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Wilfred Penn, detto «Cinquepance», sentinella della città di York, cento miglia a nord di Memphis, si fregò gli occhi per restare sveglio e sorvegliare le mura della città. Un'altra bella alba stava nascendo sopra i boschi circostanti e Cinquepance pensò che, per quanto l'esistenza di una guardia notturna fosse noiosa e monotona, quel momento della giornata lo rendeva meravigliosamente felice di essere vivo, a prescindere da quante volte vi avesse assistito.

Fu allora che notò qualcosa di così singolare che la sua stranezza - la sua impossibilità - suscitò in lui più perplessità che allarme. Quello che credeva di vedere non poteva essere vero. A circa un miglio e mezzo di distanza, un grosso oggetto nero si era sollevato dal bosco e stava salendo nel cielo blu-rossastro, avvicinandosi alla città. L'oggetto nero divenne più grande e sembrò muoversi ancora più rapidamente finché, stordito come un animale prima del macello, Cinquepance non vide un masso grande come una vacca volare sopra di lui a meno di venti piedi di distanza, girando pigramente su se stesso. La sua traiettoria ad arco terminò nella città sottostante, distruggendo quattro grandi case, rimbalzando in una massa di detriti di pietra frantumata e polvere e fermandosi nei Giardini Municipali degli Usignoli.

Durante le due ore successive, i quattro trabucchi mobili da assedio dei Redentori lanciarono altri dieci massi e, avendo calibrato la gittata, causarono gravi danni alle mura di York. Erano macchine di nuova progettazione, dunque mai provate sul campo di battaglia e infatti due si spezzarono lungo le grandi leve. Ma gli Ingegneri Pontifici, che avevano accompagnato la Quarta Armata del Redentore Generale Princeps, fecero le dovute valutazioni dei difetti di quelle loro nuove attrezzature mobili e, nel giro di un'ora, avevano raccolto i bracci spezzati e cominciato la lunga marcia di rientro a Shotover.

Nel pomeriggio, faceva così caldo che, sebbene gli uccelli non cantassero, il frinire delle cicale era quasi assordante. Alle tre, duecentocinquanta uomini della cavalleria leggera della città sferrarono un attacco, con lo scopo primario di provocare una reazione da parte dei nemici e dare così al comandante della guarnigione un'idea di cosa avessero di fronte. Una raffica di frecce provenienti dagli alberi fece Paul Hoffman

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deviare di lato gli uomini e l'unica cosa che i Ferrazzi ottennero da quell'incursione furono due morti, cinque feriti e dieci cavalli da abbattere.

Appostati ai margini del bosco, i Redentori osservarono la cavalleria ritirarsi. Nell'aria si percepiva una tensione orribile, come se qualcosa di spaventoso stesse trattenendo il fiato, pronto a colpire. Poi il minaccioso silenzio venne spezzato e i Redentori scoppiarono a ridere. Zittite dall'arrivo dei cavalli e calmate dalla loro scomparsa, le cicale avevano infatti ripreso il loro canto e l'avevano fatto nel medesimo istante, come se non fossero migliaia di creature, ma una sola.

Quella notte cominciò il vero lavoro sporco. Toccò al sergente maggiore Trevor Beale e a dieci dei suoi uomini - comprensibilmente riluttanti e guardinghi - andare di pattuglia nel bosco di Dudley. Su far dell'alba, Beale e sette dei suoi uomini erano di ritorno tra le mura, pronti a fare rapporto al Governatore di York e con due Redentori prigionieri.

«In nome di Dio, perché i Redentori ci attaccano?»

«Non ne ho idea, signore», rispose il sergente maggiore Beale.

«Era una domanda retorica, sergente maggiore, una di quelle che vengono formulate soltanto per produrre un certo effetto e non per suscitare una risposta.»

«Sì, signore.»

«E quanti sono?»

«Direi tra gli ottomila e i sedicimila, signore.»

«Non potete essere più preciso?»

«Siccome stavamo bighellonando nel fitto dei boschi, nel buio pesto e nel bel mezzo di un esercito, no, signore, non posso essere più preciso.

Dubito che siano di meno o di più.»

«Siete molto insolente, sergente maggiore.»

«Ho perso tre uomini stanotte, signore.»

«Mi dispiace, ma dubito che sia colpa mia.»

«No, signore.»

Tre ore dopo, il sergente maggiore Beale era nello studio del Governatore Agostino.

«Tutto ciò che siamo riusciti a estorcere ai prigionieri, o almeno a uno di loro, è la sua ipotesi sul numero dei soldati. Prima di chiudere la bocca per sempre, il prigioniero ha detto che, nel bosco, erano circa seimila, ma l'esercito si era diviso tre giorni fa. Oh, ha confessato pure che sono comandati da un certo Princeps.»

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«Concedetemi un'ora da solo con l'altro prigioniero, signore», disse il sergente maggior Beale.

«Dubito fortemente che siate più abile di Bradford. È il suo lavoro, dopotutto. Inoltre voglio che voi e altri tre uomini portiate un dispaccio a Memphis. Scegliete strade diverse. Voi prenderete quella che vi darà le maggiori probabilità di sfuggire ai picchetti dei Redentori.»

Un'ora dopo che Beale e i suoi uomini avevano lasciato la città, i Redentori presero d'assalto un varco nelle mura meridionali. Seguì un breve ma selvaggio scontro coi trecento Ferrazzi completamente corazzati che li aspettavano. Furono respinti e persero venti soldati senza che, a prima vista, qualcuno dei Ferrazzi rimanesse seriamente ferito. Soltanto un'ora dopo l'attacco emerse che tre Ferrazzi erano scomparsi. E una cosa ancora più strana avvenne qualche ora dopo: nel terso cielo estivo, s'innalzarono quattro pennacchi di fumo, in corrispondenza delle macchine da assedio dei Redentori. Poco più tardi, una pattuglia riferì al Governatore che i Redentori si erano ritirati, bruciando i quattro trabucchi che di certo avevano trascinato con gran fatica fino a York.

Tre giorni dopo, quando Beale aveva raggiunto Memphis, la città aveva già avuto notizie dell'altra metà della Quarta Armata del Redentore Generale Princeps, tuttavia il suo messaggio non era stato accolto con meno stupore. Invece di attaccare le tre città fortificate sul proprio percorso, tanto importanti almeno quanto York, la seconda unità dei Redentori le aveva semplicemente aggirate, dirigendosi verso la Fortezza Invincibile. Secondo una battuta che circolava tra i Ferrazzi, la Fortezza Invincibile non era veramente una fortezza... ma non importava, dato che non era nemmeno invincibile. In realtà, era un luogo in cui ampie distese pianeggianti e morbide dune si alternavano a strettissimi canyon e a passi rocciosi e ciò, almeno da un punto di vista geografico, lo rendeva nel contempo il migliore e il peggiore terreno su cui cavalieri e fanti corazzati potessero combattere. Di conseguenza, era il luogo ideale per addestrare i Ferrazzi, che infatti periodicamente affluivano alla Fortezza da tutto l'impero; in quel momento, erano stanziati lì almeno cinquemila uomini tra fanti e cavalieri, molti dei quali con svariati anni di esperienza. Dal punto di vista militare, non aveva senso che i Redentori attaccassero la Fortezza Invincibile: significava sfidare la potenza militare dei Ferrazzi in uno dei punti di maggior forza, in un territorio in cui si esercitavano ogni giorno.

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Eppure quattromila Redentori si erano schierati in formazione da battaglia sulle dune davanti alla Fortezza e avevano sfidato i Ferrazzi ad attaccarli. Ovviamente la sfida era stata raccolta e, purtroppo per i Redentori, un'unità di cavalleria dei Ferrazzi composta da mille uomini, di ritorno da un'esercitazione, li aveva attaccati alle spalle. Come risultato, i Redentori erano stati massacrati, perdendo quasi metà delle loro truppe.

Cercando una via di scampo, i rimanenti duemila uomini si erano ritirati nelle gole di Thametic, riunendosi ai quattromila Redentori che li aspettavano lì. In quella zona, il terreno era molto più difficile per i cavalli e in quel caso i Redentori non erano stati sfortunati. Il primo giorno di battaglia era stato tanto feroce quanto inconcludente. Il secondo giorno non c'era neppure stato. La mattina seguente, infatti, quando i Ferrazzi si erano svegliati, avevano scoperto che i Redentori si erano ritirati sulle montagne, dove la cavalleria non poteva seguirli. Nel frattempo, a Memphis, i generali si scervellavano sull'utilità dell'attacco dei Redentori alla Fortezza Invincibile.

Le notizie giunte a Memphis il giorno seguente erano sconcertanti, ma in modo molto diverso, sempre che «sconcertanti» possa essere inteso anche come «orribili» e «disgustose». Alle sette del mattino dell'undicesimo giorno di quel mese, la Seconda Fanteria Montata dei Redentori, comandata dal Redentore Petar Brzica, aveva raggiunto Mount Nugent, un villaggio di milleduecento anime. C'era stato soltanto un testimone del loro arrivo, un quattordicenne malato d'amore per una delle ragazze del villaggio: si era svegliato presto ed era andato nei boschi vicini, per piangere senza esporsi allo scherno dei fratelli maggiori. Per il ragazzo che, dal folto degli alberi, aveva guardato i trecento soldati diretti a Mount Nugent, quello era stato uno spettacolo assai strano, accentuato dal fatto che gli uomini indossavano tonache - una cosa che lui non aveva mai visto

– e che cavalcavano piccoli asini e quindi sobbalzavano in modo piuttosto comico. Erano così diversi dai cavalieri dei Ferrazzi, magnificamente minacciosi, che lui aveva osservato con timore durante la sua unica visita a Memphis... Quando i Redentori avevano lasciato il villaggio, otto ore più tardi, tutti gli abitanti erano morti tranne il ragazzo. La descrizione del massacro da parte dello Sceriffo della Contea era basata sulla sua testimonianza ed era arrivata sulla scrivania di Vipond insieme con un sacco di lino.

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I Redentori hanno svegliato gli abitanti del villaggio e, per mezzo di un megafono, li hanno informati che si trattava di un' occupazione temporanea. Hanno pure spiegato che, se avessero collaborato, non sarebbe stato fatto loro nessun male. I maschi sono stati separati dalle femmine e i bambini al di sotto dei dieci anni sono stati raggruppati. Quindi le donne sono state condotte al granaio del villaggio - vuoto, dato che il raccolto non è ancora avvenuto -, gli uomini sono stati portati nella sala delle riunioni e i bambini nel Municipio, l' unico edificio di tre piani del villaggio, e messi al secondo piano. Quando siamo arrivati, abbiamo scoperto che i Redentori avevano eretto un palo al centro del villaggio e su quel palo c' era l' attrezzo allegato al presente rapporto.

Vipond aprì il sacco di lino. All'interno c'era un guanto senza dita, simile a quelli indossati dagli ambulanti in inverno, per tenere le mani calde senza ostacolare l'agilità delle dita. Era fatto di pelle molto spessa e robusta e, dalla parte di maggior spessore, lungo il margine del palmo, emergeva una lama lunga quasi cinque pollici, leggermente ricurva alle estremità, fatta in modo da seguire la curvatura del collo umano. Sulla lama c'era l'iscrizione GRAVISO, che era il luogo di produzione. All'interno del guanto, c'era un'etichetta, simile a quelle attaccate ai vestiti degli scolari, sulla quale era ricamato in blu il nome PETAR BRZICA. Tremando, il Cancelliere Vipond riprese a leggere il rapporto.

Hanno cominciato con le donne, portandone fuori una alla volta. Dopo averla fatta inginocchiare, un Redentore, calzando l' attrezzo allegato a questo rapporto, le arrivava alle spalle, le tirava indietro la testa, quindi faceva scorrere la lama, la cui curvatura è chiaramente adatta allo scopo, lungo la gola della vittima. Il cadavere veniva poi trascinato via, in modo da non essere visibile, e si passava alla vittima successiva. Abbiamo trovato soltanto un testimone, un ragazzo. Secondo lui, ciascuno di questi omicidi non richiedeva più di trenta secondi in tutto.

Inconsapevoli del proprio destino, le vittime sembravano spaventate, ma non terrorizzate, e la loro morte avveniva a una tale velocità che nessuno urlava. Non si sono sentite urla per Paul Hoffman

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l' intera giornata. In tal modo, i Redentori hanno ucciso tutte le donne (392) entro l' una. (Il testimone vedeva la torre dell' orologio del Municipio. ) Quindi gli uomini del villaggio (503) sono stati eliminati nella stessa maniera. Tuttavia, quand' è arrivato il turno dei bambini al di sotto dei dieci anni (304), i Redentori hanno abbandonato ogni preoccupazione di segretezza. I bambini sono stati gettati dal balcone più alto, uno o due alla volta, perché si rompessero il collo. Non è stato risparmiato nessuno, neppure i neonati. Non ho mai, mai, visto una cosa simile. Resa la sua testimonianza e prima che potessimo impedirglielo, il testimone è scappato di corsa nel bosco, giurando vendetta agli aggressori.

GEOFFREY MENOUTH,

SCERIFFO DELLA CONTEA DI MALDON

Per tre giorni, durante le ore di luce, Cale era andato nei boschi ai margini del Parco Reale a osservare i soldati dei Ferrazzi che si addestravano con indosso la loro armatura completa. Aveva soppesato un'armatura lasciata in un corridoio dal proprietario, che si stava insediando in una delle stanze del palazzo di Arbell. Doveva essere qualcuno di grande importanza, perché la città traboccava di Ferrazzi, al punto che né l'amore, né il denaro, né il rango - che contava più delle prime due cose - bastavano per ottenere un letto decente. Cale aveva valutato il peso dell'armatura in circa settanta libbre, chiedendosi come un peso del genere potesse consentire la velocità o la flessibilità che lui riteneva necessarie, a prescindere da quanta protezione garantisse quell'aggeggio. Tuttavia, guardando i soldati durante l'addestramento, si era reso conto di avere torto. Era rimasto sbalordito dalla velocità dei loro movimenti, da quanto fossero agili e da come l'armatura seguisse in modo fluido ogni loro movimento. Riuscivano a montare e smontare da cavallo in un balzo, con una facilità che lo lasciava esterrefatto. Conn Ferrazzi si era persino arrampicato su una scala dal lato sbagliato e poi aveva fatto una piroetta per salire sulla torre che stava fingendo di assalire. I colpi che si sferravano a vicenda avrebbero tagliato in due un uomo senza armatura, ma sembrava che loro fossero in grado di sopportare facilmente anche gli affondi più perfidi. C'erano alcuni punti vulnerabili, per esempio la parte Paul Hoffman

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alta dell'interno coscia, ma sarebbe stato estremamente rischioso cercare di arrivarci. Cale aveva deciso che la cosa meritava una riflessione approfondita.

«Bù! Beccato!» esclamò Kleist, spuntando da dietro un albero con Henri e IdrisPukke.

«Vi ho sentito arrivare cinque minuti fa. Le ciccione della gelateria avrebbero fatto meno baccano.»

«Vipond ti vuole vedere.»

Cale li guardò. «Ha detto perché?»

«Una flotta di Redentori comandati da quel sacco di merda di Coates ha attaccato un luogo che si chiama Port Collard. Hanno appiccato il fuoco e poi se ne sono andati. Un soldato mi ha detto che gli abitanti della zona lo chiamano Little Memphis.»

Cale chiuse gli occhi, come se avesse ricevuto una gran brutta notizia.

Infatti era proprio così. Quando finì di spiegare perché, nessuno disse nulla per qualche istante.

«Dobbiamo andarcene», mormorò infine Kleist. «Adesso, stasera.»

«Penso che abbia ragione», annuì Henri.

«Ma io non posso», disse Cale.

«Per amor del cielo, Cale, come pensi che finirà tra te e Mademoiselle Pretenziosa?» sbottò Kleist.

«Perché non vai a farti una lunga passeggiata su un pontile molto corto?»

«Penso che dovresti dirlo a Vipond», intervenne IdrisPukke.

«Non abbiamo più niente da fare qui. Perché non volete capire?»

«Vai a raccontare questa storia a Vipond e diventeremo tutti e tre mangime per i pesci sul fondo della baia di Memphis», sbuffò Kleist.

«Forse hai ragione. In questo momento, siamo tanto popolari quanto i foruncoli», bofonchiò Henri.

«E sappiamo tutti di chi è la colpa», aggiunse Kleist, guardando Cale.

«È colpa tua, in caso avessi qualche dubbio.»

«Parlerò con Vipond domani. Voi due potete andarvene stanotte», propose Cale.

«Io non me ne vado», protestò Henri.

«E invece sì», si oppose Kleist.

«No», insistette Henri.

«Sì, invece», ribadì Kleist, con pari insistenza.

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«Prenditi la mia parte dei soldi e vai», gli suggerì Henri.

«Non voglio la tua parte.»

«E allora non prenderla. Nessuno t'impedisce di andartene da solo.»

«Lo so, ma non voglio.»

«Perché?» chiese Henri.

«Perché ho paura del buio», rispose Kleist. Con quelle parole sguainò la spada e lacerò la corteccia dell'albero più vicino. «Merda! Merda! Merda!»

Fu in quel modo indiretto che i tre concordarono di rimanere, stabilendo pure che IdrisPukke sarebbe andato con Cale da Vipond.

Quella volta, Cale non dovette rimanere a lungo nella sala d'attesa. Anzi venne fatto entrare immediatamente. Nei primi dieci minuti, il Cancelliere fece un resoconto dei tre attacchi dei Redentori e del massacro di Mount Nugent. Mostrò a Cale il guanto lasciato sul palo al centro del villaggio.

«C'è un nome qui dentro. Lo conosci?»

«Petar Brzica era il carnefice sommario del Santuario, responsabile di tutte le esecuzioni che non erano Atti di Fede. 'Pubbliche esecuzioni ai fini della contemplazione religiosa dei fedeli'», recitò in maniera automatica.

«Quelle venivano svolte da Redentori più santi di lui. Io non l'ho mai visto usare questo aggeggio, però Brzica era famoso per la velocità con cui era in grado di uccidere.»

«Mi assumo personalmente la responsabilità di trovare quest'uomo», sibilò Vipond. Quindi si sedette e trasse un respiro profondo. «Nessuno di questi attacchi sembra avere senso. Mi sai dire qualcosa sulla strategia che i Redentori stanno adottando?»

«Sì.»

Vipond si appoggiò allo schienale della poltrona e fissò Cale. Il tono della sua risposta lo aveva colpito profondamente.

«Conosco queste tattiche perché sono stato io a idearle», spiegò Cale.

«Mostratemi una mappa e ve le illustrerò.»

«In base a quello che mi hai appena detto, non credo sia saggio farti vedere una mappa. Prima spiegami.»

«Se volete il mio aiuto, avrò bisogno della mappa. Soltanto così sarà chiaro ciò che hanno intenzione di fare. E potrete decidere dove fermarli.»

«Fammi un riassunto, poi vedremo cosa fare per la mappa.»

Cale capì che Vipond era più scettico che diffidente. «Circa otto mesi fa, il Redentore Bosco mi ha portato nella Biblioteca del Capestro del Redentore Impiccato, una cosa che non era mai successa, a memoria Paul Hoffman

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d'uomo. Mi ha permesso di consultare liberamente tutte le opere disponibili sulle tattiche militari, scritte negli ultimi cinquecento anni. Poi mi ha dato le informazioni che lui aveva raccolto sull'impero dei Ferrazzi.

Ed erano parecchie. Infine mi ha ordinato d'ideare un piano d'attacco.»

«Perché l'ha chiesto a te?»

«Erano dieci anni che m'istruiva sulla guerra. I Redentori hanno una scuola, per questo. Siamo circa duecento. Ci chiamano gli Operativi. E io sono il migliore.»

«Come sei modesto!»

«Sono il migliore. La modestia non c'entra nulla.»

«Continua.»

«Dopo qualche settimana, ho deciso di escludere un attacco a sorpresa.

Mi piacciono le sorprese... come tattica, intendo. Ma non in questo caso.»

«Non capisco. Questo è stato un attacco a sorpresa.»

«No, invece. Da un secolo, i Redentori combattono contro gli Antagonisti ma, da più di dieci anni a questa parte, si tratta di una guerra di trincea e ormai si può parlare di stallo, dato che le trincee sono rimaste più o meno sulla stessa linea. Serve qualcosa per sbloccare la situazione, ma ai Redentori non piacciono le novità. Hanno una legge che permette a un Redentore di uccidere all'istante un accolito se fa qualcosa d'imprevisto.

Bosco però è diverso: pensava di continuo e una delle cose che ha pensato è che io fossi insolito e che gli potessi servire.»

«In che modo attaccare noi potrebbe sbloccare la situazione di stallo con gli Antagonisti?»

«Non sono riuscito a capirlo nemmeno io, perciò l'ho chiesto a lui.»

«E dunque?»

«Dunque niente. Mi ha dato soltanto una bella legnata. Perciò ho continuato a fare ciò che mi aveva chiesto. Il fatto è questo: pensavo che, coi Ferrazzi, un attacco a sorpresa non avrebbe funzionato perché loro non combattono come gli altri, né come i Redentori, né come gli Antagonisti. I Redentori non hanno una cavalleria degna di nota e non hanno armature.

Per noi...» Si corresse. «Per loro, sono essenziali gli arcieri; voi li usate a malapena. Le nostre macchine da assedio erano enormi e ingombranti, costruite sul posto di volta in volta. Voi probabilmente avete quattrocento città grandi e piccole con mura cinque volte più spesse di quelle cui siamo abituati.»

«Due dei trabucchi utilizzati a York si sono rotti, ma li hanno bruciati Paul Hoffman

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tutti e quattro, perché?»

«Hanno aperto un varco nelle mura il primo giorno, no?»

«Sì.»

«Hanno collaudato una nuova arma in una vera battaglia contro un nuovo tipo di nemico, e hanno fatto tutto ciò in un luogo molto lontano dal Santuario. Due dei nuovi dispositivi si sono rotti, certo, ma gli altri due hanno funzionato.»

«Due no, però.»

«Allora bisogna migliorarli. È a questo che serve.»

«Cioè?»

«Non ha senso sorprendere il nemico in condizioni che lui decide e sul suo territorio se non si è sicuri di annientarlo rapidamente. Bosco mi picchiava sempre perché, secondo lui, correvo troppi rischi inutili. Non in questo caso. Sapevo che i Redentori non erano pronti, che noi dovevamo...» Si corresse di nuovo. «... che loro dovevano fare una campagna breve, scoprire il più possibile su come combattevano i Ferrazzi, sull'efficienza delle loro armi e delle loro armature e poi ritirarsi.

Mostratemi una mappa.»

«Perché dovrei fidarmi?»

«Sono qui a dirvi quello che è successo, no? Avremmo potuto semplicemente darcela a gambe.»

«E se tu mi stessi raccontando queste cose fingendo di essere sincero? E

se Bosco ti stesse manovrando?»

Cale rise. «È una buona idea. Un giorno la userò. Mostratemi la mappa.»

«Niente uscirà da questa stanza», lo ammonì Vipond.

«E chi mi darebbe retta, a parte voi?»

«Giusto. Però, per eliminare ogni dubbio, se qualcun altro scopre che tu hai avuto una parte in tutto questo la tua ricompensa sarà il capestro.»

Vipond raggiunse uno scaffale all'altro capo della stanza e prese uno spesso rotolo. Mentre tornava alla sua scrivania, guardò Cale dritto negli occhi, scrutandolo, senza rendersi conto che, per quel ragazzo abituato da una vita a celare i propri pensieri, uno sguardo più o meno indagatore non faceva la minima differenza. Finalmente si decise e srotolò le carte sulla scrivania, bloccando gli angoli con tre fermacarte di vetro veneziano e una copia del Principe malinconico, il suo libro preferito.

Cale guardò la mappa con grande concentrazione, assumendo un'aria molto diversa da quella che aveva di solito. Vipond non lo aveva mai visto Paul Hoffman

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così. Nella mezz'ora successiva, rispose alle domande dettagliate del ragazzo sui siti dei quattro attacchi, sulle forze in campo e sulla disposizione dei soldati. Poi si fermò e anche lui studiò la mappa in silenzio per dieci minuti.

«Voglio un bicchiere d'acqua», disse infine Cale. L'acqua fu portata e lui se la scolò in un unico sorso.

«Dunque?» lo sollecitò Vipond.

«I Ferrazzi hanno città fortificate. Senza macchine d'assedio in grado di essere trasportate facilmente da una città all'altra, avremmo fatto prima a sperare che le mura crollassero allo squillare delle nostre trombe. Ho quindi detto a Bosco che gli Ingegneri Pontifici avrebbero dovuto costruire macchine molto più leggere, semplici da allestire e da smontare.»

«E le hai progettate tu?»

«Io? No. Non me ne intendo per niente. Sapevo soltanto ciò che serviva.»

«Ma lui non ti ha detto che era d'accordo, che avrebbe messo in atto il tuo piano.»

«No, quando ho sentito parlare degli attacchi all'inizio ho pensato che forse stavo diventando un po'...» Fece un movimento circolare con la mano accanto alla testa e concluse: «... un po' matto, ecco».

«E invece no.»

«No, sono sanissimo. In ogni caso, a York hanno imparato quello che dovevano imparare ed è per questo che se ne sono andati e si sono portati dietro i tre Ferrazzi. Volevano le armature, non gli uomini. A quest'ora, saranno già quasi al Santuario e gli Ingegneri Pontifici certamente non vedono l'ora di esaminarle.»

«Vi siete presi una bella batosta alla Fortezza Invincibile.»

«Non l'ho presa io. L'hanno presa i Redentori.»

«A volte dici 'noi'.»

«È l'abitudine.»

«Va bene. Allora diciamo che il tuo piano, alla Fortezza Invincibile, è fallito.»

«Non proprio. È stata soltanto sfortuna. I Ferrazzi non avevano intenzione di attaccarli alle spalle, è stato un caso che stessero tornando alla Fortezza al momento sbagliato... almeno dal punto di vista dei Redentori. Come dicono gli usurai di Memphis? 'Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi piani.'»

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«Sei andato nel Ghetto? Ci vuole una parola d'ordine per entrarci.»

«Nessuno me l'ha chiesta.»

«Sei così acuto che rischi di tagliarti.»

«Se sopravvivo, volete dire.»

«Io comunque penso che il tuo piano alla Fortezza Invincibile sia andato storto.»

«No, invece.»

«E perché no?»

«Quanti Redentori sono morti?»

«Circa duemila.»

«Hanno combattuto contro la vostra cavalleria due volte e il resto di loro è riuscito a salvarsi. Erano lì per vedere di che pasta siete fatti, non per vincere una battaglia.»

«E Port Collard...»

«Lo chiamate Little Memphis. Perché?»

«È stato costruito in un porto naturale, proprio come la nostra baia. La città è stata edificata nello stesso modo. Era una struttura che aveva funzionato una volta... e i provinciali amano copiare le cose...» Si fermò.

«Capisco. Già.» Emise un profondo sospirò e starnutì. «Scusa. Dunque cosa succederà, adesso?»

Cale scrollò le spalle. «Io so che cosa prevedeva il piano, ma ciò non significa che lo metteranno in atto.»

«E perché non dovrebbero? Finora ha avuto un certo successo.»

«Direi che ha avuto successo e basta. Hanno ottenuto tutto ciò che avevo previsto.»

Ci fu uno sgradevole silenzio. Sorprendentemente, fu Cale a interromperlo. «Mi spiace. Secondo Bosco, il peccato d'orgoglio è molto grande dentro di me.»

«Si sbaglia?»

«Probabilmente no.»

«Conosci questo Princeps?»

«L'ho incontrato una volta. Allora era il governatore militare della costa settentrionale. Lì non c'è guerra di trincea; sono solo montagne. Perciò è lui a gestire questa campagna: è il migliore di cui dispongano per combattere con un esercito in movimento ed è amico di Bosco, anche se, a quanto ho capito, non è molto apprezzato altrove.»

«Sai perché?»

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«No, ma ho letto tutti i rapporti delle sue campagne. Combatte come uno che pensa a ciò che fa. Questo tipo di comportamento rende nervoso l'Ufficio dell'Intolleranza. Bosco lo protegge... sempre a quanto ho sentito.»

«Quindi perché Princeps ha bisogno che tu gli dica cosa fare?»

«Dovreste chiederlo a Bosco.» Cale indicò la mappa. «Dove sono adesso?»

Vipond segnò un punto a circa cento miglia dall'estremità settentrionale delle Scablands. «L'impressione è che stiano per attraversare le Scablands per raggiungere il Santuario.»

«Così sembra, ma è troppo rischioso attraversare le Scablands in estate con un esercito, per quanto piccolo.»

«Allora questo non rientra nel tuo grandioso piano?»

«Rientra esattamente nel piano secondo il quale loro danno l' impressione di essere diretti alle Scablands attraverso la foresta di Hessel e aspettare, mentre voi cercherete di arrivarci per primi. Ma, una volta entrati nella foresta, si dirigeranno a ovest e attraverseranno il fiume qui, al ponte di Stamford, per poi puntare verso Port Erroll, sulla costa occidentale. La flotta che ha incendiato Little Memphis li aspetterà al porto. Se ciò non dovesse succedere... Ricordo di aver letto in biblioteca che le spiagge sono basse da questa parte. Se necessario, dunque, entreranno con le barche a remi.» Indicò un passo sulla mappa. «Anche se il tempo sarà brutto e la flotta tarderà, una volta attraversato il passo di Baring, poche centinaia di Redentori potrebbero tenere a bada anche un grande esercito per diversi giorni.»

Vipond lo guardò così a lungo che la cosa prima mise a disagio Cale, poi lo infastidì. Stava per parlare quando Vipond disse: «E tu ti aspetti che io creda che venga chiesto a una persona della tua età, qualunque età tu abbia, di preparare un piano d'attacco di questo genere e che poi tale piano venga messo in atto fin nei minimi dettagli? Da te mi sarei aspettato una storia più plausibile».

Dapprima Cale assunse un'espressione vacua, assente, che spinse Vipond a rimpiangere la propria franchezza e a ricordare il gelido piacere con cui il ragazzo aveva mandato all'altro mondo Solomon Solomon.

Questo ragazzo non è del tutto sano di mente, pensò.

Ma poi Cale scoppiò in una breve risata divertita. «Avete mai visto gli usurai giocare a scacchi nel Ghetto?»

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«Sì.»

«Ci sono un sacco di vecchi che giocano, ma anche bambini molto più piccoli di me. Uno di questi bambini vince sempre. Nemmeno il vecchio Rabbione con tutti i suoi riccioli e la barba e il cappellino strano riesce a batterlo. Perciò il Rabbione dice...»

«Si dice Rabbino, a quanto ne so.»

«Ah, ecco, mi chiedevo, appunto... Insomma, questo Rabbino dice che gli scacchi sono un dono di Dio per aiutarci a vedere il suo piano divino e che questo bimbo, che sa a malapena leggere, è un segno per farci credere nell'ordine che sottende ogni cosa. Io ho due doni: il primo è che sono capace di uccidere la gente con la stessa facilità con cui voi rompereste un bicchiere. Il secondo è che so guardare una mappa o andare in un posto e capire come attaccarlo o difenderlo. Mi viene naturale, proprio come giocare a scacchi per il bambino del Ghetto. Anche se non penso che sia un dono di Dio. Se non mi credete, comunque, peggio per voi.»

«E come li fermeresti?» chiese Vipond. Poi aggiunse, dopo una pausa:

«Se dovessi fermarli, intendo».

«Anzitutto non dovete permettere che raggiungano il passo di Baring, altrimenti li avrete persi. Ma ho bisogno di una mappa più dettagliata da qui a qui», disse, indicando una zona di circa venti miglia quadrate. «E di due o tre ore per pensarci su.»

Doveva credere a quello strano ragazzo o lasciare le cose come stavano?

C'era una frase che il padre di Vipond amava molto: «Non fare nulla; stattene lì con le mani in mano». La diceva ogni volta che si trovava in un momento di crisi. E poi, appunto, aspettava.

«Vai nella stanza accanto. Ti porterò io stesso le mappe. E stai lontano dalle finestre.»

Cale si alzò e si diresse verso lo studio privato del Cancelliere, però, mentre stava per chiudersi la porta alle spalle, Vipond lo fermò e gli chiese: «E il massacro? Faceva parte anche quello del tuo piano?»

Cale lo guardò in modo strano, ma, qualsiasi cosa significasse quell'espressione, non era di offesa. «Secondo voi?» replicò con calma, e poi chiuse la porta.

Vipond guardò il fratellastro. «Sei stato molto taciturno.»

IdrisPukke alzò le spalle. «Che si può dire? O gli credi o non gli credi.»

«E tu gli credi?»

«Io credo in lui.»

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«E la differenza quale sarebbe?»

«Mente sempre perché non riesce ad assumersi più rischi del necessario.

A volte essere reticenti è un errore e lui continua a commetterlo.»

«Non sono sicuro che sia un difetto», mormorò Vipond.

«Ma, proprio come Cale, anche tu sei reticente.»

«E in questo momento?»

«Penso che stia dicendo la verità», rispose IdrisPukke.

«Sono d'accordo.»

Una volta presa la decisione d'intervenire, Vipond divenne sempre più teso e impaziente. Anche perché Cale non impiegò tre ore per mettere a punto il suo piano, bensì più di tre giorni.

«Volete un buon piano o lo volete adesso?» chiedeva Cale in risposta alle insistenti richieste di Vipond di vedere almeno alcune idee. L'insolita frenesia che aveva pervaso quello che normalmente era un pensatore imperturbabile era dovuta allo sgomento per la morte degli abitanti del villaggio, una morte che gettava una nuova luce sulle strane storie raccontate dai pochi profughi degli Antagonisti provenienti dal nord. C'era qualcosa nel guanto di Brzica che gli aveva dato i brividi, come se tutta la malvagità e la sete di vendetta del mondo si fossero concentrate nella cura necessaria per realizzarlo, nella qualità delle cuciture e nella finezza artigianale con cui la lama era stata attaccata alla pelle. Si sentiva ancora più a disagio perché si era sempre ritenuto un uomo di mondo, quasi un cinico e certamente un pessimista. Aveva imparato ad aspettarsi poco dalle persone e di rado le sue aspettative erano disattese. Non era una novità per lui che, nel mondo, ci fossero omicidi e crudeltà, ma quel guanto era una testimonianza della possibilità di qualcosa di terribile e inimmaginabile, come se l'inferno che lui aveva da tempo liquidato quale spauracchio per i bambini avesse mandato un messaggero, non con le corna e lo zoccolo caprino, ma sotto forma di un guanto di pelle realizzato con massima cura.

Per Vipond non sarebbe stato facile influenzare le tattiche militari dei Ferrazzi, gelosi fino all'isteria della loro superiorità in tali questioni. Senza contare che lui non era un soldato, ma un politico, e una simile ingerenza avrebbe suscitato forti sospetti. E poi c'era un altro problema: il Maresciallo Ferrazzi stava sempre peggio, perché l'irritante pizzicore in gola si era trasformato in una debilitante infezione polmonare che lo costringeva ad assentarsi sempre più spesso dalle innumerevoli riunioni Paul Hoffman

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convocate per discutere della campagna militare. Vipond dovette quindi confrontarsi con una nuova realtà, per quanto temporanea, ma se la cavò grazie alla sua solita abilità.

Quando le pattuglie dei Ferrazzi persero di vista l'armata dei Redentori nella foresta di Hessel, la cosa non suscitò un grande allarme, dato che tutti si aspettavano di vederla prima o poi riemergere, diretta verso l'unico passaggio per le Scablands. Fu allora che Vipond s'incontrò in segreto col secondo in comando, il Generale di Punta Amos Narcisse, e gli comunicò di aver appreso dalla propria rete d'informatori le vere intenzioni dei Redentori, aggiungendo però che, per una serie di complicate ragioni, non desiderava essere coinvolto apertamente nella faccenda. Se Narcisse avesse presentato quelle informazioni al consiglio dei Ferrazzi come se fossero proprie, Vipond era disposto a fornirgli un piano di battaglia così efficace che la sua messa in opera avrebbe di certo comportato una notevole gloria per il generale. Vipond sapeva che Narcisse era molto preoccupato. Non era uno stupido, ma non era nemmeno del tutto adeguato a quel ruolo di responsabile dell'intera campagna, ruolo in cui si era ritrovato per via delle condizioni di salute del Maresciallo. E Narcisse lo sapeva benissimo: non l'avrebbe ammesso con nessuno, ma in cuor suo non credeva di essere all'altezza di quel compito. Vipond lo incoraggiò dunque a offrire la sua completa collaborazione, facendogli promesse velate, ma chiare, di modifiche a una legge fiscale che avrebbero comportato enormi benefici per Narcisse; inoltre si offrì di porre termine a una lunga controversia, riguardante una consistente eredità, nella quale il generale era coinvolto da vent'anni e che sembrava destinato a perdere.

Tuttavia Narcisse non era così facilmente corruttibile e persino lui non avrebbe acconsentito a una strategia che mettesse in pericolo l'impero.

Rimuginò quindi sul piano di Vipond - cioè sul piano di Cale - per diverse ore, prima di constatare che i suoi interessi finanziari e la sua coscienza militare coincidevano alla perfezione. Chiunque avesse ideato quel piano sapeva il fatto suo, disse a Vipond. Quindi sostenne - in modo non del tutto convincente - di non volersi assumere il merito di un altro, ma Vipond lo assicurò che il piano era frutto del lavoro di diverse persone e che, in ogni caso, la vera abilità consisteva nel piglio da comandante dell'uomo che lo avesse messo in atto. In ultima analisi, insomma, quello era il piano di Narcisse. Quando il generale lo presentò al consiglio e ne difese i meriti, l'affermazione di Vipond finì per corrispondere alla verità e Paul Hoffman

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l'argomentazione decisiva per il consiglio fu che l'armata dei Redentori di cui si erano perse le tracce era riemersa esattamente nel punto previsto da Narcisse.

Come qualcuno ha detto, è un bene che le guerre siano così rovinosamente costose, altrimenti non smetteremmo mai di combatterle.

Benché questa famosa citazione sia ben formulata, tende a dimenticare una cosa: probabilmente ci sono guerre giuste e guerre ingiuste, non ci sono mai guerre a buon mercato. Il problema per i Ferrazzi era che gli uomini d'affari più esperti del loro impero erano gli Ebrei del Ghetto. Gli Ebrei, d'altro canto, diffidavano profondamente delle guerre degli altri, perché spesso comportavano disastri per loro, a prescindere dal risultato. Se la parte cui avevano prestato denaro era sconfitta, non c'era nessuno che potesse ripagarli; d'altro canto, se avevano finanziato i vincitori, troppo spesso questi ultimi decidevano che gli Ebrei erano in qualche modo responsabili della guerra e meritavano dunque di essere espulsi. Di conseguenza, non era più necessario ripagarli. Così i Ferrazzi mentirono agli Ebrei, assicurando loro che i debiti di guerra sarebbero stati saldati, mentre gli uomini d'affari del Ghetto, con pari insincerità, sostennero che era molto difficile ottenere un credito per somme così ingenti e che la cosa fosse possibile soltanto a tassi d'interesse proibitivi. Fu in quei negoziati che Kitty la Lepre colse l'opportunità che aspettava e si offrì di finanziare tutti i debiti di guerra dei Ferrazzi. Ciò rappresentò un enorme sollievo per gli Ebrei, che ritenevano Kitty Town un autentico abominio: era risaputo che non avrebbero fatto affari col proprietario di quel luogo in nessuna circostanza, nemmeno a rischio di essere espulsi. Ovviamente Kitty aveva agito in quel modo per puro interesse personale. A dispetto di tutte le sue bustarelle, dei ricatti e della corruzione politica, infatti, sapeva che l'opinione pubblica di Memphis era sempre più avversa alle disgustose pratiche che si svolgevano a Kitty Town e che un'azione contro di lui era pressoché inevitabile. Nei suoi calcoli, una guerra, soprattutto se caratterizzata da un grosso coinvolgimento emotivo da parte dell'opinione pubblica, avrebbe spento la vampata d'indignazione nei confronti di Kitty Town. Finanziando quella che, nelle sue previsioni, sarebbe stata una breve campagna, Kitty la Lepre era abbastanza sicuro che le mazzette di banconote destinate a coprire le spese dell'impresa avrebbero garantito anche la solidità della sua posizione a Memphis per molto tempo.

Così i Ferrazzi furono infine pronti ad attaccare i Redentori e, col grande Paul Hoffman

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piano di Narcisse a guidarli, quarantamila uomini corazzati di tutto punto lasciarono la città, accompagnati dai cori d'incitamento di una folla sterminata. Venne fatta circolare la voce che il Maresciallo Ferrazzi stesse definendo i dettagli della strategia e che avrebbe raggiunto i suoi uomini di lì a poco. Non era vero. Il Maresciallo stava molto male per via dell'infezione ai polmoni ed era assai improbabile che avrebbe preso parte alla campagna.

Ma i Redentori stavano anche peggio, a causa di un'epidemia di dissenteria che, se aveva ucciso solo alcuni di loro, ne aveva indeboliti parecchi. Inoltre il loro tentativo d'ingannare i Ferrazzi - inducendoli ad aspettarli ai margini delle Scablands, mentre loro andavano nella direzione opposta - era palesemente fallito. Così, quando uscirono dalla foresta di Hessel, un'avanguardia dei Ferrazzi di duemila uomini cominciò quasi subito a seguirli dall'altra sponda del fiume Oxus. Da quel momento in poi, ogni movimento dell'armata dei Redentori veniva osservato e il Generale di Punta Narcisse riceveva rapporti molto dettagliati.

Con grande sorpresa di Princeps, non ci fu nessun tentativo di rallentare la sua armata, che in meno di tre giorni percorse quasi sessanta miglia. A quel punto, gli effetti della dissenteria si erano fatti sentire su oltre metà dei suoi uomini e lui decise di farli riposare per mezza giornata nei pressi di una località chiamata Mulini Bruciati. Inviò una delegazione ai difensori della città vicina, minacciando di massacrare tutti gli abitanti, come aveva fatto a Mount Nugent, ma promettendo di risparmiarli se avessero rifornito i suoi uomini di cibo. Quelli obbedirono. Il mattino dopo, i Redentori proseguirono la marcia verso il passo di Baring. Avendo verificato l'efficacia delle sue minacce - e quanto terrore avesse sparso la notizia del massacro di Mount Nugent -, Princeps mandava spesso in avanscoperta una piccola unità di duecento soldati, ricattando cittadine e villaggi per fornire ai suoi uomini ancora deboli una provvista continua di cibo; in gran parte, quel cibo era decisamente migliore di quello cui erano abituati, e quel fatto sollevò parecchio il morale della truppa.

Fino a quel momento, il piano di Cale per un attacco esplorativo all'impero dei Ferrazzi si era rivelato efficace, ma i documenti contenuti nella biblioteca del Santuario non contenevano mappe dettagliate del territorio in cui i Redentori stavano entrando. E infatti uno dei loro obiettivi più importanti era l'impiego di venti cartografi che, a gruppi di due e muovendosi in ogni direzione, avrebbero mappato nel modo più Paul Hoffman

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preciso possibile la zona che sarebbe stato attaccata l'anno seguente.

I tre gruppi che stavano esplorando il tratto successivo del loro percorso non erano tornati e Princeps si stava muovendo in un'area di cui aveva soltanto un'idea molto vaga. Il giorno dopo, cercò di attraversare il fiume Oxus alla Curva Bianca, ma si rese conto che l'esercito dei Ferrazzi che lo seguiva sull'altra sponda contava ormai almeno cinquemila uomini e fu costretto a rinunciare. S'inoltrò quindi in una zona in cui era difficile procedere e che non offriva molte risorse, dato che i pochi villaggi erano già stati evacuati dai Ferrazzi, i quali avevano poi fatto piazza pulita di ogni genere alimentare.

Nei due giorni successivi, i Redentori avanzarono a fatica, cercando con ansia sempre maggiore un punto per guadare il fiume, cosa che i Ferrazzi sull'altra sponda erano determinati a impedire. Inoltre erano sempre più stanchi e deboli per la penuria di cibo e per gli effetti della dissenteria, quindi riuscirono a percorrere soltanto poche miglia al giorno. Poi però ebbero un colpo di fortuna. Una pattuglia aveva catturato un mandriano e la sua famiglia e, nel tentativo disperato di salvare i suoi cari, l'uomo aveva fatto cenno a un vecchio guado, ormai in disuso, dove secondo lui anche un'armata consistente sarebbe riuscita ad attraversare il fiume. Gli uomini verificarono l'informazione, riferendo poi a Princeps che sarebbe stato necessario rendere il guado nuovamente transitabile: una cosa difficile ma non impossibile, anche perché la zona non era sorvegliata. Le ampie paludi sull'altra sponda dell'Oxus avevano infatti costretto i Ferrazzi ad allontanarsi dal fiume, quindi a perdere di vista i nemici. Dopo aver quasi toccato il culmine della disperazione, i Redentori furono travolti da un'ondata di speranza: nel giro di due ore, fu posata una testa di ponte sull'altra sponda dell'Oxus e gli uomini si misero a ripristinare il guado con pietre sottratte alle case circostanti. Entro mezzogiorno, il lavoro era completato e l'armata cominciò ad attraversare il fiume. Al tramonto, anche gli ultimi Redentori avevano raggiunto sani e salvi la sponda opposta. Nessuno di loro si accorse che vari drappelli di Ferrazzi avevano assistito, a distanza di sicurezza, all'ultima fase dell'attraversamento e, grazie ad alcuni messaggeri, ne avevano comunicato modalità ed esito a Narcisse.

Il giorno successivo, dopo aver percorso tre miglia, Princeps si trovò davanti una scena così agghiacciante da convincersi che la fine era prossima. Per almeno dieci iarde in entrambe le direzioni, le strade fangose Paul Hoffman

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apparivano sconnesse come campi male arati e i cespugli ai lati erano appiattiti: decine di migliaia di soldati dei Ferrazzi erano passate di lì prima di loro. Rendendosi conto che un esercito molto più grande del suo li aspettava tra quel punto e il passo di Baring, Princeps fece il possibile per mettere al sicuro le informazioni, che erano sempre state l'obiettivo centrale del piano di Cale. I cartografi sopravvissuti realizzarono più copie che poterono delle mappe appena disegnate, si camuffarono alla bell'e meglio e partirono in dodici direzioni diverse, sperando che almeno uno di loro riuscisse ad arrivare al Santuario. Poi, dopo aver celebrato una breve messa, Princeps riprese la marcia. Per due giorni i Redentori arrancarono nel fango senza vedere né sentire i nemici. Il terzo giorno si mise a piovere, con scrosci violenti e terribilmente gelidi. Sferzati dal vento e dall'acqua, i soldati avevano appena risalito il ripido versante di una collina ed erano giunti su un altopiano quando, di colpo, davanti a loro, apparve l'enorme esercito dei Ferrazzi schierato ad aspettarli. La pioggia cessò, spuntò il sole e i Ferrazzi spiegarono le loro bandiere e i loro vessilli, che sventolavano gioiosamente, rossi, blu e dorati, mentre il sole risplendeva sulle armature argentee. Dalle valli laterali, intanto, un flusso incessante di uomini andava a rafforzare le file dei soldati.

Nonostante tutti gli sforzi fatti dal Redentore Generale Princeps, la battaglia era ormai inevitabile. Ma non sarebbe avvenuta quel giorno. Era quasi buio e i Ferrazzi, paghi di aver instillato la paura della morte e della dannazione nei Redentori, si ritirarono un poco verso nord. Pure i Redentori indietreggiarono, cercando riparo ove possibile, ma non prima che Princeps avesse ordinato a ciascuno dei suoi arcieri di abbattere qualche albero e di realizzare un palo difensivo alto sei piedi. Inoltre, temendo che i Ferrazzi li attaccassero nel corso della notte, Princeps ordinò pure che non fossero accesi fuochi, così da impedire ai nemici d'individuare il loro accampamento. Fradici, infreddoliti e affamati, i Redentori si coricarono sulla nuda terra, si confessarono, parteciparono alla messa, pregarono e aspettarono la morte. Princeps passò in mezzo a loro distribuendo medaglie sacre di san Giuda Taddeo, santo delle cause perse, pregando per la sua anima e per quelle dei suoi soldati con chiunque, dagli specialisti dei pozzi neri ai due arcivescovi che avevano incarichi di comando. «Ricordate che polvere noi siamo e in polvere torneremo», diceva allegramente a tutti.

«E ci torneremo tutti entro questa stessa ora, domani», borbottò un Paul Hoffman

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Redentore. Al che, con grande sorpresa del suo arcidiacono, Princeps rise.

«Sei tu, Dunbar?»

«Sì, sono io.»

«Be', non ti sbagli.»

Quasi tutti i Ferrazzi erano a mezzo miglio di distanza, i loro fuochi brillavano e i Redentori sentivano frammenti di canti, urla di vario genere, tra cui insulti rivolti a loro e, nella quiete della notte che avanzava, ogni tanto brandelli di normali conversazioni. Il sergente maggiore Trevor Beale era ancora più vicino. Assegnato alle truppe di Narcisse, si era appostato a meno di cinquanta iarde e stava cercando di capire come rendersi utile.

Avvilito, bagnato, infreddolito, affamato e pieno di paura per ciò che lo attendeva, il Redentore Colm Malik si diresse verso una delle poche tende che la Quarta Armata si era portata dietro. È colpa tua, pensava. Ti sei offerto volontario, mentre saresti potuto restare al sicuro al Santuario, a prendere a calci in culo gli accoliti.

Abbassò la testa per entrare nella tenda e vi trovò il Redentore Petar Brzica che guardava un ragazzo sui quattordici anni, seduto a terra con le mani legate dietro la schiena. Il giovane aveva un'espressione strana: era bianco per il terrore - il che era comprensibile -, ma c'era anche qualcos'altro, che Malik non riuscì a definire. Odio, forse.

«Mi avete mandato a chiamare, Redentore?»

«Ah, sì, Malik», disse Brzica. «Mi chiedevo se poteste rendermi un servigio.»

Malik annuì, con ardore appena sufficiente a farla franca.

«Questo ragazzo è una spia o un assassino scelto dai Ferrazzi, perché sostiene di essere stato testimone dei fatti di Mount Nugent. Bisogna sistemarlo.»

«Dunque?» Malik era perplesso.

«Poco prima che le pattuglie lo catturassero e lo portassero da me, ho ricevuto la piena assoluzione per i miei peccati da parte dell'Arcivescovo in persona.»

«Capisco.»

«Evidentemente no. Uccidere una persona disarmata, per quanto meriti di morire, richiede una successiva assoluzione formale. Non posso ucciderlo io e poi chiedere all'Arcivescovo un'altra assoluzione.

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Penserebbe che sono un idiota. Voi vi siete confessato?»

«Non ancora.»

«Allora qual è il problema? Portatelo nel bosco e toglietelo di mezzo.»

«Non potete incaricare qualcun altro?»

«No. Muovetevi.»

Così Malik condusse il giovane terrorizzato attraverso l'accampamento fradicio, passando tra le messe mormorate che i Redentori stavano celebrando gli uni per gli altri, per poi oltrepassare le guardie e raggiungere i boschi vicini. Con ogni passo, Malik aveva la sensazione di calpestare il proprio cuore sotto gli stivali bagnati. Una cosa era prendere a schiaffi e a pedate gli accoliti; un'altra era tagliare la gola a un ragazzo qualsiasi. Per di più, quel giovane era stato testimone di qualcosa che aveva disgustato profondamente Malik per avervi preso parte... anche senza tener conto del fatto che, di lì a poco, lui si sarebbe trovato a faccia a faccia col suo Creatore, il quale gli avrebbe certamente chiesto conto di quell'azione.

Una volta che furono tra i cespugli, dove nessuno poteva vederli, prese per le spalle il ragazzo e gli sussurrò: «Ora ti lascerò andare. Continua a correre in quella direzione e non voltarti indietro. Hai capito?»

«Sì», rispose il ragazzo, tremando.

Malik tagliò la corda che gli teneva legati i polsi e lo guardò allontanarsi, piangendo e incespicando, per poi scomparire nell'oscurità.

Aspettò diversi minuti, per essere sicuro che, terrorizzato com'era, il ragazzo non sbagliasse direzione, imbattendosi nelle guardie. Il giorno successivo, anche se qualcuno l'avesse scoperto, non avrebbe avuto importanza. Così, sperando che quell'atto di carità potesse controbilanciare i numerosi peccati che aveva commesso nei confronti dei più giovani, Malik tornò verso il campo.

E finì dritto contro il pugnale del sergente maggiore Trevor Beale.

Cale si alzò molto prima dell'alba e, mentre il cielo s'illuminava lentamente, fu raggiunto da Henri, poi da Kleist e, infine, allo spuntar del sole, da IdrisPukke. Erano in cima a Silbury Hill, da dove si poteva vedere il campo di battaglia. Silbury Hill non era una vera e propria collina, ma un enorme terrapieno, realizzato per qualche misterioso motivo da un popolo ormai da tempo scomparso. Era un'eccellente piattaforma di osservazione non soltanto per le guardie che intendevano spiare i movimenti del nemico Paul Hoffman

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- anche se, dal lato dei Ferrazzi, il campo di battaglia era abbastanza visibile da qualsiasi punto -, ma anche per i numerosi Ferrazzi al seguito dell'esercito: ambasciatori, addetti militari, uomini al di fuori dell'esercito ma importanti e persino donne importanti. Tra queste ultime c'era Arbell, che aveva insistito per essere presente, nonostante la strenua opposizione del padre e di Cale, i quali avevano sottolineato come lei sarebbe stata un ottimo bersaglio per i Redentori e che, nella confusione di una battaglia, non si poteva garantire la sicurezza di nessuno. Lei aveva ribattuto che la presenza di altre donne dei Ferrazzi avrebbe reso vergognosa la sua assenza, soprattutto perché quella guerra veniva combattuta anche per lei.

Insomma, quegli uomini stavano rischiando la vita per Arbell Ferrazzi e soltanto la viltà avrebbe spiegato la sua assenza. Quella discussione era continuata fino al giorno prima della battaglia e il Maresciallo aveva ceduto soltanto quando Narcisse aveva confermato le condizioni miserevoli e le dimensioni ridotte dell'armata dei Redentori, oltre alla sicurezza garantita da Silbury Hill. La collina, infatti, era troppo ripida per un assalto veloce ed era facile da difendere, con una via di fuga rapida e sicura. Le obiezioni di Cale non erano state ascoltate, ma lui aveva già previsto che, al minimo segnale di pericolo, avrebbe allontanato Arbell, anche usando la forza, se necessario. Ma quella mattina, nel vedere la disposizione degli schieramenti, la sua ansia si smorzò alquanto.

Il campo di battaglia era triangolare. Lui si trovava nell'angolo sinistro della base del triangolo e l'esercito dei Ferrazzi, di circa quarantacinquemila uomini, era distribuito lungo tutto il lato destro. I Redentori occupavano l'estremità del triangolo. Su entrambi i lati c'erano boschi fitti e quasi impenetrabili, di color nero bluastro, e in mezzo c'era un grosso campo, in gran parte arato di recente, ma con una striscia di stoppie giallo brillante che segnavano la posizione dei Ferrazzi. Secondo le loro valutazioni, la distanza tra gli eserciti era di circa novecento iarde.

«Quanti sono, secondo te?» chiese Cale a Henri, indicando i Redentori con un cenno del capo.

Lui rimase in silenzio per un bel po', quindi disse: «Almeno cinquemila arcieri e forse milletrecento soldati».

«Bisogna fare i complimenti a Narcisse», esclamò IdrisPukke, sbadigliando. «I Redentori non possono ritirarsi e, se attaccano in queste condizioni, saranno fatti a pezzi. Vado a fare colazione.»

Insieme con Kleist, si diresse da un anziano servitore che, col viso rosso Paul Hoffman

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come un'aragosta, era intento a soffiare su un fuoco. Accanto a lui, c'erano alcune uova marroni e un prosciutto affumicato grande come la zampa di un cavallo. Un setter rosso, che apparteneva a una delle donne dei Ferrazzi, li raggiunse, scodinzolando e sperando di essere invitato all'imminente pasto.

I due mangiarono di gusto, ignari del fatto che Narcisse non stava ricevendo complimenti da nessuno. Al contrario, era assediato dalle critiche. Senza dubbio, il suo piano aveva conquistato l'appoggio e l'ammirazione di uomini di grande esperienza e abilità militare, ma era sempre stato il Maresciallo Ferrazzi ad avere l'ultima parola sulle precedenze nel fronte di attacco, in osservanza a una tradizione che risaliva ad almeno vent'anni prima. E la sua sfortunata assenza dal campo di battaglia aveva riacceso antagonismi che non solo si pensavano ormai sepolti, ma che non potevano essere appianati da nessun altro. Inoltre Narcisse era stato obbligato a modificare il suo piano di battaglia in ben tre occasioni: non era una cosa strana - capitava anche ai generali più illustri -, tuttavia aveva portato ad assegnare posizioni essenziali ma di retroguardia a nobili di sangue reale che, in passato, avevano occupato un importante ruolo in prima linea. E per quei nobili, che avevano dedicato la vita alla gloria e alle prodezze militari e che definivano la propria esistenza in base alla posizione in battaglia, tutto ciò era equivalso a una brutale degradazione. Così, l'elemento cruciale e più intelligente del piano -

intrappolare i Redentori in una zona molto limitata - era diventato ben presto un problema: c'erano troppi nobili di grande esperienza, abilità e coraggio e non c'erano posizioni sufficienti per tutti. Inoltre ciascuno di loro era convinto - spesso a ragione - di essere l'uomo più adatto per un certo ruolo e che farsi da parte soltanto in nome del quieto vivere fosse un compromesso inaccettabile, anzi assai dannoso proprio all'impero che tutti loro volevano proteggere, anche a costo della vita e in virtù del proprio onore. Ognuno insomma sembrava avere un'argomentazione convincente e ben fondata. Ci sarebbero volute tutta l'abilità diplomatica del Maresciallo Ferrazzi e l'autorevolezza da lui accumulata negli anni per imporre una soluzione e, per quanto fosse competente, Narcisse non aveva né l'una né l'altra. Alla fine, aveva deciso che ciascuno dei nobili più potenti avrebbe comandato una sezione della prima linea, mentre gli altri - quelli di cui lui temeva meno le ritorsioni - avrebbero ricoperto incarichi secondari. Così facendo, però, la catena di comando si era complicata in modo atroce... ed Paul Hoffman

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era destinata a complicarsi ancora di più, giacché continuavano ad arrivare militari che pretendevano di rivestire un incarico adeguato nel grande ordine delle cose. L'unica consolazione di Narcisse era stato il pensiero che le difficoltà di Princeps erano infinitamente più semplici, ma anche infinitamente peggiori.

Fingendo di dover esaminare lo schieramento del nemico, abbandonò il quartier generale - che tutti chiamavano la Tenda Bianca - e le sue discussioni, ma proprio in quel momento notò Simon Ferrazzi, bardato con un'armatura completa e circondato da una dozzina di soldati che lo colmavano di smancerie: si stava esibendo, mostrando alcuni colpi di spada che aveva appena imparato. Narcisse prese in disparte uno scudiero e gli sussurrò: «Porta immediatamente l'idiota del Maresciallo nelle retrovie e fallo sorvegliare finché tutto non sarà finito. Ci manca solo che se ne vada in giro per il campo di battaglia e si faccia ammazzare!» Poi, per non rischiare, aspettò che il suo ordine fosse eseguito ed ebbe così modo di osservare la furia rabbiosa, ma impotente, di Simon. Koolhaus era andato a prendere dell'acqua e non aveva visto nulla.

Cale e Henri avevano continuato a studiare il campo di battaglia ma, per quanto discutessero di ciò che avrebbero fatto al posto di Princeps, né l'uno né l'altro era riuscito a formulare una valutazione migliore di quella di IdrisPukke. La loro ansia cominciò a smorzarsi.

«È il tuo piano, in realtà», disse Henri, guardando con ammirazione lo splendido schieramento di uomini bardati con le loro armature e i vessilli colorati.

«È la mia idea. Quello che vedi laggiù è la realizzazione pratica di Narcisse. Non è male. C'è un po' troppo affollamento, ma va bene lo stesso.» Poi, con notevole soddisfazione, immaginò il futuro nefasto che attendeva i Redentori e il suo sguardo si spinse verso di loro. Con odio misto a paura, notò che l'armata si stava organizzando in blocchi, separati in tre diverse unità da due piccoli reparti di cavalleria. Su entrambi i lati, a destra e a sinistra, poi, c'erano due schieramenti di arcieri. Quindi lanciò un'occhiata a Henri e comprese che pure lui stava provando gli stessi sentimenti.

Pur con tutte le cupe sensazioni che suscitavano in loro i Redentori, per Cale e Henri era chiaro che la loro posizione era terribile. Ormai avevano pochissimo cibo, erano infreddoliti e bagnati; infatti, quando cominciarono a muoversi, sotto i pallidi raggi del sole, dai loro corpi si levarono Paul Hoffman

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nuvolette di vapore. Per quelli colpiti dalla dissenteria, la situazione era ancora peggiore: senza possibilità di lasciare il campo di battaglia, avrebbero dovuto farsela addosso. Tutto ciò di fronte a un esercito ben rifornito, ben nutrito e di almeno dieci volte più grande. Sì, per i due ragazzi quella era una prospettiva di soddisfacente sgradevolezza.

Una parte dei Ferrazzi era stata approssimativamente suddivisa in due gruppi, ciascuno di ottomila uomini dotati di armatura completa, sebbene molti non l'avessero ancora indossata. Su entrambi i lati e dietro questi due fronti, c'erano altri milleduecento soldati corazzati a cavallo. Le prime linee dei Ferrazzi, però, non erano ancora state formate. Parecchi si erano seduti a mangiare e a bere e c'erano un bel po' di urla, cori e risate, oltre che manovre non ufficiali per conquistare la posizione migliore. Qualcuno stava arrostendo delle pecore e persino un cavallo e, dalle marmitte, si levavano lunghi pennacchi di vapore. Molti, però, erano troppo eccitati per sedersi sulle stoppie gialle con le gambe ancora scoperte e mangiavano in piedi; altri si bardavano, prendevano posizione e cercavano di avvicinarsi di più al fronte a forza di spintoni, però mai in modo così indisciplinato da degenerare in qualcosa di più violento.

Due ore dopo non era ancora successo nulla. Arbell, pallidissima, si unì a loro, accompagnata da IdrisPukke e da Kleist, che nel frattempo si erano rimpinzati per bene, e da Riba. Sebbene fosse smagrita, era ancora e sarebbe sempre stata molto diversa dalla sua padrona. Era più bassa di quasi otto pollici, scura, con gli occhi castani e tanto procace quanto la bionda Arbell era snella. Erano diverse come una colomba e un cigno.

Arbell chiese con ansia che cosa sarebbe accaduto. Tutti concordarono che i Ferrazzi facevano bene ad aspettare, perché, presto o tardi, Princeps sarebbe stato costretto ad attaccare. Da qualsiasi prospettiva la si considerasse, la posizione dei Redentori era disperata, commentò Cale, soddisfatto.

«Qualcuno ha visto Simon?» domandò Arbell.

«Sarà col Maresciallo...» rispose IdrisPukke. Negli ultimi tempi, infatti, Simon e il Maresciallo erano diventati inseparabili. «Quasi come padre e figlio», aveva scherzato Kleist, senza farsi sentire da Arbell.

Preoccupata, la giovane stava per mandare due servitori a cercare il fratello, quando un gruppo di cinque soldati a cavallo si avvicinò. Conn Ferrazzi era con loro. Dal loro scontro, non era mai stato così vicino a Cale.

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«Mi manda il generale Narcisse per controllare che siate al sicuro», disse Conn.

«Sì, sono al sicuro. Avete visto mio fratello?»

«L'ho visto circa un'ora fa. Era nella Tenda Bianca con quel buffone che traduce per lui.»

«Non avete nessun diritto di parlare di Koolhaus in questi termini.

Cercate Simon e, per favore, assicuratevi che venga mandato qui.» Poi si rivolse a due servitori e li mandò alla Tenda Bianca con le stesse istruzioni.

Per la prima volta, Conn Ferrazzi guardò Cale. «Dovresti essere al sicuro anche tu, qui, direi.»

Cale rimase in silenzio.

Allora Conn si rivolse a Kleist. «E tu? Se hai un po' più di coraggio di quello che serve per startene seduto qui e lasciare che combattiamo anche per te, ti troverò un posto in prima linea.»

Kleist sembrò interessato. «Va bene», rispose cordialmente. «Devo fare ancora un paio di cose, ma tu comincia ad andare avanti. Ti raggiungo tra qualche minuto.»

Conn non aveva un gran senso dell'umorismo, ma persino lui si rese conto che lo stava prendendo in giro. «Quantomeno i vostri disgustosi amici laggiù hanno il coraggio di combattere. Voi tre ve ne state qui e lasciate che combattiamo noi al posto vostro.»

Come se dovesse spiegare qualcosa a una persona non troppo sveglia, Kleist replicò: «Che senso ha abbaiare se hai un cane che può farlo al posto tuo?»

Ma Conn non era facile da prendere in giro o, meglio, il sarcasmo non faceva molta presa su di lui, perché era stato abituato fin dalla nascita ad avere un'enorme stima di sé. «Voi avete più motivi per combattere di chiunque di noi. Se pensate che sia divertente, non ho bisogno di sentire le battute di un cialtrone per capire di che pasta siete fatti.» Così, avendo avuto l'ultima parola, voltò il cavallo e se ne andò.

La verità era che quell'accusa aveva sortito un effetto assai limitato su Henri e non ne aveva avuto nessuno su Kleist ma, per Cale, aveva messo il dito nella piaga. La sua vittoria su Solomon Solomon gli aveva dimostrato che le sue abilità erano alla mercé di un terrore che poteva manifestarsi o dissolversi da un momento all'altro. A che serviva il suo talento se il panico poteva annientarlo? Sapeva benissimo cosa lo tratteneva lì: la Paul Hoffman

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consapevolezza che quella battaglia non fosse, in senso stretto, la sua battaglia, unita al senso del dovere e all'amore che gli imponevano di proteggere Arbell Ferrazzi; ma c'era anche il ricordo del tremito, della debolezza e delle budella che si torcevano; c'era l'orribile sensazione di essere spaventato e debole.

Nel frattempo, in cima a Silbury Hill, era arrivato un altro visitatore e la sua comparsa aveva causato un intrigante subbuglio tra le persone lì riunite. Benché fosse arrivato ai piedi della collina in carrozza, si era poi trasferito su una portantina coperta, di quelle che le dame usavano per percorrere le stradine del centro storico, dove le carrozze non passavano.

Otto uomini, chiaramente esausti per la salita, avevano trasportato la portantina e altri dieci facevano la guardia.

«E questo chi sarebbe?» chiese Cale a IdrisPukke.

«Be', non si può dire che io mi stupisca spesso, ma questa è una sorpresa», commentò l'altro.

«Quella è l'Arca dell'Alleanza?»

«Guarda in giù, non in su. Se il diavolo stesso fosse posseduto, sarebbe opera di questa creatura. È Kitty la Lepre.»

Cale restò opportunamente colpito e per qualche istante non disse nulla.

«Sembrano in gamba», mormorò poi, osservando le dieci guardie.

«Direi. Sono mercenari laconici. Probabilmente costano una cifra.»

«Che ci fa qui? Pensavo che facesse parlare di sé, ma senza farsi mai vedere.»

«Scherza, scherza... Se fai arrabbiare Kitty, lo rimpiangerai.

Probabilmente è venuto a tenere d'occhio i suoi investimenti. In più, oggi è un'occasione per essere testimoni di un pezzo di Storia, restando al sicuro.»

Lo sportello della portantina si aprì e ne scese un uomo.

Cale emise un gemito di delusione.

«Quello non è Kitty», borbottò IdrisPukke.

«Grazie a Dio. Belzebù deve avere un aspetto consono al suo ruolo», commentò Cale.

«A volte dimentico che sei ancora un ragazzino», disse IdrisPukke.

Indicò l'uomo e aggiunse: «Se mai avessi l'opportunità d'incontrarlo, quello lì, ricordati, caro il mio novellino, di trovarti un impegno urgente da qualche altra parte».

«Adesso sì che mi hai spaventato.»

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«Sei proprio un piccolo bastardo impertinente, eh? Quello è Daniel Cadbury. Cerca nel Dizionario generale del dottor Johnson: alla voce

'scagnozzo', troverai il suo nome, ma lo troverai anche sotto 'assassino',

'omicida' e 'ladro di pecore'. Un tipo affascinante, però. È così cortese che ti verrà da pensare che ti voglia prestare il suo buco del culo per cagare dalle costole.»

Mentre Cale stava cercando di decifrare quell'interessante affermazione, Cadbury si diresse verso di loro e sorrise. «Ne è passato di tempo, IdrisPukke. Ti stai dando da fare?»

«Salve, Cadbury. Eri di strada mentre andavi a strangolare un orfano?»

Cadbury continuò a sorridere, come se apprezzasse davvero la malignità nella voce di IdrisPukke. Poi, essendo piuttosto alto, guardò dall'alto in basso Cale, ma con aria di approvazione. «È un burlone, il tuo amico, eh?

Tu devi essere Cale», aggiunse, in un tono che sottintendeva qualcosa d'indefinibile. «Ero al Teatro Rosso quando hai fatto fuori Solomon Solomon. Non sarebbe potuto accadere a un tipo più simpatico. Niente male, giovanotto, niente male. Quando tutta questa sgradevole faccenda sarà finita, dobbiamo pranzare insieme.» E, con un inchino che mostrava rispetto a Cale, ma da parte di un suo pari, dal quale valeva la pena essere rispettati, l'uomo si voltò e tornò alla portantina.

«Sembra molto simpatico», commentò Cale, con l'intenzione di risultare irritante.

«E lo sarà sempre, fino al momento in cui sarà obbligato, col massimo rimpianto, a tagliarti la trachea», sibilò IdrisPukke.

In quel momento, Henri lanciò un grido. Nei ranghi dei Redentori c'era stato un movimento. I seimila arcieri e i millenovecento soldati avevano lentamente cominciato ad avanzare. Cinquanta iarde più in là, ai margini del campo irregolare che si estendeva fino allo schieramento dei Ferrazzi, si fermarono e la prima fila s'inginocchiò.

«Che cosa stanno combinando, in nome di Dio?» chiese IdrisPukke.

«Stanno raccogliendo un boccone di terra, per ricordare a se stessi che fango sono e in fango torneranno», rispose Cale.

Gli uomini della prima fila si alzarono e ripresero a camminare. Quelli della fila dietro di loro avanzarono, s'inginocchiarono, presero un boccone di terra e poi li seguirono. La scena si ripeté per varie volte. Nel giro di nemmeno cinque minuti, l'intera armata dei Redentori era tornata nella sua formazione da battaglia. I soldati camminavano lentamente, senza tenere il Paul Hoffman

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passo, sulla superficie irregolare. Ai Ferrazzi e agli osservatori in cima a Silbury Hill non restava che aspettare.

«Quando pensi che accelereranno per l'assalto?» chiese IdrisPukke.

«Non lo faranno», rispose Henri. «I Ferrazzi non usano arcieri, perciò la distanza letale è... vediamo... sei piedi? Non c'è nessuna fretta.»

Erano passati circa dieci minuti dall'inizio dell'avanzata e, dopo che avevano percorso circa settecento delle novecento iarde che li separavano dalla prima fila dei Ferrazzi, i Centenari dei Redentori - chiamati così perché ciascuno controllava cento uomini - lanciarono un grido. L'avanzata si arrestò.

Si levarono altre grida smorzate dei Centenari e gli arcieri e i soldati cominciarono a spostarsi lateralmente, occupando più spazio, in modo che la fila riempisse l'intera ampiezza del campo di battaglia. In meno di tre minuti, lo schieramento era completo: gli uomini erano a circa una iarda di distanza l'uno dall'altro. Le sette file dietro la prima erano sfalsate, come le caselle di una scacchiera, in modo che gli arcieri potessero vedere e tirare più facilmente sopra le teste degli uomini davanti a loro.

Da qualche minuto, era chiaro che ciascun Redentore portava un'arma che sembrava una lancia lunga circa sei piedi. Quando si fermarono, ormai molto più vicini, un altro fatto divenne chiaro: qualsiasi cosa fosse, quella

«cosa» era troppo spessa e pesante per essere una lancia. Ma bastò un ordine gridato dei Centenari per rendere evidente il suo scopo. All'istante, i Redentori cominciarono a piantare di sbieco nel terreno quei pali, servendosi di pesanti magli in forza a ciascun arciere. E continuarono a lungo.

«Perché stanno preparando uno steccato difensivo?» chiese IdrisPukke.

«Non lo so», rispose Cale. «E voi? Avete qualche idea?»

Kleist e Henri scossero la testa.

«Non ha senso. I Ferrazzi li hanno colti di sorpresa.» Cale guardò IdrisPukke con ansia. «Sei sicuro che i Ferrazzi non attaccheranno?»

«Perché dovrebbero gettare via un vantaggio simile?»

Nel frattempo, i Redentori si erano messi ad affilare le estremità dei pali.

«Cercano di provocarli ad attaccare», esclamò Cale, dopo qualche istante. Si voltò verso IdrisPukke. «Sono a portata di arco. Quattromila arcieri, sei frecce al minuto. Pensi che i Ferrazzi sapranno resistere a ventiquattromila frecce che piombano su di loro ogni sessanta secondi?»

IdrisPukke inspirò sonoramente e rifletté: «Duecentocinquanta iarde è Paul Hoffman

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una bella distanza. Non importa quanti sono. Ognuno dei Ferrazzi è coperto dalla testa ai piedi da un'armatura d'acciaio. Non è ancora stata realizzata una freccia che possa penetrare l'acciaio temprato da una tale distanza. Non posso dire che mi piacerebbe essere sotto una pioggia di frecce come quella, ma i Redentori saranno fortunati se una su cento andrà a segno. E non avranno abbastanza frecce, al massimo due dozzine a testa, per mantenere quel ritmo a lungo. Se questo è il loro piano...» IdrisPukke scrollò le spalle, come a dire che gli sembrava un'idea destinata al fallimento.

Cale guardò un gruppo di cinque segnalatori dei Ferrazzi, che a loro volta osservavano i Redentori dal punto panoramico di Silbury Hill. Uno di loro stava scendendo la collina per portare la notizia dei pali difensivi, dato che sarebbe stato difficile vederli dalla prima linea dei Ferrazzi. C'era voluto un po' di tempo perché capissero che cosa stavano facendo i Redentori coi pali e se fosse una cosa abbastanza importante da mandare un messaggero.

Dopo aver atteso che il messaggero scomparisse oltre il bordo della collina, Cale si voltò di nuovo verso i Redentori. Una dozzina di uomini stava sollevando bandiere bianche con l'immagine del Redentore Impiccato dipinta in rosso.

I Centenari diedero l'ordine di prendere la mira. Erano troppo lontani per cogliere esattamente le parole, ma il senso dell'ordine risultò ovvio quando le migliaia di arcieri tirarono la corda delle loro armi, puntandole in alto.

Ci fu una breve pausa poi, dopo un ennesimo ordine gridato dai Centenari, le bandiere caddero. Quattro nuvole di frecce descrissero un arco di cento piedi nell'aria, puntando verso la prima fila dei nemici.

In tre secondi, avevano raggiunto i Ferrazzi, che abbassarono la testa per deviare le punte. Cinquemila frecce andarono a segno, sibilando e facendo un gran baccano mentre rimbalzavano sulle armature. I Ferrazzi si chinarono sotto quella pioggia d'acciaio, come se fosse una raffica di vento e grandine. Dai lati, giunsero le urla dei cavalli colpiti. Altre cinquemila frecce si abbatterono sui soldati e, dieci secondi dopo, fu la volta di altre cinquemila. La pioggia di frecce continuò per due minuti. Pochi Ferrazzi morirono; soltanto qualcuno in più restò ferito.

IdrisPukke aveva ragione per quanto riguardava le armature, pensò Cale.

Ma pensate al rumore, all'infinito clangore del metallo, alla breve attesa, alla nuova raffica di frecce, alle urla dei cavalli, alle grida degli sfortunati Paul Hoffman

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colpiti in un occhio o sul collo e al fatto che nessuno di loro aveva mai dovuto sopportare un attacco così terrificante e ostile. Che senso aveva starsene lì a prendersi le frecce tirate da un qualche fanatico grezzo e codardo, senza la capacità o il coraggio di combattere a faccia a faccia?

Fu la cavalleria ai lati che ruppe le file, il lato sinistro per primo. Tutto cominciò con la caduta dei portabandiere. Era un segnale? Difficile capirlo, con quei cavalli in preda al panico e pronti a scappare, e con solo una fessura per gli occhi dalla quale vedere cosa stava succedendo all'intorno.

Tre cavalli scattarono in avanti, spaventati. Era una carica? Nessuno voleva essere scambiato per un codardo, restando indietro. Così, proprio come succede agli atleti attenti e tesi nel caso di una falsa partenza, tutti scattarono in avanti. Le grida provenienti dalle retrovie che ingiungevano di mantenere la posizione si persero nel rumore. Poi ricominciarono a piovere le frecce. All'improvviso i cavalli sulla sinistra scattarono in avanti, per impazienza, furia, paura e confusione.

Narcisse, che osservava tutto dalla Tenda Bianca, imprecò tanto da sembrare sul punto di scoppiare. Ma ben presto si rese conto che non poteva farli tornare indietro. Sventolò le insegne per indicare al fianco destro della cavalleria di attaccare a sua volta. Solo allora arrivò il messaggero da Silbury Hill e lo avvertì del porcospino di pali appuntiti conficcati tra gli arcieri.

Sulla collina, Cale, inorridito e incredulo, fissò la cavalleria che avanzava e i cavalieri che spronavano i cavalli per formare una linea. Ben presto si disposero su tre file, a ginocchio a ginocchio, su un'ampiezza di trecento iarde, per eguagliare lo schieramento degli arcieri che li fronteggiavano. All'inizio, non erano molto più veloci di un uomo che corre: stavano in piedi sulle staffe, serravano le lance sotto il braccio destro e stringevano le redini con la sinistra. Per duecento iarde, per quaranta secondi, mantennero quel passo, sopportando la pioggia di ventimila frecce. Poi arrivarono le ultime cinquanta iarde: duemila unità composte da uomo, bestia e acciaio, lanciate alla carica per abbattere gli arcieri. Gli arcieri, che sentivano ancora in bocca il gusto del fango mescolato alla paura, sganciarono un'altra nuvola di frecce. Altri cavalli urlarono e caddero, schiacciando i loro cavalieri, spezzando schiene, trascinando con sé le bestie vicine mentre crollavano. Ma il fronte avanzava.

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Poi arrivò lo scontro.

Nessun cavallo travolgerebbe deliberatamente un uomo o affronterebbe una barricata che non può saltare. Nessun uomo sano di mente se ne starebbe lì, immobile, a farsi investire da un cavallo imbizzarrito e a farsi trafiggere da una lancia. Ma gli uomini a volte scelgono la morte, mentre le bestie no. Gli uomini possono essere addestrati a morire.

Proprio mentre sembrava che i cavalli stessero per abbattersi su di loro come un'onda travolgente, gli arcieri indietreggiarono e si rifugiarono rapidamente tra i pali affilati. Alcuni scivolarono, altri furono troppo lenti e vennero travolti o trafitti dalle lance. Numerosi cavalli arrivarono troppo velocemente sui pali e non poterono scartare, finendo impalati; le loro furono urla da fine del mondo e i cavalieri disarcionati si spezzarono il collo. Mentre erano distesi nel fango e si dimenavano come pesci, i Redentori li finirono a colpi di maglio. In certi casi, un Redentore li teneva fermi, mentre l'altro li pugnalava tra le giunture dell'armatura, tingendo di rosso il fango.

Quasi tutti i cavalli rifiutarono di scontrarsi con gli ostacoli. Alcuni scivolarono, disarcionando i cavalieri. Altri cavalieri riuscirono a rimanere in sella mentre la grande carica si fermava in un istante, rivoltandosi su se stessa. I cavalli si scontrarono tra loro e gli uomini volarono a terra, finendo tra la vegetazione. I soldati imprecavano, i cavalli nitrivano, e la paura rendeva entrambi grandi e pesanti la metà e li induceva a scappare verso la sicurezza delle retrovie. Gli uomini caddero a centinaia: nel giro di un istante, gli arcieri nemici spuntavano da dietro i pali coi loro magli e colpivano i cavalieri storditi sulla testa e sul petto, con mazzate devastanti.

C'erano tre Redentori con le sottane infangate per ogni cavaliere dei Ferrazzi che cercava di rialzarsi o di sguainare la spada, mentre veniva spinto, fatto scivolare, sgambettato e accoltellato attraverso le fessure degli occhi e le giunture dell'armatura. Più indietro, tra i pali appuntiti come aculei di porcospino, gli arcieri, ormai irosi e senza paura, sganciarono le loro frecce sui cavalieri in ritirata. Alcuni cavalli feriti caddero, altri s'imbizzarrirono.

Ma il peggio doveva ancora venire. Per appoggiare la cavalleria, il generale non poté fare a meno di mandare in avanti la prima linea dei suoi soldati. Diecimila uomini disposti su otto file erano già a metà strada verso il fronte dei Redentori quando la cavalleria, in ritirata, coi cavalli terrorizzati e impazziti per la paura e le ferite, si abbatté su di loro.

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Accalcati e bloccati dai fitti boschi su entrambi i lati e dalle file di soldati alle loro spalle, non riuscirono a farsi da parte per lasciar passare i cavalli lanciati al galoppo. E, nel disperato tentativo di evitare lo scontro mortale, i soldati cominciarono a spingere di lato, scontrandosi tra loro, cercando di farsi largo, aggrappandosi ai vicini, innescando onde che si diffondevano all'indietro e di lato a mano a mano che cadevano.

Così l'avanzata fu bloccata su tutta la linea. Gli uomini scivolavano nel fango calpestato e ricalpestato, imprecavano e si trascinavano giù a vicenda. Gli arcieri dei Redentori, che avevano avuto il tempo di riorganizzarsi, sganciarono un'ultima nuvola di frecce. Stavolta, però, coi Ferrazzi fermi e a meno di ottanta iarde di distanza, le punte delle frecce riuscivano a penetrare persino nell'acciaio delle armature, se lo colpivano con l'angolazione giusta.

Anche se solo qualche centinaio di uomini venne schiacciato dai cavalli in fuga o ferito dalle frecce, furono migliaia i soldati che ripiegarono su se stessi, prima che i sergenti e i capitani, gridando e sbraitando, li rimettessero in linea e l'avanzata potesse ricominciare. Anche se erano sconvolti dal disordine generale e dallo sforzo di camminare trascinandosi appresso sessanta libbre di armatura per trecento iarde in mezzo al fango, il loro attacco riprese slancio e potenza. Cinquanta iarde. Venti. Dieci.

Nell'ultimo tratto, si misero a correre, puntando le lance verso il petto degli avversari.

Ma, al momento dell'impatto, i Redentori indietreggiarono rapidamente di qualche iarda, tutti insieme, come una cosa sola, sbilanciando i nemici nella loro spinta offensiva. Ancora una volta, il fronte dei Ferrazzi si spezzò: alcuni avanzarono e altri rimasero indietro. E ciò bloccò di nuovo lo slancio dell'avanzata.

A quel punto, però, nonostante tutta quella confusione, i Ferrazzi sapevano con certezza che avrebbero vinto. Avevano le armature, erano i più grandi soldati del mondo e finalmente erano a faccia a faccia col nemico, cinque a uno. Convinti della vittoria, proseguirono nella loro avanzata. Oltre alle grida e al vocio degli uomini, risuonavano nell'aria i colpi delle lance e i grugniti dei Ferrazzi, accalcati in alcuni punti anche su venti file, tutti intenti a spingere per arrivare al centro dell'azione e dell'onore. Ma soltanto i Ferrazzi in prima linea riuscivano a combattere.

Meno di mille uomini potevano assestare un colpo in un determinato momento. I Redentori, essendo in numero più esiguo, avevano spazio di Paul Hoffman

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manovra, per entrare e uscire dalla zona letale che si estendeva per una dozzina di piedi circa. Incapaci di avanzare, i Ferrazzi in prima linea venivano spinti e schiacciati dai compagni alle loro spalle e, ancor peggio, anche da una dozzina di file più indietro. Chi stava nelle retroguardie non aveva idea di cosa stesse accadendo in prima linea e continuava a spingere in avanti e lo stesso facevano quelli che stavano in mezzo. La pressione crebbe, come in una reazione a catena. I soldati in prima linea cercavano di evitare i colpi e di spostarsi di lato o persino d'indietreggiare quando i Redentori li attaccavano, ma non trovavano spazio.

Quindi la pressione proveniente da dietro li sospinse con una forza irresistibile incontro alle lance e ai colpi di maglio. Alcuni caddero, feriti; altri, incapaci di mantenere l'equilibrio tra le spinte e il fango viscido, scivolarono, trascinando con sé anche chi stava dietro di loro e così via.

Nel tentativo di scontrarsi coi nemici, i Ferrazzi delle file centrali cercarono di scavalcare i compagni caduti davanti a loro. Ma, che lo volessero o no, lo slancio degli uomini alle loro spalle - che non vedevano nulla - li costrinse a calpestare i compagni. Parecchi slittarono e caddero a loro volta, per via del fango o perché gli uomini a terra, agitandosi e dimenandosi, avevano fatto perdere loro l'equilibrio. A che servivano le loro armature se non avevano spazio per muoversi? Erano soltanto d'ingombro mentre cercavano di rialzarsi o arrancavano sopra due o tre strati di corpi. E intanto i fendenti e i colpi dei nemici continuavano ad arrivare.

Anche se cadevano, i Redentori potevano facilmente rialzarsi o essere aiutati. Nel giro di tre o quattro minuti, si formò un muro costituito da corpi dei Ferrazzi, un muro che proteggeva i Redentori e impediva l'attacco, mentre continuava la spinta dalle retrovie, così lontane che nessuno da lì riusciva a vedere cosa stesse succedendo davanti. Gli uomini delle ultime file interpretavano ogni crollo della prima linea come un avanzamento e così erano incoraggiati a spingere ancora di più. Pochi Ferrazzi ammucchiati a terra erano morti o feriti in modo grave ma, nella calca e nel fango, era difficile che un cavaliere riuscisse a risollevarsi da solo, una volta caduto. Con un altro sopra di lui, gli era quasi impossibile muoversi. Bastava un terzo per renderlo indifeso come un bambino.

Immaginate la rabbia e la paura, gli anni di addestramento, le battaglie e le cicatrici... per poi ridursi a morire schiacciati o ad aspettare nel fango che una specie di contadino ti sfondasse il petto o ti accoltellasse attraverso la Paul Hoffman

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fessura per gli occhi dell'elmo o la giuntura dell'armatura sotto il braccio.

Che angoscia, che terrore, che impotenza! E, a tutto ciò, si aggiungeva il terribile slancio dalle retrovie: venti file di Ferrazzi convinti della vittoria e ansiosi di dare il proprio contributo prima che la battaglia fosse vinta.

Dietro il campo di battaglia erano posizionati i messaggeri, che aspettavano avidamente notizie. Incapaci di vedere il disastro in atto e di capire che la battaglia era perduta, mandavano a dire che la vittoria era vicina e chiedevano rinforzi per suggellare quella giornata gloriosa.

Alla Tenda Bianca giungevano notizie contrastanti da Silbury Hill, dove il crollo della prima linea era chiaramente visibile. In quel luogo, però, soltanto i ragazzi e IdrisPukke erano in grado di comprendere davvero la catastrofe che si stava consumando sotto i loro occhi. Gli osservatori, incerti e insicuri, non si azzardavano a consigliare la ritirata ai Ferrazzi.

Anzitutto era una cosa impensabile; in secondo luogo, temevano di sbagliarsi. Così scrivevano messaggi allarmanti, ma temperati da «se» e da

«ma». Così Narcisse riceveva sia le richieste di rinforzi per concludere la giornata, sia i desolati resoconti degli osservatori di Silbury Hill, per quanto moderati dalla cautela e dal rifiuto di ammettere la sconfitta. Aveva puntato quasi tutte le sue forze in un unico attacco contro nemici malati, indeboliti e insufficientemente armati. L'esercito dei Ferrazzi era il più grande del mondo e non perdeva una battaglia da vent'anni. La sconfitta non aveva senso. Per quanto allarmato dai messaggi provenienti da Silbury Hill, quindi, il generale ordinò di mandare all'attacco anche il secondo schieramento di soldati.

Quando i ragazzi e IdrisPukke scorsero la seconda linea avanzare verso il fronte della battaglia, lanciarono un grido d'incredulità, di stupore e di rabbia.

«Che sta succedendo?» chiese Arbell a Cale.

Lui alzò una mano ed emise un lamento. «Non vedi? La battaglia è persa. Quegli uomini stanno andando alla morte. E chi proteggerà Memphis una volta che i loro corpi marciranno in quel campo?»

«No, ti sbagli. Dimmi che non è così! Non può essere così terribile!»

«Guarda tu stessa», le disse lui, indicando il fronte della battaglia.

Migliaia di arcieri dei Redentori stavano già circondando i Ferrazzi, falciandoli con le pertiche e i magli; cadevano come tessere del domino.

«Dobbiamo andarcene», mormorò. Poi chiamò il palafreniere di Arbell:

«Roland! Prendi il suo cavallo! Subito!» Infine, in preda a un'angoscia Paul Hoffman

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tremenda, urlò: «Mio Dio! Non ci crederei se non lo vedessi coi miei occhi!»

Fece un cenno a Henri e Kleist e s'incamminarono verso le tende. Ma una sagoma zoppicante e senza fiato si parò davanti a loro. «Aspettate!»

gridò. Era Koolhaus, accaldato e agitato. «Mademoiselle! Vostro fratello, Simon... mi ha seminato mentre eravamo nelle retrovie a guardare la cavalleria. Credevo di averlo soltanto perso di vista per qualche istante nella calca ma, quando sono tornato nella sua tenda, l'armatura che vostro padre gli aveva regalato per il suo compleanno era scomparsa. Un'ora fa, Simon era con Lord Parson, e quel maledetto scherzava con lui, dicendogli che lo avrebbe portato con sé nel primo attacco.» Rimase in silenzio per qualche istante, poi aggiunse: «Penso che sia laggiù, nella battaglia».

«Come avete potuto essere così sconsiderato?» gridò Arbell, poi si rivolse subito a Cale. «Per favore, trovalo. Riportalo indietro.»

Ma Cale era troppo sbalordito per reagire.

Kleist, invece, non lo era affatto. «Se li volete entrambi morti, questo è il modo migliore.» Fece cenno ad Arbell di guardare la battaglia. «Tra qualche minuto, laggiù ci saranno venticinquemila uomini, tutti accalcati in un campo di patate. I Redentori hanno già vinto. Nelle prossime due ore, non vedremo altro che uomini uccisi. E voi volete mandarlo laggiù? Sarà come cercare un ago in un pagliaio... e in un pagliaio in fiamme, per di più.»

Fu come se lei non avesse sentito nemmeno una parola: Guardò Cale negli occhi, disperata e implorante. «Ti prego, aiutalo.»

«Kleist ha ragione», intervenne Henri. «Qualsiasi cosa succeda a Simon, non possiamo farci niente.»

Di nuovo, lei ignorò quell'obiezione, continuando a fissare Cale. Poi, lentamente, disperata, abbassò lo sguardo. «Capisco», mormorò.

Una parola, e fu come se lei lo avesse accoltellato al cuore. Per Cale, quello era il suono della fiducia persa e gli risultava insopportabile. Sapeva di essere diventato una specie di dio ai suoi occhi e gli era semplicemente impossibile rinunciare alla sua adorazione.

In tutto quel tempo, Riba aveva tenuto la bocca chiusa, sperando di poter contare sugli altri per fermare Cale. Ma sapeva che, quando si trattava di Arbell, il buonsenso per quel giovane non esisteva più. Sebbene per certi versi temesse il suo strano salvatore, brusco e indifferente con lei se gli passava accanto durante lo svolgimento dei suoi doveri quotidiani, da mesi Paul Hoffman

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Riba aveva notato che in lui c'era pure una sorta di follia e che, a scatenarla, era stata Arbell. «Non farlo, Thomas», gli disse, col tono severo di una madre.

Arbell la guardò, sconvolta e nel contempo indispettita che una serva la contraddicesse in quel modo. Ma, avendo tutti contro, non se la sentì di zittire Riba o di dire qualcosa.

Comunque non fece differenza. Cale sembrò non averla nemmeno udita.

Con un tuffo al cuore, si voltò a osservare la battaglia che ormai si stava disfacendo. Poi guardò Henri e Kleist. «Copritemi come meglio potete, ma non aspettate fino all'ultimo momento per trarvi in salvo.»

«Non ne avevo la minima intenzione», replicò Kleist.

Cale rise. «Ricordatevi: se uno di voi mi colpisce, io saprò chi è stato.»

«Se sarò io, non credo proprio.»

«Tornate a Memphis con le guardie di Arbell. Io vi raggiungerò non appena possibile.»

I due corsero alla tenda a prendere le armi.

Cale trasse in disparte IdrisPukke. «Se le cose si mettono male, rifugiatevi a Treetops.»

«Non ti conviene andare laggiù, ragazzo», gli mormorò l'uomo.

«Lo so.»

Henri e Kleist tornarono armati e cominciarono a prepararsi. IdrisPukke ordinò a uno degli scudieri di Arbell di togliersi l'abito ufficiale, una camicia coperta di draghi blu e dorati, sulla quale era ricamato il motto della famiglia Ferrazzi: MEGLIO MORIRE CHE CAMBIARE. Poi consegnò la camicia a Cale. «Se scendi come sei, ti attaccheranno tutti. Se indossi questa, almeno i Ferrazzi ti lasceranno in pace.»

«E, se ti catturano, forse si renderanno conto di poter ottenere un grosso riscatto», aggiunse Arbell.

Kleist quasi ululò, come se fosse la battuta più divertente che avesse mai sentito.

«Lasciala in pace», disse Cale.

«Preoccupati per te, amico. Non credo che lei avrà problemi.»

Cale si diresse verso il bordo della collina e scese il ripido pendio quasi di corsa. In meno di un minuto, era sul campo di battaglia. Davanti a lui, il secondo schieramento di Ferrazzi stava già avanzando verso la brutale carneficina del primo attacco: altri ottomila uomini accalcati in uno spazio troppo piccolo anche per la metà. I Redentori si stavano già portando sulle Paul Hoffman

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fasce laterali per intrappolare i nuovi arrivati. I rinforzi non facevano che offrire loro più soldati immobili da falciare con tutta calma.

I ranghi serrati dei militari si erano frammentati qua e là ed esercitavano una notevole pressione, aggirando gli enormi cumuli umani, alcuni alti addirittura dieci piedi, simili a un mare che fluisce attorno agli scogli. Cale si mise a correre, e ben presto raggiunse le retrovie dei Ferrazzi. A differenza di quand'era sulla collina, da lì non aveva nessuna percezione di ciò che stava accadendo. Alcuni soldati erano incerti e non si muovevano, altri spingevano in avanti. Soltanto perché l'aveva visto dall'alto, Cale sapeva che in prima linea e nelle fasce laterali era in atto un massacro.

Laggiù non c'era nemmeno molto rumore: soltanto gruppi di soldati che avanzavano, cambiavano direzione quando vedevano un varco oppure, dopo l'ennesima caduta nelle prime file, spingevano in avanti, pensando di aver aperto un'altra breccia nello schieramento dei Redentori. Così migliaia di uomini un po' impazienti, sperando di non perdersi il meglio della battaglia, si avviavano lentamente verso una morte orribile.

Cale corse avanti e indietro in cerca di Simon, ma era un compito disperato, proprio come aveva previsto Kleist. Mentre scendeva da Silbury Hill, si era illuso di poter fare qualcosa, ma adesso non gli restava che la disperazione. Non avrebbe mai trovato Simon; né lui vivo né il suo cadavere. Poteva morire laggiù oppure tornare da Arbell, ammettendo la propria sconfitta. Lei poteva anche rassegnarsi, ammettendo che l'impresa di Cale era comunque disperata, ma lui non lo voleva. Non intendeva rinunciare alla sua adorazione.

Poi dovette preoccuparsi di altre cose. Una ventina di Redentori spuntò ai lati di una linea di Ferrazzi che spingeva in avanti. A gruppi di tre, attaccavano gli uomini che cercavano di avanzare verso il fronte principale della battaglia. Il primo li faceva inciampare con una lunga roncola, il secondo li colpiva con uno dei pesanti magli usati per conficcare i pali nel terreno e il terzo li accoltellava. Nella calca e nel fango, non aspettandosi un attacco di quel genere, soldati che, altrove, sarebbero stati quasi invulnerabili scivolavano, cadevano e venivano uccisi mentre si dimenavano nel fango, impotenti come neonati.

Poi un gruppo di Redentori vide Cale e si dispose per attaccarlo su tre lati. Una freccia colpì in un occhio quello alla sua sinistra, un dardo quello alla sua destra. Il primo cadde in silenzio, il secondo urlando e battendosi il petto. Il terzo aveva ancora un'espressione sbalordita quando Cale lo Paul Hoffman

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colpì sul collo, tagliandogli la gola. Cadde nel fango, dibattendosi accanto al Lord delle Sei Contee che aveva massacrato solo qualche secondo prima. Poi Cale si ritrovò in un secondo combattimento: bloccò il braccio del suo aggressore, gli assestò una potente testata in faccia e infine lo accoltellò abilmente al cuore. Un Redentore con la roncola cadde a bocca aperta, colpito da uno dei dardi di Henri, ma la freccia di Kleist entrò soltanto nel braccio di quello che reggeva il maglio. La fortuna dell'uomo però non durò più di due secondi, perché Cale, scivolando nel fango, sbagliò il colpo letale e lo trafisse nella pancia. Il Redentore cadde, urlando, e soffrì atrocemente per ore prima di morire. Poi un'altra ondata di uomini respinse i Redentori rimasti e Cale restò dov'era, coperto di sangue, impotente, non sapendo da che parte girarsi. Tutte le sue abilità non erano nulla nella calca e nella confusione. Era soltanto un ragazzo in una ressa di uomini agonizzanti.

Poi, proprio mentre stava per andarsene, sessanta file più avanti di lui, ci fu un altro crollo, il più grande fino a quel momento. Si aprì un varco verso la prima linea. Cale esitò, terrorizzato, sapendo che quella breccia era come le fauci della morte che minacciavano d'inghiottirlo. Ma la paura di fallire agli occhi della sua innamorata lo sospinse verso quell'apertura e, dato che riuscì a correre più velocemente degli uomini corazzati che scivolavano attorno a lui, arrivò a meno di dodici piedi dal fronte. Tuttavia non vi trovò altro che un muro impenetrabile di Ferrazzi morti e morenti.

Nessuno dei soldati davanti a lui era ferito: erano semplicemente caduti l'uno sopra l'altro e il peso di quelli che stavano sopra e che spingevano da dietro li stava schiacciando. Per qualche istante, non ci furono altro che i mucchi di corpi e uno strano gemito sommesso. Alcuni avevano perso l'elmo, altri, intrappolati, ma con una mano libera, se l'erano tolto in un disperato tentativo di respirare. I loro volti erano paonazzi, alcuni quasi neri, mentre gemevano ed emettevano orribili sibili nel tentativo di riempire i polmoni d'aria, ma il loro petto schiacciato non lasciava passare nulla. Cale li vedeva smettere di respirare e rimanere a bocca spalancata, come pesci sulla sponda di un fiume. Molti gli parlarono, con orribili sussurri: «Aiuto! Aiuto!»

Lui cercò di liberarne un paio, ma era come se fossero cementati nella farina di riso e nel calcestruzzo delle pareti del Santuario. Distolse lo sguardo e sondò i mucchi di cadaveri e soldati morenti che gemevano tutt'attorno.

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«Aiuto!» fece una voce stridula.

Lui abbassò lo sguardo e scorse un giovane col volto di un orribile colore violaceo.

«Aiuto!»

Cale distolse lo sguardo.

«Cale! Aiutami!»

Sgomento, si voltò e allora, nonostante il gonfiore e il colore orribile del suo viso, lo riconobbe. Era Conn Ferrazzi. Una freccia gli sibilò accanto all'orecchio destro e rimbalzò con un suono metallico quando colpì l'armatura di uno dei cadaveri. Cale si accovacciò. «Ti posso finire rapidamente. Sì o no?»

Conn non diede a vedere di aver sentito. «Aiutami! Aiutami!» ansimò, con un suono orribile e stridente. Vedendo le condizioni terribili in cui versava quel giovane che lui aveva conosciuto, a Cale apparve ancora più evidente quanto fosse orribile e inutile essere lì. Guardando alle proprie spalle, vedeva che il varco si stava richiudendo e che i Redentori stavano costringendo i Ferrazzi delle fasce laterali a spostarsi al centro. Si alzò, pronto a scappare.

«Aiutami!»

C'era qualcosa nello sguardo del giovane che gli fece venire i brividi.

Era orrore, disperazione... Cale affondò le mani nel mucchio di cadaveri e cercò di sollevare Conn con tutta la forza che aveva, raddoppiata dalla rabbia e dalla paura. Ma il ragazzo era bloccato, con un altro sotto di lui e tre sopra: mille libbre di peso morto e acciaio. Tirò ancora. Nulla. «Mi spiace, amico. È scaduto il tempo», gli disse.

Poi venne mandato a gambe all'aria da una potente spinta nella schiena.

Spaventato e sorpreso, cercò di sguainare la spada e di trovare un appiglio nel fango, per sfuggire al suo aggressore. Ma si trattava di un cavallo, che lo guardò, sbuffando, speranzoso. Cale lo fissò. Il suo cavaliere era morto e l'animale stava cercando qualcuno che lo conducesse lontano dal campo di battaglia. Cale afferrò subito la cavezza, la annodò attorno al robusto pomello della sella e poi si affrettò a legarla attorno al petto di Conn, passandogliela sotto le ascelle. Il volto del giovane Ferrazzi era quasi nero e gli occhi sembravano spenti. Per fortuna la corda era sottile, ma molto resistente, più da cerimonia che da uso pratico, e non fu difficile spingerla sotto un braccio e poi sotto l'altro. Disperato, Cale la legò come non aveva mai legato una corda in vita sua, poi cadde nel fango, mentre cercava di Paul Hoffman

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montare a cavallo. Allora, più disperato che mai, afferrò il pomo della sella e, vedendo il varco chiudersi, gridò nell'orecchio del cavallo. Spaventato, l'animale partì di scatto, scivolando nel fango e rischiando di cadere, ma riuscendo infine a far presa sul terreno, mentre tirava con tutta la forza di una bestia abituata a portare in groppa trecento libbre. All'inizio, non successe nulla; poi Conn venne estratto dal mucchio di cadaveri, mentre la sua gamba destra si spezzava con un suono secco. L'impeto del movimento rischiò ancora una volta di far cadere il cavallo e di far perdere la presa a Cale, ma poi i tre partirono, diretti verso il varco, a non più di cinque miglia all'ora. Tuttavia il cavallo era forte e ben addestrato e, nonostante la catastrofe che li circondava, era felice di avere un cavaliere in groppa.

L'istinto che aveva salvato l'animale mentre vagava per il campo di battaglia nel bel mezzo di un massacro continuò ad aiutarlo. Cale teneva la testa bassa e il corpo il più possibile appiattito sull'animale, pronto a estrarre il coltello e a sganciare Conn se fosse rimasto incastrato, minacciando di farli cadere. Ma il fango che aveva provocato la morte di tanti Ferrazzi e che ne avrebbe ucciso molti altri fu il salvatore di Conn.

Privo di sensi, il giovane si accasciava in qualsiasi direzione venisse trascinato, quasi come una slitta nella neve. Cale teneva la testa bassa e spronava il cavallo coi piedi, ignaro del fatto che due Redentori stavano andando incontro all'animale. Comunque non li vide neppure cadere, urlando all'unisono per l'orrore e l'angoscia, falciati da Kleist e da Henri, che vigilavano, impassibili.

In meno di tre minuti, il cavallo aveva attraversato la massa di uomini sospinti verso il centro del campo; senza troppi drammi o cerimonie lasciò il campo di battaglia, sbatacchiando Cale e trascinando l'incosciente Conn in uno stretto sentiero tra Silbury Hill e gli impenetrabili boschi che delimitavano la battaglia. Quando nessuno poteva più vederli, Cale fermò il cavallo e scese per dare un'occhiata a Conn. Sembrava morto, ma respirava. Gli tolse rapidamente l'armatura e, con grande difficoltà, lo caricò a pancia in giù sulla sella, mentre lui gemeva e gridava per il dolore provocato dalle fratture alle costole e alla gamba destra. Cale avanzò a piedi, condusse il cavallo e, in breve, il suono della battaglia era svanito, rimpiazzato da quello dei merli e del vento che faceva frusciare le foglie del bosco.

Un'ora dopo, Cale fu assalito da un'improvvisa ondata di stanchezza.

Cercò un accesso al bosco e, non riuscendo a trovare un passaggio nei rovi Paul Hoffman

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tra gli alberi, dovette aprirsi un varco con la spada, coprendosi di graffi sul viso e sulle braccia. Una volta superati i margini del bosco, tuttavia, i cespugli cedettero il passo a un tappeto di foglie secche. Allora legò il cavallo e, con grande attenzione, depose a terra Conn. Rimase per un po' a fissarlo, come se non riuscisse a capire cosa li avesse condotti, insieme, in quel luogo, quindi gli raddrizzò la gamba con la massima delicatezza e la steccò con due rami che aveva tagliato da un frassino. Infine si distese e si addormentò subito.

Fu un sonno profondo e terribile. Si svegliò due ore dopo, quando gli incubi divennero insopportabili. Conn Ferrazzi era privo di sensi, pallido come la morte. Cale sapeva di dover trovare almeno un po' d'acqua, ma era ancora esausto e rimase seduto, in una sorta di terribile trance. Ben presto, tuttavia, Conn si mise a gemere e a muoversi. Si svegliò e vide Cale che lo fissava. Allora urlò, in preda all'orrore e alla confusione.

«Calmati, va tutto bene.»

Esterrefatto e atterrito, Conn cercò d'indietreggiare, allontanandosi da Cale, ma quel gesto gli strappò un grido di dolore.

«Al tuo posto non cercherei di muovermi. Ti sei rotto il femore», spiegò Cale.

Per un paio di minuti, Conn non disse nulla, mentre il terribile dolore alla gamba diminuiva lentamente. «Che cos'è successo?» chiese infine.

Cale gli raccontò tutto. Quando ebbe terminato, Conn rimase a lungo in silenzio, poi mormorò: «Il fatto è che non ho mai visto un Redentore.

Nemmeno uno... C'è dell'acqua?»

Le condizioni disperate di Conn cominciavano a suscitare in Cale un misto di pietà e irritazione. «Ho visto del fumo poco prima di arrivare qui.

Ieri mi è sembrato di sentire che c'è un villaggio vicino alla collina.

Tornerò non appena possibile.»

Tolse l'armatura al cavallo e tagliò quanto poté della cotta di maglia che gli ricopriva la schiena e i fianchi, poi lo condusse sul sentiero. Infine montò in groppa al destriero e gli accarezzò la testa. «Grazie», gli disse.

Quindi prese a cavalcare.

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