9

Ianthe non aveva finito.

Ne ero certa e mi tenni pronta. Non tornò in fretta al tempio, a poche miglia da lì.

Restò invece in casa, cogliendo l’opportunità di strisciare ai piedi di Tamlin. Credeva di aver riconquistato una posizione forte, che la sua dichiarazione in favore della giustizia sfociata nel sangue della frusta fosse stato solo lo schiaffo finale alle guardie intente a osservare.

E quando la sentinella si era afflosciata tra le corde, quando gli altri erano accorsi a slegarlo con delicatezza, Ianthe si limitò ad accompagnare i reali di Hybern e Tamlin in casa per il pranzo. Tuttavia io restai agli alloggi, ad aiutare la sentinella gemente, occupandomi delle ciotole di acqua insanguinata mentre il guaritore lo curava.

Bron e Hart mi accompagnarono personalmente alla proprietà qualche ora più tardi. Ringraziai entrambi, scandendo i loro nomi. Poi mi scusai per non essere stata in grado di fermare i complotti di Ianthe né la punizione ingiusta inflitta al loro amico. Ero sincera, lo schiocco della frusta che mi riecheggiava ancora nelle orecchie.

Poi mi dissero le parole che aspettavo. Che erano dispiaciuti anche loro di non aver potuto bloccare ciò che era successo.

Non solo quel giorno. Ma anche i miei lividi, che ora stavano scomparendo, finalmente. Tutti gli altri incidenti.

Se glielo avessi chiesto, mi avrebbero dato i loro coltelli per tagliare la gola a tutti.

La sera dopo mi stavo affrettando in camera con l’intenzione di cambiarmi per la cena, quando Ianthe fece la mossa successiva.

Sarebbe venuta con noi al muro, il giorno seguente.

Lei e anche Tamlin.

Se dovevamo formare un unico fronte, dichiarò poi a cena, allora voleva vedere il muro.

Ai reali di Hybern non importò. Ma Jurian mi fece l’occhiolino, come se anche lui si fosse accorto delle sue manovre.

Preparai i bagagli, quella sera.

Alis entrò poco prima che mi mettessi a dormire, tra le mani una terza borsa. «Siccome è un viaggio più lungo ti ho portato delle provviste.»

Anche se Tamlin si era unito a noi, eravamo in troppi perché potesse trasmutarci lì direttamente.

Perciò saremmo avanzati per segmenti, come in precedenza. Qualche miglio alla volta.

Alis mise la borsa che aveva preparato accanto alle mie. Prese la spazzola sulla toeletta e mi fece cenno di sedermi sulla panca dotata di cuscino, di fronte al mobile.

Obbedii. Per qualche minuto, mi spazzolò i capelli in silenzio.

Poi mi comunicò: «Domani, quando partirete, me ne andrò anch’io».

La fissai dallo specchio.

«Ho già preparato i bagagli dei miei nipoti, i pony sono pronti a riportarci alla Corte d’Estate, finalmente. È passato molto tempo dall’ultima volta che ho visto la mia casa» aggiunse, lo sguardo che le brillava.

«Conosco quella sensazione» commentai.

«Ti auguro ogni bene» fece Alis, appoggiando la spazzola e iniziando a intrecciarmi i capelli. «Te lo auguro per il resto dei tuoi giorni, indipendentemente da quanti saranno.»

Le lasciai terminare la treccia, poi mi girai sulla panca per afferrare le sue dita sottili tra le mie. «Non rivelare mai a Tarquin che mi conosci bene.»

Mi guardò perplessa.

«C’è un rubino di sangue con il mio nome sopra» le spiegai.

Persino la sua pelle simile a corteccia d’albero parve impallidire. Comprese perfettamente: ero una nemica, una ricercata, per la Corte d’Estate. Come pagamento per i miei crimini avrebbero accettato solo la mia morte.

Alis mi strinse la mano. «Rubini di sangue o meno, avrai sempre un’amica alla Corte d’Estate.»

Deglutii. «Lo stesso vale per te nella mia» le promisi.

Sapeva a quale corte mi riferissi. E non sembrò spaventata.

Le sentinelle non guardavano Tamlin, e nemmeno gli parlavano, a meno che non fosse necessario. Bron, Hart e altri tre di loro partirono con noi.

Mi avevano vista fare visita al loro amico prima dell’alba… una gentilezza che ero certa nessun altro di noi gli avesse riservato.

Trasmutare mi sembrò come rotolare nel fango. In effetti i miei poteri erano diventati più un peso che un aiuto. A mezzogiorno mi scoppiò un mal di testa lancinante e durante il resto del viaggio mi sentii frastornata e disorientata mentre trasmutavamo a più riprese.

Giunti a destinazione ci accampammo quasi nel silenzio. Chiesi a bassa voce e timidamente di poter condividere la tenda con Ianthe invece che con Tamlin, mostrandomi impaziente di appianare i dissapori creati dalle frustate di punizione. In realtà lo feci per salvare Lucien dalle attenzioni della sacerdotessa più che per tenere alla larga Tamlin.

Preparammo la cena e la mangiammo, sistemammo il rotolo di coperte e Tamlin ordinò a Bron e Hart di montare il primo turno di guardia.

Rimanere sdraiata accanto a Ianthe senza tagliarle la gola fu un esercizio di pazienza e controllo.

Ma ogni volta che un coltello sotto il mio cuscino sembrava sussurrare il suo nome ricordavo a me stessa che avevo degli amici. Una famiglia in vita che si stava riprendendo al Nord.

Ripetei i loro nomi in silenzio, ancora e ancora nell’oscurità. Rhysand. Mor. Cassian. Amren. Azriel. Elain. Nesta.

Pensai all’ultima volta che li avevo visti, insanguinati e doloranti; alle urla di Cassian mentre le sue ali venivano fatte a pezzi; alla minaccia di Azriel al re mentre avanzava verso Mor. A Nesta che combatteva a ogni passo verso il Calderone.

Il mio obiettivo andava ben oltre la semplice vendetta. Il mio scopo era più grande di una rappresaglia personale.

Arrivò l’alba e mi ritrovai la mano attorno al manico del coltello. Lo estrassi dal fodero mentre sollevavo la schiena, fissando la sacerdotessa addormentata.

Il suo collo liscio sembrava brillare sotto i raggi del primo sole del mattino che filtravano tra i lembi della tenda.

Soppesai il coltello nella mia mano.

Non ero certa di essere nata con l’abilità di perdonare. Non in caso di orrori inflitti a coloro che amavo. Se colpivano me non mi importava così tanto. Ma ero decisamente inamovibile se si trattava dei miei cari. Non riuscivo a sopportare l’idea di lasciare che quella gente se la cavasse dopo tutto ciò che aveva combinato.

Ianthe aprì gli occhi verde-blu luminosi come il suo cerchietto abbandonato lì vicino. Si spostarono verso il coltello nella mia mano. Poi sul mio viso.

«Non si è mai troppo cauti quando si divide un accampamento con i propri nemici» spiegai.

Avrei giurato di notare un bagliore di paura. «Hybern non è nostro nemico» precisò con voce un po’ affannata.

Mentre lasciavo la tenda, dal suo pallore capii che il mio sorriso di risposta aveva svolto bene il suo compito.

Lucien e Tamlin mostrarono ai gemelli la crepa nel muro.

Come avevano fatto con le altre due, trascorsero ore a ispezionare quel punto e il territorio circostante.

Restai nelle vicinanze stavolta, a osservarli, la mia presenza adesso era giudicata innocua se non una scocciatura. Avevamo attuato i nostri piccoli giochi di potere, stabilito che potevo mordere se volevo, ma ci saremmo tollerati.

«Qui» mormorò Brannagh a Dagdan, accennando con il mento verso quel divisorio invisibile. Gli unici segni distintivi erano gli alberi diversi: dalla nostra parte erano di un primaverile verde acceso. Sull’altra erano scuri, ampi, leggermente piegati dal caldo della piena estate.

«Il primo varco era migliore» osservò Dagdan.

Mi sedetti sopra a una piccola roccia, a sbucciare una mela con un coltello da cucina.

«Era anche più vicino alla costa occidentale» aggiunse, rivolgendosi alla sua gemella.

«Questo è più vicino al continente… allo stretto.»

Affondai il coltello nella polpa della mela, ricavandone una carnosa fetta bianca.

«Sì, ma avremmo maggiore accesso alle scorte del Signore Supremo.»

Signore Supremo che attualmente era con Jurian, a caccia di cibo più sostanzioso delle focaccine che avevamo portato. Ianthe si era recata a una fonte nelle vicinanze per pregare e non avevo idea di dove fossero Lucien o le sentinelle.

Bene. Per me sarebbe stato più facile, pensai, mentre mi infilavo in bocca quella fetta e affermavo: «Io suggerisco di scegliere questo».

Si girarono verso di me, Brannagh con un sogghigno e Dagdan con espressione perplessa. «E tu che ne sai?» mi chiese Brannagh.

Scrollai le spalle, tagliando un’altra fetta di mela. «Voi due parlate a voce più alta di quanto vi rendiate conto.»

Si scambiarono sguardi accusatori. Orgogliosi, arroganti e crudeli. Li avevo studiati in quei quindici giorni. «A meno che non vogliate rischiare che le altri corti abbiano il tempo di radunarsi e intercettarvi prima di attraversare lo stretto, sarebbe meglio scegliere questo.»

Brannagh alzò gli occhi al cielo.

Continuai parlando senza sosta con aria annoiata. «Ma io che posso saperne? Avete abitato su un’isola per cinquecento anni. Ovviamente sapete molto più di me su Prythian e gli eserciti in movimento.»

Brannagh emise un sibilo. «Gli eserciti non c’entrano nulla, quindi spero che terrai la bocca chiusa finché ci servirai.»

Sbuffai. «Vuoi dirmi che tutta questa buffonata non è stata organizzata per trovare un punto in cui far breccia nel muro e usare il Calderone per trasportare i vostri eserciti qui?»

Rise, scostando i lunghi capelli neri dietro la spalla. «Il Calderone non serve per trasportare soldati. Ma per ricostituire i nostri mondi. Serve a distruggere questo orribile muro e a reclamare ciò che eravamo.»

Mi limitai a incrociare le gambe. «Credo che con un esercito di diecimila persone non avrete bisogno di nessuno oggetto magico per portare a termine il vostro sporco lavoro.»

«Il nostro esercito è dieci volte più grande, ragazza» sogghignò Brannagh. «E il doppio di quel numero, contando i nostri alleati a Vallahan, Montesere e Rask.»

“Duecentomila. Che la Madre ci salvi.”

«Di sicuro siete stati impegnati in tutti questi anni.» Li scrutai, erano totalmente stupiti. «Perché non avete attaccato quando Amarantha comandava l’isola?»

«Il re non aveva ancora trovato il Calderone, nonostante le ricerche di anni. Ha usato Amarantha come esperimento, per constatare come potevamo piegare questa gente. Ed è stata una buona motivazione per convincere i nostri alleati nel continente a unirsi a noi, sapendo cosa li aspettava.»

Terminai di mangiare la mela e lanciai il torsolo nel bosco. Lo osservarono volare come due segugi all’inseguimento di un fagiano.

«Quindi arriveranno tutti qui? Io dovrei fare da padrona di casa per così tanti soldati?»

«Il nostro esercito si prenderà cura di Prythian prima di unirsi agli altri. I nostri comandanti si stanno preparando in questo stesso istante.»

«Dovete proprio essere certi che ci sia una possibilità di perdere se vi disturbate a usare l’aiuto del Calderone per vincere.»

«Il Calderone è la vittoria. Ripulirà questo mondo.»

Sollevai le sopracciglia con aria irriverente e cinica. «E avete bisogno di questo punto preciso per scatenarlo?»

«Questo punto preciso» intervenne Dagdan, una mano sull’elsa della spada «esiste perché una persona o un oggetto con un potere enorme vi è passato attraverso. Il Calderone esaminerà il modo in cui è avvenuto e lo sfrutterà al massimo fino a far crollare del tutto il muro. È un processo complesso, delicato; dubito che la tua mente mortale possa afferrarlo.»

«Probabilmente. Anche se la mia mente mortale è riuscita a risolvere l’indovinello di Amarantha… e a distruggerla.»

Brannagh si girò di nuovo verso il muro. «Perché credi che Hybern le abbia permesso di vivere così a lungo in queste terre? Qualcuno doveva pur fare il lavoro sporco.»

Avevo ottenuto ciò che mi serviva.

Tamlin e Jurian erano ancora a caccia, i reali erano preoccupati, così avevo mandato le sentinelle a prendere altra acqua con la scusa che alcuni dei miei lividi mi facevano male e volevo prepararmi un impacco.

Al che avevano assunto un’espressione omicida. Non era rivolta a me, ma a chi mi aveva procurato quegli ematomi. A chi aveva preferito Ianthe a loro due e Hybern al proprio onore e al proprio popolo.

Avevo portato tre borse, però me ne occorreva solo una. Quella che avevo preparato di nuovo con le provviste di Alis, ora nascoste accanto a tutto ciò che mi aspettavo mi servisse per sbarazzarmi di loro e andarmene. Quella che avevo sempre portato con me in ogni viaggio verso il muro, per ogni evenienza. E adesso…

Avevo dei numeri, uno scopo, un luogo preciso, e i nomi dei territori stranieri.

Ma soprattutto un popolo che aveva perso fiducia nella propria Somma Sacerdotessa e delle sentinelle che cominciavano a ribellarsi contro il loro Signore Supremo. Di conseguenza, i reali di Hybern dubitavano della forza dei loro alleati. Avevo preparato la caduta di quella corte. Non per cause esterne… ma per le sue lotte intestine.

E dovevo fuggire prima che succedesse. Prima di aggiungere l’ultimo tassello al mio piano.

Il gruppo sarebbe ritornato senza di me. E per mantenere quell’illusione di forza Tamlin e Ianthe avrebbero mentito… su dove mi ero recata.

E forse un paio di giorni dopo una di quelle sentinelle avrebbe rivelato la notizia, una trappola azionata in modo studiato che avevo instillato nelle loro menti.

Sarei scappata per salvarmi la vita… dopo essere stata quasi uccisa dal principe e dalla principessa di Hybern. Avevo immesso nella testa della sentinella alcune immagini del mio corpo brutalizzato, i segni lasciati corrispondevano allo stile tipico di Dagdan e Brannagh.

Li avrebbe descritti dettagliatamente, rivelando di avermi aiutata a fuggire prima che fosse troppo tardi.

E che ero scappata via per salvarmi la vita quando Tamlin e Ianthe si erano rifiutati di intervenire, di rischiare la loro alleanza con Hybern.

E quando la guardia avrebbe rivelato la verità, non sopportando più di restare in silenzio davanti al modo in cui il mio misero destino veniva taciuto da Tamlin e Ianthe, proprio come aveva fatto Tamlin schierandosi con Ianthe il giorno in cui aveva frustato la sentinella…

Dopo aver descritto cosa mi aveva fatto Hybern prima della mia fuga, proprio a me, la loro Spezzamaledizioni, a me che ero stata appena Benedetta dal Calderone…

Non ci sarebbe stata più alcuna alleanza. Perché non ci sarebbero state più sentinelle né abitanti di quella corte dalla parte di Tamlin o Ianthe.

Non dopo tutto ciò. Non dopo me.

Entrai nella tenda con passo leggero e veloce per prendere il mio zaino. Prestai attenzione a ogni rumore, respirando appena, ed esaminai l’accampamento, il bosco.

Ci misi qualche secondo in più per afferrare la bandoliera di coltelli di Tamlin dal punto in cui l’aveva lasciata dentro la tenda. Lo avrebbe intralciato dato che doveva usare arco e frecce, mi aveva spiegato quel mattino.

Pesava parecchio quando me la infilai attorno al torace. Erano coltelli da combattimento Illyrian.

A casa. Stavo andando a casa.

Non mi preoccupai di guardare indietro, verso l’accampamento, mentre mi addentravo nella fila di alberi più a nord. Se avessi trasmutato senza fermarmi sarei arrivata alle colline entro un’ora e poco dopo sarei sparita in una delle caverne.

Percorsi circa un centinaio di metri dentro la boscaglia, poi mi fermai.

Per prima cosa sentii Lucien.

«Smettila.»

Una bassa risata femminile.

Mi si gelò il sangue davanti a quel suono. Lo avevo già sentito una volta, nei ricordi di Rhysand.

“Vai avanti” mi ripetei. Erano distratti, dopotutto, anche se era orribile.

“Vai avanti, vai avanti, vai avanti.”

«Pensavo che mi avresti cercata dopo il Rito» disse melliflua Ianthe. Dovevano essere a qualche metro dentro al bosco. Lontani abbastanza da non accorgersi della mia presenza, se mi fossi mossa piano.

«Sono stato obbligato a eseguire il Rito» sbottò Lucien. «Quella notte non è stata frutto del desiderio, credimi.»

«Però ci siamo divertiti insieme.»

«Ho una compagna, adesso.»

Ogni secondo che passava era una campana a morto per me. Avevo pianificato la caduta della Corte di Primavera; da allora avevo smesso di provare qualunque senso di colpa o dubbio riguardo al mio progetto. Soprattutto adesso che Alis era in salvo.

Eppure… eppure…

«Non comportarti in quel modo con Feyre.» Una minaccia velata.

«Hai capito male.»

«Ah, davvero?» Dei ramoscelli e delle foglie scricchiolarono, come se Ianthe gli stesse girando intorno. «Le metti sempre le mani ovunque.»

Avevo svolto il mio lavoro troppo bene, rendendola oltremodo gelosa in ogni maniera possibile, trovando scuse per farmi sfiorare da Lucien in presenza sua e di Tamlin.

«Non toccarmi» le ringhiò.

Poi mi spostai.

Mascherai il rumore dei miei passi, silenziosa come una pantera mentre mi avvicinavo alla piccola radura in cui si trovavano.

Lucien era lì con la schiena contro un albero… due manette di pietra blu attorno ai polsi.

Le avevo già viste. Indosso a Rhys per bloccare i suoi poteri. Pietre prese dalle terre marce di Hybern, in grado di annullare la magia. E in quel caso… servivano a tenere Lucien contro quell’albero mentre Ianthe lo scrutava come un serpente davanti al suo pasto.

Lasciò scivolare una mano sul suo ampio torace, sull’addome.

Gli occhi di Lucien sfrecciarono verso di me quando mi intrufolai tra gli alberi, la paura e l’umiliazione fecero arrossire la sua pelle dorata.

«Basta» dissi.

Ianthe si voltò di scatto verso di me. Sfoderò un sorriso falsamente innocente. Ma la vidi notare il mio zaino, la bandoliera di Tamlin. Ignorarli. «Stavamo giocando, vero Lucien?»

Lui non rispose.

E la vista di quelle manette ai suoi polsi, in qualunque modo lo avesse intrappolato, la vista della mano di lei ancora sul suo addome…

«Ritorneremo all’accampamento non appena avremo finito» aggiunse, voltandosi di nuovo verso di lui. Fece scivolare la mano più in basso, non per procurargli piacere, ma solo per mostrarmi spudoratamente che lei poteva…

La colpii.

Non con i miei coltelli o la magia, bensì con la mia mente.

Tolsi lo scudo che avevo eretto attorno a lei per evitare che i gemelli la controllassero ed entrai di prepotenza nella sua coscienza.

Dietro una maschera Ianthe nascondeva materia in decomposizione: quella fu la sensazione che provai entrando nella sua bella testa, dove trovai pensieri orribili.

Una sequela di uomini su cui aveva usato i suoi poteri o che aveva costretto apertamente ad andare a letto con lei, convincendoli che ne aveva diritto.

Indietreggiai davanti a quei ricordi, cercando di tornare in me. «Levagli le mani di dosso.»

Obbedì.

«Liberalo.»

Lucien impallidì e Ianthe eseguì i miei ordini, il volto stranamente assente, l’aria arrendevole. Le manette di pietra blu caddero sul terreno muschioso con un tonfo.

La camicia di Lucien era malmessa, il primo bottone dei pantaloni sbottonato.

Il ruggito che mi riempì la mente fu così forte che riuscii a stento a sentire la mia voce dire: «Prendi quel sasso».

Lucien rimase appoggiato all’albero, e osservò in silenzio mentre Ianthe si chinava a raccogliere una pietra grigia e irregolare grande quanto una mela.

«Metti la mano destra su quel masso.»

Obbedì, anche se un tremore le attraversò la schiena.

La sua mente si agitò e lottò contro di me, come un pesce appeso all’amo. Sprofondai ulteriormente i miei artigli mentali e una sorta di voce interiore di Ianthe cominciò a urlare.

«Colpisciti la mano con il sasso più forte che puoi finché non ti ordino di fermarti.»

La stessa mano che aveva posato su di lui e su tantissimi altri.

Ianthe sollevò la pietra. Il primo impatto fu un suono attutito e umido.

Il secondo fu un vero e proprio schianto.

Il terzo la fece sanguinare.

Sollevò e riabbassò il braccio, il corpo che sussultava per la sofferenza.

Le dissi in modo chiaro: «Non toccherai mai più un’altra persona contro la sua volontà. Non ti convincerai mai che desiderino veramente le tue avance; che si tratta di un gioco. Non verrai toccata da nessuno a meno che non sia l’altro a iniziare, a meno che non lo vogliate entrambi».

Bem, bem, bem.

«Non ricorderai cosa è successo qui. Agli altri riferirai di essere caduta.»

Aveva l’indice completamente storto.

«Ti è concesso di andare da un guaritore per sistemarti le ossa. Ma non per cancellare le cicatrici. E ogni volta che ti guarderai la mano ricorderai che toccare la gente contro la propria volontà ha delle conseguenze e se lo rifarai di nuovo cesserai di esistere. Vivrai con quel terrore ogni giorno, senza sapere da dove ha origine. Avvertirai solo la paura di qualcosa che ti insegue, che ti dà la caccia ed è li ad aspettarti non appena abbassi la guardia.»

Le scesero delle lacrime silenziose di dolore.

«Puoi fermarti, ora.»

La pietra insanguinata ruzzolò a terra. La mano ridotta a poco più di un mucchio di ossa rotte avvolte da pelle a brandelli.

«Resta inginocchiata qui finché non ti trova qualcuno.»

Ianthe cadde in ginocchio, la mano distrutta che riversava sangue sulla sua veste chiara.

«Stamattina ero indecisa se tagliarti la gola o meno» le rivelai. «Ci ho riflettuto tutta la notte mentre mi dormivi accanto. Me lo sono chiesta ogni singolo giorno da quando ho saputo che hai venduto le mie sorelle a Hybern.» Feci un lieve sorriso. «Tuttavia, ritengo che questa sia una punizione migliore. E spero che vivrai una vita lunghissima, Ianthe, senza un attimo di pace.»

La fissai ancora un istante, imprimendole bene le parole e gli ordini che le avevo instillato nella mente, poi mi girai verso Lucien. Si era sistemato i pantaloni, la camicia.

Spostò gli occhi sgranati da lei a me, poi sul sasso insanguinato.

«La parola che stai cercando, Lucien» mormorò una voce femminile ingannevolmente calma, «è daemati.»

Ci girammo verso Brannagh e Dagdan che si avvicinavano alla radura, sorridendo in modo feroce.

La corte di ali e rovina
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