CAPITOLO XIV.
UN CONSIGLIO DI GUERRA.

— Il fatto sta, — disse Ukridge, — che se le cose continuano allo stesso modo, caro mio, ci troveremo a mal partito. Bisogna lavorare a questa nostra azienda con tutte le forze. Sembra che non si vada innanzi. Proprio così, non so, non si va innanzi. Naturalmente ciò che ci occorre è il tempo. Se soltanto, questi bricconi di bottegai ci lasciassero in pace per un po’, potremmo fare le cose a modo. Ma siamo ostacolati e molestati e seccati continuamente. Non è vero, Millie?

— Sì, caro.

— Tu non mi lasci guardare abbastanza il lato finanziario delle cose, — mi lamentai. — Perché non mi tieni perfettamente a giorno di tutto? Non sapevo che tu fossi in condizioni critiche. I polli par che godano buona salute ed Edwin da una settimana non ne ha mangiati più.

— Edwin capisce bene quando ha commesso un malanno, signor Garnet, — disse la signora

Ukridge. — Si mostrò afflitto dopo clic uccise quegli altri due.

— Sì, — disse Ukridge, — me ne accorsi.

— A quel che posso vedere, — continuai, — si sta abbastanza in gamba. Polli a colazione la mattina, polli a mezzogiorno e polli la sera, è forse un po’ monotono; ma guarda gli affari che facciamo. Abbiamo venduto un mucchio d’uova la scorsa settimana.

— Ma non abbastanza. Noi non facciamo sentire la nostra presenza. L’Inghilterra non risuona del nostro nome. Vendiamo una dozzina di uova, mentre dovremmo venderne a centinaia caricandole in furgoni per il mercato di Londra e congestionando il traffico. Harrod, Whiteley e gli altri cominciano a puntare i piedi. Ecco che fanno. E si rendono antipatici. Vedi, caro, non si può negarlo. Ci facemmo dare un po’ d’oggetti a credito ed essi s’accordarono d’accettare il saldo in uova. Tutto quello che hanno fatto finora è d’accettare le lettere di scusa di Millie. Ora non credo che vi sia un’altra donna che sappia scrivere meglio di lei una lettera di scusa. Ma se sei di spirito aperto e sai guardare nei fatti, non puoi fare a meno dal rilevare che la più succosa lettera di scusa, dopo tutto, non è un uovo. Intendo dire guardiamo le cose dal punto di vista dei nostri creditori: Harrod... e Whiteley vanno la mattina nel loro magazzino e si stropicciano le mani speranzosi: «Bene — dicono — quante uova da Combe Regis oggi?» E invece d’esser condotti a un angolo gremito di sporte ricolme, vien data loro una lettera di quattro pagine che dice che andrà tutto bene in avvenire. Io non ho mai avuto un magazzino di vendita al pubblico; ma è facile immaginare che la cosa debba un po’ urtare. Comunque, sembra che siano stanchi d’aspettare.

— L’ultima lettera di Harrod è stata assolutamente spiacevole, — disse la signora Ukridge, tristemente.

Io ebbi la visione d’una Londra senza uova. Mi sembrava di vedere delle case desolate e delle vite amareggiate da quella mancanza, e milionari che facevano a gara per i pochi e rari campioni che Ukridge era veramente riuscito a mandare a Brombpton e Bayswart.

Ukridge, essendosi indotto anche lui ad avere lo spirito aperto per cinque minuti, cominciò a sdrucciolare indietro fino al suo punto di vista personale, diventando ancora una volta l’uomo oppresso dall’ingiustizia del mondo. La sua fuggevole simpatia con i torti sofferti dal signor Harrod e dal signor Whiteley scomparve.

— Tutto poi, — egli disse lamentosamente, — tutto poi ammonta a questo: che sono infernalmente irragionevoli. Ho fatto tutto il possibile per esaudire i loro desideri. Nulla sarebbe potuto essere più virile e leale del mio atteggiamento. Dissi, in tre o quattro lettere fa, che mi proponevo di mandare le uova secondo il sistema rateale del «Times» per i libri e mi è stato risposto che la mia è una proposta frivola. Mandare tredici uova come pagamento per della merce fornitaci del valore di venticinque sterline, uno scellino e nove pence, voleva dire semplicemente scherzare. Scherzare? Non ti dico altro! Ecco con che spirito sono accolte le mie proposte. È stato Harrod a rispondere così. Non ho mai conosciuto personalmente Harrod; ma mi piacerebbe di vederlo per chiedergli proprio se a questo modo si possano cementare delle durevoli relazioni d’affari. Lui sa, come lo sanno tutti, che senza credito il commercio non ha elasticità. È elementare. Scommetto che si sarebbe rivoltato se gli altri commercianti gli avessero rifiutato di dargli la roba a credito quando iniziò la sua azienda. Credi che quando lui iniziò il suo commercio pagasse a pronta cassa per tutta la merce? Neppur per sogno. Egli andò in giro a pigliare i fabbricanti per la falda della giacca chiedendo la gentilezza di aspettare fino al mercoledì della settimana seguente. Scherzare! Ebbene quelle tredici uova erano assolutamente tutte quelle che avevamo, dopo che la moglie di Beale s’era provveduta di ciò che le occorreva per la cucina. Infatti, se mai, la colpa è della moglie di Beale. Quella donna se le divora letteralmente le uova.

— È un’abitudine che non ha soltanto lei, — dissi.

— Bene, ciò che intendo si è che par che lei si faccia dei bagni d’uova.

— Lei dice che gliene occorrono tanti per i budini, caro, — disse la signora Ukridge. — Le ho parlato appunto ieri. E poi spesso noi mangiamo la frittata.

— Non si può fare le frittate senza rompere le uova, — osservai.

— Non può farle senza romperle, no, perbacco, — disse Ukridge. — Un altro paio di frittate ed è finita. Nessuna fortuna al mondo potrebbe resistervi. Non dobbiamo avere più frittate, Millie. Dobbiamo economizzare. Milioni di persone se la passano bene senza frittate. Immagino che vi siano famiglie dove se fosse presentata una frittata si leverebbe tutta la forza della compagnia a gridar viva, dietro l’esempio del padre di famiglia. Sopprimi le frittate, bella mia, da ora in poi.

— Sì, caro. Ma...

— Bene?

— Non credo che alla signora Beale piacerebbe molto, caro. Lei s’è lamentata molto per i polli a ogni pasto. Dice che le frittate sono l’unica cosa che le danno modo di cambiare. Dice che vi sono sempre delle possibilità in una frittata.

— In breve, — dissi, — ciò che vi proponete di fare è di togliere assolutamente alla vita di quell’eccellente donna l’unico elemento superstite della poesia. Non dovete farlo. Lasciate alla moglie di Beale le frittate, e speriamo in un più largo rifornimento di uova.

— Un’altra cosa, — disse Ukridge. — Non si tratta soltanto del fatto che v’è scarsità di uova. La cosa non importerebbe molto, se ne tenessimo per covare nuove squadre di pulcini. Non dico che le galline non facciano del loro meglio. Mi tolgo il cappello alle galline. È una bella schiera che lavora d’impegno e che non m’immaginavo neppure d’incontrare così piena di vigore e d’ardore. È quel maledetto incubatore che fa cilecca, in tutto questo tempo. Quella maledetta cassapanca non vuole andare. Non so che cos’abbia. Il fatto sta che semplicemente si rifiuta d’incubare.

— Forse fai discendere la temperatura. Ricordo quello che mi dicevi. Mi sono dimenticato i particolari.

— Caro mio, — egli disse seriamente, — non v’è nulla d’inesatto nelle mie cifre. Si tratta d’una certezza matematica. Che varrebbe, la matematica, se non servisse a questa roba? No, v’è qualche cosa che va male in quella macchina e probabilmente devo reclamare contro chi me l’ha venduta. Dove acquistammo l’incubatore, cara?

— Credo da Harrod, caro... Sì, da Harrod. Arrivò con la prima spedizione di oggetti.

— Allora, — disse Ukridge, picchiando col pugno la tavola, mentre gli occhiali gli lampeggiavano come in trionfo, — lo abbiamo. Il Signore ha messo Harrod in mano nostra. Scrivi e rispondi a quella sua lettera stasera, Millie. E sappilo accomodare, per le feste.

— Sì, caro.

— Digli che gli avremmo mandato le sue maledette uova molto tempo fa, se quel suo sconcio incubatore, che non vale neanche due soldi, avesse lavorato, non dico a modo, ma con qualche decenza. — Egli si fermò. — Forse questo sarebbe sarcastico, Garnet, vecchio volpone? No. Scrivigli in modo ch’egli capisca. Digli ch’io considero che il fabbricante di quell’oggetto dovrebbe trovarsi in prigione... se non vi si trova già... e che lui è un briccone per avermi appioppato una sudicia cassapanca di quella specie.

— Domani, la cerimonia dell’apertura della corrispondenza da Harrod dovrà essere piena di interesse, — dissi.

Questo audace contraccolpo parve sollevare Ukridge. Il suo pessimismo svanì. Di rado egli guardava a lungo il lato spiacevole delle cose. E cominciò quindi a parlare speranzosamente dell’avvenire. Immaginò dei miglioramenti ingegnosi. I nostri polli dovevano moltiplicarsi con tanta rapidità e persistenza, che, entro un breve spazio di tempo, la contea di Dorset sarebbe stata lastricata tutta di galli e galline. Le nostre uova dovevano diventare di tali dimensioni da battere il «record» ed essere onorate d’un asterisco di tre righe nella colonna delle «notizie varie» del «Daily Mail». Insomma ciascuna gallina doveva diventare un felice amalgama di coniglio e di struzzo.

— Certamente verranno dei bei tempi, — dissi, — e può darsi anche subito. Intanto, e per i negozianti locali?

Ukridge si fece un’altra volta oscuro.

— Sono i peggiori di tutti. Non m’importa tanto di quelli di Londra. Quelli di Londra non fanno che scrivere una lettera o un paio di lettere, e una lettera non fa male a nessuno. Ma quando si tratta dei macellai, dei fornai, dei droghieri, dei pescivendoli e dei fruttivendoli e non so quali altri, che si presentano a casa a molestarmi nel mio stesso giardino... bene è un po’ duro, no?

— Ah, allora quelle persone con cui ti vidi parlare ieri erano creditori? Credevo che fossero dei coltivatori, che venissero per apprendere i tuoi metodi sull’allevamento dei polli.

— Quali? Quel piccino coi baffi neri e lunghi, e quell’altro sottile, con la barba? Il primo era Dawlish, il droghiere, e l’altro Curtis, il pescivendolo. Gli altri se n’erano andati prima che tu venissi.

Si può domandare perché prima che le cose arrivassero a un punto simile, io non avessi messo i miei piccoli risparmi a disposizione del mio socio anziano perché li impiegasse a pro dell’azienda. Ma il fatto sta che il poco che possedevo era pochissimo. Non ho ancora, nel corso di questa narrazione, descritta la mia posizione finanziaria; ma posso riferire qui ch’era poco allegra. Era piena di possibilità, ma di denaro contante non avevo che un magrissimo rifornimento. I miei genitori erano morti poveri. Ma avevo uno zio ricco. Gli zii sono notoriamente incuranti del benessere dei loro nipoti. Il mio non faceva eccezione. Aveva delle idee sue proprie. Credeva molto al matrimonio, perché avendo avuto tre mogli — non simultaneamente — aveva ogni diritto d’essere ottimista in fatto di matrimonio. Era anche d’opinione che tanto meno danaro un giovane scapolo ha a disposizione, tanto meglio per il giovane. La conseguenza fu questa: ch’egli annunziò la sua intensione di darmi un bell’assegno dal giorno che mi fossi sposato, ma non un istante prima. Fino a quel lieto giorno avrei dovuto ingegnarmi da me. E sono costretto ad ammettere che — per uno zio — era un’idea piena di sagacia. Debbo far rilevare inoltre, cosa che mi fa molto onore ed è prova della mia natura pura e nient’affatto mercenaria, che non mi misi istantaneamente alla riffa e che non mi precipitai nelle strade proponendo di sposare la prima donna che mi si facesse incontro. Ma guadagnavo abbastanza con la mia penna per vivere e, per quanto possa essere umile, v’è qualche cosa di piacevole nell’esistenza d’uno scapolo, o almeno così avevo pensato fino a poco tempo prima.

Così non avevo messo molto nell’allevamento di polli d’Ukridge. Avevo contribuito con un modesto biglietto di cinque sterline per le spese preliminari e con un altro simile, dopo l’incidente della pipita. Ma più oltre certo non potevo arrivare. Quando il proprio reddito dipende dal capriccio degli editori e dei direttori di giornali, il prudente si tiene qualche cosa in serbo contro un’improvvisa caduta della sua merce particolare. Non desideravo di fare una frettolosa scelta fra il matrimonio e l’ospizio di mendicità.

Avendo esaurito l’argomento della finanza — o piuttosto quando cominciai a sentire che esso esauriva me — presi le mazze del golf e m’arrampicai su per il colle sui campi di giuoco a divertirmi con un giocatore del villaggio. Avevo preso parte, alcuni giorni prima, ad una gara per un trofeo (cito l’annuncio stampato) donato da un amatore locale del giuoco, e in esso fino a quel momento me l’ero cavata benissimo. Avevo sopravvissuto a due partite, e aspettavo di battere il presente avversario sperando così d’arrivare alla semifinale. A meno che non fossi stato sfortunato, sentivo che sarei arrivato alla finale e che l’avrei vinta. A quel che potevo indovinare, osservando il giuoco dei miei rivali, il professore era il migliore fra tutti, ed ero convinto che non avrei esperimentata alcuna difficoltà con lui. Ma lui aveva una straordinaria fortuna al golf, benché non lo ammettesse. Inoltre esercitava una misteriosa influenza sul suo avversario. Avevo veduti molti completamente sconcertati dalla sua vena.

Abbattei il mio avversario senza difficoltà. Ci dividemmo un po’ freddamente. Egli aveva decapitata la sua mazza e fu lento a riaversi dalla commozione di quell’incidente.

Nella palazzina del circolo incontrai il professore la cui condotta formava un bel contrasto con quella dell’ultimo avversario. Il professore aveva appunto disfatto il suo, vincendo così per la semifinale. Era accaldato, ma giubilante.

Mi congratulai con lui e me n’andai.

Fillide aspettava di fuori. Spesso ella lo accompagnava.

— Buon giorno, — dissi. — Siete venuta con vostro padre?

— Sì. Abbiamo dovuto esser di fronte a voi. Papà ha vinto la gara.

— Me l’ha già detto. Sono stato lieto d’apprenderlo.

— Avete vinto, signor Garnet?

— Sì. Piuttosto facilmente. Il mio avversario ha avuto una specie di disdetta per tutta la partita. Gli ostacoli sembrava che avessero un’attrazione magnetica per lui.

— Così voi e papà siete entrambi nella semifinale? Spero che giocherete molto male.

— Grazie, — dissi.

— Sì. Sono scortese, non è vero? Ma papà spera ardentemente di vincere quest’anno. Sapete ch’egli ha giocato nella finale due anni di seguito?

— Veramente?

— E tutt’e due le volte è stato battuto dallo stesso uomo.

— Chi era? Il professor Derrick giuoca meglio di quanti ho visti in queste parti.

— Quegli non è qui ora. Era un certo colonnello Jervis. Quest’anno non è venuto a Combe Regis. Ecco perché papà ha speranza.

— Logicamente, — dissi, — dovrebbe esser certo di vincere.

— Sì, ma vedete, voi non giocavate l’anno scorso, signor Garnet.

— Oh! il professore può vincere, — dissi.

— Quanto avete fatto oggi?

— Ho fatto soltanto le prime dozzine di buche. Ma la mia media negli ultimi tempi è stata ottanta.

— Il più fatto da mio padre è novanta; ma solo una volta. Così, vedete, signor Garnet, vi sarà un’altra tragedia quest’anno.

— Mi date la sensazione ch’io sia un perfetto bruto. Ma è più che probabile, dovete ricordare, che fallirò miseramente, se mai giocherò con vostro padre nella finale. Vi sono giorni in cui giuoco male al golf, come giuoco male al tennis. Appena mi credereste.

Ella sorrise come ricordando.

— Tommaso è troppo abile al tennis. Il suo tiro è veramente terribile.

— È un po’ terrificante, appena inizia il giuoco.

— Ma voi vi conducete meglio al golf che al tennis, signor Garnet. Vorrei che non fosse così...

— Questa è una speciale perorazione, — dissi. — Non è giusto appellarsi alla pietà, signorina Derrick.

— Non sapevo che i giocatori di golf ne avessero, trattandosi di golf. Veramente avete i vostri cattivi giorni?

— Quasi sempre. Ve ne sono alcuni in cui uso la mazza come se fosse un coltello da pane.

— Veramente?

— E giorni in cui non sono capace di colpire un pagliaio.

— Spero che quando giocherete con papà sarà uno di quei giorni.

— Lo spero anch’io, — dissi.

— Lo sperate?

— Sì.

— Ma non desiderate di vincere?

— Preferirei di farvi piacere.

— Siete realmente generoso, signor Garnet, — ella rispose con una risata. — Non avevo idea che esistesse tanta cavalleria. Credevo che un giocatore di golf avrebbe sacrificato qualunque cosa per vincere.

— Moltissime cose...

— E avrebbe calpestato i sentimenti di chiunque.

— Non di chiunque, — dissi.

In quel punto il professore ci raggiunse.