LA CITTÀ TENTACOLARE


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George Grosz, Automi repubblicani, particolare 1920, olio su tela, cm 60x47, New York, The Museum of Modern Art

George Grosz, Automi repubblicani, particolare 1920, olio su tela, cm 60x47, New York, The Museum of Modern Art

CITTÀ E MITO

Così scrive Paul Verlaine nel 1874 nella sua raccolta di poesie Romances sans paroles, sancendo la forza poetica e romantica della vita in città, quell’evocazione che generazioni intere di poeti precedenti avevano piazzato fra colline, campi e montagne:

Il pleure dans mon coeur
Comme il pleut sur la ville;
Quelle est cette langueur
Qui pénètre mon coeur?

 

Piove nel mio cuore / come piove sulla città; / cos’è questo languore /che penetra il mio cuore?

O bruit doux de la pluie
Par terre et sur les toits!
Pour un coeur qui s’ennuie
O le chant de la pluie!

 

Oh brusio dolce della pioggia / sui sassi e sui tetti! / Per un cuore che s’annoia / oh canto della pioggia!

Perché, nella seconda metà del roboante e industrializzato XIX secolo, è nelle metropoli che si sviluppa la vita, e quindi anche il sentimento. La città che fu descritta in modo virtuosistico, nei suoi fumi e nelle sue glorie, dal David Copperfield di Dickens, diventava centro d’una agiatezza morbida e d’una sperimentazione intellettuale senza fine.

Boris Bilinsky, Metropolis, 1925-1926, litografia a colori, cm 125x187, Collezione privata

Boris Bilinsky, Metropolis, 1925-1926, litografia a colori, cm 125x187, Collezione privata

Heinz Schulz-Neudamm, Metropolis, 1926, litografia a colori, cm 210x93, New York, The Museum of Modern Art

Heinz Schulz-Neudamm, Metropolis, 1926, litografia a colori, cm 210x93, New York, The Museum of Modern Art

William Hogarth, Gin Lane, 1751, litografia in bianco e nero, cm 38x24, Collezione privata

William Hogarth, Gin Lane, 1751, litografia in bianco e nero, cm 38x24, Collezione privata

George Bellows, Cliff Dwellers, 1913, olio su tela, cm 103x107, Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art

George Bellows, Cliff Dwellers, 1913, olio su tela, cm 103x107, Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art

Il mito della città è quello sul quale si fonda la civiltà d’Occidente, la quale diventa parzialmente “urbana” cioè civile per via dell’Urbs per eccellenza, Roma, che torna a essere esempio sin dal Rinascimento, quando la scoprono gli stranieri come luogo d’una memoria tramontata e ormai sedimentata.

Così scrive a metà del XVI secolo il poeta francese Joachim du Bellay:

Roma non è più: e se l’architettura / può ancora rievocare alla mente un’ombra di Roma, / pare quasi merito di poteri magici, / come spoglie mortali riportate alla vita di notte.

 

Rome n’est plus: et si l’architecture
Quelque ombre encor de Rome fait revoir,
C’est comme un corps par magique savoir
Tiré de nuit hors de sa sepulture.

E poi ancora:

Roma può assomigliare solo a Roma, / solo Roma può far tremare Roma.

 

Rome seule pouvait à Rome ressembler,
Rome seule pouvait Rome faire trembler.

George Grosz, Metropolis, 1916-1917, olio su tela, cm 123,5x122, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

George Grosz, Metropolis, 1916-1917, olio su tela, cm 123,5x122, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

In questa curiosa nostalgia stanno le radici di sviluppi ben fortunati e maggiori. Se Roma non è più, tante saranno le città che ne prenderanno il testimone. Venezia per prima, la quale si fonda sul suo concetto senatoriale per rimanere Repubblica; Parigi poi, quando finalmente sotto Richelieu toglie alla cittadina di Sens il titolo di sede del Patriarcato di Francia e se lo porta a Notre-Dame, sicché, per quanto la monarchia andrà a rifugiarsi a Versailles, fuori d’una città che da sempre teme, essa diventa la città per eccellenza e forse proprio per questa ragione. Nel frattempo Londra brucia e si ricostruisce verso quella che sarà la metropoli ottocentesca con il suo proletariato e, lentamente, una sua autonomia, tenendo sempre la nobiltà in vita campestre e la proprietà del suolo in mano a poche famiglie. Berlino intanto cresce come le ambizioni della monarchia di Prussia che farà la Germania moderna e di Berlino farà Metropolis, anche se la vera metropoli d’allora, e il poeta tedesco Bertolt Brecht lo capisce subito, sarà per il XX secolo New York, alla quale si rifanno le due grandi città parallele: in America Latina Buenos Aires e in Oriente Shanghai. Tutte figlie di Roma, che fu parente stretta di Alessandria d’Egitto, la quale viveva nel mito della città di Ur.

Umberto Boccioni, La strada entra nella casa, 1911, olio su tela, cm 100x100, Hannover, Sprengel Museum

Umberto Boccioni, La strada entra nella casa, 1911, olio su tela, cm 100x100, Hannover, Sprengel Museum

Vasilij Kandinskij, Mosca. Piazza Rossa, 1916, olio su tela, cm 51,5x49,5, Mosca, Galleria Tret’jakov

Vasilij Kandinskij, Mosca. Piazza Rossa, 1916, olio su tela, cm 51,5x49,5, Mosca, Galleria Tret’jakov

Oltre mezzo secolo dopo la riforma urbanistica del prefetto Haussmann che inventò i boulevard parigini per impedire le barricate, negli anni nei quali si conclude la nostra indagine, Alberto Savinio dedica il suo Ascolto il tuo cuore, città (1944) a Milano. L’umanità d’Occidente aveva in quest’arco di tempo cambiato radicalmente le proprie abitudini, tornando forse a quelle ancestrali dell’Impero romano: allora si era cives perché legati alla civitas.

Ernst Ludwig Kirchner, Nollendorfplatz, particolare, 1912, olio su tela, cm 69x60, Berlino, Stadtmuseum Berlin

Ernst Ludwig Kirchner, Nollendorfplatz, particolare, 1912, olio su tela, cm 69x60, Berlino, Stadtmuseum Berlin

Virgilio Marchi, Città fantastica, 1914-1915, acquerello su carta, cm 123x148, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou

Virgilio Marchi, Città fantastica, 1914-1915, acquerello su carta, cm 123x148, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou

Erich Mendelsohn, Torre Einstein a Potsdam, 1919-1922

Erich Mendelsohn, Torre Einstein a Potsdam, 1919-1922

NEW YORK E LE ALTRE

Quando negli anni Venti Henry Miller decide di diventare il cantore d’un epos cittadino newyorkese, che lo porterà poi all’abbandono dell’America e alla fuga in Francia, è impiegato in realtà nella super banca della Western Union, ma romanza la faccenda fingendo di lavorare nella compagnia telefonica cittadina, quella che chiama la Cosmodemonic Telegraph Company e che farà apparire nella trilogia Crocifissione in rosa (composta dai romanzi Plexus, Sexus, Nexus). Non poteva immaginare che negli stessi anni quella compagnia avrebbe commissionato all’architetto Ralph Walker dello studio McKenzie, Voorhees & Gmelin il Verizon Building, un edificio costruito fra il 1922 e il 1927 che questa realtà sembrava riassumere. E neppure che il 1° maggio 1931, Festa del lavoro, sarebbe stato inaugurato l’Empire State Building, deciso già prima e ultimato dopo il dramma della crisi direttamente con il dito del presidente Hoover che dalla Casa Bianca ne accese le luci, quelle dell’America. New York stava diventando quella città gotica con gli edifici affiancati per risparmiare il suolo e le altezze ambiziose per esaltare il suo predominio. Diventava l’esempio per il mondo.

Alberto Savinio, La cité des promesses, 1928, olio su tela, cm 97x146, Milano, Pinacoteca di Brera

Alberto Savinio, La cité des promesses, 1928, olio su tela, cm 97x146, Milano, Pinacoteca di Brera

Antonio Sant’Elia, La città nuova, 1914, matita e acquerello su carta, cm 47x23, Collezione privata

Antonio Sant’Elia, La città nuova, 1914, matita e acquerello su carta, cm 47x23, Collezione privata

Acrobati sulle impalcature dell’Empire State Building a New York, 1934

Acrobati sulle impalcature dell’Empire State Building a New York, 1934

Londra non può non competere e nello stesso anno inaugura il Shell Mex House, una sorta di potente oggetto da sovra-caminetto compreso d’orologio, mentre Shanghai fa bella mostra del suo Bund e Buenos Aires si porta all’altezza. E a Lipsia, e poi a Berlino, la coppia Bertolt Brecht autore e Kurt Weill musicista, ancora eccitata dal successo del 1928 dell’Opera da tre soldi ambientata a Londra, mette in scena Ascesa e caduta della città di Mahagonny, la Goldstadt (città d’oro) ovviamente riferita a New York e fa cantare alla protagonista: Alle grosse Unternehmungen haben ihre Krise (Tutte le grandi imprese hanno la loro crisi). Nel frattempo Iosif Stalin avvia la costruzione dei suoi grattacieli moscoviti, animati dalla passione per un futuro che immaginano perfetto.

Fotogramma dal film Tempi Moderni di Charlie Chaplin, 1936

Fotogramma dal film Tempi Moderni di Charlie Chaplin, 1936

Edward McKnight Kauffer, Metropolis, 1926, guazzo su carta, cm 75x43, New York, The Museum of Modern Art

Edward McKnight Kauffer, Metropolis, 1926, guazzo su carta, cm 75x43, New York, The Museum of Modern Art

Sono i medesimi anni nei quali, si parva licet, monta l’ambizione milanese con una sequenza di edifici di incomparabile novità e potenza. Ma già nel 1912 Umberto Boccioni, in pieno furore futurista, aveva preso una tela enorme, alta due metri e larga tre, per inscenare il suo capolavoro La città che sale, un testo figurativo che esaltava il costruire in corso dei nuovi quartieri di Milano.

Tutta l’Europa si sta inurbando. La prima sensazione che ne proviene tangibile è quella d’una densità, già conosciuta sin dal Medioevo, che assume ora un valore di compattezza dove ogni opportunità sembra diventare possibile. La tecnologia nuova, la posta pneumatica prima, il telefono poi, l’illuminazione con la luce elettrica, lo sviluppo dei trasporti pubblici generano un tipo di vita fino ad allora impensabile. La città medievale era densa ma subiva il coprifuoco. La città nuova è viva sempre, ventiquattr’ore su ventiquattro, e si rompono definitivamente i ritmi della giornata.

Umberto Boccioni, La città che sale, particolare 1910, olio su tela, cm 200x301, New York, The Museum of Modern Art

Umberto Boccioni, La città che sale, particolare 1910, olio su tela, cm 200x301, New York, The Museum of Modern Art

LA CITTÀ IMMAGINATA

Hippolyte Taine aveva scritto nel 1855 a proposito delle grandi Expo: “L’Europa si è mossa per vedere delle merci”, intuendo la città come luogo d’aggregazione neomedievale. E se avesse concentrato ulteriormente la propria attenzione avrebbe capito che quel Medioevo avrebbe in breve tempo riassunto la densità delle torri con la genesi della città moderna transatlantica.

Conclude il suo pensiero, alla fine del medesimo ciclo storico, Walter Benjamin con il suo saggio magistrale Parigi capitale del XIX secolo del 1939. Compie la sua analisi partendo dalle illustrazioni che Grandville fa della città futura. Ritrova in questo padre formidabile del Surrealismo una serie di intuizioni che diventeranno dato stabile della vita nella prima metà del XX secolo. È il medesimo afflato futurista che diventa mito definitivo e cinematografico con Metropolis di Fritz Lang nel 1927.

La città futura è un tema stabile e ossessivo della modernità recente. È quello che sogna il giovane futurista Antonio Sant’Elia, travolto in pieno dall’ideologia artistica con la quale inizia il XX secolo: un’ideologia forte e convinta che il mondo verrà ridisegnato integralmente, verso l’utopia. Lo stesso tema verrà poi messo in pratica dai ragazzi delle avanguardie britanniche del Vorticismo. Un caso del tutto a parte è invece quello della cosmogonia di Paul Klee, il quale l’architettura la racconta solo come un gesto poetico di un mondo già visto e percepito.

Se si esclude la preveggenza talvolta surreale di Leonardo da Vinci, è assai raro che gli uomini d’Occidente, pur nella loro lunga storia, abbiano pensato a un domani sostanzialmente diverso dal loro tempo contemporaneo. L’idea d’un progresso inteso come motore inarrestabile dei tempi si fa strada a partire dal XIX secolo e genera una sua conseguenza immediata e poetica della quale saranno protagonisti letterari Jules Verne in Francia e tre successivi inglesi, H.G. Wells, Aldous Huxley e George Orwell. A dire il vero erano stati preceduti dalla romantica Mary Shelley (1797-1851) la quale, con il suo Frankenstein (1818, poi ripubblicato nel 1831), per la prima volta ipotizzava la creazione scientifica d’un uomo superiore anche se incompreso, e alla quale si deve anche il romanzo apocalittico L’ultimo uomo (1826), dove si prevede l’abdicazione del re inglese nel 2073 e la successiva catastrofe dell’umanità travolta dalla peste.

Moses King, Future New York, “The city of Skyscrapers”, 1915, litografia a colori, cm 45x28, Collezione privata

Moses King, Future New York, “The city of Skyscrapers”, 1915, litografia a colori, cm 45x28, Collezione privata

Jules Verne in Francia assume un atteggiamento ben più positivo ed entusiasta verso i tempi che verranno; di suo fa lo scrittore di successo di romanzi d’avventura e di testi teatrali d’intrattenimento, un po’ come se fosse già un autore dei film del XX secolo. La vena visionaria gli viene in parallelo, ma è quella che lo consegnerà alla storia con anticipazioni incredibilmente plausibili e che avranno la fortuna di avverarsi in gran parte, come Dalla Terra alla Luna (1865), Ventimila leghe sotto i mari (1870), Il giro del mondo in ottanta giorni (1873).

Tullio Crali, Incuneandosi nell’abitato, 1939, olio su tela, cm 130x155, Collezione privata

Tullio Crali, Incuneandosi nell’abitato, 1939, olio su tela, cm 130x155, Collezione privata

Manifesto per il film L’uomo con la cinepresa di Dziga Vertov, 1929, litografia a colori, cm 210x120, Collezione privata

Manifesto per il film L’uomo con la cinepresa di Dziga Vertov, 1929, litografia a colori, cm 210x120, Collezione privata

Al suo opposto gli autori inglesi sembrano tendenzialmente misoneisti: per loro il futuro è da temere. H.G. Wells, socialista pacifista e sostenitore dello stato mondiale unico, scrittore prolisso e insegnante di fama, pubblica il suo primo libro di fantascienza nel 1895, La macchina del tempo. Ma il testo che lo consegna alla Storia e ne fa un padre fondatore della fantascienza è innegabilmente La guerra dei mondi del 1897, con una copertina che già anticipa molto dell’iconografia fantascientifica del XX secolo. L’edizione francese appare in Belgio nel 1906 con ben 132 illustrazioni mirabili d’un artista brasiliano formato a Parigi, Henrique Alvim Corrêa, dove appaiono già molti dei temi che ossessioneranno i disegnatori di fantascienza successiva e nei quali la fonte d’ansia non sembra estranea ai disegni angosciati di Odilon Redon. Questo romanzo diventerà negli anni successivi fonte d’ispirazione per quello che forse è da considerarsi il massimo capolavoro cinematografico del genere negli anni Trenta, Things to Come (La vita futura), per la regia di William Cameron Menzies (1936) e la sceneggiatura dello stesso H.G. Wells. Nel 1938 un altro Wells, questa volta il ben noto Orson americano, in una delle più note sue creazioni radiofoniche riprenderà il tema con tale realismo, in una cronaca finta dal vero, da provocare un panico pubblico.

Manifesto per il film Things to Come di William Cameron Menzies, 1936, litografia a colori, cm 210x120, Collezione privata

Manifesto per il film Things to Come di William Cameron Menzies, 1936, litografia a colori, cm 210x120, Collezione privata

Albert Robida, Maison tournante aérienne, 1883 ca., matita su carta, cm 25x15, Washington, Library of Congress

Albert Robida, Maison tournante aérienne, 1883 ca., matita su carta, cm 25x15, Washington, Library of Congress

Albert Robida, Le Sortie de l’opéra en l’an 2000, 1882 ca., litografia colorata a mano, cm 48x75, Washington, Library of Congress

Albert Robida, Le Sortie de l’opéra en l’an 2000, 1882 ca., litografia colorata a mano, cm 48x75, Washington, Library of Congress

In fondo la visione dello scrittore britannico appariva all’opposto di quella dell’altro socialista utopista che era il drammaturgo George Bernard Shaw, il quale immaginava un mondo migliorabile a tal punto che negli anni della grande depressione americana si dichiarava sostenitore del regime staliniano, suggeriva di spedire in Unione Sovietica i disoccupati americani e avanzava addirittura ipotesi di eutanasia per migliorare la razza umana; non gli sarà quindi per nulla antipatico il fascismo italiano e Gaetano Salvemini, rifugiato in Inghilterra, lo contrasterà violentemente nel 1930. Stava sorgendo in quegli anni il conflitto fra utopisti impegnati e difensori delle libertà democratiche. Trockij era costretto a fuggire in Messico, dove sarebbe successivamente stato assassinato da un altro nucleo di utopisti legati alla polizia staliniana.

Piero Portaluppi, Studio per il grattacielo S.K.N.E., 1920, acquerello su carta, cm 120x70, Milano, Fondazione Portaluppi

Piero Portaluppi, Studio per il grattacielo S.K.N.E., 1920, acquerello su carta, cm 120x70, Milano, Fondazione Portaluppi

Ivan Il’ič Leonidov, Progetto per un commissariato, 1934, acquerello su carta, cm 45x25, Collezione privata

Ivan Il’ič Leonidov, Progetto per un commissariato, 1934, acquerello su carta, cm 45x25, Collezione privata

Dell’utopia fantascientifica francese rimane la vasta opera disegnata di Albert Robida, il quale pubblica Le vingtième siècle (1883), dove già ci si sposta in aereo; La guerre au vingtième siècle (1887), dove si usano aeromobili da combattimento e gas; e infine La vie électrique (1890) nella quale anticipa la televisione. Lui è innegabilmente il pioniere d’una visione che il secolo intero successivo dovrà considerare come dato stabile d’una nuova fantasia.

Vladimir e George Stenberg, Manifesto per il film Velikosvetskoe pari di Carl Froelich, 1927, litografia a colori, cm 108x74, Collezione privata

Vladimir e George Stenberg, Manifesto per il film Velikosvetskoe pari di Carl Froelich, 1927, litografia a colori, cm 108x74, Collezione privata

Tatlin, con un assistente, davanti al Monumento per la III Internazionale, 1920

Tatlin, con un assistente, davanti al Monumento per la III Internazionale, 1920

Paul Citroen, Metropolis, 1920, collage, cm 76,5x58,5, Collezione privata

Paul Citroen, Metropolis, 1920, collage, cm 76,5x58,5, Collezione privata

Fortunato Depero, 24th Street, 1929, litografia in bianco e nero, cm 27x16, Collezione privata

Fortunato Depero, 24th Street, 1929, litografia in bianco e nero, cm 27x16, Collezione privata

Lewis Wyndham, La folla, 1915, olio su tela, cm 20x15, Londra, Tate Britain

Lewis Wyndham, La folla, 1915, olio su tela, cm 20x15, Londra, Tate Britain

George Grosz, Esplosione, particolare, 1917, olio su cartone, cm 47,8x68,2, New York, The Museum of Modern Art

George Grosz, Esplosione, particolare, 1917, olio su cartone, cm 47,8x68,2, New York, The Museum of Modern Art

L’ARTE AL SERVIZIO DELLE CITTÀ

Questa città nuova, questo nuovo aggregato degli esseri umani genera al contempo entusiasmo e preoccupazione. La si ritrova descritta con acida partecipazione nella pittura espressionista tedesca, talvolta con quella Angst che da quelle parti è elemento costante quando l’individuo abbandona la natura e la sua patria domestica, la Heimat del campanile, per correre a entrare nel vasto proletariato urbano. E diventa ansiogena e plumbea in Sironi.

Curiosa carriera quella di Mario Sironi, e curioso carattere sicuramente duro dovuto alla genetica lombarda combinata con la nascita nella Sardegna di fine Ottocento. Carattere di pietra plasmato nelle trincee della Prima guerra mondiale, Sironi è il testimone più epico d’un paese che si trasforma nella mattanza umana del Carso e del Piave, dall’Italietta giolittiana Belle Époque in una nazione che sogna di pesare nel tessuto della politica europea, d’un paese che si vuole protagonista dei fumi e delle fatiche della prima industria, che guarda con militare rispetto la crescita delle sue tetre periferie. Non poté non essere futurista, ma portava nel suo animo visivo un tale graffio espressionista che il suo Futurismo fu estremamente personale, cinematografico come le prime immagini di Ejzenštejn e impostato scenograficamente come se visto dalle posture alte della macchina da presa del Fritz Lang di Metropolis. Fu metafisico, ma non nel senso di de Chirico, essendo la sua versione del tema non connessa alla melanconia ma all’ansia vera e propria, quella che rappresentava con dipinti che raffigurano bevitori solitari che guardano nel vuoto oltre il bicchiere. Un mondo suo con uomini forti condannati al fato. Di lui la definizione più esatta la diede lo scultore Arturo Martini, nel 1944, quando disse che Sironi credeva d’essere fascista ma era invece bolscevico e abissale.

Fortunato Depero, Grattacieli e tunnel, 1930, olio su tela, cm 68x102, Rovereto, MART

Fortunato Depero, Grattacieli e tunnel, 1930, olio su tela, cm 68x102, Rovereto, MART

Il fascismo diede a Sironi come a tanti altri la legittimazione per l’abbandono dell’arte privata legata al piccolo formato della pittura da cavalletto. L’arte doveva ricoprire una funzione pubblica, dimostrativa ed eterna. La pittura poteva, anzi doveva tornare alla dimensione monumentale dell’affresco e del mosaico. Non fu egli l’unico a praticare questa strada: l’idea piacque anche a Massimo Campigli, a Gino Severini, a Carlo Carrà. Ma lui fu capace di viverla in tutta la sua epica grandiosità, producendo centinaia di grandi cartoni preparatori e migliaia di bozzetti che cospargevano il pavimento dello studio e sui quali spesso camminava, che struggeva e distruggeva e faceva poi rinascere in opere straordinarie fissate nel tempo con una strana colla di caseina. I risultati parietali definitivi furono clamorosi quanto effimeri: si pensava di dipingere per l’eternità ma tutto durò solo il tempo delle mostre o al massimo quello del Regime. Di quel percorso rimangono oggi poche testimonianze, il potente mosaico per esempio all’ultimo piano del Palazzo dell’Informazione in piazza Cavour a Milano, alcune aule di tribunali o di palazzi pubblici. Restano invece gli appunti, grandi e piccoli, conservati dagli eredi. Sono opere dove la potente vena espressionista riscatta il gusto dell’epoca per la riscoperta d’una modernità neoromana fatta di virtuosi contadini, di laboriosi operai, di potenti guerrieri e di archi alla Marcello Piacentini.

Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1924, olio su tela, cm 34x50, Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna

Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1924, olio su tela, cm 34x50, Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria Internazionale d’Arte Moderna

Mario Sironi, Pescivendolo, 1927, olio su tela, cm 79x68, Collezione privata

Mario Sironi, Pescivendolo, 1927, olio su tela, cm 79x68, Collezione privata

Sarebbe sbagliato pensare che questa voglia del grande e del sublime sociale fosse solo legata alla cultura esasperata del Ventennio. Scelte identiche venivano sostenute nel Messico comunista e negli Stati Uniti di Roosevelt da Diego Rivera. Pareti ugualmente grandi ed espressioniste andavano a determinare, non a decorare, le sale d’attesa delle ferrovie svizzere con Ferdinand Hodler come avevano decorato il ristorante di lusso Le Train Bleu della ferrovia francese alla Gare de Lyon a Parigi, quella che portava al Sud e alle colonie. Non fu necessariamente l’arte dei totalitarismi, fu l’arte delle società di massa. Fu un proclama retorico visivo, nel senso più positivo del termine, che credeva che l’arte non dovesse solo abbellire gli appartamenti dei ricchi borghesi, ma avesse una funzione precisa di formazione e di esaltazione dei popoli. Passata la guerra e crollato il regime, Sironi tornò a dipingere quadri da cavalletto, alcuni di rara qualità, molti invece da sopravvivenza quotidiana dove i temi infiniti della passata gloria si riducevano a stilemi in questua della cornice e del chiodo finale.

Ma la ricerca degli anni epici non s’è esaurita affatto. Per tutta la seconda metà del XX secolo l’opera d’arte intesa come evento pubblico è rimasta un dato perenne delle nostre culture occidentali, un “memento” della sensibilità politica, ideologica, avanguardista, dalle grandi installazioni patologiche di Joseph Beuys con i suoi cumuli di lavagne scolastiche, alle sculture gigantesche che Wolf Vostell assemblava a Berlino con carcasse di automobili, pianoforti e aerei, fino alle ambientazioni babiloniche di Mimmo Paladino con la montagna di sale posta in piazza del Plebiscito a Napoli.

Diego Rivera, L’uomo controllore dell’Universo o l’uomo nella Macchina del Tempo, 1934, affresco, cm 485x1145, Città del Messico, Palacio de Bellas Artes

Diego Rivera, L’uomo controllore dell’Universo o l’uomo nella Macchina del Tempo, 1934, affresco, cm 485x1145, Città del Messico, Palacio de Bellas Artes

Mario Sironi, L’Italia corporativa e figure simboleggianti il lavoro e l’industria, 1936-1937, mosaico, cm 205x328, Milano, Palazzo dell’Informazione

Mario Sironi, L’Italia corporativa e figure simboleggianti il lavoro e l’industria, 1936-1937, mosaico, cm 205x328, Milano, Palazzo dell’Informazione

CITTÀ E SOLITUDINE

Ma la città non è solo la città dei contatti, della folla; è pure la città dell’isolamento, d’una nuova solitudine, quella che Hermann Hesse porta in poesia:

Strano camminare nella nebbia! Ogni cespuglio, ogni pietra è sola, nessun albero vede l’altro, ognuno è solo.

 

Seltsam, im Nebel zu wandern!
Einsam ist jeder Busch und Stein,
Kein Baum sieht den anderen,
Jeder ist allein.

Il mio mondo era pieno d’amici, quando la mia vita era ancora luminosa; ora che cade la nebbia, nessuno è più visibile.

 

Voll von Freunden war mir die Welt,
Als noch mein Leben licht war;
Nun, da der Nebel fällt,
Ist keiner mehr sichtbar.

È vero, nessuno è saggio, se non conosce l’oscurità, che ininterrotta e silente da tutto lo separa.

 

Wahrlich, keiner ist weise,
Der nicht das Dunkel kennt,
Das unentrinnbar und leise
Von allem ihn trennt.

Strano, camminare nella nebbia! Vivere è essere soli. Nessun uomo conosce l’altro, ognuno è solo.

 

Seltsam, im Nebel zu wandern!
Leben ist Einsamsein.
Kein Mensch kennt den andern,
Jeder ist allein.

Fotogramma dal film Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, 1919

Fotogramma dal film Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, 1919

George Grosz, La strada, 1915, olio su tela, cm 45,5x35,5, Stoccarda, Staatsgalerie

George Grosz, La strada, 1915, olio su tela, cm 45,5x35,5, Stoccarda, Staatsgalerie

Mario Sironi, Paesaggio urbano con camion, 1920, olio su tela, cm 50x80, Collezione privata

Mario Sironi, Paesaggio urbano con camion, 1920, olio su tela, cm 50x80, Collezione privata

Sembra di vedere le grandi statue solitarie che Alberto Giacometti, non lontano da dove si ritirò Hermann Hesse in Canton Ticino, realizzava per Parigi riprendendo la scultura etrusca che d’Annunzio aveva intitolato L’ombra della sera. È la solitudine nelle periferie urbane di Sironi e di Hopper, mentre Balthus narra il vero segreto di Parigi, la quale è sì grande città, ma come accumulo degli arrondissements che sono ognuno un villaggio, con la sede comunale propria, la caserma dei pompieri e le scuole elementari. Ed è forse questo il motivo che spinge gli americani a venire a Parigi, come nella nota composizione musicale di Gershwin. Seguono il percorso di Gertrude Stein che venne a comperare arte moderna, di Hemingway che venne a bere. Qui non si è costretti a essere solitari, perché se la città moderna è estraniante la vecchia Parigi rinnovata è proprio quest’incrocio fra villaggi e boulevard metropolitani. Almeno fino al 1950, quando Fernand Léger rappresenta in un celebre quadro l’operaio comunista al lavoro: una New York rivista a Parigi con le mani forti e il profilo di Pablo Picasso.

Edward Hopper, Sole su Prospect Street, 1934, olio su tela, cm 71x92, Cincinnati, Cincinnati Art Museum

Edward Hopper, Sole su Prospect Street, 1934, olio su tela, cm 71x92, Cincinnati, Cincinnati Art Museum

Balthus, La strada, 1933, olio su tela, cm 195x240, New York, The Museum of Modern Art

Balthus, La strada, 1933, olio su tela, cm 195x240, New York, The Museum of Modern Art

Fernand Léger, I costruttori, 1950, olio su tela, cm 300x200, Biot, Musée Fernand Léger

Fernand Léger, I costruttori, 1950, olio su tela, cm 300x200, Biot, Musée Fernand Léger

Joseph Stella, Laminatoio per l’acciaio, 1919-1920, acquerello su carta, cm 45x31,5, Washington, Smithsonian American Art Museum

Joseph Stella, Laminatoio per l’acciaio, 1919-1920, acquerello su carta, cm 45x31,5, Washington, Smithsonian American Art Museum

Marc Chagall, Crocifissione bianca, 1938, olio su tela, cm 154x140, Chicago, The Art Institute

Marc Chagall, Crocifissione bianca, 1938, olio su tela, cm 154x140, Chicago, The Art Institute