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Cale piombò in un sonno profondo proprio mentre il sole sorgeva e le gravi parole di Henri gli riecheggiavano nelle orecchie. Si risvegliò quindici ore dopo, ma a riecheggiare nelle sue orecchie erano le campane della chiesa. Il suono, però, non era uno scampanio melodioso che richiamava anche i fedeli meno entusiasti di Memphis; era piuttosto il clangore sfrenato e chiassoso di un allarme. Scese di corsa dal letto e, a gambe nude, si slanciò lungo i corridoi, fino agli appartamenti di Arbell.

Fuori c'erano già dieci guardie dei Ferrazzi e altre cinque stavano sopraggiungendo nel corridoio dalla direzione opposta. Cale bussò alla porta.

«Chi è?»

«Sono Cale. Aprite.»

La porta si aprì e comparve Riba, palesemente spaventata. Arbell la spinse di lato. «Che sta succedendo?» chiese.

«Non lo so», rispose Cale. Poi fece un cenno alle guardie. «Cinque di voi, presto, qui dentro. Tirate le tende e non fatevi vedere. Tenete le signore in un angolo della stanza, lontane dalle finestre.» Stava per spingere Arbell nella stanza, ma lei si oppose.

«Voglio sapere cosa sta succedendo. E se si tratta di mio padre?»

«Torna dentro!» gridò Cale, pur sapendo che quello era un timore perfettamente ragionevole. «Fai come ti dico, una volta tanto, e chiudi la porta!»

Riba prese gentilmente per un braccio la nobildonna sgomenta e la trascinò con sé nella stanza. Stupefatte dalla sfuriata di Cale ad Arbell, le cinque guardie le seguirono all'interno.

Mentre la porta si chiudeva, Cale si rivolse al comandante. «Manderò notizie non appena saprò qualcosa. Qualcuno mi dia una spada.»

Il comandante fece segno a uno dei suoi uomini di consegnargli la propria arma. «E magari anche un paio di pantaloni?» aggiunse il comandante, suscitando l'ilarità dei soldati.

«Quando tornerò, non avrete più tanto da ridere», sibilò Cale. E, con quella scontrosa risposta, corse via. Prese i vestiti nella sua stanza e, in meno di un minuto, aveva sceso due rampe di scale, raggiungendo il cortile del palazzo. Henri e Kleist avevano già schierato le guardie attorno Paul Hoffman

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alle mura e, armati di arco e balestra a un piede, stavano per unirsi a loro.

«Dunque?» chiese Kleist.

«Non si sa granché», intervenne Henri. «Un attacco da qualche parte, dopo il quinto ordine di mura... a quanto pare gli aggressori indossavano delle tonache. Ma potrebbe essere anche una notizia falsa.»

«In nome di Dio, com'è possibile che i Redentori siano arrivati così vicino?» esclamò Cale.

La spiegazione era semplice: Memphis era una città commerciale. Non veniva attaccata da cinquant'anni e, per questo motivo, non era pronta per quell'eventualità. La vasta gamma di merci scambiate ogni giorno nella città fluiva liberamente, sebbene dovesse passare per sei ordini di mura interne, realizzate per ottenere lo scopo opposto durante un assedio, l'ultimo dei quali era appunto avvenuto mezzo secolo prima. In tempo di pace, le mura interne erano insomma diventate una maledetta seccatura; così, gradualmente, in esse erano stati aperti numerosi passaggi, nonché tunnel destinati a rifiuti, acqua ed escrementi, e ciò aveva compromesso non poco la loro funzione originale. A ciò si era aggiunto il fatto che un sovrintendente alle fognature, ricattato da Kitty la Lepre - i peccati delle città della pianura erano puniti dai Ferrazzi con severità analoga a quella applicata dai Redentori -, fosse stato obbligato a condurre il drappello di circa cinquanta Redentori fino al quinto ordine di mura. Tuttavia, per cancellare ogni collegamento tra quell'azione e Kitty la Lepre, il sovrintendente era finito a testa in giù in un bidone della spazzatura, con la gola tagliata, proprio mentre veniva sferrato l'attacco.

Fu così che il tentativo di Bosco di provocare una reazione da parte dei Ferrazzi, alle spese di pochi, disgustosi pervertiti, scatenò una battaglia disperata proprio nel cuore di Memphis, dove la sorveglianza era massima.

L'attacco al quinto ordine di mura, infatti, non era che un'esca e c'erano voluti soltanto dieci Redentori per lanciarla; gli altri quaranta erano passati sotto il palazzo tramite una conduttura ed erano riemersi nel cortile attraverso un tombino. Mentre uscivano in superficie, neri come uno sciame di scarafaggi di fogna, Cale stava dicendo a Henri e Kleist di portarsi sulle mura, armati di arco e balestra, e si chiedeva cosa fare dei dodici Ferrazzi che aveva a disposizione.

In quel momento, però, tutti videro i quaranta Redentori che si stavano allargando a macchia d'olio attorno a loro.

Dopo un istante di sconcerto, Cale prese a gridare: «In linea! In linea!»

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Poi i Redentori attaccarono.

Cale urlò all'indirizzo di Kleist ma, nel susseguirsi di affondi e di parate dello scontro ravvicinato, era troppo rischioso usare l'arco. Un gruppetto di Redentori tentò di aggirare lo spiegamento di Ferrazzi, puntando verso il portone del palazzo, ma una tempesta di frecce e dardi sibilanti e ronzanti si abbatté su di loro non appena ebbero superato la linea di difesa. A quel punto, Henri e Kleist ebbero campo libero. Richiamato dall'urlo di un soldato, che si teneva il petto come se avesse un calabrone intrappolato nella camicia, Cale si staccò dallo schieramento e corse verso il portone, tagliando nel contempo il tendine d'achille a un Redentore, per poi fare lo stesso a un altro, mentre un terzo si prendeva una freccia nella coscia.

L'uomo barcollò all'indietro, gridando, quando un colpo di Cale, sferrato fuori tempo, lo colpì sulla bocca, tagliandogli prima la mandibola e poi la gola. Raggiunta la facciata del palazzo, Cale si voltò per fronteggiare l'attacco, ma si rese conto che si era già arrestato, perché i Redentori, intimiditi dai dardi e dalle frecce, si erano rifugiati dietro un muretto a forma di V, con la punta diretta verso il palazzo.

Cale vi si piazzò davanti, in attesa. I Redentori procedevano lentamente verso di lui, muovendosi carponi, rasenti al muro, nel tentativo di sottrarsi alla tremenda pioggia di frecce proveniente dalle mura. Allora Cale infilò la mano in un vaso di sei piedi che conteneva un olivo, collocato lì a decorare l'ingresso, raccolse i sassi grandi quanto un pugno che vi erano stati disposti ad arte e li lanciò, spaventando i Redentori, che abbandonarono la protezione del muro, esponendosi così ai dardi e alle frecce. Disperati, i cinque Redentori ancora illesi si avventarono su Cale.

Lui prese a tirare gomitate e calci e ad assestare morsi, eppure, nel bel mezzo di quella lotta per la sopravvivenza, d'un tratto gli sembrò che ci fosse qualcosa di strano. Una sensazione che si fece via via più intensa mentre lui, invincibile come l'eroe di una fiaba, mandava gli avversari alla morte, falciandoli come fossero erbacce; un pugno, una parata, un taglio, il colpo di grazia e tutto finiva lì.

Nel frattempo, i Ferrazzi avevano respinto l'attacco, perdendo soltanto tre uomini. I pochi Redentori rimasti cercarono di fuggire, ma furono rapidamente raggiunti dalle spade dei Ferrazzi, che si erano lanciati al loro inseguimento, o da Kleist e Henri, i quali, non dovendo più coprire Cale, ormai prendevano di mira qualsiasi Redentore che desse l'impressione di poter raggiungere il tombino e fuggire.

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Cale sentiva il cuore che batteva all'impazzata e il sangue che fluiva impetuoso nelle vene. Il cortile sembrava ondeggiare davanti a lui, ora più vicino, ora più lontano. Osservava lo sguardo terrorizzato di un Redentore morente; un soldato dei Ferrazzi che si teneva la pancia per impedire alle proprie budella di riversarsi a terra; un altro che sussurrava: «Sì! Sì!»

felice di essere sopravvissuto e di aver superato la battaglia senza disonore; un giovane Redentore, pallido come cera sacra, consapevole di essere prossimo alla morte, mentre un Ferrazzi incombeva su di lui... e, in tutto ciò, non riusciva a scacciare quel pensiero: C' è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. Cercò di gridare, per ingiungere al soldato di non vibrare il colpo di grazia, ma non gli uscì altro che un guaito esausto, incapace di fermare l'urlo orrendo e lo spasmo dei piedi nella polvere.

«Tutto a posto, figliolo?» gli chiese una guardia.

Cale ansimò, poi trasse un respiro profondo. «Digli di fermarsi.» Indicò i Ferrazzi che si aggiravano tra i feriti, decisi a finirli. «Devo parlare con loro. Subito!»

La guardia si precipitò a eseguire l'ordine.

Cale si sedette sul muro e fissò una falena che si stava posando ai margini di una pozza nera di sangue. L'insetto valutò con attenzione quel liquido e probabilmente lo trovò di suo gusto, dato che cominciò a nutrirsene.

«Che problema c'è?» chiese Kleist, mentre raggiungeva Cale con aria spavalda. «Sei ancora vivo, no?»

«C'è qualcosa che non va.»

«Ti sei dimenticato di ringraziare.»

Cale lo fissò. «Vai a vedere se c'è qualche sopravvissuto.»

Kleist stava per replicare con una battuta ironica, ma Cale era più strano del solito, quindi lasciò perdere.

Henri stava controllando i corpi, pregando Dio che le sue vittime fossero già morte. Notò che Kleist stava facendo la stessa cosa, anche se i Ferrazzi avevano rapidamente finito chiunque si stesse ancora muovendo.

«Cale! Vieni a vedere!» urlò Kleist, rovesciando un cadavere che aveva una delle sue frecce conficcata nella schiena. Henri guardò Cale avvicinarsi, ma restò a distanza, sentendosi a disagio.

«Guarda: è Westaby!» esclamò Kleist.

Cale fissò il volto senza vita di quel diciottenne che lui aveva visto ogni Paul Hoffman

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giorno al Santuario.

«Qui c'è uno dei gemelli Gaddis», disse Henri. Ci fu un breve silenzio, mentre rovesciava un cadavere lì accanto, per vederne il viso. «Ed ecco suo fratello.»

Dall'altra estremità del cortile, vicino al tombino, giunse un'esplosione di grida. Quattro Ferrazzi stavano prendendo a calci e pugni un Redentore che aveva cercato di nascondersi. I tre ragazzi li raggiunsero di corsa e cercarono di allontanarli, ma i Ferrazzi non ne volevano sapere. Allora Cale estrasse la spada, minacciandoli di orribili smembramenti se non si fossero fatti da parte, e Kleist e Henri trascinarono via il Redentore, sotto gli sguardi irritati dei soldati. Il malumore fu interrotto da un altro Ferrazzi, che si avvicinò ai quattro mostrando una spada piegata a forma di L. «Avete visto che roba?» continuava a ripetere. «Avete visto che roba?»

Lentamente Cale si allontanò e raggiunse Kleist e Henri, tenendo sempre d'occhio i cinque Ferrazzi.

Cale, Kleist e Henri attorniarono il Redentore, che era seduto con la schiena appoggiata alla parete del palazzo, privo di sensi, il viso gonfio, le labbra tumefatte e diversi denti mancanti.

«Mi sembra di averlo già visto», mormorò Henri.

«Sì, è Tillmans, l'accolito di Navratil», replicò Cale.

«Il Redentore Toccaculi?» chiese Kleist, guardando con maggiore attenzione il giovane svenuto. «Sì, hai ragione, è lui.» Kleist schioccò le dita. «Tillmans! Sveglia!» Poi lo scosse per le spalle e, a quel punto, il ragazzo prese a gemere. Piano piano aprì gli occhi, ma il suo sguardo era perso nel vuoto.

«L'hanno messo al rogo», ansimò Tillmans.

«Chi?»

«Il Redentore Navratil. L'hanno fatto arrosto perché toccava i ragazzi.»

«Mi spiace. Tutto sommato era un tipo abbastanza a posto», disse Cale.

«Sì, se tenevi la schiena appoggiata al muro», sbuffò Kleist. «Una volta mi ha dato una braciola di maiale», aggiunse, e quel ricordo era quanto di più vicino a un elogio funebre che Kleist fosse disposto a pronunciare riguardo a un Redentore.

«Non riuscivo a sopportare le urla», sussurrò Tillmans. «Ci ha messo quasi un'ora per crepare. Poi mi hanno detto che avrebbero fatto lo stesso anche a me, se non mi fossi offerto volontario per venire qui.»

«Chi vi sorvegliava lungo il tragitto?»

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«Il Redentore Stape Roy e i suoi. Ci hanno detto che, quando saremmo arrivati qui, le spie di Dio avrebbero combattuto al nostro fianco e che, se fossimo stati bravi, avremmo potuto ricominciare da capo. Non uccidermi, capo!»

«Non ti faremo del male. Dicci soltanto quello che sai.»

«Niente. Non so niente.»

«Chi erano gli altri?»

«Non lo so. Altri come me, non soldati. Voglio...»

Gli occhi di Tillmans cominciarono a muoversi in modo strano: uno sembrava non mettere più a fuoco, l'altro guardava oltre la spalla di Cale, come se vedesse qualcosa in lontananza. Kleist schioccò di nuovo le dita, ma non ci fu nessuna reazione, salvo il fatto che lo sguardo si sfocò ulteriormente e il respiro divenne più irregolare.

Il giovane parve tornare in sé per un istante. «Cos'è quello?» chiese.

Quindi la testa gli ricadde di lato.

«Non durerà fino a domattina», disse Henri. «Povero Tillmans.»

«Già», gli fece eco Kleist. «E povero Redentore Toccaculi. Che brutta fine.»

Cale ci mise molto più del solito a essere ammesso nello studio di Vipond; rimase seduto per quasi tre ore nella sala d'attesa, parecchio affollata. Gli era stato detto di fare rapporto alle tre e di tenere la bocca chiusa. Quando finalmente lo fecero entrare, Vipond quasi non lo guardò.

«Devo ammettere che ho avuto i miei dubbi quando hai affermato che i Redentori avrebbero tentato di aggredire Arbell a Memphis. Mi sono chiesto se non te lo fossi inventato, per trovare qualcosa da fare per te e per i tuoi amici. Me ne scuso.»

Che un uomo di potere fosse disposto ad ammettere i propri errori era una novità per Cale, che abbassò lo sguardo, anche perché sapeva che Vipond non si era sbagliato affatto.

Senza aggiungere altro, il Cancelliere gli passò un volantino sul quale c'era il rozzo disegno di una donna a seno scoperto, sormontato dal titolo: LA SGUALDRINA DI MEMPHIS. Nel testo sottostante, Arbell veniva descritta come una profanatrice e una prostituita che costringeva donne e uomini innocenti a partecipare a vere e proprie orge, in cui si adorava il demonio e si praticavano sacrifici. QUESTA DONNA È IL PECCATO! strillava infine il volantino, gridando vendetta al cielo.

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Nel tentativo di capire cosa stesse succedendo, il cervello di Cale cominciò a macinare pensieri a un ritmo forsennato.

«Gli aggressori hanno sparso questi volantini lungo il percorso del loro attacco», spiegò Vipond. «Stavolta non si potrà mettere a tacere l'accaduto.

A Memphis e nell'impero, Arbell Ferrazzi è considerata più candida della neve.»

Evidentemente non era più del tutto vero, ma le grottesche menzogne del volantino non potevano non sconcertare sia Cale sia Vipond.

«Hai qualche idea di cosa significhi?» chiese Vipond.

«No.»

«Ho sentito che avete interrogato un prigioniero.»

«Ciò che era rimasto di lui, sì.»

«Ha detto qualcosa?»

«Solo quello che era già piuttosto chiaro, cioè che non è stato un attacco serio. Non erano nemmeno veri soldati. Ne conoscevamo una decina: cuochi, impiegati, qualche tipo che batteva un po' troppo la fiacca. Ecco perché è stato così facile.»

«Guai a te se ripeti una cosa del genere. La versione ufficiale è che i Ferrazzi hanno ottenuto una grande vittoria contro un vile attacco da parte dei migliori assassini dei Redentori.»

«I migliori stallieri dei Redentori.»

«C'è sdegno per ciò che è accaduto e grande considerazione per l'abilità e l'eroismo dei nostri soldati che hanno sventato l'attacco. Nulla deve contraddire questa versione. Hai capito?»

«Bosco vuole provocarvi, in modo che lo attacchiate.»

«Be', c'è riuscito.»

«Dare a Bosco ciò che vuole è un'idea stupida. E non sto mentendo.»

«Sarebbe quasi una novità. Ma ti credo.»

«Allora dovete dire ai Ferrazzi che non sanno che cosa li aspetta, se pensano che affrontare un vero esercito dei Redentori somigli in qualche modo a questa schermaglia.»

Per la prima volta, Vipond guardò in faccia il ragazzo che gli stava di fronte. «Dio mio, Cale, se solo sapessi con quanto poco buonsenso si governa... Non c'è disastro che si sia abbattuto sull'umanità senza un avvertimento da parte di qualcuno; mai, nell'intera Storia del mondo. E

chiunque abbia formulato tali avvertimenti non ne ha mai tratto vantaggio, sebbene le circostanze gli abbiano dato ragione. Nessuno potrà dire ai Paul Hoffman

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Ferrazzi come comportarsi in questa faccenda... E figuriamoci se ascolterebbero un Thomas Cale qualsiasi. E così che va il mondo: tu, che sei un individuo insignificante, non ci puoi far nulla. Ma non ci posso far nulla neppure io, che sono importante.»

«Quindi non proverete a fermarli?»

«No. E pure tu starai zitto. Memphis è il cuore della più grande potenza della Terra. L'impero è tenuto insieme da alcune forze molto semplici, Cale: il commercio, l'avidità e la diffusa convinzione che i Ferrazzi siano troppo potenti perché valga la pena di sfidarli. Rinchiuderci in attesa all'interno delle mura di Memphis, mentre i Redentori ci assediano, non è un'alternativa. Bosco non può vincere, ma noi possiamo perdere.

Potremmo resistere a un assedio a Memphis per cent'anni, ma non passerebbero sei mesi e scoppierebbero rivolte da qui alla Repubblica di Vasino sul Mare. È una guerra, perciò è meglio che la combattiamo.»

«Io so come combatteranno i Redentori.»

Vipond gli scoccò un'occhiata di esasperazione. «E ti aspetti di essere consultato? I generali che stanno pianificando la campagna non solo hanno conquistato metà del mondo conosciuto, ma hanno anche combattuto con Solomon Solomon o sono stati addestrati da lui, anche se quasi nessuno di loro lo apprezzava particolarmente. E tu? Un ragazzo... No, un nessuno, che lotta come un cane morto di fame. Scordatelo.» Gli fece cenno di andarsene, con un gesto impaziente, poi però aggiunse, per indurlo a riflettere: «Avresti dovuto risparmiare la vita a Solomon Solomon».

«Lui avrebbe risparmiato la mia?»

«No, in effetti non l'avrebbe fatto, ma questo era un motivo in più per sfruttare la sua debolezza. Se lo avessi lasciato in vita, ti saresti conquistato il favore dei Ferrazzi e lo avresti fatto sembrare una nullità. La forza è spietata, tanto con l'uomo che la possiede quanto con le sue vittime: loro ne vengono schiacciate, ma lui ne è inebriato. La verità è che nessuno domina a lungo un potere come il tuo. Coloro che lo ricevono in prestito dal fato ci contano troppo e ne restano distrutti a loro volta.»

«E questo da dove viene? L'avete inventato voi? Oppure l'ha detto qualcuno che non si è mai ritrovato davanti a una folla inferocita che lo voleva vedere sbudellato soltanto per divertirsi in un pomeriggio d'estate?»

«Cos'è, autocommiserazione, questa? Non eri obbligato a farlo. E tu lo sai.»

Irritato, anche perché non aveva una risposta, Cale si voltò per Paul Hoffman

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andarsene.

«A proposito. Nel rapporto sugli eventi di ieri sera, l'importanza del contributo fornito da te e dai tuoi amici sarà alquanto ridotta. E tu non protesterai.»

«E perché?»

«Dopo la tua esibizione al Teatro Rosso, sei molto odiato. Pensa a ciò che ti ho appena detto e ne capirai il motivo. Ma, se anche così non fosse, non dirai nulla di quanto è accaduto ieri.»

«Tanto non m'importa di cosa pensano i Ferrazzi.»

«È questo il tuo problema, lo sai? Non t'importa di cosa pensa la gente.

E invece dovrebbe importarti.»

Nel corso della settimana seguente, molti Ferrazzi partirono dalle loro terre per riversarsi a Memphis. La città rigurgitava di cavalieri, uomini d'armi con le mogli, servitori delle mogli, ladri, sgualdrine, giocatori d'azzardo, spacciatori, malintenzionati, strozzini... Tutti erano in cerca di un'occasione per guadagnare, come sempre avviene in una guerra. Ma c'erano anche macchinazioni che non riguardavano il denaro, bensì, per esempio, le complesse questioni di precedenza tra i nobili Ferrazzi. Dato che la posizione sul campo di battaglia era un segno della posizione all'interno della società, ogni piano era in parte una strategia militare e in parte simile alla disposizione degli invitati a un matrimonio reale: le opportunità di offendere e di essere offesi erano pressoché infinite. Perciò, nonostante l'impellenza della guerra, il Maresciallo trascorreva gran parte del tempo in cene e raduni, al solo scopo di allisciare il pelo pericolosamente arruffato dell'uno e dell'altro, spiegando come quello che, a prima vista, sembrava un imperdonabile affronto era in realtà un altissimo onore.

Fu a uno di quei banchetti, cui Cale era stato invitato - su richiesta di Vipond, nell'ambito del suo tentativo di riabilitarlo -, che gli eventi presero ancora una volta una piega inattesa.

Sebbene in genere - e in particolare in occasioni pubbliche - il Maresciallo non desiderasse avere Simon vicino a sé, non era sempre possibile accontentarlo, soprattutto se Arbell aveva implorato il padre d'invitare il fratello.

Lord Vipond era un maestro nel manipolare le informazioni, vere o false che fossero. Disponeva di una consistente rete d'informatori, estesa a tutti i livelli della società di Memphis, dai nobili ai più infimi lustrascarpe. Se Paul Hoffman

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desiderava che qualcosa venisse divulgato, bastava affidare a tali informatori una storia, col compito di diffonderla. Un sistema certamente non originale, usato sia per divulgare voci utili sia per negare quelle dannose da ogni governante - da Ramesse II, il Re dei Re, al sindaco di Nulla sul Nessunluogo -, ma non per questo meno efficace.

Tuttavia Vipond era diverso da molti altri praticanti dell'arte oscura delle dicerie: era infatti convinto che l'affidabilità dei suoi informatori, soprattutto se si trattava di diffondere una notizia importante, si basasse sulla pressoché assoluta veridicità della storia che loro mettevano in giro.

Di conseguenza, se Vipond voleva far accettare una menzogna, essa veniva quasi sempre presa per buona. Così, ben consapevole dello spirito di vendetta che divampava tra i parenti di Solomon Solomon e tra chi era stato amico del Maestro d'Armi, il Cancelliere aveva intaccato la sua preziosa credibilità a favore di Cale, cercando d'impedire che il ragazzo venisse assassinato, una possibilità nient'affatto remota. Ecco perché, a dispetto di ciò che aveva detto allo stesso Cale, Vipond aveva fatto circolare la voce che il ragazzo aveva combattuto coraggiosamente accanto ai Ferrazzi, per aiutare a salvare Arbell. In tal modo, la minaccia immediata di un avvelenamento o di una pugnalata alle spalle in un vicolo buio era stata considerevolmente ridotta, anche se non eliminata. La cosa più insolita era che, se qualcuno avesse chiesto a Vipond perché investisse tanto tempo in una persona priva d'importanza, lui non avrebbe saputo rispondere. Ma, d'altra parte, non c'era nessuno che potesse chiederglielo.

Vipond e il Maresciallo Ferrazzi erano riuniti da ore, nel frustrante tentativo d'ideare un piano di battaglia che prendesse in considerazione le complicate faccende di status e potere legate al dispiegamento dei Ferrazzi sul campo. La verità era che sentivano la mancanza di Solomon Solomon, la cui reputazione eroica come soldato l'aveva reso un preziosissimo negoziatore, capace di far scendere a compromessi anche le fazioni più ostinate dei Ferrazzi.

«Sapete, Vipond, per quanto io ammiri la scaltrezza con cui gestite queste faccende, devo ammettere che, in ultima analisi, a questo mondo ci sono alcuni problemi che non possono essere risolti con una sostanziosa tangente o spingendo il proprio nemico in un burrone in una notte buia», aveva detto il Maresciallo, con aria sconsolata.

«Cosa significa tutto ciò, mio signore?»

«Quel ragazzo, Cale... Non difendo Solomon Solomon, sapete che ho Paul Hoffman

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cercato d'impedire ciò che è successo... Tuttavia non pensavo che il ragazzo avesse qualche possibilità contro di lui.»

«E se lo aveste saputo?»

«È inutile che vi diate delle arie. Non ditemi che voi fate sempre la cosa giusta a scapito della cosa più saggia. Il fatto è che avremmo bisogno di Solomon Solomon. Lui avrebbe sistemato le cose, facendo rigare dritto questi bastardi. È semplice: Solomon Solomon ci serve. Cale no.»

«Cale ha salvato vostra figlia, mio signore, e ha rischiato la vita per farlo.»

«Ecco, vedete? Proprio voi dovreste sapere che non posso farne una questione personale. So quello che ha fatto e gli sono riconoscente, ma soltanto come padre. Come governante, sto sottolineando che lo Stato ha bisogno di un Solomon Solomon molto più di quanto non abbia bisogno di un Cale. È una verità lampante e non ha senso che voi la neghiate.»

«Dunque qual è il vostro rimpianto, signore? Non averlo gettato in un burrone prima del duello?»

«State cercando di mettermi in imbarazzo? Anzitutto gli avrei dato un bel sacco pieno d'oro e gli avrei detto di togliersi dai piedi e non farsi più vedere. Tra parentesi, è esattamente ciò che intendo fare allorché questa guerra sarà finita.»

«E se si fosse rifiutato?»

«Sarei diventato maledettamente sospettoso. A ogni buon conto, perché mai è rimasto qui?»

«Perché gli avete dato un buon lavoro nel bel mezzo del miglio quadrato più protetto del mondo.»

«Dunque è colpa mia? Be', in tal caso sistemerò le cose. Quel ragazzo è una minaccia. È un menagramo, come quel tipo nel ventre della balena.»

«Gesù di Nazareth?»

«Già, proprio lui. Non appena avremo sistemato la faccenda coi Redentori, Cale se ne andrà.»

Il Maresciallo era di malumore e uno dei motivi era appunto la prospettiva di dover stare seduto accanto al figlio per un'intera serata. Per lui, era un'umiliazione quasi insopportabile.

In realtà, il banchetto andò bene. I nobili sembrarono più che disposti a mettere da parte ogni risentimento e battibecco per far fronte comune contro la minaccia dei Redentori nei confronti di Memphis in generale e di Arbell Collo di Cigno in particolare. Anzi, durante la cena, la giovane fu Paul Hoffman

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così dolce, divertente e affascinante da rendere il grottesco ritratto tracciato dai Redentori un motivo in più per lasciar cadere ogni stupida controversia e impegnarsi a contrastare quei fanatici religiosi.

Arbell si sforzò disperatamente di non guardare Cale. Lo amava e lo desiderava tanto da essere sicura che il suo slancio sarebbe risultato evidente anche agli individui più insensibili. Cale, da parte sua, era imbronciato, perché interpretava il comportamento di lei come un tentativo di evitarlo; riteneva che si vergognasse di lui, che fosse imbarazzata a stare in sua compagnia in pubblico. Invece il timore del Maresciallo di essere mortificato da Simon si rivelò infondato. Certo, il ragazzo rimase seduto senza dire nulla, com'era inevitabile, ma la sua tipica espressione d'allarme e di atterrito smarrimento era svanita. Anzi aveva un'aria del tutto normale: il suo sguardo era talvolta interessato, talaltra divertito.

Il Maresciallo, però, era sempre più irritabile, anzitutto perché non era riuscito a sbarazzarsi di una fastidiosa tosse, probabilmente causata dall'aver parlato tanto con gli infiniti postulanti. E poi c'era il giovane seduto accanto a Simon. Il Maresciallo non lo conosceva e lui non aveva detto nulla per tutta la sera, limitandosi a muovere incessantemente la mano destra, in un'esasperante serie di scatti, indicazioni, colpetti, cerchi...

Alla fine, la cosa aveva dato così sui nervi al Maresciallo che lui era sul punto di ordinare al suo servitore Pepys di far smettere quel giovane o di costringerlo ad andarsene. Fu allora che il giovane si alzò e attese che tutti facessero silenzio, un atto così sorprendente, data l'augusta compagnia, che il brusio di risate e conversazioni si attenuò parecchio.

«Io sono Jonathan Koolhaus», annunciò. «Sono il tutore di lingue di Lord Simon Ferrazzi. Lord Simon desidera dire qualcosa.» Nella sala piombò il silenzio, più per lo stupore che per la deferenza. Simon si alzò e mosse la mano destra nello stesso strano modo usato da Koolhaus per tutta la sera.

Koolhaus tradusse: «Lord Simon Ferrazzi dice: 'Sono stato seduto davanti al Prevosto David Lascelles per tutta la sera e, in questo arco di tempo, in tre occasioni, il Prevosto Lascelles mi ha definito un 'idiota farfugliante'». Fece un ampio sorriso gioviale. «'Be', Prevosto Lascelles, c'è un modo sicuro per riconoscere gli idioti farfuglianti: essere uno di loro.'»

La risata che scoppiò fu indotta non soltanto dalla battuta, ma anche e soprattutto dalla reazione di Lascelles, che avvampò, con gli occhi che Paul Hoffman

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quasi gli uscivano dalle orbite.

La mano di Simon si mosse rapidamente avanti e indietro.

«Lord Ferrazzi dice: 'Il Prevosto Lascelles sostiene che sia un grande disonore essere seduto di fronte a me'.»

Simon s'inchinò verso Lascelles con fare beffardo e Koolhaus fece altrettanto. Poi la mano destra di Simon riprese a muoversi.

«'Io vi dico, Prevosto Lascelles, che il disonore è tutto mio.'»

Con quelle parole, Simon si sedette, con un sorriso benevolo, e Koolhaus seguì il suo esempio.

Per qualche istante, tutti i convitati continuarono a fissarlo, stupefatti, anche se qualcuno rise e applaudì. Poi, come per uno strano, tacito accordo, gli ospiti decisero d'ignorare ciò che avevano appena visto e di fingere che non fosse mai accaduto. Così il brusio delle risate e delle conversazioni ricominciò e tutto proseguì esattamente come prima, almeno in apparenza.

A tempo debito, la serata giunse a conclusione, gli ospiti furono consegnati alla notte e il Maresciallo, accompagnato da Vipond, raggiunse quasi di corsa i suoi appartamenti, dove aveva ordinato ai figli di aspettarlo. «Che sta succedendo?» chiese, ancora sulla soglia. «Che razza di trucco è mai questo?» E guardò Arbell.

«Io non ne so nulla», disse lei. «È tanto un mistero per me quanto lo è per voi.»

Koolhaus, sgomento, agitò le dita nel modo più discreto possibile.

«Tu! Cosa stai facendo?» tuonò il Maresciallo.

«È... ehm... un linguaggio delle dita, signore.»

«Sarebbe?»

«È molto semplice, signore. Ogni gesto delle mie dita indica una parola o un'azione.» Koolhaus era così nervoso e parlava così rapidamente che era quasi impossibile capirlo.

«Piano!» gridò il Maresciallo.

Koolhaus, tremando, ripeté ciò che aveva detto.

Il Maresciallo, incredulo, fissò il figlio che si era messo a gesticolare, rivolto a Koolhaus.

«Lord Simon dice... ehm...: 'Non devi essere arrabbiato con me'.»

«Allora spiegami che razza di storia è questa.»

«È semplice, signore. Come dicevo, ogni segno rappresenta una parola o un'emozione.» Koolhaus si toccò il petto col pollice. «Io.» Poi chiuse la Paul Hoffman

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mano a pugno e la sfregò sul petto con un moto circolare. «Chiedo scusa.»

Tirò fuori il pollice dal pugno, lo puntò in avanti e fece un movimento a martello. «Per fare.» Indicò il Maresciallo. «Te.» Fece scattare il polso e il pugno avanti e indietro. «Arrabbiato.» Poi ripeté la sequenza così rapidamente che era quasi impossibile distinguere i singoli gesti. «Scusa se ti ho fatto arrabbiare», tradusse.

Il Maresciallo guardò il figlio come se in quel modo potesse scoprire la verità. L'incredulità e la speranza erano evidenti sul suo volto. Poi trasse un respiro profondo e guardò Koolhaus. «Come faccio a sapere per certo che è mio figlio a parlare e non sei tu?»

Koolhaus recuperò parte del suo consueto equilibrio. «È impossibile, mio signore. Proprio come nessun uomo può mai sapere per certo di non essere l'unica creatura pensante e dotata di sentimenti in mezzo a una serie di macchine che fingono soltanto di pensare e di sentire qualcosa.»

«Oh, mio Dio! Sei proprio il tipico prodotto della Cervelleria!» sbuffò il Maresciallo.

«Sì, signore, ma ciò che dico è vero. Voi sapete che gli altri provano sentimenti e pensano come voi perché, col tempo, il vostro buonsenso vi ha insegnato la differenza tra il reale e l'irreale. Allo stesso modo, se parlerete con vostro figlio tramite me, scoprirete che, pur mancando d'istruzione ed essendo dolorosamente ignorante, ha una mente acuta come voi e me.»

Era difficile non rimanere colpiti dall'offensiva sincerità di Koolhaus.

«Molto bene», disse il Maresciallo. «Lascia che Simon mi racconti com'è stata organizzata tutta questa faccenda, dall'inizio a stasera. E non aggiungere nulla. Non farlo sembrare più saggio di quanto non sia.»

Così, nel quarto d'ora seguente, Simon ebbe la sua prima conversazione col padre e il padre la ebbe col figlio. Ogni tanto, il Maresciallo faceva domande, ma soprattutto ascoltava. Quando Simon ebbe finito, il suo volto era rigato dalle lacrime, proprio come quello della sua sbalordita sorella.

Alla fine, il Maresciallo si alzò e abbracciò il figlio. «Mi dispiace, figliolo, mi dispiace tanto.»

Poi disse a una guardia di andare a chiamare Cale. Quell'ordine suscitò sentimenti contrastanti in Koolhaus. Secondo lui, la spiegazione fornita da Simon era ingiustamente sbilanciata a favore della richiesta di Cale d'insegnare al ragazzo un semplice linguaggio dei segni e non teneva in sufficiente conto il fatto che lui, Koolhaus, avesse trasformato quella serie Paul Hoffman

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di rozzi gesti in un linguaggio reale e vivace. Sembrava che quel cafone di Cale stesse per prendersi tutti i meriti, insomma. Naturalmente Cale era rimasto spiazzato da ciò che era accaduto, almeno come gli altri invitati al banchetto: non aveva idea dei progressi fatti da Koolhaus e Simon, soprattutto perché il primo aveva fatto giurare al secondo di mantenere il segreto, con l'intenzione di fare una brillante sorpresa e prendersi il merito.

Cale si aspettava una strigliata e restò alquanto confuso nel sentirsi osannare come salvatore da Arbell e dal Maresciallo, il quale si sentiva in colpa per la sua ingrata - ma forse non malaccorta - decisione di sbarazzarsi di Cale.

Anche Arbell però si sentiva in colpa. Nei giorni successivi ai terribili eventi del Teatro Rosso, aveva trascorso notti di lascivia con Cale, divorando appassionatamente ogni parte del suo corpo; durante la giornata, invece, aveva ascoltato i suoi ospiti discutere degli orrori della morte di Solomon Solomon. Dato che, fino ad allora, lei aveva manifestato soltanto disprezzo nei confronti della sua misteriosa guardia del corpo, nessuno si era sentito in imbarazzo nel descrivere l'accaduto fin nei dettagli più sgradevoli. Alcuni di quei commenti potevano essere liquidati come semplici pettegolezzi o come pregiudizi a favore di un membro della propria cerchia, ma addirittura una persona onesta e di buon cuore come Margaret Aubrey aveva detto: «Non riesco a spiegarmi perché io sia rimasta. All'inizio, quel ragazzo mi faceva pena: sembrava così piccolo, là fuori... Poi però, Arbell, devo ammettere di non aver mai visto un atteggiamento più gelido e brutale in vita mia. Gli ha parlato prima di ucciderlo. L'ho visto sorridere. 'Nemmeno i maiali si trattano così', ha commentato mio padre».

Dopo quelle parole, i sentimenti della giovane erano stati in gran tumulto. Da un lato, c'era stato il dolore per quell'insulto nei confronti del suo innamorato, ma... non aveva forse notato anche lei quella sua strana freddezza omicida? Chi avrebbe potuto biasimarla per quel brivido che si era fatto strada nei recessi più profondi del suo cuore e che era stato chiuso lì a doppia mandata? Ma tutti quei pensieri terribili furono scacciati quando Arbell scoprì che Cale aveva praticamente fatto tornare suo fratello dal mondo dei morti. Gli prese la mano e gliela baciò con passione e meraviglia, ringraziandolo per tutto ciò che aveva fatto. Cale attribuì il merito a Koolhaus, ma la cosa non fece molta differenza. Il Maresciallo, tra i vari tentativi di schiarirsi la gola, ringraziò lo studioso e Arbell fece Paul Hoffman

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altrettanto, ma poi entrambi ripresero a riversare lodi e gratitudine su Cale.

Koolhaus si sentì tradito, dimenticando per convenienza che era stato Cale a individuare l'intelligenza nascosta di Simon Ferrazzi e il modo per liberarla. Pensò pure che il tentativo di Cale di coinvolgerlo in quella generica ondata di congratulazioni fosse soltanto un modo per mettersi ancora di più in luce, ricacciando lui nell'ombra. Così, nello stesso giorno in cui aveva finalmente riconquistato due persone che nutrivano dubbi nei suoi confronti, Cale si era fatto un nuovo nemico.

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