestro di scuola, venuto ad accompagnare in aula il nuovo allievo. E con una visione talmente lieta che l'estasiato Khayyam dimenticò immediatamente il pericolo cui era andato incontro. «Questa è Farah», gli disse Rodrigues. «è due classi davanti a te.» La visione guardò Omar; poi il Maulana, che nella sua furia aveva trascurato di togliersi la ghirlanda di scarpe. Poi tirò indietro la testa e si mise a ridere fragorosamente «Dio, yaar!» disse a Omar, e la sua prima parola fu una casuale bestemmia, «perché non sei rimasto a casa tua? Questa città è già fin troppo piena di stupidi.»