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In città è tutto uno sgobbare tra riunioni e teleconferenze. Il mio cervello non si è ancora adattato all’idea che Lauren stia coprendo il lavoro di Becca a Brooklyn. Per due volte mi ritrovo a chiamarla a gran voce dalla sedia della mia scrivania, solo per veder comparire sulla soglia una delle sue schiavette spaventate.

Penseranno che sono un idiota, ma ho davvero un mucchio di cose per la testa.

Alle sette finalmente arrivo a Brooklyn. Quando il traghetto urta il molo, sono già in piedi, impaziente che l’addetto ci consenta di sbarcare. Non appena ci dà il permesso, mi fiondo attraverso il Brooklyn Bridge Park verso casa in un batter d’occhio.

Potrebbe esserci Rebecca ad aspettarmi.

Invitarla a stare da me è stata una follia. Lo so. Visto che ho trascorso gli ultimi due anni a desiderare di spogliarla con i denti, sapere che dormirà in fondo al corridoio di casa mia sarà una cazzo di tortura. Ma vederla in difficoltà, questa mattina, ha avuto un effetto sconvolgente su di me. Non lo capisco, davvero. Dio solo sa se ho combattuto senza sosta l’attrazione che provo per lei. Ma ora si tratta di qualcosa di diverso. E non riesco ad afferrarla. Ignorarla – l’ormai consueta soluzione alla mia malsana dipendenza da lei – questa volta non funziona.

Magari non ha nemmeno accettato la mia proposta. Becca è la persona più fiera della propria indipendenza che abbia mai conosciuto. Probabilmente ha fatto i bagagli pochi secondi dopo che me ne sono andato. Devo saperlo.

Di solito impiego dodici minuti per raggiungere a piedi Pierrepont Place dal terminal dei traghetti, ma oggi me ne bastano dieci. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che una donna (a parte la deliziosa signora Gray) mi ha aspettato a casa al mio rientro? Anni. Dai tempi di Juliet, la mia ex infedele. E anche quello è ormai un brutto ricordo.

Non avevo nemmeno vent’anni quando Juliet e io ci siamo messi insieme al college. Era la sorridente ragazza con la passione per Doctor Who e le battute demenziali. Studiavamo insieme in biblioteca, poi rientravamo per fare sesso in dormitorio.

Andare a convivere dopo la laurea era stata una decisione naturale. Diciotto mesi dopo, durante una serata infrasettimanale nel nostro squallido bilocale nell’East Village, le avevo chiesto di sposarmi.

«Oh, Nate. Non sai quanto mi rendi felice» aveva detto dall’altro capo del traballante tavolo della cucina.

Non era durato, però. Mesi dopo l’avevo sorpresa a fare sesso su quello stesso tavolo con quella testa di rapa che aveva conosciuto in palestra.

Il più grande shock della mia vita.

Quel fine settimana, mi aveva lasciato sul telefono una serie di lacrimevoli messaggi vocali. Su sua insistenza ci eravamo visti il lunedì mattina in un bar per parlare. Perfino in quel momento, non avevo ancora capito che tutto era cambiato per sempre.

«È successo solo un paio di volte» aveva pianto, come se così fosse meno umiliante. «Ma tu sei sempre al lavoro. Non è divertente essere vedova della tecnologia.»

«Perché sto cercando di liberare l’agenda per il nostro viaggio di nozze!» Anche allora, non ero stato abbastanza pronto a buttare via tutto. Il mio cervello analitico stava ancora cercando di rimettere insieme i pezzi.

Poi Juliet aveva confessato: «Sono andata in palestra perché non mi piaceva la mia pancetta. Ma ha cambiato tutto il mio modo di guardarmi».

«Eri bella anche prima» avevo affermato. E dicevo sul serio. Se la Juliet 2.0 era infedele, non era di certo un miglioramento.

«Ma non avrei mai immaginato che uno come Bart potesse degnarmi di un solo sguardo» aveva dichiarato come se avesse un briciolo di senso.

«Uno come Bart» avevo ripetuto lentamente. E alla fine, finalmente, era entrata in gioco l’autoconservazione. Uno come Bart. Non avevo chiesto perché pensasse che il muscoloso Bart fosse tanto speciale. Non volevo sapere se era per le sue serie alla panca, il berretto da baseball calcato al contrario o la risata sguaiata.

O per il sesso sul tavolo della cucina.

Prima di quel momento, non avevo mai compreso cosa intendesse la gente con “ci siamo allontanati”. Improvvisamente l’avevo capito. «Stammi bene» le avevo augurato, alzandomi in piedi. «Passerò a prendere i vestiti domenica sera, mentre sarai in palestra. Puoi tenere il resto.»

«Aspetta! Nate! Non succederà più.»

No. Era finita. Quando una ragazza ti recrimina che il tuo stile di vita è una seccatura e pensa che le attenzioni di un pompato come Bart siano una sorta di riconoscimento, non rimane altro da dirsi.

Sono passati sei anni e sono single da allora. A volte Stewie mi stuzzica. «È ora di rimettersi in gioco. Lo sai, vero, che “sposato con il lavoro” è solo un modo di dire?»

Solo che non lo è. Juliet aveva ragione. Essere Nate Kattenberger è un’occupazione a tempo pieno. Sono in viaggio per cento giorni all’anno, senza contare il tempo trascorso con la mia squadra di hockey. Più distanza metto dal fiasco con Juliet, più comprendo la sua scelta. Forse non ho nessuno con cui condividere la mia vita, ma almeno non sto rendendo infelice una donna.

Così è.

La cosa buffa è che la gente fa sempre battute sul nugolo di ammiratrici che mi girano intorno. «Un ragazzo single e ricco come te? Ci deve essere la fila intorno all’isolato.»

Hanno ragione. In un certo senso, sì. Sono molte le donne che vogliono entrare nel mio letto. Ma è davvero difficile selezionarle. Ogni volta che incontro una donna devo chiedermi: sta ridendo delle mie battute perché è davvero interessata? O è solo per i soldi?

Se la signora geme a un mio bacio, vuole il mio uccello o il mio jet privato?

Durante l’anno successivo alla rottura con Juliet, mi sono dato molto da fare per espellerla del mio organismo. Ma mi sono stancato presto. Soprattutto dopo aver letto, una mattina, un sms che la mia ultima conquista aveva mandato a un’amica: “mi sono fatta un multimilionario”.

Ed era prima che arrivassi a essere un miliardario. Più soldi guadagno, più cala il numero di donne che possono sbandierare quel vanto.

Sono praticamente un monaco a questo punto. Anche se volessi andare a prostitute, il mio stile di vita rende rischioso il sesso occasionale. Non posso invitare sconosciute in casa mia. In qualsiasi momento, ci sarebbero probabilmente almeno tre diversi segreti industriali sparsi per casa. Prima di arrivare nei pressi della mia camera da letto, dovrebbero firmare un accordo di non divulgazione – e non a causa delle inclinazioni sessuali. “Dopo aver finito di scopare Nate, non fotografare alcun prototipo di eventuali dispositivi individuati nella residenza, non registrare eventuali telefonate e non leggere e-mail alle sue spalle”.

Molto sexy.

Quindi sono single, forse per scelta. E non ci rimugino troppo, perché conduco una vita molto impegnata. Ho più denaro di quanto potrei mai spendere e il rispetto dei miei colleghi. Viaggio molto. Ho degli amici, anche se la maggior parte appare nel mio libro paga.

Nessuno mi aspetta mai a casa, però, tranne le persone pagate per essere lì.

Quando finalmente raggiungo la mia porta, digito il codice di sicurezza sulla tastiera. Appena entro, sento delle voci in cucina.

Mi blocco… è una novità avere gente a casa mia.

La risata improvvisa di Becca mi dà letteralmente un brivido.

Gesù. Che diavolo mi prende?

Mentre attraverso il salotto in direzione della cucina, riesco a seguire la sua conversazione con la signora Gray.

«Il mio Christian non è un fan del cibo messicano» sta raccontando la mia governante. «Non ama le spezie.»

«Aspetta un attimo» la interrompe Becca. «Tuo marito si chiama... Christian Gray?»

«Esatto.»

«Ma...» Rebecca fa una pausa. «Il protagonista di una serie di libri si chiama Christian Gray…»

«Lo so, cara! Il primo gliel’ho letto ad alta voce.»

«Veramente?» sghignazza Rebecca, e quel suono ha un effetto strano sulle mie viscere.

«Sì! Quando gli ho mostrato il nome del protagonista, si è incuriosito. E quando sono arrivata alle parti più piccanti, ha insistito perché continuassi a leggere. “Non posso mica lasciare tutto il divertimento a un mio finto omonimo”.»

Rebecca ride di nuovo e mi ritrovo a sorridere come uno scemo.

Quando entro in cucina, eccole lì, sedute a tavola insieme. Rebecca sta mangiando un piatto di enchiladas preparate dalla signora Gray e la mia governante sorseggia una tazza di tè.

Sono secoli che la mia cucina non è così viva. «Signora Gray, non sarebbe dovuta rimanere fino a tardi.»

«Ho fatto una bella chiacchierata con la deliziosa Rebecca, mentre il mio Christian è al bowling con il gruppo» mi spiega, alzandosi per aprire il forno. «È sempre di cattivo umore dopo qualche birra con gli amici. Farò meglio a tornare a casa.»

È di spalle, così Rebecca e io ci scambiamo un furtivo sguardo divertito. Siamo sempre stati sulla stessa lunghezza d’onda in quanto a umorismo. Dove la mia assistente Lauren è fredda, Becca è calorosa. I suoi occhi danzano, quando sente qualcosa di divertente, e le sue guance si colorano di rosa quando ride.

Non che abbia alcun diritto di notare certe cose.

La signora Gray mette a tavola il mio piatto. «Ecco la tua porzione, Nate» dice. «Ora devo scappare. Ciao!»

Un momento dopo, scompare dalla porta sul retro, e Rebecca e io ci ritroviamo da soli. Che Dio mi aiuti.

«La signora Gray è speciale» afferma Rebecca. Quindi allontana il piatto. «Non riuscirei a mangiare neanche un boccone in più.»

«Stai meglio rispetto a stamattina» noto. Poi riformulo la frase nella mia testa e mi rendo conto che potrebbe risultare offensiva ma, dopotutto, nessuno mi ha mai accusato di avere troppo tatto.

«Voglio sperare.» Rebecca mi rivolge un sorrisetto. «Dormire per cinque ore di fila deve pur dare dei benefici.»

«Cinque? Wow. Rebecca Van Winkle!» Prendo la forchetta e infilzo le enchiladas della signora Gray. Quella donna sì che sa cucinare. Anche se non ripeterò a Rebecca “te l’avevo detto”, è vero che una buona notte di sonno cura quasi tutto.

«Sai...» Le guance di Becca assumono un colorito roseo che mi distrae. «Non sapevo di essere così stanca. Ed è davvero tranquillo qui. Avevi ragione.»

«Mmm» mormoro su un altro boccone. Voglio che resti. Voglio prendermi cura di lei. Ma non le farò pressione. «Sono arrivati i tuoi bagagli?»

«Ehi!» Rebecca mi rifila un’occhiata tagliente. «Hai avuto un po’ la mano pesante con i bagagli. Mia sorella mi ha scritto per sapere se fossi stata rapita.»

«Oh, per favore.» Avevo mandato il mio autista nell’appartamento di Becca con le valigie vuote per farle riempire a sua sorella. «Ramesh ha detto che Missy è stata fin troppo felice di dare una mano. Anzi, gli ha chiesto di spostare la culla nella tua stanza per avere un po’ più di spazio.»

«Ovviamente» sospira Becca. «Nate, è una stupidaggine. Posso andare a casa e basta. Mi sono già riposata. Se hai riconsiderato il tuo invito, non mi offenderò.»

Sì, certo…

Senza guardarla negli occhi, allungo la mano sul tavolo per prendere la sua. «Resta, Bec. Domani mattina partirò per Washington. Fatti un paio di notti di sonno decente. È una buona medicina.»

«Grazie» sussurra.

Le stringo la mano, riluttante a lasciarla andare. Becca prende il bicchiere e io mangio in silenzio per un po’.

È difficile individuare il momento in cui ho smesso di guardare Bec come un’amica e ho iniziato a sognarla. È cominciato qualche tempo dopo la rottura con Juliet, quando ho notato che Rebecca era stata sempre presente nella mia vita, migliorandola ogni giorno. Avevo iniziato a protendermi verso di lei quando parlavamo, riscoprendomi distratto dal suo profumo. La sua risata roca riusciva sempre a farmelo diventare duro.

Di notte avevo cominciato a svegliarmi, rendendomi conto di aver sognato di spogliarla. Tuttavia, la mia coscienza mi ha sempre spinto a svegliarmi prima che concludessimo qualcosa. Un minuto eravamo pelle contro pelle, le mie mani sul suo corpo. E l’attimo dopo mi destavo sudato e sofferente. E con i sensi di colpa.

Ecco un bel cliché, signori miei. Non sono altro che l’ennesimo nerd scapolo preso da un desiderio senza speranza per la propria assistente. La storia più antica del mondo.

«Vuoi una birra?» le offro.

«Vorrei, ma non devo bere. Né leggere. Né guardare la TV. O mettermi in condizione di prendere spinte.»

«Sono tutte le mie cose preferite!» scherzo. Inoltre, so io che spinte le darei. Con il mio cazzo.

Dopo essermi schiaffeggiato mentalmente, mi alzo e apro il frigorifero, passando in rassegna il contenuto. La signora Gray ha un po’ troppo tempo libero. Le bevande sono praticamente in ordine alfabetico. «Succo d’ arancia? Soda? Sette diversi tipi di acqua frizzante?»

«Stupiscimi» risponde.

Scelgo una lattina di seltzer di lamponi per lei e una birra per me. «Vuoi giocare a...?» esito. Il ping-pong non si addice a chi perde spesso l’equilibrio. «Scarabeo?» suggerisco, invece. «Non è uno schermo. E non rischi spinte.»

«Ma il tuo cervellone mi batterà alla grande» sottolinea. «Sarà meglio mettere un tetto basso alle scommesse.»

Prendo dalla dispensa un pacchetto di biscotti. «Ci giochiamo questi.»

«Ci sto» dichiara Becca, con un sorriso che mi scioglie. È solo per me, soffuso di quella sua grande personalità rinchiusa in un corpicino morbido.

Prendo un piatto per i biscotti e andiamo di sopra nella tana. Forse è triste, ma è la cosa più divertente che abbia fatto da anni.