CAPITOLO XVI.
INCONTRO CASUALE.

Girai per il villaggio in traccia del briccone per lo spazio d’una mezz’ora e dopo averlo cercato in tutti i covi che gli erano familiari lo trovai finalmente appoggiato al muraglione sul mare, vicino alla chiesa, con gli sguardi smarriti sull’acqua al di sotto.

Gli andai dinanzi.

— Bene, — dissi, — sei proprio una bellezza, sei.

Mi fissò come un gufo. Anche in quell’ora mattutina mi dispiacque vedere ch’egli mostrasse dei segni indubbi d’aver meditato su qualche cosa di forte. Aveva gli occhi annebbiati e dei modi aggressivamente solenni.

— Una bellezza? — egli echeggiò.

— Che hai da dire in tuo favore?

— Da dire in mio favore?

Evidentemente era occupato a raccogliere le sue facoltà con qualche laborioso metodo noto soltanto a lui. In quel momento le mie parole non avevano per lui alcun significato. Egli tentava d’identificarmi. M’aveva visto prima in qualche parte, di questo era certo, ma non sapeva dir dove o chi mi fossi.

— Voglio sapere, — dissi, — che cosa t’ha indotto a essere un idiota così abbietto da rivelare il nostro accordo?

Parlavo tranquillamente. Non volevo sciupare i più scelti fiori del linguaggio con un uomo incapace di comprendere. Dopo, quando si fosse svegliato alla comprensione della sua posizione, avrei cominciato realmente a parlargli.

Egli continuava a fissarmi. Poi, a un tratto, un lampo d’intelligenza gli balenò sui lineamenti.

— Il signor Garnet, — disse.

— Finalmente ci sei.

— Della fattoria dei polli, — continuò, con l’aria trionfale d’un avvocato, che esamina un testimone finalmente avviato a una buona deposizione.

— Sì, — dissi.

— Lì sulla collina, — egli continuò, e sporse la grossa mano. — Che cosa dunque? — domandò, con un amichevole sorriso.

— Voglio sapere, — dissi distintamente, — ciò che hai da dire dopo aver divulgato la nostra faccenda col professore.

Egli si fermò pensoso.

— Caro signore, — disse finalmente, come se stesse dettando una lettera, — caro signore, vi devo... spie... spie... — agitò la mano come chi dicesse: «è penoso, ma lo farò» — ...vi devo spiegare, — disse.

— Fallo, — dissi torvo. — Mi piacerebbe di sentire.

— Caro signore, ascoltatemi.

— Avanti allora.

— Voi veniste da me. Mi diceste: «Hawk, Hawk, caro amico, senti, tu mi devi buttare quel signore nell’acqua,» mi diceste «e vedrai se non ti darò un biglietto di una sterlina». Così mi diceste? Non è vero che così diceste?

Non potevo negarlo.

— «Benissimo» — vi risposi — «benissimo» — vi dissi. — Feci cadere il vecchio nell’acqua ed io mi pigliai la sterlina.

— Sì, appunto. È verissimo. Ma si tratta d’altro. Non stiamo qui a discutere di ciò che accadde. Ciò che voglio sapere... per la terza volta, è questo: perché hai rivelato il segreto? Perché lo hai pubblicato?

Egli mosse la mano.

— Caro signore, — rispose. — Ecco perché. Ascoltatemi.

Mi raccontò una storia tragica. La mia collera si sedò, ascoltandolo. Dopo tutto la sua colpa non era così grave. Sentii che al suo posto avrei fatto come lui. Era colpa del destino, e del destino soltanto.

Sembrava ch’egli non se la fosse cavata bene dopo l’incidente. Io non lo avevo ancora considerato dal suo punto di vista. Mentre il salvataggio aveva lasciato me con la fama d’un eroe popolare, aveva avuto per lui un risultato perfettamente opposto. Lui aveva rovesciata la barca e avrebbe fatto annegare il passeggero, diceva la pubblica opinione, se il giovane eroe di Londra — io — non si fosse buttato in mare e non avesse col rischio della vita portato a riva il professore. Per conseguenza, lui era disprezzato come un barcaiolo incapace. Era diventato lo zimbello di tutti. I bighelloni locali, quando passava, lo assalivano con parole di motteggio. Gli offrivano delle somme favolose per portare a spasso in mare i loro peggiori nemici. Volevano sapere quando sarebbe andato a scuola a imparare il mestiere. In realtà, si comportavano come si comportano i bighelloni e come sempre si sono comportati in tutti i tempi e in tutto il mondo.

Ora sembrava che Enrico Hawk avrebbe sopportato ogni contrarietà allegramente e pazientemente per amor mio, o, comunque, per l’amore del bel biglietto di banca nuovo che gli avevo dato. Ma un fattore inatteso s’era presentato nel problema, complicandolo terribilmente, cioè la ragazza Gianna Muspratt.

— Lei mi disse; — spiegò Hawk melanconicamente — «Enrico» — mi disse — «tu sei uno sciocco, e non sposerò un uomo al quale non si può affidare una barca e che si fa pigliare in giro da Tommaso Leigh». — «Pigliai a pugni Tommaso Leigh» — osservò in parentesi Enrico Hawk. — «Così, — ella mi disse, — puoi andartene e non voglio vederti più!»

Quella spietata condotta da parte della giovane Muspratt aveva avuto il naturale risultato di costringerlo a una confessione, e lei aveva scritto al professore la stessa sera.

Diedi il mio perdono a Enrico Hawk. Credo ch’egli non fosse abbastanza sobrio da comprenderlo, perché non manifestò alcuna commozione.

— È il destino, Hawk, — dissi, — semplicemente il destino. V’è una divinità che foggia i nostri fini, li squadra e li intaglia come vuole, ed è inutile brontolare.

— Sì, — disse Enrico Hawk, dopo aver meditato un po’ su quella espressione. — Così ella disse: «Enrico» — mi disse... così, «sei uno sciocco.»

— Benissimo, — risposi. — Comprendo perfettamente. Come ho detto è semplicemente il destino. Addio. — E me ne andai.

Tornando, incontrai il professore e Fillide. Mi passarono accanto senza uno sguardo.

Continuai a vagare sotto un’ondata di commiserazione di me medesimo. Ero in una di quelle disposizioni di spirito in cui la vita a un tratto sembra diventare molesta, in cui il futuro si stende vuoto e grigio di fronte a noi. Mi sarebbe piaciuto di dileguarmi quasi impercettibilmente dal mondo, come il signor Bardell del Dickens, anche se si fosse trattato come nel caso suo, d’esser picchiato in testa con un boccale d’una pinta, in una taverna pubblica.

In simile disposizione di spirito è imperativo cercar di distrarsi. Lo splendido esempio di Enrico Hawk non mi attraeva. Darmi all’alcool non mi sarebbe piaciuto. Avevo bisogno di lavorare. Avrei lavorato come un negro, tutti i giorni, fra i polli, separandoli, quando si sarebbero azzuffati, raccogliendo le uova, quando le avrei trovate, rincorrendo quelle galline che si sarebbero disperse attraverso i campi, e anche in caso di necessità, dipingendo loro le gole con la trementina quando sarebbero state colpite dalla pipita. Poi dopo pranzo, quando, accese le lampade, la signora Ukridge si sarebbe messa a cucire, con accanto Edwin, e Ukridge avrebbe cominciato a fumare i suoi sigari e a incitare il grammofono ad assassinare dei pezzi classici, io me ne sarei andato nella mia stanza da letto a scrivere... scrivere... scrivere. E avrei continuato a scrivere, finché le dita non mi si fossero irrigidite, e gli occhi non si fossero rifiutati di fare il loro dovere. Dopo, passato un certo tempo, avrei potuto comprendere che tutto era stato per il mio bene. Un uomo deve attraversare il fuoco prima di scrivere il suo capolavoro. Noi impariamo nella sofferenza ciò che insegniamo nella gioia. Geremia Garnet, uomo, doveva diventare un relitto depresso e disperato, con un ferro piantato irremovibilmente nell’anima; ma Geremia Garnet, autore, doveva comporre un romanzo di tanta tristezza che i critici più duri si sarebbero messi a piangere, e il pubblico avrebbe fatto a pugni per comprare il libro, abbattendo e frantumando, nella ressa, le vetrine e le porte delle librerie.

Così avrei potuto sentire un giorno che tutta quella ambiascia era realmente una benedizione... effettivamente travestita.

 

* * *

 

Ma ne dubitavo.

 

* * *

Nessuno di noi era molto allegro in casa. Anche il largo spirito d’Ukridge era un po’ spaventato dai conti che si riversavano copiosi a ogni distribuzione di corrispondenza. Sembrava come se i negozianti del vicinato avessero formato una lega e stessero lavorando di conserva. O la cosa si doveva attribuire a delle onde di pensiero? I conticini non arrivavano a uno a uno, come vedette, ma a battaglioni. La domanda comune per la visione del colore del danaro di Ukridge diventava quotidiana. Ogni mattina, a colazione, lui soleva darci il nuovo bollettino dello stato di mente di ciascuno dei nostri creditori e ci faceva fremere con l’annuncio che Whiteley era amareggiato e Harrod impaziente, o che il motore di Dawlish, il droghiere, si stava surriscaldando. Vivevamo in una continua atmosfera d’affanno. Pollo, e nient’altro che pollo ai pasti, e pollo e nient’altro che pollo fra i pasti, ci avevano irritati i nervi.

Incombeva in casa un’aria di disfatta. Eravamo un esercito battuto e lo comprendevamo. C’eravamo sforzati di salire per quasi due mesi e lo sforzo cominciava a pesarci. Ukridge diventava misteriosamente taciturno. La signora Ukridge, benché non comprendesse, immagino, i particolari della situazione, era affannata, perché era affannato il marito. La moglie di Beale era da lungo tempo diventata cinica e s’inacidiva sempre più per mancanza di occasioni nell’esercizio della sua professione. E quanto a me, non ho mai passato dopo d’allora una settimana così profondamente pietosa. Non m’era permesso neanche il palliativo del lavoro. Sembrava che non ci fosse nulla da fare nell’allevamento. I polli erano assolutamente felici, e non chiedevano altro che d’esser lasciati in pace e d’avere i loro pasti a intervalli regolari. E ogni giorno uno o parecchi svanivano nella cucina, e la signora Beale ce ne serviva i cadaveri sotto qualche abile travestimento, mentre noi tentavamo di ingannarci con l’idea che si trattasse di qualche cosa di diverso.

Vi fu una visione solitaria di varietà nella nostra lista. L’amministrazione d’un giornale mi mandò un vaglia per un po’ di versi. Riscuotemmo il vaglia e corremmo tutti in un sol corpo in città a spendervi il danaro. Comprammo una coscia di castrato, una lingua, delle sardine, delle fette d’ananas, della carne in iscatola e molte al tre nobili cose, e godemmo d’un pranzo squisito

La moglie di Beale, con lo scenario d’un sorriso sul volto, il primo che le apparve in quei giorni d’ambascia, portò nella stanza da pranzo un pezzo di carne e lo scoprì con un’aria!...

— Grazie a Dio, — disse Ukridge, cominciando a scalcare.

Era la prima volta che lo udivo dire un grazie a Dio, e se mai un’occasione meritò una simile deviazione dall’abitudine fu proprio quella.

Dopo di ciò ricademmo nella solita dieta.

Privato della fatica fisica, ad eccezione del golf e del bagno — esercizi facili, in paragone dell’allevamento nei periodi più difficili — tentai di rifarmi col lavorare al romanzo.

Esso si rifiutava di concretarsi.

Il solo progresso che facevo era col mio «tiranno».

Lo ritrassi dal professore e ne feci un ricattatore. Egli aveva parecchi altri difetti, ma la sua professione era quella. L’unica cosa che realmente faceva bene.

In una delle molte occasioni nelle quali ero rimasto seduto in camera mia con la penna in mano per tutto un bel pomeriggio, senz’altro risultato che un piccolo mal di testa, mi avvenne di pensare a quel piccolo paradiso sullo scoglio di Ware sospeso sul mare con una corona in fondo, di boschi verdi. Da qualche tempo non m’ero recato fin lì, principalmente con l’idea erronea che potessi lavorare meglio sedendo, in una rigida sedia dura, alla scrivania, che giacendo sulla verde erbetta col mare innanzi agli occhi.

Ma ora il desiderio di visitare quella piccola radura mi cacciò di casa. Giù nel salotto il grammofono sonava con voce metallica una sua canzone. Fuori il sole stava accingendosi al tramonto. Lo scoglio di Ware era per me la medicina. Che diceva Kipling?

 

Il genio del giardin, col vento e il sole,

sulla gobba lassù, educa viole;

la gobba nera e azzurra

che sopra il mar sussurra.

 

Le sue istruzioni inoltre, includevano lo scavo con la vanga e una pala; ma io potevo ommetterlo. Il sole e il vento erano ciò di cui avevo bisogno.

Presi la strada superiore. In certe disposizioni di spirito la preferivo al sentiero lungo lo scoglio. Camminavo rapidamente. Quell’esercizio mi faceva bene.

Per raggiungere la mia radura favorita dovevo traversare i campi a sinistra e andar giù per la collina in direzione del mare. M’affrettai giù per l’angusto sentiero.

Sboccai nella radura a un bel trotto e m’arrestai ansante. E nello stesso momento, fresca e bella nel suo vestito candido, arrivava lì dall’altro lato, Fillide. Fillide... senza il professore.