CAPITOLO IV.
L’ARRIVO.
Da Axminster a Combe Regis la linea corre attraverso una campagna attraente come qualunque altra dell’isola, e il treno, come consapevole di questo fatto, non s’affretta in viaggio. Tardi nel pomeriggio raggiungemmo la meta.
Le disposizioni per il trasporto del bagaglio a Combe Regis sono d’una condizione primitiva. I bauli sono lasciati sul marciapiedi della stazione e dopo, quando se ne ricorda, un facchino li esamina e li trasporta nella valle, e sulla collina di contro, all’indirizzo scritto sull’etichetta. Il proprietario del baule va a piedi. Combe Regis non può esser meta di zoppi e di storpi.
Ukridge ci condusse in direzione della fattoria, attraversando la valle che guardava attraverso i boschi il mare. La casa era visibile dalla stazione. Di sulla vetta della collina, godeva la vista d’un esteso panorama.
A mezza via sull’erta, dell’altro lato della vallata, lasciammo la strada, e c’incamminammo per un terreno inzuppato, giacché Ukridge spiegò che quella era una brevissima scorciatoia. Ci arrampicammo attraverso una siepe, varcammo un torrente e un altro campo, e dopo aver fatto degli sforzi per superare un argine difficile, coronato da fili di ferro spinato, ci trovammo in un giardino.
Ukridge s’asciugò la fronte e si rimise gli occhiali nella posizione originale, dalla quale li aveva sloggiati il passaggio del filo spinato.
— Ci siamo, — egli disse. — Siamo venuti dalla parte di dietro. Abbiamo risparmiato tempo. Sei stanca, Millie?
— Un po’, caro. Desidererei una tazza di tè.
— Lo stesso io, — convenni.
— Benissimo, — disse Ukridge. — Ci aspettano Beale e sua moglie a casa. Ho scritto che arrivavamo oggi e naturalmente sono pronti a servirci. Così si fanno le cose, Garnet, vecchio volpone. Con calma e capacità. Con la perfetta organizzazione.
In quel momento ci trovavamo alla porta della facciata. Ukridge sonò il campanello. Lo squillo echeggiò per entro la casa; ma non vi fu alcuna risposta. Egli sonò di nuovo. Non ci vuol molto a comprendere quando lo squillo d’un campanello si ripercuote in una casa vuota. Era certo che Beale e la moglie non c’erano.
— Che cosa vuol dire?... — domandai.
La signora Ukridge guardò il marito con calma fiducia.
— Questo, disse Ukridge, appoggiandosi contro la porta e sforzandosi d’abbottonarsi il colletto di dietro, — mi rammenta un pomeriggio nell’Argentina. Due altri bravi turisti e io tentammo, per tre quarti d’ora, d’entrare in una casa vuota, dove sembrava che ci potesse essere qualcosa da bere, ed eravamo appunto riusciti ad aprire la porta, quando il proprietario sbucò con un fucile di dietro un albero. Era un po’ difficile spiegare le condizioni di fatto. In realtà non riuscimmo a spiegare la questione perfettamente in tutti i suoi aspetti e non ti puoi immaginare quanto tempo ci voglia per estrarre dei pallini dalle gambe d’una persona... C’era anche un cane.
S’interruppe meditando sul felice passato, e in quel momento la storia parzialmente si ripeté. Di dietro la porta venne un guaito d’insoddisfazione, seguito da un breve latrato.
— Ohi! disse Ukridge. — Beale ha un cane. — Aggrottò le ciglia, seccato. — Che dire, aggiunse in tono burbero, — a un cagnaccio che appartiene a un uomo che io pago, a un cane che mi tiene fuori di casa mia? È un po’ duro. Eccomi qui a sgobbare giorno e notte per mantenere Beale, e nell’atto che tento di entrare in casa mia questo cane del diavolo mi latra contro. Sull’onor mio che è duro! — Meditò un momento sull’ingiustizia del mondo. — Ecco. Lasciami guardare per il buco della serratura. Tenterò di ragionare con questa bestia.
Mise la bocca al buco della serratura e ruggì: «Passa via!» Immediatamente la porta si scosse come se un oggetto pesante le fosse stato scagliato contro. I latrati echeggiarono attraverso la casa,
— Andiamo di dietro, — disse Ukridge, rinunziando all’idea della conciliazione. — Entriamo per la finestra della cucina.
Si vide subito che la finestra della cucina non era ben chiusa. Ukridge la spalancò, e potemmo entrare. Il cane, sentendo il rumore, corse indietro lungo il corridoio, e si gettò contro l’uscio graffiando i pannelli. Ukridge ascoltava con crescente indignazione.
— Millie, tu sai accendere il fuoco. Garnet e io piglieremo tazze, piattini e cucchiaini. Quando arriverà quel briccone di Beale, lo farò a pezzi. Abbandonarci in questa maniera! Quell’uomo dev’essere un briccone matricolato. Mi disse che era un ex-soldato. Se è questa la disciplina che si suol tenere nel suo reggimento... Grazie a Dio abbiamo una marina! Maledizione, ho rotto un piatto! S’accende il fuoco, Millie? Farò Beale a pezzettini. Che fai lì, Garnet, vecchio volpone? Il tè? Bene. Dov’è il pane? Ecco un altro piatto che se ne va... E dov’è poi la moglie di Beale? Per Giove, quella donna vuol essere uccisa, come quel furfante del marito. Chi mai ha sentito dire d’una cuoca che lascia deliberatamente il posto proprio il giorno in cui s’aspetta il ritorno del padrone e della padrona? Donna del diavolo! Ma sentite! Darò a quel cane tre minuti di tempo, e se non cessa di graffiare la porta, piglierò un matterello e andrò a parlargli a quattr’occhi! È un po’ duro! A casa mia, la prima cosa che trovo quando arrivo è una brutta bestia estranea che mi graffia le porte e mi rovina le vernici. Finiscila, brutta bestia!
Il cane rispose continuando le sue operazioni con immenso vigore.
Gli occhi d’Ukridge raggiarono dietro gli occhiali.
— Dammi una bella brocca. Grossa, Garnet, — egli disse con calma sinistra.
Prese la più grossa delle brocche sulla credenza e se ne andò nella retrocucina, donde giunse un rumore d’acqua corrente. Tornò portando la brocca con ambo le mani e con la faccia d’un generale che ha pensato a un magnifico colpo strategico.
— Garnet, vecchio volpone, — disse, — afferra la maniglia della porta, e quando te l’ordino, apri i battenti. E vedrai che magnifica sorpresa avrà quel cane!
M’attaccai alla maniglia come m’era stato detto. Ukridge diede l’ordine. Avemmo la visione momentanea d’un cagnaccio eccitato, incorniciato nella porta aperta, tutto occhi e denti; poi il corridoio fu occupato da una pozza d’acqua che si spandeva, e in distanza da latrati indignati, che dicevano che il nemico pensava all’assalto in qualche sicuro rifugio.
— Gli ho dato il fatto suo, — disse Ukridge con compiacenza. — Ci vogliono delle risorse, caro Garnet. Alcuni avrebbero lasciato che la porta venisse rovinata...
— E guastato un cane per un soldo d’acqua, — osservai.
In quel momento la signora Ukridge annunziò che la teiera bolliva. Con la tazza del tè davanti, Ukridge diventò uomo d’affari.
— Mi domando quando arriveranno queste galline. Avrebbero dovuto essere qui oggi. È un po’ duro. Eccomi qui pieno di buona volontà e di ansia, aspettando d’impiantare un moderno allevamento di polli, e mi mancano le galline! Non si può dirigere un allevamento di polli senza galline. Se non vengono domani, piglierò certa gente a colpi d’accetta. Abbasso la pigrizia! Tutti devono darsi da fare. Dopo il tè, ti mostrerò il giardino e sceglieremo il posto per i polli. Domani, dopo colazione, dobbiamo applicarci subito, e cominciare a lavorare seriamente.
— Supponi, — dissi, — che le galline arrivino prima che noi siamo pronti.
— Bene. Allora aspetteranno.
— Ma non si possono tenere le galline confinate indefinitamente in un canestro.
— Oh, non vuol dire. C’è un sotterraneo. Aspetteranno lì finché non saremo pronti. V’è sempre una maniera di fare, se si cerca bene. L’organizzazione, caro mio. Questa è la mia impresa. Calma e capacità.
— Spero che lascerai che le galline covino un po’ di uova, caro, — disse la signora Ukridge. — Come mi piacerebbe avere un po’ di pulcini!
— Naturalmente. Ma si capisce. La mia idea, — disse Ukridge, — è stata questa. Questa gente ci manderà cinquanta galline assortite. Questo significa... diciamo quarantacinque uova al giorno. Noi... Bene, che il diavolo mi porti, ecco di nuovo il cane. Dov’è la brocca?
Ma questa volta un’interruzione inaspettata impedì che la manovra avesse il successo della prima volta. Io avevo voltato la maniglia e stavo per aprire la porta, mentre Ukridge, con l’aria di una brutta versione moderna del «Discobolo» s’inchinava accanto a me con la brocca librata, quando una voce parlò dalla finestra.
— Fermi! — disse la voce, — o vi ammazzo!
Lasciai andare la maniglia. Ukridge fece cadere la brocca. Sua moglie lasciò cadere la tazza di tè. Alla finestra, con un fucile a doppia canna in mano, c’era un uomo basso, massiccio, coi capelli rossi. La bocca del fucile posato sulla soglia mirava in linea retta il terzo bottone del mio gilè.
Ukridge cacciò un ruggito come quello d’un leone affamato.
— Beale! Briccone, furfante, del diavolo! Che diamine fai con quel fucile? Perché sei fuori? Che hai fatto? Perché strilli a quel modo? Guarda che mi hai fatto fare.
Egli indicava il pavimento. Le vecchie scarpe da tennis, ch’egli calzava, erano in quel momento abbondantemente inzuppate con l’acqua versata.
— Santo cielo, signor Ukridge, siete voi! — disse con calma l’uomo dai capelli rossi. — Credevo che foste ladri.
Un breve latrato dall’altro lato dell’uscio della cucina, seguito da un nuovo tentativo di graffi, attrasse l’attenzione di Beale sul suo cane fedele.
— È Bob, — disse.
— Non so come si chiami quella brutta bestia, — disse Ukridge. — Vieni dentro a legarla, e bada a quel fucile. Dopo che avrai finito col cane, mi piacerà d’avere una conversazioncella con te, se hai tempo e non hai altri impegni.
Beale, dopo aver con cura deposto il fucile contro il muro e aver fatto cadere un paio di conigli sul pavimento, continuò con l’arrampicarsi attraverso la finestra. Finita questa operazione si trasse da un lato, mentre la guarnigione assediata usciva fuori dalla stessa strada.
— Mi troverai nel giardino, — disse con freddezza Ukridge. — Ho un paio di cosette da dirti.
Beale sorrise affabilmente. Sembrava fosse uomo di carattere equo.
L’aria fresca del giardino ci diede una sensazione piacevole, dopo il calore della cucina. Il giardino era bello, cioè sarebbe stato bello, se non fosse stato così trascurato. Mi vedevo seduto in una sedia di vimini sul prato a fumare e guardare attraverso gli alberi il porto laggiù. Era un luogo, sentivo, nel quale sarebbe stato facile e piacevole lavorare alla trama del mio romanzo. Mi sentivo lieto d’essere andato laggiù. In quel momento, fuori della mia abitazione in città, un organino di Barberia particolarmente sciagurato si metteva certamente al lavoro.
— Ab, ci sei, Beale, — disse Ukridge, come apparve il servitore. — Ora, dunque, che hai da dirmi?
Il servitore parve pensare per un momento. Poi disse che era una bella serata.
— Una bella serata? — gridò Ukridge. — Che diavolo c’entra con quello che dico? Voglio sapere perché tu e tua moglie eravate fuori quando siamo arrivati.
— Mia moglie è andata ad Axminster, signor Ukridge.
— Lei non aveva alcun diritto d’andare ad Axminster. Non fa parte dei suoi doveri andarsene in giro per Axminster. Io non le dò il bel salario che le dò per andare ad Axminster. Voi sapevate che sarei arrivato stasera?
— No, signore.
— Come?
— No, signore.
— Beale, — disse Ukridge con calma ponderata, frenando uno scoppio d’indignazione, — uno di noi due è un idiota.
— Sì, signore.
— Andiamo fino in fondo alla cosa. Hai avuto la mia lettera?
— No, signore.
— La lettera in cui dicevo che sarei arrivato oggi. Non l’hai ricevuta?
— No, signore.
— Ora senti, Beale, codesto è assurdo. Sono certo che la lettera è stata spedita. Ricordo che me la misi in tasca a bella posta. Ora non è qui. Vedi. Questo è tutto quello che ho in tasca... Ah, che il diavolo mi porti!...
Egli guardava la busta, che s’era cavata dalla tasca della giacca. Un breve sorriso apparve sulla faccia lignea di Beale, che tossì.
— Beale, — disse Ukridge, — tu... Pare che ci sia stato un errore.
— Sì, signore.
— Non sei tanto colpevole quanto ti credevo.
— No, signore.
Vi fu un po’ di silenzio.
— Comunque, — disse Ukridge in tono ispirato, — andrò ad ammazzare quel cane del demonio. Gl’insegnerò a fare la mia porta a pezzi. Dov’è il fucile, Beale?
Ma prevalse un consiglio migliore, e la seduta si chiuse con un freddo, ma buon desinaretto, nel quale il cane risparmiato si presentò inaspettatamente con dei giuochi ingegnosi e divertenti.