CAPITOLO XV.
NEMESI.
Alcuni non credono nei presentimenti. Certi attribuiscono quella curiosa sensazione di qualcosa di spiacevole imminente a ragioni fisiche, come il fegato, la costituzione o il tempo. Per parte mia credo che vi sia nei presentimenti più di quanto l’osservatore occasionale possa immaginare.
Mi svegliai, tre giorni dopo il mio incontro col professore nella palazzina del circolo, sotto l’imperio d’una opprimente sensazione. Comunque, mi pareva di sapere che quel giorno sarebbe stato triste per me. Sarà stato il fegato o non so che altro; ma certo non si trattava del tempo.
La mattina era perfetta — la più gloriosa di un’estate gloriosa. V’era una bruma sulla vallata, lontano fino al mare, che faceva pensare a un meriggio caldo nell’ora che il sole avrebbe cominciato i gravi doveri del giorno. Gli uccelli cantavano negli alberi e facevano colazione sul prato, mentre Edwin, sdraiato in un’aiuola, li guardava con l’occhio del conoscitore. Di tanto in tanto, quando un passero balzava verso di lui, egli dava improvvisamente un salto, e l’uccello volava via all’altro lato del prato. Non ho mai veduto Edwin acchiappare un passero. Credo che gli uccelli lo ritenessero come una specie di molla animata e lo secondassero coll’avvicinarsi e tentarlo, appunto per tenerlo divertito. Degli audaci giovani passeri, che volevano far mostra di sé innanzi alla loro bella e farsi una reputazione a buon mercato di diabolico ardimento, giungevano a pochi passi dal punto dove Edwin era in attesa, e poi saettavano via. Bob era allungato nel suo punto favorito, sulla ghiaia. Lo condussi con me fino al Cob perché assistesse al mio bagno.
— Che ho addosso oggi, mio caro Bob? — gli domandai, mentre m’asciugavo.
Esso ammiccò pigramente, ma non rispose nulla.
— Non sta bene aver l’aria seccata, — continuai, — perché devo parlarti di me, anche se ti secco. Eccomi qui, forte come un atleta, a vivere all’aria aperta per non so quanto tempo, a mangiare dei buoni cibi semplici, a bagnarmi ogni mattina... a fare dei bagni di mare, capisci, e pure che giovamento n’ho? Mi sento mollo male.
Bob sbadigliò e cacciò un piccolo gemito.
— Sì, — dissi. — So che sono innamorato. Ma non può esser per questo, perché ero innamorato allo stesso grado una settimana fa e allora mi sentivo benissimo. Ma non ti pare che lei sia un angelo, Bob? Eh? Non è un angelo? E non ti sentivi tutto ringalluzzito quando lei t’accarezzava? Certo che sì! Chiunque si sarebbe sentito deliziato. Ma che dici di Tommaso Chase? Non credi che sia pericoloso? Lui la chiama col suo nome di battesimo, sai, e si conduce in generale come se lei gli appartenesse. E poi la vede ogni giorno, mentre io devo sperare d’incontrarla di tanto in tanto, per poi sentirmi quasi sempre così sciocco da non poter parlarle di null’altro che del golf e del tempo. Lui probabilmente canta dei duetti con lei dopo pranzo, e sai bene che cosa deriva dai duetti dopo pranzo.
A quel punto Bob, che aveva tentato per qualche tempo di trovare una scusa decente per svignarsela, finse di vedere qualche cosa d’importante all’altra estremità del Cob, e trotterellò via a investigare quel punto, lasciandomi solo a finir di vestirmi.
— Naturalmente, — mi dissi, — potrebbe trattarsi di semplice fame. Potrei sentirmi meglio dopo colazione. Ma mi sembra che m’affanni per avere veramente un bell’accesso di malumore. Mi sento male.
Fischiai a Bob, e m’avviai a casa. Sulla spiaggia vidi il professore un po’ in distanza, e agitai il mio accappatoio in maniera amichevole. Lui non mi rispose. Naturalmente era possibile che non m’avesse veduto. Ma per qualche ragione il suo atteggiamento mi fece un’impressione sinistra. Fin dove poteva vedere, egli guardava direttamente verso di me, e non era miope. Non potevo pensare ad alcuna ragione perché dovesse fingere di non vedermi. C’eravamo incontrati al golf la mattina prima, e s’era mostrato con me l’amichevolezza in persona. M’aveva chiamato «mio caro ragazzo», m’aveva fatto servire del gin e del ginepro nella palazzina del circolo, e generalmente s’era condotto come se lui fosse stato Davide e io Gionata. Pure, in certe disposizioni di spirito, siamo disposti a veder delle montagne in qualche misero mucchietto di terra. Me n’andai per la mia strada, perplesso e a disagio, con la distinta impressione d’aver sofferto direttamente un affronto.
Mi sentivo male. Che cosa avevo fatto perché la Provvidenza dovesse prepararmi cose così spiacevoli? Sarebbe stato un po’ duro, come Ukridge soleva dire, se dopo tutto il mio affanno il professore avesse scoperto qualche nuova doglianza contro di me. Forse Ukridge lo aveva irritato di nuovo? Avrei voluto che il professore non n’avesse identificato così completamente con Ukridge. Non si poteva sperare che potessi dominare il mio amico. Poi riflettei che difficilmente i due s’erano potuti incontrare nelle poche ore tra la mia separazione dal professore, nella palazzina del circolo, e il mio incontro con lui sulla spiaggia. Ukridge raramente lasciava l’allevamento. Quando non lavorava tra i polli, si stendeva supino nel prato, a lasciar riposare la sua mente massiccia.
Giunsi alla conclusione che, dopo tutto, il professore non m’aveva veduto.
— Sono un idiota, Bob, — dissi entrando per il cancello, — e ho lasciato galoppare la fantasia.
Bob agitò la coda, approvando la mia riflessone.
La colazione era pronta, quando entrai. V’era un pollo freddo sulla credenza, del pollo alla cacciatora sulla mensa, un terzetto di uova allesse e un piatto di uova strapazzate. Riguardo alla quantità, la moglie di Beale non era mai in difetto.
Ukridge stava ripartendo la corrispondenza.
— Buon giorno, Garnet, — disse. — Una lettera per te, Millie.
— È di zia Elisabetta, — disse la signora Ukridge, guardando la busta.
Fino allora avevo sentito qualche rara menzione di quella parente. Ma m’ero fatta un’immagine mentale di lei, in parte dalle osservazioni che Ukridge s’era lasciate sfuggire, ma principalmente dal fatto ch’egli aveva battezzata con quel nome la gallina più maligna dei nostri pollai. Una donna severa, me la immaginavo, dall’occhio freddo.
— Vorrei che m’avesse mandato uno «chèque», — disse Ukridge. — Avrebbe potuto farlo. Non hai neppure la più lontana idea, Garnet, della ricchezza indecente e nauseante di quella donna. Abita a Kensington e ha una rendita che la farebbe figurar bene in Park Lane; ma quanto a toccarle la rendita non c’è neppur da pensare. Lei rifiuta fermamente di separarsene.
— Credo che lo farebbe, caro, se sapesse quanto ne abbiamo bisogno. Ma non mi piace di domandarle nulla. Ella è così strana e dice tali brutte cose.
— Sì, — convenne Ukridge, tristemente. Parlava come chi ne avesse esperienza. — Due lettere per te, Garnet. Tutte le altre per me. Son dieci e tutte di conti.
Sparse le buste sulla tavola e ne pigliò una a caso.
— Whiteley. Diventa irrequieto. Ha ricevuto la mia del diciassette corrente e non riesce a comprendere. È strano. Par che questa gente non comprenda mai un fico secco. È duro! Voi vi esprimete in parole semplici per essi ed essi spalancano la bocca, domandandosi che significano. Vogliono qualche cosa in acconto. Parola d’onore questo Whiteley m’ha deluso. Avevo un’opinione piuttosto buona di lui, e credevo che fosse un po’ più intelligente di Harrod. Avevo una mezza intenzione di sbarazzarmi di Harrod, e di mandare tutti i miei prodotti a Whiteley. Ma ora no, perbacco! Whiteley m’ha deluso. Dal modo come scrive si crederebbe ch’egli pensi ch’io sto scherzando. Come posso mandargli quel maledetto danaro, se non ne ho? Ecco una lettera da Dorchester. Smith, il negoziante dal quale abbiamo preso il grammofono. Vuol sapere quando gli mando il saldo dei sedici dischi. Brutta bestia!
Volevo leggere la mia corrispondenza; ma Ukridge mi trattenne con un’occhiata scintillante.
— Quelli che ci hanno venduto i polli, sai, vogliono che paghi il primo lotto di galline. Considerando che tutte sono morte di pipita e che stavo per mandarle indietro, a ogni modo, dopo che mi avessero covato un po’ di pulcini, trovo il loro contegno alquanto insolente. Intendo dire che gli affari sono affari. Ed è proprio questo che tutta questa gente non vuol comprendere. Non posso pagare delle enormi somme per delle bestie quasi prima di averle ricevute.
— Non parlerò mai più di zia Elisabetta, — disse all’improvviso la signora Ukridge.
Ella aveva lasciato cadere la lettera che aveva in mano e guardava indignata di fronte a sé. Aveva sulle guance due piccoli punti rossi.
— Che c’è? — domandò Ukridge affettuosamente, levando gli occhi dal mucchio di conti e dimenticando per un istante i propri affanni. — Coraggio. Zia Elisabetta t’ha urtato i nervi? Che cosa t’ha detto questa volta?
La signora Ukridge lasciò la stanza con un singhiozzo. Ukridge saltò sulla lettera.
— Se quel demonio non cessa di scrivere le sue lettere infernali e di sconvolgere Millie, la strangolerò con queste mani, senza riguardo alla sua età e al suo sesso. — Egli voltò le pagine della lettera, finché non giunse al brano che aveva originato il turbamento. — Bene, parola d’onore! Ascolta questa, Garnet, vecchio volpone. «Tu non mi dici nulla riguardo al successo di quel vostro allevamento di polli e confesso che trovo sinistro il tuo silenzio. Tu sai l’opinione che ho di tuo marito. Lui si trova perfettamente smarrito in qualunque cosa richiegga l’esercizio d’un po’ di senso comune e di capacità negli affari».
Ukridge mi guardò stupefatto.
— Mi piace questo! Parola d’onore, è veramente hello! Avrei potuto credere qualunque cosa di quella sciagurata donna; ma credevo che avesse una ragionevole somma d’intelligenza. Ebbene, sai bene che, proprio in cose che richiedono del buon senso e della capacità negli affari, sono realmente forte.
— Naturalmente, caro, — risposi doverosamente. — Quella donna è una sciocca.
— Proprio così mi chiama lei, due righe più sotto. C’è da meravigliarsi che Millie ne sia rimasta sconvolta? Perché questa gente non ci lascia in pace?
— Oh la donna, la donna! — esclamai, come venendogli in aiuto.
— Sempre lì a intromettersi.
— Sempre insolente.
— E mordente.
— Terribile. Io non potrò resistere.
— Guarda qui. Sulla pagina appresso mi chiama un idiota.
— È tempo che tu adotti una forte risoluzione.
— E nella stessa frase allude a me come a un perfetto allocco. Conosci tu gli allocchi, Garnet?
Considerai il punto.
— Veramente, direi che si tratti di uccelli.
— Credo però che questo sia passibile di querela.
— Non me ne meraviglierei.
Ukridge si precipitò alla porta.
— Millie!
Sbatté la porta e lo sentii correr su per le scale.
Pigliai le mie lettere. Una m’era stata mandata da Lickford con un francobollo della Cornovaglia. Le diedi un’occhiata e la misi da parte per leggerla più a comodo.
L’altra era d’una strana scrittura. Guardai la firma: «Pietro Derrick». Strano. Che cosa aveva da dirmi il professore?
Il momento dopo sentii come se il cuore mi saltasse in gola.
«Signore, — la lettera cominciava.
Una piacevole allegra introduzione! Poi andava oltre il segno, per così dire, come un lampo. Non v’era nessuna formalità d’inizio, nessuna parata dignitosa di frasi composte. Correva dritta al punto principale. Era la lettera d’uno quasi troppo furioso per scrivere. Mi diede l’impressione che se non l’avesse scritta, egli sarebbe stato obbligato a un esercizio violento per uno sfogo dell’anima.
«Voi sarete abbastanza buono da considerare la nostra conoscenza finita. Non ho alcun desiderio dissociarmi con persone del vostro stampo. Se ci capitasse d’incontrarci, sarete tanto gentile da trattarmi assolutamente come un estraneo, come io tratterò voi. E se mi può esser permesso di dirvi una parola di consiglio, vi raccomanderei in futuro, quando desiderate di esercitare il vostro umorismo, di farlo in maniera meno volgare che non col corrompere i barcaioli perché rovescino i vostri («amici» cancellato con un grosso tratto, e sostituito con «conoscenti»). Se vi occorrono altri schiarimenti in questa materia la lettera acclusa può servirvi.»
Dopo di che egli rimaneva il mio devotissimo «Pietro Derrick».
La lettera acclusa era d’una certa Gianna Muspratt. Era brillante e interessante.
«Caro signore, il mio Enrico, Enrico Hawk, mi dice che lui ha rovesciato la barca e voi, non perché egli non sa star fermo in una barca come qualunque marinaio di Combe Regis, ma perché uno dei signori che tiene i polli, quello più piccolo, e si chiama il signor Garnet, gli disse: «Hawk, ti darò una sterlina se rovesci il signor Derrick nella tua barca». E il mio Enrico, essendosi facilmente persuaso fu ingannato e lo fece; ma lui è spiacente e vorrebbe non averlo fatto, e giura che non farà mai più un così brutto scherzo per nessuno, neppure per un biglietto di banca. Vostra devotissima: Gianna Muspratt.»
Oh la donna, la donna!
In fondo a tutto! La storia è piena di tragedie derivate dal sesso letale. Chi perdette il mondo a Marcantonio? Una donna. Chi lasciò perire Sansone così atrocemente? Sempre la donna. Perché Bill Bailey lasciò casa sua? Sempre la stessa cosa: a cagione d’una donna. E lì ero io, Geremia Garnet, innocuo scrittore di romanzi e pieno di buone intenzioni, che passava per la stessa strada. Maledissi Gianna Muspratt. Quale probabilità avevo più con Fillide ora? Potevo sperare di riacquistarmi di nuovo la simpatia del professore? Maledissi Gianna Muspratt per la seconda volta.
I miei pensieri arrivarono fino a Enrico Hawk. Briccone! Furfante! Che motivo aveva di tradirmi?... Bene, l’avrei accomodato a modo. L’uomo che mette la mano su una donna, tranne che per farle una carezza, è giustamente disprezzato dalla società. Così Gianna Muspratt, colpevole com’era, era sicura di fronte a me. Ma quell’Enrico Hawk?
Non ero dominato per lui da simili considerazioni. Gli avrei dato i dieci minuti più terribili della sua carriera. Gli avrei detto cose il cui ricordo l’avrebbe fatto gridare in letto nelle ore piccole della notte. Mi sarei vendicato.
Che demonio!
La mia vita... rovinata. Il mio futuro... grigio e vuoto. Il mio cuore... infranto. E perché? Per quel briccone di Hawk.
Fillide m’avrebbe incontrato nel villaggio, sul Cob o al golf, e mi sarebbe passata vicino, come accanto a un uomo invisibile. E perché? Per quel rettile di Hawk. Per quel verme di Hawk. Per quel triste briccone di Hawk.
Mi presi il cappello, e corsi fuori di casa verso il villaggio.