INTRODUZIONI NEI MISTERI DELLE COSE NOTE
Gustav Klimt, Fregio di Beethoven, particolare, 1902, tecnica mista su intonaco, altezza cm 220, Vienna, Secession
I TREDICI CAVALIERI
Se mi trovassi nell’obbligo di spiegare con la scelta di pochi artisti la storia complessa del secolo breve, tipi-ca indicazione che richiedono le scuole, oppure se lo dovessi indicare a un gruppo di giovani artisti della cittadina di She Zu intenti a trovare le migliori cose da copiare, mi troverei innegabilmente in difficoltà. Nondimeno il compito didatti-co non consente scuse. Quindi ci voglio provare, ovviamente senza dimenticare la complessità del caso e le diverse forme espressive visive esistenti.
Max Ernst, La femme 100 tête, 1929, litografia su carta, cm 24x19, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Partiamo dal cinema: guardare con attenzione L’innaffiatore innaffiato (1895) dei fratelli Auguste e Louis Lumière; tutta la comica seguente ne discende, anche le bellissime opere di Charlie Chaplin. Poi passerei sempre nella pellicola primordiale ai primi cartoni animati di Émile Cohl (1908): settecento disegni per due minuti di proiezione; tutto il mon-do successivo, compreso quello del grande Walt Disney, ne discende. Pensando all’architettura non andrei all’origine della faccenda ma indicherei il caso esemplare del Padiglio-ne Barcellona di Mies van der Rohe all’Expo del 1929, che riassume il meglio del pensiero razionalista, e le elucubrazio-ni irrealizzabili di Antonio Sant’Elia che, prima della Prima guerra mondiale, immagina già la città-mostro che diventerà poi Metropolis di Fritz Lang. E così siamo a quattro padri fondatori.
Poi passerei ovviamente alle arti del pennello sostenen-do che tutto inizia con Cézanne al quale l’impressionismo fa impressione e quindi inventa la rappresentazione delle cose che assumono forma cubica. C’è poi Klimt, superbo cantore dell’eleganza viennese, che dipinge la vita e la morte in quell’Europa di mezzo che sta per frantumarsi. Umber-to Boccioni tollera l’astrazione solo se comprende anche il movimento: ecco il suo movente, non riusciva mai a stare fermo finché non cascò da cavallo. Giacomo Balla, forse leg-germente ingenuo, scompone all’inizio del secondo decennio la luce in triangolini e divide così il Divisionismo fino a portarlo all’astrazione, la medesima astrazione che la mistica di Kazimir Malevič scopre fra le croci delle icone russe, mentre Vasilij Kandinskij inventa il tormento della materia che si libera dalle citazioni ancestrali delle sue fiabe. C’è poi quel tedesco elevetizzato parzialmente di Paul Klee che scopre che le opere non hanno una dimensione fisica ma solo mentale nella nostra percezione e quindi si dedica ad acquarelli piccoli che assumono un peso infinito: tutto è relativo come sostiene negli stessi anni Albert Einstein. Nel 1911 Giorgio de Chirico decide che il mondo non è quello che vediamo ma che l’arte serve a entrare in una dimensione che va oltre il fisico: i surrealisti ne saranno i discendenti irriverenti. Infine, forse il più grande di tutti, per l’età raggiunta nel disordine esistenziale e politico, forse il vero Giuda del gruppo, quello che non cercava ma trovava nella ricerca degli altri lo spunto delle sue formidabili opere, diceva infatti: je ne cherche pas, je trouve, v’è l’eterno Pablo Picasso che attraversa indenne a petto nudo tutto l’arco della questione.
A dire il vero ce ne sarebbe un altro ancora, uno che per snobismo era rimasto fuori dal cenacolo e che quindi mi limito a menzionare, perché continuava imperterrito a credere alla figurazione tradizionale rappresentativa e aveva una inconfessabile inclinazione a guardare le ragazzine sotto la gonna, tipico atteggiamento da nobile decaduto: si tratta di Balthasar Kłossowski de Rola (nato il 29 febbraio come Gioachino Rossini e quindi privo di compleanno tre anni su quattro), detto Balthus e sposato con la sua modella anch’essa nobile e nubile Antoinette de Watteville. Di tutti gli autori realisti che continuano a dipingere ciò che apparentemente pensano di vedere, innegabilmente il più curioso; infatti va a studiare dal vivo in Italia Piero della Francesca ad Arezzo e Masaccio a Firenze.
Ecco quindi i nostri cavalieri, apostoli o profeti della creatività del secolo brevissimo. Era dagli anni lontani del Rinascimento che non si assisteva a un simile miracolo.
Ad ognuno di questi eroi abbiamo offerto la possibilità di far vedere alcune opere.
Louis e Auguste Lumière
Ifratelli Lumière erano nati nel profondo della provincia francese, a Besançon, ancora sotto il II Impero, da un babbo fotografo che ebbe la buona idea di lasciarli fare, sicché Louis inventò la lastra secca che sarebbe stata necessaria alla ripresa d’immagini della futura pellicola mobile. Dal 1892 si mise al lavoro Louis con Auguste inventando il foro di trascinamento e progettando una macchinetta che chiamarono il cinématographe (anche loro fan parte dei pionieri che se avessero brevettato il nome sarebbero diventati più ricchi di Creso). E il 19 marzo del 1895, festa del papà (non è accertato che la festività abbia infuenzato il loro lavoro ma sicuramente il futuro dell’umanità), girarono il primo documentario della storia, L’uscita dalle Officine Lumière, grande auspicio per un secolo breve di lavoro. Il 28 dicembre del medesimo anno si tenne il primo spettacolo a pagamento, al Grand Café del Boulevard des Capucines. Se ne andarono subito a far propaganda del prodotto a Londra e a New York: il Novecento si fece subito cosmopolita. Non contenti nel 1903 inventarono il primo processo di fotografia a colori.
Fratelli Lumière, Fotogramma del film L’uscita dalle Officine Lumière, 1895
Marcellin Auzolle, Cinématographe Lumière, 1896, litografia a colori, cm 189x236, Collezione privata
Donna con ombrellino accanto a uno stagno, 1906-1912, autochrome Lumière
Due ragazze in giardino tra i fiori, 1907, autochrome Lumière
Famiglia al mare, 1910, autochrome Lumière
Émile Cohl
Bel tipo Émile Cohl, parigino esistenzialista al punto di non avere mai depositato alcun brevetto. Nato nel 1857 all’anagrafe come Émile Eugène Jean-Louis Courtet. Amico di André Gill, il guru della caricatura, si dedica alla nuova scoperta della pellicola e vi inserisce il disegno al posto dell’immagine ripresa. Nel 1912 se ne va negli Stati Uniti, lavora per la Gaumont francese e realizza un’ottantina di film di animazione. I giornali satirici a Parigi abbondavano, ve ne erano oltre duecentocinquanta che coprivano tutto l’arco politico e ogni tipo di passatempo, intorno alle loro redazioni si stava sviluppando un cosmo di creatività figurativa in gran parte affidata alla matita e alla penna d’inchiostro che si affiancava in modo intenso al Parnaso della pittura. Così come il primo cinema discende direttamente dalla comica del vaudeville, i cartoni animati saranno figli delle sperimentazioni della carta stampata. Vi sono oggi importantissimi musei che documentano l’“arte maggiore” mentre il formidabile lavoro degli illustratori continua a dormire celato nelle biblioteche. V’era a dire il vero già stata un’epoca con una fenomenologia analoga, nel Quattrocento, quando le grandi scuole dei miniaturisti formavano un immaginario parallelo e talvolta molto più complesso di quello inventato dagli affrescatori e dai primi pittori a olio. La meccanica creativa del cartone animato gioca sulla semplificazione della linea, trae vantaggio dalla narrazione delle sequenze. La formidabile macchina produttiva del cinema americano sarà per conseguenza la più adatta a raccogliere grandi gruppi di disegnatori per realizzare le migliaia di immagini necessarie a un film complesso.
Émile Cohl, Caricatura di Paul Verlaine in “Les Hommes d’Aujourd’hui”
Émile Cohl, fotogramma da Fantasmagorie con Fantoche che duella con la spada, 1908
Émile Cohl, fotogramma da Fantasmagorie, 1908
Émile Cohl, fotogramma da La lampada che fuma, 1909
Émile Cohl, fotogramma da Les beaux arts de Joko, con la scimmia pittrice, 1909
Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
Antonio Sant’Elia
Il giovane Sant’Elia era un visionario entusiasta sempre alla ricerca della nuova frontiera, con la matita in mano all’Accademia di Brera o imbracciando un fucile sul Carso dove si prese una pallottola in fronte a soli ventotto anni nella trincea di quota 77. Era egli intimamente, come atto di fede, pronto a ogni ipotesi d’innovazione. Era rimasto illuminato dalla prima centrale elettrica di Trezzo d’Adda e da tutti gli elementi d’un avvenire tecnico che gli fecero immaginare già allora case a grattacielo con ascensori esterni e città a piani interconnessi dove le funzioni si potevano razionalmente sovrapporre.
Antonio Sant’Elia, La città nuova, 1914, matita e acquerello su carta, cm 45x29, Collezione privata
Antonio Sant’Elia, Schizzo per la nuova stazione di Milano, 1914, matita e acquerello su carta, cm 36x78, Collezione privata
Antonio Sant’Elia, La centrale elettrica, 1914, inchiostro nero, verde, rosso e matita nera su carta, cm 48x27, Collezione privata
Ludwig Mies van der Rohe
Ludwig Mies van der Rohe, per quanto possa sembrare altisonante il suo cognome, era figlio d’uno scalpellino per monumenti funerari (succederà così più tardi anche a Lucio Fontana!). Impara il mestiere manuale e si forma poi alla scuola tecnica. Inizia a disegnare mobili nel 1905 per Bruno Paul e scopre la magia della struttura. Poi se ne va a lavorare dal sommo Peter Behrens, dove trova anche Walter Gropius e il giovane ginevrino Jeanneret non ancora diventato Le Corbusier. Inizia una carriera che cambia il destino del gusto aggiungendo il cognome della mamma e un van der inventato per impressionare i clienti: ecco la figura nuova dell’architetto. Ha fortuna al punto tale, essendo diventato direttore del Bauhaus, da lasciare un segno indelebile e alcuni dei suoi mobili sono tuttora in produzione avendo sparso nel mondo milioni di esemplari. Un altro che si è dimenticato i diritti d’autore. Vale anche per lui la citazione successiva di Ernesto Nathan Rogers: “dal cucchiaio alla città”.
Ludwig Mies van der Rohe, Casa Wolf, 1925-1927, fotografia alla gelatina di argento, cm 19x25,5, New York, The Museum of Modern Art
Ludwig Mies van der Rohe, Padiglione tedesco per l’Esposizione Internazionale del 1929 di Barcellona
Ludwig Mies van der Rohe, Progetto per grattacielo sulla Friedrichstraße a Berlino, 1921, matita e carboncino su carta, cm 173x122, New York, The Museum of Modern Art
Ludwig Mies van der Rohe, Palazzo IBM a Chicago, 1971
Abbiamo discusso a lungo se lasciare la palma a Mies o a Walter Gropius e siamo arrivati alla conclusione che Gropius, forse di pari livello nel concepire gli edifici, non ha lasciato un’opera altrettanto classica e iconica sulla quale sedersi. E poi Gropius il cognome ce l’aveva già e come tale era meno designer di se stesso, mentre sul versante privato ebbe l’onere e l’onore di occuparsi di Alma Mahler che sposò da poco vedova, durante una licenza militare nel 1915. Si sfidano sin dalla fine degli anni Venti del secolo brevissimo le due sedie, quella di Mies e quella di Gropius in tubolare curvato e cromato, che ha come antenata la sedia in faggio curvato di Michel Thonet, e che ambisce a superare la struttura statica della poltrona B3 di Marcel Breuer del 1925. Breuer era il responsabile del laboratorio dei metalli al Bauhaus e sapeva bene che il tubolare era curvabile ma aveva bisogno di una progettazione statica che lo obbligava a linee perpendicolari; la sfida consiste nel dare al tubo la flessibilità della sedia a dondolo che già nel 1830 aveva disegnato il padre del mobile in ferro, l’americano Peter Cooper, che usava invece la lamiera piegata. La stessa lamiera che riprende poi nel 1929 Mies per la sua poltrona, diventata oggi un’icona assoluta del design anche se non è affatto adeguata a una produzione industriale a macchina poiché richiede saldature di tipo tradizionale quasi artigianali. È comunque incredibile che oggetti progettati quasi un secolo fa già appaiano assolutamente contemporanei anche oggi, ma non è così anche per la pittura di Picasso o di de Chirico?
Ludwig Mies van der Rohe, Poltrona Barcelona per Knoll, 1929, acciaio cromato e pelle, altezza cm 85, New York, The Museum of Modern Art
Fratelli Thonet, Sedia, 1918, legno incurvato e paglia di Vienna, altezza cm 90, New York, The Museum of Modern Art
Peter Cooper, Sedia a dondolo, 1840-1850, ferro, stoffa, altezza cm 119, Londra, Victoria and Albert Museum
Marcel Breuer, Poltrona Wassily, 1927-1928, acciaio cromato, tela, altezza cm 76, New York, The Museum of Modern Art
Ludwig Mies van der Rohe, Sedia MR, 1927, acciaio cromato e pelle, altezza cm 78, New York, The Museum of Modern Art
Paul Cézanne
Borghese agiato nato nel 1839 nella provincia meridionale, Cézanne era compagno di liceo ad Aix-en-Provence di Émile Zola, il futuro grande scrittore, paladino dell’impegno civile, con il quale suonava in una orchestra. Sofferto e impegnato nel suo dipingere come intellettuale di frontiera, rimaneva serissimo dinnanzi alla tela e attribuiva la medesima importanza a una mela o alla montagna di Sainte Victoire che lo ossessionava per la sua volumetria. Fra le tante versioni di questo tema all’aria aperta, la sequenza delle quattro proposte consente di capire il passaggio di “evaporazione” del culto impressionista per la pittura all’aperto alla visione volumetrica che sarà lo spunto di partenza del successivo cubismo. Cézanne, da perfetto intellettuale, non intende rappresentare il reale ma penetrarlo, esattamente come dirà pochi anni dopo il filosofo Bergson, quando sostiene che per capire l’acqua v’è solo la possibilità di tuffarcisi dentro. Tanto amava l’aria libera che rimase vittima, Cézanne, d’un temporale autunnale e d’una conseguente polmonite che lo portò immediatamente al cimitero il 22 ottobre del 1906. L’anno successivo gli fu dedicata una vasta retrospettiva al Salon d’Automne di Parigi e la sua ricerca isolata diventò il germe delle pittura cubista. Fra i visitatori commossi v’erano Braque e Picasso, amici venticinquenni, che ne rimasero folgorati. Basta guardare i quadri fatti prima e quelli dopo la mostra per rendersi conto di quanto la “cura” Cézanne abbia influenzato la sensibilità di entrambi gli artisti. Da quel momento in poi i due lavoreranno spesso in simbiosi a tal punto che quando separeranno il loro percorso i dipinti successivi saranno talvolta difficili, così dice l’agiografia, da riconoscere per loro stessi (guardate in queste pagine le loro opere prima e dopo la “cura”). Due siamesi apparentemente, difficili da distinguere in fotografia, ma se vi capiterà di vederli dal vivo vi accorgerete d’una assoluta curiosità: se vi allontanate dalle opere, quelle di Braque continueranno ad apparire distese sul supporto mentre quelle del terribile spagnolo assumeranno una curiosa terza dimensione plastica che è proprio quella che Picasso riprende nel giro successivo del Neoclassicismo (provare per credere!). Ho avuto la fortuna di fare questa intrigante scoperta quando mi fu offerta la possibilità di vedere a porte chiuse la mostra Braque/Picasso a New York anni fa. Non essendoci il pubblico che obbliga sempre il visitatore a camminare rasente i muri, ho potuto allontanarmi a cinque metri dai dipinti in totale tranquillità e la faccenda si è fatta incredibilmente evidente. Lo stesso miracolo della terza dimensione lo ritroverete guardando Cézanne da lontano, ed è ancora quello che vi fa percepire il realismo totale di Canaletto quando la distanza (fatene la prova nelle sale talvolta vuote del British Museum di Londra) vi consente di percepire l’atmosfera, la temperatura e l’umidità dell’aria veneziana. E qui si trova uno dei curiosi segreti della scomposizione quando semplifica il segno: la nostra mente lo ricompone automaticamente come ricompone il segnale musicale d’una radio sentita in lontananza quando dà l’impressione d’uno strumento autentico. Infatti Picasso abbandona il Realismo non con il Cubismo ma successivamente con il Surrealismo e con la scomposizione dei ritratti della squisita Dora Maar.
Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1897, olio su tela, cm 54x81, Baltimora, The Baltimore Museum of Art
Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1892-1895, olio su tela, cm 73x92, Merion, The Barnes Foundation
Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1902-1906, olio su tela, cm 64,8x81,3, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1902-1904, olio su tela, cm 73x92, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Pablo Picasso, Nudo seduto, 1906, olio su tela, cm 151x100, Praga, Národní Galerie
Pablo Picasso, Donna con ventaglio, 1907, olio su tela, cm 78x49, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage
Pablo Picasso, Autoritratto, 1906, olio su tela, cm 92x73,3, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Pablo Picasso, Autoritratto, 1907, olio su tela, cm 49x28, Praga, Národní Galerie
Georges Braque, Paesaggio a La Ciotat, 1907, olio su tela, cm 71,7x59,4, New York, The Museum of Modern Art
Georges Braque, Case a l’Estaque, particolare, 1908, olio su tavola, cm 73x59, Berna, Rupf Foundation
Pablo Picasso, La cisterna a Horta de Ebro, particolare, 1909, olio su tela, cm 61,5x51,5, New York, The Museum of Modern Art
Georges Braque, Viadotto à l’Estaque, 1908, olio su tela, cm 59x46, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Pablo Picasso, Ritratto di Ambroise Vollard, 1909-1910, olio su tela, cm 92x65, Mosca, Museo Puškin
Georges Braque, La mandola, 1909-1910, olio su tela, cm 71x56, Londra, Tate Gallery
Gustav Klimt
Vorrei, caro lettore, che tu potessi intraprendere un itinerario che mi è talvolta capitato di seguire quando ho avuto la fortuna di passare dallo stato di stupido a quello di stupito. Gustav Klimt è uno degli autori che più di tanti altri mi ha offerto questa opportunità. Era ignoto ancora al pubblico e al mercato mezzo secolo fa, al punto che da giovinotto ebbi la fortuna di potere con facilità commerciare i suoi disegni per cifre analoghe a quelle che si pagava offrendo una buona cena al ristorante a una compagnia allargata e il noto dipinto della Speranza del 1903 fu venduto al museo di Ottawa negli anni Sessanta del secolo passato da un mercante milanese per poche decine di migliaia di dollari dopo averlo inutilmente proposto all’illuminata borghesia meneghina, mentre nel 2006 il ritratto di Adele Bloch-Bauer è stato acquistato da Ronald Lauder per centotrentacinque milioni degli stessi dollari, ovviamente leggermente svalutati da mezzo secolo di storia. Pochi artisti hanno avuto una simile rivalutazione, la quale corrisponde ovviamente anche alla rivalutazione del mondo dell’Europa di Mezzo che rappresenta. La cultura mondiale solo da poco ha ricollocato nella sua memoria Musil e Kafka, Richard Strauss, Gustav Mahler e Arnold Schönberg, e il vecchio von Clausewitz, prussiano decorato dagli Habsburg come teorico delle strategie, il quale sosteneva che “poiché il talento e il genio agiscono all’infuori delle leggi della teoria, si trasformano nell’antitesi della realtà”. È questa la migliore spiegazione del genio di Klimt. Delle tante fotografie che raffigurano il grande artista, nato da una famiglia boema come i suoi compagni con la K, quasi tutte lo raffigurano d’estate, molto spesso con camici discinti da guru incline ad una sensualità perenne, il che lo pone in un curioso parallelo con l’altro grande sensuale, Pablo Picasso che viveva in Costa Azzurra. Anche la pittura di Klimt è naturalmente estiva, come lo sono i suoi giardini. L’horror vacui delle sue opere, il gusto per la decorazione nelle composizioni ne è forse la conseguenza naturale. Il viaggio che compie in Italia sarà di contributo fondamentale: Ravenna vista nel 1903 non fa che confermare la magia dei mosaici, degli ori, dei quadrettini che vanno a combinarsi con i fiori dei giardini estivi e annullano le depressioni della Secessione, ma non le contorsioni mentali d’una cultura viennese dove opera il dottor Freud e che già prima del viaggio gli permise di concepire il decoro interno dell’edificio progettato da Joseph Maria Olbrich ancora prima della fine del secolo e dove la cupola dà un segno fondamentale: non ha struttura portante se non nel decoro stesso che la forma. E se pochi anni dopo Adolf Loos sosterrà che la decorazione è un crimine perché riporta l’uomo moderno nelle pratiche tribali dei primitivi che si decoravano la pelle al pari dei delinquenti tatuati, per Klimt come per Olbrich la decorazione è struttura stessa della vita e dell’arte.
Michael Powolny, Putto con fiori (La Primavera), 1912, ceramica, altezza cm 78, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Gustav Klimt, Giardino fiorito con rose, 1914, olio su tela, cm 100x100, Collezione privata
Gustav Klimt, Le amiche, 1916-1917, olio su tela, cm 90x100, Collezione privata
La fucilazione di Mata Hari, da “Simplicissimus”, 6 novembre 1917
Claude Monet, Stagno delle ninfee, 1918-1919, olio su tela, cm 140x150, Londra, Collezione privata
Gustav Klimt, Il girasole, 1907-1908, olio su tela, cm 121x122, Vienna, Belvedere
Claude Monet, Il giardino dell’artista a Giverny, 1900, olio su tela, cm 81x92, Parigi, Musée d’Orsay
Gustav Klimt, Giardino fiorito, 1905-1907, olio su tela, cm 110x110, Collezione privata
Gustav Klimt, Ballerina, 1916-1918, olio su tela, cm 180x90, Collezione privata
Gustav Klimt, Schizzi per L’albero della vita per palazzo Stoclet, 1905-1909, acquerello su carta, cm 194x120, Vienna, Museum für Angewandte Kunst
Gustav Klimt, Schizzi per L’albero della vita per palazzo Stoclet, 1905-1909, acquerello su carta, cm 194x120, Vienna, Museum für Angewandte Kunst
Gustav Klimt, Schizzi per L’albero della vita per palazzo Stoclet, 1905-1909, acquerello su carta, cm 194x120, Vienna, Museum für Angewandte Kunst
Gustav Klimt, Ritratto di Friederike Maria Beer, 1916, olio su tela, cm 168x130, Tel Aviv, Tel Aviv Museum of Art
Gustav Klimt, La Vergine, 1912, olio su tela, cm 190x200, Praga, Národní Galerie
Léon Bakst, ll ballerino Vaslav Nijinskij nel ruolo di Iskander nel balletto La Peri, 1912, litografia a colori, cm 25x19, Parigi, Bibliothèque-Musée de l’Opéra
Arturo Martini, Fanciulla piena d’amore, 1913, maiolica dorata, altezza cm 42, Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro
Felice Casorati, Preghiera, 1914, olio su tela, cm 130x120, Verona, Galleria d’Arte Moderna “Achille Forti”
Gustav Klimt, Ritratto di Eugenia Primavesi, particolare, 1913-1914, olio su tela, cm 140x84, Toyota, Toyota City Museum
La verità sta in realtà nella natura stessa, che è generosa e fiorita; le belle signore di Vienna sembrano un prodotto di questa floridezza. Klimt ha raramente ritratto gli uomini se non per esercizi apparentemente accademici che per nulla ricordano l’arte sofisticata che consegnò alla Storia: sono barbuti e austeri. Le donne sono il centro della sua attenzione. Le donne sono come i fiori d’una estate infinita. In questo senso è ben diverso il suo emulo Egon Schiele, il quale dipinge con la medesima ansia ambo i sessi, con una marcata predilezione per il mondo femminile che lo attrae ma con una comune attenzione dal sapore morboso per maschi e femmine. E anche se Schiele guarda la natura, è quella dell’inverno, degli alberi scabri dell’autunno. Klimt ha un colpo apoplettico l’11 gennaio del 1918 e muore il 6 febbraio. Viene sepolto nell’Hietzinger Friedhof, vicino al suo studio. Nello stesso cimitero lo segue per sempre Otto Wagner che muore l’11 aprile. Il 31 ottobre muore anche Schiele, che aveva lo studio nella stessa circoscrizione di quello di Klimt.
Vittorio Zecchin, Le principesse e i guerrieri (dal ciclo delle Mille e una notte), 1914, olio e oro su tela, cm 171x188, Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro
Si chiude un mondo, scompare l’Impero. L’11 novembre si firma l’armistizio a Compiègne.
Gustav Klimt, Ritratto di Emilie Floege, 1902, olio su tela, cm 181x84, Vienna, Historisches Museum der Stadt Wien
Umberto Boccioni
Un milanese nato in Calabria e come tale inatteso prodotto dell’Unità d’Italia, a prima vista provinciale quindi, anche se nazionale. Ma solo apparentemente perché sembra assistito da un inatteso demone che lo piazza in mezzo alle correnti d’Europa. Il suo modo di procedere nella scomposizione divisionista lo porta immediatamente a intuire le forze di un movimento che accompagnano l’esistere, e gli stati d’animo che ne sono la conseguenza esistenziale. Rimane un mistero capire per quale motivo egli applichi i numeri nel suo dipinto esattamente come se avesse visto al lavoro Picasso e Braque a Parigi. I numeri erano nell’aria dell’avanguardia. Mentre conosceva sicuramente quell’artista ermetico e simbolico ch’era Romolo Romani. Boccioni è una carta assorbente degli umori d’avanguardia che la sua esperienza gli fa attraversare. E prima di morire nel 1916 ha già abbandonato il Futurismo, essendo passato da una esperienza espressionista dal sapore quasi germanico e spingendosi in una dimensione di recupero della plasticità formale. E il numero è semplicemente quello d’immatricolazione della locomotiva.
Il motore principale di Boccioni è l’entusiasmo per l’epoca storica che sta vivendo, per le ansie dense e le esaltazioni della mutazione in corso. E le medesime ansie si ritrovano nelle esperienze di Carrà, un artista che mi ricorda talvolta la capacità di mutare stili appena vengono alla luce come fa Pablo Picasso. Quell’atmosfera intesa da Boccioni si ritrova in un suo collega, assai avaro di opere ma non di genio, che è Luigi Russolo, il quale gioca fra stridori visivi e quelli musicali ai quali darà vita con gli esperimenti dell’Intonarumori, un po’ come se anche lui avesse visto l’acquarellino di Francis Picabia La musique est comme la peinture.
Umberto Boccioni, Nudo di spalle (Controluce), 1909, olio su tela, cm 60x55,2, Rovereto, MART, Collezione L.F.
Umberto Boccioni, Materia, particolare, 1912, olio su tela, cm 225x150, Collezione Gianni Mattioli, deposito a lungo termine presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
Umberto Boccioni, Stati d’animo I - Quelli che vanno, 1911, olio su tela, cm 71x96, Milano, Museo del Novecento
Umberto Boccioni, Stati d’animo II - Gli addii, 1912, olio su tela, cm 70,5x96,2, New York, The Museum of Modern Art
Umberto Boccioni, Bozzetto per Quelli che vanno, 1911, olio su tela, cm 95,5x121, Milano, Museo del Novecento
Umberto Boccioni, Stati d’animo II - Quelli che restano, 1912, olio su tela, cm 70,8x95,9, New York, The Museum of Modern Art
Mai sarebbe nato il Futurismo a Milano senza l’Expo del 1906 per la quale l’Italia decise di completare il traforo del Sempione che mise la penisola in relazione rapida con la Francia. Il treno diventa simbolo di libertà: Marinetti, come d’Annunzio d’altronde, si mette a fare spola fra Milano e Parigi. Ecco il motivo che porta Umberto Boccioni a dipingere gli Stati d’animo di quelli che vanno, quelli che restano, gli addii…
La prima mostra parigina del gruppo futurista (Boccioni, Carrà, Russolo e Severini) si tiene alla Galerie Bernheim-Jeune nel 1912. E Boccioni, il più consapevole del gruppo al punto di lasciare scritti di fragrante consapevolezza, distribuisce e assorbe. E le cose non gli vanno affatto male, visto che successivamente a Londra riesce a vendere al già notissimo super pianista Ferruccio Busoni La città che sale durante la mostra che si apre alla Sackville Gallery.
A proposito di La strada entra nella casa scrive lo stesso Boccioni: “La sensazione dominante è quella che si può avere aprendo una finestra: tutta la vita, i rumori della strada, irrompono contemporaneamente come il movimento e la realtà degli oggetti fuori. Il pittore non si deve limitare a ciò che vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fotografo, ma riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione, dal balcone”.
Umberto Boccioni, Autoritratto, 1906, olio su tela, cm 65x38, Milano, Pinacoteca di Brera
Gino Severini, Autoritratto con panama e pipa, 1908, olio su tela, cm 35x22, Collezione privata
Gino Severini, Autoritratto, 1912, olio su tela, cm 55x46, Collezione privata
Carlo Carrà, Simultaneità (La donna al balcone), 1912, olio su tela, cm 85x72, Collezione privata
Severini, del gruppo, è l’unico che decide di non tornare indietro perché nel 1913 si sposa con la sedicenne Jeanne, la figlia d’uno dei più noti poeti di Francia, Paul Fort, che fu portavoce dei futuristi. L’aveva incontrata alla Closerie des Lilas, la brasserie dove passavano tutti da quando era stata fondata nel 1847: per un toscano di provincia come lui sedersi sulle sedie dove erano già stati seduti Cézanne, Gautier, Zola e Baudelaire doveva essere una forte sensazione!
Umberto Boccioni, Visioni simultanee, 1911, olio su tela, cm 70x75, Wuppertal, Von der Heydt Museum
Umberto Boccioni, Materia, 1912, olio su tela, cm 225x150, Collezione Gianni Mattioli, deposito a lungo termine presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
Marcel Duchamp, Nudo che scende le scale numero 2, 1912, olio su tela, cm 147x89,2, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Francis Picabia, Rivedo nella memoria la mia cara Udnie, 1914, olio su tela, cm 250,2x198,8, New York, The Museum of Modern Art
Giacomo Balla
Èinnegabilmente uno degli artisti più ludici che abbiano attraversato il secolo brevissimo: in lui l’autocoscienza cerebrale viene sostituita da una curiosità perenne. È anzitutto uno sperimentatore del visivo. Apparentemente potrebbe sembrare l’artista meno “intellettuale”, all’opposto proprio di Boccioni che ragiona su tutto ciò che fa, mentre invero è, forse inconsapevolmente, il più aristotelico, cioè il più sperimentale. Cresciuto nell’ambito del Divisionismo, mette immediatamente in dubbio la suddivisione della materia per piccoli tratti e sostituisce questa prassi con una ricerca su tutto ciò che l’occhio umano da un lato e l’occhio ottico dall’altro, quello della fotografia, consentono di vedere. Ecco quindi che appaiono i movimenti mossi d’un piede o di una deambulazione (le signore che scendono per le scale) oppure il contrasto fra il chiarore esterno e le ombre interne come se fossero viste non dall’occhio umano che ristabilisce nel cervello gli equilibri di tonalità ma dalla macchina ottica che si trova limitata a restituire la luce nella sua gradazione naturale. Esemplari in tal senso le sue opere con personaggi in “controluce”. Ma altrettanto curiose son le varie forme pittoriche usate per restituire la sensazione della luce: tratti, cerchietti, triangoli, che verranno negli anni successivi portati alle estreme conseguenze geometriche finché il bizzarro artista, forse stanco d’una ricerca nei meandri della semiastrazione, torna quasi a riconvertirsi alla figura classica, che però classica non lo è più, a tal punto che sembra una illustrazione per la carta stampata. Ma anche in questi lavori, che un’analisi distratta potrebbe definire di retroguardia, la pittura si articola su sfondi inattesi come quelle tele che usava ricoprendole con una garza per spezzare il segno tradizionale del pennello e ritrovare la sensazione delle prime ricerche.
Giacomo Balla, Villa Borghese, Parco dei daini, 1910, olio su tela, cm 190x390, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Giacomo Balla, La scala degli addii (Salutando), 1908, olio su tela, cm 105,5x105,6, Collezione privata
Giacomo Balla, Rondini: linee di movimento + sequenze dinamiche, 1913, olio su tela, cm 96,8x120, New York, The Museum of Modern Art
Giacomo Balla, Studio di motocicletta in corsa (Velocità di motocicletta), 1913, vernice su carta intelata, cm 68x97, Collezione privata
Giacomo Balla, La signora Pisani al balcone, 1901, olio su tela, cm 203x133, Collezione privata
In effetti considerare Balla solo come artista futurista in senso stretto ne altera la personalità. Non per nulla lui stesso, assieme a Fortunato Depero, redigono nel 1915 il Manifesto per la Ricostruzione futurista dell’universo, una sorta di proclama di ciò che sarà il design del secolo.
Giacomo Balla, Bambina che corre sul balcone, 1912, olio su tela, cm 125x125, Milano, Museo del Novecento
Eccone il sunto del pensiero:
Col Manifesto tecnico della Pittura
futurista e colla prefazione al Catalogo dell’Esposizione
futurista di Parigi (firmati Boccioni, Carrà, Russolo, Balla,
Severini), col Manifesto della Scultura futurista (firmato
Boccioni), col Manifesto La Pittura dei suoni rumori e
odori (firmato Carrà), col volume Pittura e scultura
futuriste, di Boccioni, e col volume Guerrapittura,
di Carrà, il Futurismo pittorico si è svolto, in sei anni, quale
superamento e solidificazione dell’Impressionismo, dinamismo
plastico e plasmazione dell’atmosfera, compenetrazione di piani e
stati d’animo. La valutazione lirica dell’universo, mediante le
Parole in libertà di Marinetti, e l’Arte dei
Rumori di Russolo, si fondono col dinamismo plastico per dare
l’espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della
vibrazione universale.
Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione
totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo
integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile,
all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo
degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli
elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i
capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi
plastici che metteremo in moto. […] MEZZI
NECESSARI: Fili metallici, di cotone, lana, seta d’ogni spessore,
colorati. Vetri colorati, carteveline, celluloidi, reti metalliche,
trasparenti d’ogni genere, coloratissimi, tessuti, specchi, lamine
metalliche, stagnole colorate, e tutte le sostanze sgargiantissime.
Congegni meccanici, elettrotecnici, musicali e rumoristi; liquidi
chimicamente luminosi di colorazione variabile; molle; leve; tubi,
ecc.
Giacomo Balla, Elisa sulla porta, 1904, pastello e carboncino su carta, cm 174x115, Collezione privata
Giacomo Balla, La pazza, 1905, olio su tela, cm 175x115, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Peter Behrens, AEG-Metallfadenlampe, 1907, litografia a colori, cm 39x23, Berlino, Kunstbibliothek
Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909, olio su tela, cm 175x115, New York, The Museum of Modern Art
Umberto Boccioni, Rissa in galleria, particolare, 1910, olio su tela, cm 76x64, Milano, Pinacoteca di Brera
In realtà il binomio Balla-Depero pone così una provocazione profonda contro la serietà ufficiale:
Il giocattolo futurista
Nei giochi e nei giocattoli, come in tutte le manifestazioni
passatiste, non c’è che grottesca imitazione, timidezza, (trenini,
carrozzini, pupazzi immobili, caricature cretine d’oggetti
domestici), antiginnastici o monotoni, solamente atti a istupidire
e ad avvilire il bambino.
Per mezzo di complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che
abitueranno il bambino:
1) a ridere apertissimamente (per effetto di trucchi esageratamente
buffi);
2) all’elasticità massima (senza ricorrere a lanci di proiettili,
frustate, punture improvvise, ecc.);
3) allo slancio immaginativo (mediante giocattoli fantastici da
vedere con lenti; cassettine da aprirsi di notte, da cui
scoppieranno meraviglie pirotecniche; congegni in trasformazione
ecc.)
4) a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità (nel
dominio sconfinato dei rumori, odori, colori, più intensi, più
acuti, più eccitanti).
5) al coraggio fisico, alla lotta e alla GUERRA (mediante
giocattoli enormi che agiranno all’aperto, pericolosi, aggressivi).
Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all’adulto, poiché lo
manterrà giovane, agile, festante, disinvolto, pronto a tutto,
instancabile, istintivo e intuitivo.
Giacomo Balla, La finestra di Düsseldorf con il binocolo, 1912, olio su tavola, cm 28,5x35, Collezione privata
Giacomo Balla, Volo di rondini, 1913, olio su tela, cm 42x53, Collezione privata
Fortunato Depero segue l’idea e incontra Djagilev e tramite lui Michail Larionov e Stravinskij e realizza poi con Gilbert Clavel, che trova a Capri nel 1917, un progetto autonomo di balletti a Roma dove metteranno in scena nell’aprile del 1918, quand’ancora sparano i cannoni sulle Alpi, i Balli plastici con musiche di Béla Bartók e di Malipiero. Una pagina d’avanguardia formidabile che spesso la storiografia recente tende a occultare. Ballo di marionette, ma di quanto spessore! Se il primo vento futurista tende a scomporre la materia e l’occhio secondo le linee di forza, questa seconda fase vuole ricomporre il mondo smontato in una dimensione nuova, autentico gioco di bambini adulti.
Giacomo Balla, Numeri innamorati, 1920, olio su tela, cm 77x56, Rovereto, MART
Giacomo Balla, Si è rotto l’incanto, 1920, olio su tela, cm 40x30, Collezione privata
Giacomo Balla, Andiamo che è tardi, 1934, olio su tavola, cm 70x100, Collezione privata
Giacomo Balla, Ritratto di Benedetta Marinetti, 1951, olio su tavola, cm 89x58, Collezione privata
Giacomo Balla, Belfiore-Peonie, 1924, olio su tela, cm 56x24, Collezione privata
Giacomo Balla, Magnolie che si specchiano, 1938, olio su tavola, cm 82x67, Napoli, Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano
Kazimir Malevič
Prima dei grandi sconvolgimenti politici, avvengono altrettante mutazioni nel mondo del pensiero. Kazimir Malevič ne è eccellente esempio. Per arrivare al manifesto del Suprematismo (e che cosa ci sarà poi di più supremo della Rivoluzione d’ottobre!) che scrive nel 1915 assieme a Vladimir Majakovskij, la strada era stata breve, convulsa e piena di assorbimenti. Majakovskij era stato preceduto dal poeta futurista Velimir Chlébnikov, il quale come ogni buon slavo non poteva esimersi dall’inclinazione teosofica. Futurismo e teologia teleologica millenarista combinavano uno strano cocktail totalmente russo e non del tutto estraneo alla passione che portò molti intellettuali e artisti nelle falangi rivoluzionarie. Chlébnikov è affascinato dalla sua mitologia slava e dai numeri di Pitagora al contempo, dal mondo futuro della radio, dai trasporti innovativi e dalla città che verrà. Partecipa quindi al gruppo futurista russo Hylaea con Majakovskij:
Kazimir Malevič, La sindone, 1908, olio su tela, cm 23,4x34,3, Mosca, Galleria Tret’jakov
Gustav Klimt, Le tre età della vita, particolare, 1905, olio su tela, cm 171x171, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Kazimir Malevič, L’aviatore, 1914, olio su tela, cm 125x65, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Robert Delaunay, Omaggio a Blériot, particolare, 1914, tempera su tela, cm 250x251, Basilea, Kunstmuseum
Pablo Picasso, Natura morta con violino e frutta, 1913, tecniche miste e collage su carta montata su cartoncino, cm 65x49,5, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Kazimir Malevič, Riservista della Prima divisione, 1914, olio su tela e collage, cm 54x45, New York, The Museum of Modern Art
Pablo Picasso, Il chitarrista, 1910, olio su tela, cm 100x73, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Kazimir Malevič, Samovar, 1913, olio su tela, cm 88,5x62, New York, The Museum of Modern Art
Quando i cavalli muoiono soffiano
Quando le erbe muoiono si seccano
Quando gli astri muoiono si spengono
Quando le genti muoiono cantano canzoni.
Muore trentasettenne nel 1922, il che gli eviterà la delusione d’una rivoluzione alla quale aveva aderito come tutta la sua generazione con entusiasmo.
Non è il caso dell’altro personaggio estremo, aderente al gruppo letterario dell’Acmeismo, il quale farà a sua volta una triste fine in periodo staliniano morendo deportato nel 1938: il poeta Osip Emil’evič Mandel’štam. Certo non era andato leggero con il Padre della Russia in un suo epigramma del 1933:
Viviamo senza più fiutare sotto di noi il
paese,
a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse,
e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina
eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Kazimir Malevič, Bianco su bianco, 1918, olio su tela, cm 79,4x79,4, New York, The Museum of Modern Art
Le sue tozze dita come vermi sono grasse
e sono esatte le sue parole come i pesi di un ginnasta.
Se la ridono i suoi occhiacci da blatta
e i suoi gambali scoccano neri lampi.
Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo
sottile:
i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
Chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone, lui solo,
mazzapicchia e rifila spintoni.
Kazimir Malevič, L’arrotino, 1912-1913, olio su tela, cm 79,5x79,5, New Haven, Yale University Art Gallery
Fernand Léger, Natura morta, 1919, olio su tela, cm 119,5x88, Collezione privata
Dionisij, San Basilio Magno, 1502-1503 ca., tempera all’uovo su tavola, cm 157x59, Kirillov, Museo Storico Statale Kirillo-Belozerskij
Dionisij, San Nicola, 1502, tempera all’uovo su tavola, cm 156x58, Kirillov, Museo Storico Statale Kirillo-Belozerskij
Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli
appioppa:
all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio.
Ogni esecuzione, con lui, è una lieta
Cuccagna ed un ampio torace d’osseta.
Ma capace era egli stato in gioventù d’una poetica che portava alla sublimazione espressiva, in modo non dissimile da ciò che avverrà nelle arti visive: “Il rumore prudente e sordo / del frutto, caduto dall’albero / tra il canticchiare continuo / del silenzio profondo del bosco…”.
Fra sublimazione e passione per i numeri si evolve il pensiero figurativo di Kazimir Malevič, e poi avrà egli il buon senso di tornare in un alveo più figurativo che non dispiacerà troppo al regime degli anni Trenta, quando verrà guardato con sospetto per le sue amicizie internazionali nel campo tedesco del Bauhaus e avrà la fortuna di morire nel 1935 prima delle grandi purghe che non lo avrebbero risparmiato, poiché già nel 1930 era stato arrestato per via di queste sue pericolose relazioni internazionali. “Solo la sensibilità è essenziale. L’oggetto in sé non significa nulla” decreta all’inizio della sua mutazione verso una astrazione totale. Le sue opere rimarranno in gran parte a Berlino dopo la mostra del 1927, e da qui circoleranno per il mondo. Ma già nel 1914 era stato esposto a Parigi al Salon des Indépendants dove impressionò Fernand Léger al punto di convertirlo. Pochi artisti quanto lui avranno il magico compito di contaminare, instradare, indicare.
Kazimir Malevič, Croce nera, 1923 ca., olio su tela, cm 106x106, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Kazimir Malevič, Croce rossa su cerchio nero, 1920, olio su tela, cm 73x51, Amsterdam, Stedelijk Museum
El Lissitzky, Illustrazione in Per la voce di Vladimir Majakovskij, 1923, litografia a colori su carta crema, cm 19x13,4
Nikolaj Sapunov, Fiori e porcellana, 1912, olio su tela, cm 83x72, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Kazimir Malevič, Suprematismo, 1915, olio su tela, cm 87x72, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Kazimir Malevič, Contadina con secchio e bambina, 1912, olio su tela, cm 73x73, Amsterdam, Stedelijk Museum
Carlo Carrà, L’antigrazioso, 1916, olio su tela, cm 67x52, Collezione privata
Rimane una questione difficile da chiarire e cioè la formidabile ipotesi di parallelismo fra Malevič e il mondo occidentale, visto che lui dalla Santa Madre Russia si muove pochissimo. Nel 1908 si tiene a Vienna nel Konzerthaus una mostra del gruppo di Gustav Klimt e Joseph Hoffmann, fra arti maggiori e arti applicate. È l’anno nel quale Klimt presenta il noto Bacio ed è lo stesso nel quale Malevič dipinge un Cristo morto che potrebbe provenire dalla medesima ispirazione. Gli incroci informativi in quella Russia prerivoluzionaria sembrano ben più ricchi di quanto la narrazione successiva abbia voluto trasmettere e le ultime onde del Simbolismo appaiono in sottile sintonia con le passioni teosofiche slave. Le evoluzioni dei fumi mentali di Jan Toorop si ritrovano quasi identiche in Malevič, prima della sua conversione alla lingua nuova cubo-futurista, la quale permea l’informazione. Talvolta sembrerebbe naturale porre in confronto opere sue con le altre che la cultura visiva d’Occidente sta elaborando; altre volte una relazione fondata solo su rapporti informativi appare ben più difficile da dimostrare. In realtà è la sensibilità comune di quegli anni che genera forme apparentemente similari ed è ciò che i francesi chiamano l’air du temps che unisce formalmente esperienze figurative distanti migliaia di chilometri. L’artista è oggettivamente un indovino, come quel vaticinatore che de Chirico evoca. Altre volte ancora sembra evidente l’influenza che Malevič ha su correnti successive. Forse Fernand Léger non si sarebbe convertito al “tubismo” senza di lui; ma lo conosceva? E lui stesso, Kazimir, quanto rimane russo nella sua psiche…
Kazimir Malevič, Gli sportivi, 1928-1932, olio su tela, cm 142x164, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Kazimir Malevič, Ragazzo con zaino – Masse di colore nella quarta dimensione, 1915, olio su tela, cm 71x44,5, New York, The Museum of Modern Art
Gerrit Rietveld, Sedia rossa e blu, 1918 ca., legno dipinto, altezza cm 90, New York, The Museum of Modern Art
Pierre Chareau, Lampada da terra LP180, 1923 ca., ferro battuto e alabastro, altezza cm 28, Collezione privata
Kazimir Malevič, Testa, 1928-1929, olio su tela, cm 61x41, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Vasilij Kandinskij
“Ogni opera nasce così, come nasce il Cosmo, attraverso le catastrofi che dal caotico frastuono degli strumenti vanno a formare una Sinfonia, la Musica delle sfere. La creazione di un’opera è la creazione del mondo.” Così nel 1909 Vasilij Kandinskij scrive nel suo famoso saggio Lo spirituale nell’arte, poco prima di dipingere il primo acquerello astratto della sua storia (1910). Il pittore, fin dagli anni giovanili, suonava pianoforte e violoncello; il suo amico Klee suonava il violino, strumento più leggero, e forse per questo motivo preferiva l’acquerello e il disegno a penna. E sarei curioso di sapere cosa si raccontavano a proposito della musica quando lavoravano fianco a fianco nel Bauhaus. Fatto sta che in quegli anni nei quali tutti gli spiriti creativi passavano dalla figura alla sua sublimazione, mentre i discendenti di Cézanne scivolavano verso il Cubismo e i discendenti del Divisionismo correvano verso il Futurismo, mentre Mondrian con Malevič evaporavano verso la forma geometrica concettuale, Kandinskij s’eleva nella lirica pura. E lo fa scrivendo, ragionando a oltranza e diventando così cervellotico in senso ovviamente trascendente da lasciare una pittura altrettanto fisica e cervellotica al contempo, sublime comunque. Nel 1912, appena dedicatosi all’esperimento d’un primo gruppo di lavoro alternativo a Murnau, pubblica Über das Geistige in der Kunst. Insbesondere in der Malerei (A proposito della spiritualità nell’arte. Particolarmente nella pittura). In una seconda fase metterà ordine nella pulsione e scoprirà la rassicurazione in Punkt und Linie zu Fläche: Beitrag zur Analyse der malerischen Elemente… (Punto, Linea, Superficie…) del 1928 con copyright del 1926. Fra un testo e l’altro vi è l’innegabile esperienza del Blaue Reiter, nato nel 1911 quando Kandinskij si ribella alla mostra ufficiale degli artisti di Monaco alla quale non viene accettata la sua opera Il Giudizio universale e in quel gruppetto (Franz Marc, Paul Klee, August Macke, Alexej von Jawlensky, Marianne von Werefkin) si ritrovano non solo artisti visivi ma anche il curioso pianista Thomas Aleksandrovič de Hartmann che mette in musica i dettami del guru Georges Ivanovič Gurdjieff con composizioni dalla ritmica infinita e orientale che precedono per un certo verso quelle di La Monte Young negli anni di Fluxus. Alla coppia Hartmann-Gurdjieff andrebbe messo innegabilmente in relazione il particolare lavoro compositivo di Aleksandr Nikolaevič Skrjabin che muore nel 1915 a quarantatré anni lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro Mysterium (due ore e quaranta minuti per orchestra e pianoforte), una sorta di esaltazione sonora della fine del mondo, dove si pone egli all’opposto dei suoi contemporanei “latini” come Schönberg e Stravinskij. Ma è egli già talmente noto che addirittura d’Annunzio gli dedica l’anno successivo un poema in Notturno. Di Skrjabin consiglio al lettore l’ascolto della breve composizione immediatamente precedente, Vers la flamme, nell’esecuzione esemplare di Vladimir Horowitz che ne recupera tutta la trascendenza lirica.
Vasilij Kandinskij, Dama a Mosca, 1912, olio su tela, cm 108,8x108,8, Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunsthaus
Marc Chagall, La passeggiata, 1917-1918, olio su tela, cm 170x163,2, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Vasilij Kandinskij, La grande porta di Kiev, 1930, tempera, inchiostro e acquerello su carta, cm 21,3x27,3, Colonia, Theaterwissenschaftliche Sammlung der Universität zu Köln
Vasilij Kandinskij, Chiesa rossa, 1901, olio su tela, cm 28x19,2, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Vasilij Kandinskij, Canto del Volga, 1906, olio su tela, cm 49x66, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Vasilij Kandinskij, Pannello per l’esposizione della Juryfreie, 1922, guazzo su carta nera, cm 34,7x60, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Vasilij Kandinskij, San Giorgio e il drago, 1915 ca., olio su tela, cm 40x63, Mosca, Galleria Tret’jakov
Vasilij Kandinskij, Composizione VIII, 1923, olio su tela, cm 140x201, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
Vasilij Kandinskij, Figura fluttuante, 1942, acquerello su carta, cm 33x24,5, Vézelay, Musée Zervos
Vasilij Kandinskij, Improvvisazione, 1913, acquerello su carta, cm 29x48, Vladivostok, Primorsk State Art Gallery
Vasilij Kandinskij, Berge, 1911, litografia a colori, cm 35x48, Berlino, Kupferstichkabinett
Vasilij Kandinskij, Studio per Composizione II, 1910, olio su tela, cm 97,5x130,5, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
Joan Miró, Il carnevale di Arlecchino, 1924-1925, olio su tela, cm 66x93, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery
Vasilij Kandinskij, Rosa decisivo, 1932, olio su tela, cm 80,5x100,5, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
Vasilij Kandinskij, Segmento blu, 1921, olio su tela, cm 120,6x140,1, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
La morte prematura evitò a Skrjabin l’esilio per via d’una rivoluzione che non ebbe sempre rapporto facile con le arti quand’erano troppo vicine ad ipotesi di fedi alternative a quella politica. Se a Prokof’ev il soviet sorride certamente non lo fa a Nikolaj Borisovič Obuchov, anche lui teosofo che si esilia e compone successivamente Il libro della vita (1926) e poi il Terzo e ultimo testamento per cinque voci, croce sonora (uno strumento postfuturista con grande forza scenica), organo, due pianoforti e orchestra (1946). E lo fa ancora meno il soviet con Pavel Aleksandrovič Florenskij, il teosofo che li influenza tutti e morirà vittima delle purghe staliniane del 1937, lui che descrive in modo icastico la musica e, perché no, la composizione di Kandinskij: “Come il rumore di una lontana risacca, così risuona all’autore l’unità ritmica della sua opera. I temi se ne vanno e poi di nuovo ritornano e di nuovo ritornano; e ciò accade sempre di nuovo: essi ritornano ogni volta rafforzati e arricchiti, ogni volta si riempiono del succo di vita”.
L’importanza dell’opera di Kandinskij non deriva quindi solamente dalle eleganti forme geometriche che regala alla coscienza collettiva ma pure dal sedimento complesso della cultura russa dalla quale proviene e che egli porrà in dialogo con le esperienze germaniche, gli esperimenti del Bauhaus dove diventa protagonista, e le eleganze parigine del suo successivo esilio.
Chiedo scusa al lettore se in queste pagine abbandono il ritmo organico del libro e la sua articolazione didattica. Anche l’editore non è del tutto d’accordo con questa mia inclinazione al disordine. Ma troppo importante è l’esperienza umana e intellettuale di Kandinskij per non obbligarci a una parentesi, e troppo complessa la questione russa e quella tedesca per non tentare di entrare nei meandri della coscienza che la genera.
Vasilij Kandinskij, Senza titolo, 1923 ca., tempera su cartone, cm 58x42, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
La teosofia e l’ossessione del Giudizio universale, curiosa anticipazione del dramma che fra poco distruggerà l’Europa della Belle Époque, appare come sentimento di fondo nelle opere di Kandinskij a Monaco. Se i francesi sono tendenzialmente esteti ed esistenzialisti dinnanzi al bicchiere di assenzio in quegli anni, se gli italiani sono entusiasti per la modernità che li emancipa da un passato troppo determinante, se i tedeschi si crogiolano fra peccato e godimento a Dresda e gli intellettuali libertari si liberano oltre misura sul Monte Verità, Kandinskij rimane russo e teosofo. E dal mondo alemanno che lo affascina e nel quale trova come primo professore a Monaco già nel 1896 Franz von Stuck, talvolta lugubre nel suo decadentismo, deve imparare molto. Vengono quasi naturali alcune considerazioni sulla formidabile mutazione linguistica che porta Kandinskij a comporre una prima serie di ricerche visive sul Giudizio universale, proprio mentre è in Germania, superando la garbata sua narrazione slava. A Danzica è conservato il Giudizio universale di Hans Memling dove Cristo risorto appare fra due cerchi colorati, le sfere. Anche van der Weyden aveva usato la stessa sfera celeste nel suo Giudizio conservato a Beaune, in Borgogna, e del quale le riproduzioni erano materiale didattico. A Monaco si trovava la grande tela di Rubens nella Alte Pinakothek con il turbinio e la luce centrale. I vortici barocchi di Rubens permetterebbero addirittura di considerare barocca la prima ricerca astratta di Kandinskij, in quanto tutti questi elementi rotatori e di luce ritrovano un loro destino scosso nell’acquerello e nel futuro dipinto che Kandinskij realizza fra il 1910 e il 1913, riassumendone la potenza del movimento e la tensione teleologica, quella che corrisponde fino in fondo alla percezione russa del fato e d’un destino terminale non lontano dal pensiero politico di Kropotkin e di Dostoevskij. E qui si capisce che la ricerca poetica e formale della Pittura con la maiuscola va oltre la caducità del mondo ben più vasto dell’illustrazione.
Hieronymus Bosch, Il Giudizio universale (frammento), 1493 ca., olio su tavola, cm 59,5x113, Monaco, Alte Pinakothek
Vasilij Kandinskij, Primo acquerello astratto, 1910, matita, acquerello e china su carta, cm 49,6x64,8, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Vasilij Kandinskij, Il Giudizio universale, 1911, acquerello su carta, cm 45x63, Collezione privata
Hans Memling, Il Giudizio universale, particolare, 1468-1472, olio su tavola, cm 221x161, Danzica, Pomorskie Museum
Vasilij Kandinskij, Frammento 2 per Composizione VII, 1913, olio su tela, cm 115x127, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery
Hieronymus Bosch, Ascesa all’Empireo, 1490 ca., olio su tavola, cm 87x40, Venezia, Palazzo Grimani
Vasilij Kandinskij, Attorno al cerchio, 1940, tecnica mista su tela, cm 96,8x146, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
August Macke, Omaggio a Bach, 1912, olio su tela, cm 130x97, Ludwigshafen am Rhein, Wilhelm Hack Museum
Paul Klee
Forse è proprio la pratica del violino e il suo naturale intimismo che porta Paul Klee (1879-1940) alla dimensione piccola in tutti i lavori della sua esistenza. Figlio d’un violinista tedesco e d’una cantante elvetica, nasce tedesco nella Confederazione Elvetica e ovviamente anche lui violinista. Poi si va a formare nel crogiolo artistico di Monaco di Baviera negli anni generosi durante i quali da quelle parti muta il gusto dal decadentismo accademico di Franz von Stuck alle sperimentazioni di quell’avanguardia mista che sarà il Blaue Reiter. E nel frattempo si sposa con Lily anche lei musicista.
Paul Klee, Adamo e la piccola Eva, 1921, acquerello e inchiostro su carta, cm 31,4x22, New York, The Metropolitan Museum of Art
Paul Klee, Testa minacciosa, 1905, incisione, cm 19,5x14,5, New York, The Museum of Modern Art
Paul Klee, L’inizio di un sorriso, 1921, tecniche miste su cartoncino, cm 36x25, Düsseldorf, Museum Kunstpalast
Paul Klee, Tre teste, 1909, litografia su carta, cm 12,5x15, Berlino, Kupferstichkabinett
Ritratto fotografico di Paul Klee nei primi anni del Novecento
Affascinato dal disegno e dal segno va a cercare con August Macke la trasparenza delle arie di Tunisi dove il colore lo converte definitivamente. Partecipa con buon esito alle mostre che si organizzano in quell’area prebellica e che gli permettono d’annusare sia l’aria parigina di Delaunay sia quella berlinese dove incontra Chagall. Diventa, passo dopo passo, il cantore d’una poetica altrettanto trasparente. Anche se arruolato nell’esercito tedesco, riesce ad attraversare indenne l’inferno di fuoco e d’acciaio e a scrivere la sua Schöpferische Konfession, la confessione sulla creatività che pubblica nel 1920, come poi continuerà a pubblicare durante la sua permanenza al Bauhaus una serie di testi che consentono con gran facilità d’intuire l’assoluta autocoscienza del suo operare. Vi è poi una considerazione necessaria: quell’apparente sua semplificazione del segno corrisponde a una serie infinita di motivazioni, fra le quali l’esperienza musicale è innegabilmente trainante; ma lo è altrettanto l’afflato trasversale e non sempre dichiarato che porta molti artisti nella direzione d’un primitivismo atavico che si discosta assai da quello che Pablo Picasso va a ricercare nella négritude. È come se Paul Klee, che di Sigmund Freud forse non si interessava, fosse andato comunque a indagare la coscienza della propria infanzia per ritrovare quel dato uniformante che, assopito nel subcosciente, collega l’umanità tutta.
Paul Klee, Geni, 1922, matita, acquerello e inchiostro su carta e cartoncino, cm 24x16,4, Berna, Zentrum Paul Klee
Paul Klee, Città infetta, 1922, penna, matita e acquerello su carta, cm 30,7x23,1, Berna, Kunstmuseum
Ed è egli, contro l’apparenza d’una prima visione superficiale, legato comunque alla volontà di porre in questa primordialità un ordine da lui riorganizzato; a proposito cita l’altro pittore che amava suonare il violino: “Se Ingres ha posto ordine alla quiete, io vorrei, al di là del pàthos, porre ordine al movimento”. E se il fruitore per caso fosse distratto, questo movimento gli viene indicato dalle frecce che Klee pone nelle sue composizioni. È con questa precisa prassi che egli stupirà uno dei pensatori più acuti del secolo spezzato, il Walter Benjamin, il quale rimane colpito da Angelus Novus del 1920, a riprova del fatto che, per quanto l’opera pittorica sua fosse per pochi addetti fino all’esplosione della sua fama dopo la Seconda guerra mondiale, la comunicazione d’un piccolo acquerello poteva generare pensieri profondi contraddicendo lo stesso pensiero di Benjamin (ma il filosofo lo aveva proprio visto in riproduzione!). In Über den Begriff der Geschichte (Tesi di filosofia della storia), il manoscritto del 1940 che lascia ad Hannah Arendt prima di suicidarsi, così scrive Benjamin: “C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal Paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera”.
Paul Klee, Separazione di sera, 1922, acquerello e matita su carta, cm 33,5x23,2, Berna, Zentrum Paul Klee
Paul Klee, Eros, 1923, acquerello, guazzo e matita su carta, cm 33,3x24,5, Lucerna, Collection Rosengart
Paul Klee, Corridore alla meta, 1921, acquerello e matita su carta montata su cartoncino, cm 39,4x30,2, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
Paul Klee, Scena di battaglia dall’opera comico-fantastica Il navigatore, 1923, acquerello, olio e guazzo su carta su acquerello e inchiostro su cartoncino, cm 34,5x50, Basilea Kunstmuseum, Kupferstichkabinett
Paul Klee, Cacodemonic, 1916, olio su tela, cm 39x39, Berna, Zentrum Paul Klee
Paul Klee, Ad Parnassum, 1932, olio su tela, linee e punti stampati, cm 100x126, Berna, Kunstmuseum
Paul Klee, Senecio, 1922, olio su cartone, cm 40,5x38, Berna, Kunstmuseum
Paul Klee, Angelus Novus, 1920, china, gessetto colorato e guazzo su carta, cm 32x24, Gerusalemme, The Israel Museum
Natalja Gončarova, Bozzetto di un costume per il balletto Liturgia, 1915, acquerello su carta, cm 32,5x24,7, Mosca, Museo Teatrale Bachrušin
Paul Klee, Pesci con vermi all’amo, 1901, acquerello e inchiostro, cm 15,2x21,7, Collezione privata
Come doveva essere diverso Klee da come lo vedeva il suo compagno d’avventura e di viaggio August Macke e da come si vedeva egli medesimo. È egli in costante ricerca d’un equilibrio fra ansia e redenzione, fra tensione e direzione. Ecco il motivo delle sue frecce! Ecco pure il motivo del titolo d’un suo splendido acquerello del 1916 Cacodemonic.
Ridurre Paul Klee alla sua formidabile stagione didattica nel Bauhaus è un crimine contro l’intelligenza creativa. Egli è costantemente un laboratorio mentale libero, capace di intuiti formidabili, come quando sogna le deformazioni surrealiste ben prima che il movimento parigino nasca. La sua infatti rimane costantemente una sperimentazione che gioca fra armonie e trasparenze, evocazioni e contenuti letterari. Questa sua cosmogonia nasce con una materia, sia pittorica ad olio sia acquerellata, intimamente cristallina.
Paul Klee, Giardino degli uccelli, 1924, tecnica mista su carta, cm 48x76, Monaco, Pinakothek der Moderne
Piccola nota autobiografica: ho sempre avuto per Paul Klee una simpatia totale. Ho avuto la fortuna di possedere alcune delle sue opere, da un primo piccolo olio tunisino del 1914 ad alcuni acquarelli e disegni. Ciò mi portò, come si addice a ogni mercante attento, alla certificazione di autenticità, la quale nel caso suo è la più semplice del mondo. Da uomo incredibilmente ordinato, quale era lui e certamente non il vostro autore, egli poneva a ogni opera che realizzava una attenzione totale. Il sem-plice disegnetto tratteggiato su una carta apparentemente anonima veniva con attenzione incollato su cartoncino. Poi veniva intitolato, datato e numerato con una sigla che egli riportava in un taccuino. Il taccuino è tuttora conservato presso la sua fondazione e funziona un poco come il Liber veritatis che Claude Lorrain aveva redatto nel XVII secolo per documentare tutta la sua opera. In questo senso Klee e Lorrain sono l’opposto esatto di de Chirico, il quale replicava le sue opere talvolta per inganno, talvolta per senso filosofico, generando una confusione tuttora difficilmente risolvibile. L’attenzione che Klee porta al proprio lavoro, una volta eseguito, è parte del lavoro stesso.
Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte, poi reso pesante, prezioso e forte dal fuoco di sera pervaso da Dio e curvato, infine etereo avvolto di blu si libra su campi innevati verso cieli stellati.
Paul Klee, Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte…, 1918, acquerello, inchiostro e matita su carta, con inserto di carta argentata, su cartoncino, cm 22,6x15,8, Berna, Kunstmuseum
Paul Klee, Apparecchi per il trattamento magnetico delle piante, 1921, penna e inchiostro su carta, cm 22,2x28,2, Collezione privata
Pablo Picasso, Testa di donna, 1929-1930, tecniche miste, ferro, cm 100x37x59, Parigi, Musée National Picasso
Alighiero Boetti, Peshaixar, 1988, tessuto ricamato, cm 108,5x108, Kassel, Neue Galerie
Paul Klee, Sogno forte, 1929, guazzo, acquerello su carta, cm 26x21, Collezione privata
Paul Klee, Commedia, 1921, acquerello e olio su carta, cm 30,5x45,4, Londra, Tate Gallery
Joan Miró, L’oro dal cielo blu, 1967, acrilico su tela, cm 205x173, Barcellona, Fundació Joan Miró
Giorgio de Chirico
L’immagine di de Chirico è ancora non definita. Per molti è l’artista che ha il più grande numero di falsi al mondo, per altri è quello che ha fatto i propri falsi; per altri ancora, e parlo dei grandi critici internazionali, è un artista molto importante per un certo periodo e meno importante dopo: gli americani pensavano che fosse morto nel 1919, mentre invece è morto nel 1978! Anche questo contribuisce a fare di lui un personaggio curiosissimo.
Vorrei ricordare il mio primo incontro con lui. Avevo allora circa ventisei anni e avevo deciso di aprire una galleria a Milano, in via Monte Napoleone. Un giorno un signore venne da me per propormi l’acquisto di due cassapanche, decorate sul fronte e sul coperchio con quattro piazze d’Italia. All’interno avevano i timbri del Sindacato fascista degli artisti: sembravano autentiche. Mi venne chiesta una garanzia di quaranta milioni di lire, una somma all’epoca considerevole. Non sicuro dell’affare, decisi di incontrare de Chirico per una conferma e scesi in auto fino a Roma, dove viveva all’ultimo piano di un palazzo che si affacciava su Trinità dei Monti. Comparve da uno studio dal sapore orientale, pieno di tavolini dorati. La televisione era accesa, ma senza audio. Entrò nella stanza, guardò le cassapanche e disse: Je ne me les rappelle pas, poi tornò a sedersi davanti alla televisione nello studio. Le due cassapanche erano false.
Giorgio de Chirico, Centauro morente, 1909, olio su tela, cm 117x73, Collezione privata
Giorgio de Chirico, Ritratto premonitore di Guillaume Apollinaire, 1914, olio su tela, cm 81x65, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Giorgio de Chirico, La ricompensa dell’Indovino, 1913, olio su tela, cm 135,6x180, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Tutto ciò che vediamo nei quadri di de Chirico appartiene ai dettagli della sua vita quotidiana, alla sua infanzia intima, alla sua storia greca. Ha trascorso i primi anni in una Grecia che immaginiamo in modo particolare noi oggi, ma che è una creazione germanica. Qui le grandi industrie tedesche hanno riversato i loro prodotti, in particolare le vernici. Per questo le facciate delle case greche, a partire dagli anni settanta e ottanta dell’Ottocento, diventano bianche e i portali colorati. Questi colori sono quelli che lui raffigura. De Chirico porta avanti una sua controrivoluzione che mescola i cromatismi folli e le immagini della sua storia, le radici classiche.
Giorgio de Chirico, Le Muse inquietanti, 1916, olio su tela, cm 97x66, Collezione privata
Non fu affatto facile per lui tornare a Parigi nel 1924 a dire che voleva fare una pittura nuova rispetto a quella metafisica che lo aveva reso famoso fra il 1912 e il 1914, e che allegramente per tutta la vita avrebbe replicato, in alcuni casi con poetica ironia, in molti altri con autentico cinismo. E invece, negli anni compresi tra le due guerre, portò avanti una personalissima citazione neoclassica in cui mise i contenuti della sua Grecia, facendo convivere le statue antiche con le immagini pop. Lì pose le radici di quella che diventerà poi la cultura postbellica.
Giorgio era stato nei primi anni del Novecento, quando la Belle Époque e l’Impressionismo stavano per sciogliersi nell’insorgere dei cubismi e dei futurismi, un innovatore fuori pista, l’artista che trapiantava in un ambiente puramente dedicato al bello lo spirito dell’ansia metafisica che aveva trovato nelle letture di Friedrich Nietzsche e nella pittura dei simbolisti tedeschi. Ed era diventato immediatamente un punto di riferimento alternativo agli alternativi, amico del grande poeta iperalternativo Guillaume Apollinaire, il quale come lui vantava una genetica complessa: de Chirico italiano con l’accento greco di chi si era formato ad Atene essendovi nato, cresciuto a Monaco di Baviera dove era emigrato con la famiglia dopo la morte del padre, ingegnere ferroviario; Apollinaire mezzo polacco e mezzo italiano. I due posero una delle fondamenta della cultura alternativa per la Francia e per il mondo. Poi de Chirico se ne tornò in Italia per via della guerra e Apollinaire la guerra la fece invece con la nuova patria francese, rimanendo prima ferito in trincea e poi morendo, come altri milioni di sfortunati, di febbre spagnola nel 1918. Dopo la guerra l’avanguardia che nasceva dalle provocazioni dadaistiche vantava loro due, il defunto e l’emigrato, come antenati spirituali. E Giorgio de Chirico decise di tornare a Parigi. Il ritorno dell’antenato è quasi sempre intollerabile; non fu però privo di successo quel suo secondo periodo parigino.
Giorgio de Chirico, La torre rossa, 1913, olio su tela, cm 74x100, Venezia, Peggy Guggenheim Collection
In quegli anni suo fratello Andrea, che era stato raffinato musicista nell’ambito delle avanguardie pianistiche e già eccellente scrittore, si cambiò il nome in Alberto Savinio e si mise anche lui a dipingere. I due allora cominciarono a render pubblico il rapporto strettissimo che sin dall’infanzia li legava e che aveva giocato un ruolo fondativo nel loro modo di pensare, di vedere, di scrivere e di dipingere. Si definirono i nuovi Dioscuri, dal nome mitico di Castore e Polluce. E se ne tornarono a mietere successi in Italia. Nel frattempo era morta la famosa “baronne”, la mamma baronessa che spesso li aveva seguiti in spostamenti costanti, anzi che era stata la fautrice dell’abbandono della Grecia. De Chirico cambiò moglie, passando dall’archeologa Raissa Calza alla bizzarra polacca, forse ballerina, Isabella Far. Alberto Savinio divenne padre di famiglia con una moglie stabile e due figli, Ruggero e Angelica. Eredità, mogli, successi diversi, l’uno ricco ormai, l’altro condannato alla vita frugale dell’intellettuale, una discussione a proposito dei tappeti che la “baronne” arrotolava e srotolava e che andavano ora divisi. Fatto sta che il rapporto fra i Dioscuri si sfilacciò e si spense.
Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca, 1917, olio su tela, cm 90x60, Collezione privata
Giorgio de Chirico, Bagni misteriosi, 1935, olio su tela, cm 38x46,3, Collezione privata
La pittura tarda di de Chirico ci risulta oggi particolarmente interessante perché si snoda lungo due realtà parallele: i falsi che lui faceva per ingannare chi li comprava e i quadri “veri”, l’evoluzione costante della sua ricerca che passa attraverso i Bagni misteriosi e ricompare negli anni Sessanta, ispirata da una cartella grafica che si chiamava Calligrammes e riprendeva un lavoro di Apollinaire degli anni Trenta. Fu ancora un’invenzione formidabile. La creatività dechirichiana continua con un lavoro e un gioco di ricerca perenne.
Ma allora perché tutti questi quadri falsi? Un po’ per carattere levantino, un po’ perché, a partire dagli anni Trenta, si parlava di lui solo per opere diverse da quelle che al momento faceva. Ma anche per un fatto banalmente tecnico: nel 1938-1939 la galleria Milione a Milano decise di fargli un catalogo. I quadri venivano allora riprodotti in bianco e nero e le stampe erano colorate in tipografia seguendo il quadro originale. Ma lui i quadri non li aveva più e così risolse la faccenda con la soluzione più naturale: li rifece. E si accorse che rifacendoli piacevano come quelli di prima.
Giorgio de Chirico, Le cabine dei Bagni misteriosi, 1964, olio su tela, cm 59x49, Collezione privata
Da quella sua prima serie di riproduzioni del 1939 ne fece altre che avevano come scopo anche quello di contraddire il mercato parigino che vendeva i suoi quadri a prezzi altissimi. Lui li datava e li faceva con un senso di inganno vero e proprio: da qui si aprì la strada a una pletora di falsari. Da metà dagli anni Settanta a metà degli Ottanta si sviluppò il caso dei falsi de Chirico. A volte lui approvava addirittura quadri falsi per un gusto dissacratorio.
Questo permette di intendere un po’ meglio la sua pittura, una costante sperimentazione personale vista attraverso il filtro di alcuni elementi fra loro a volte distonici. Una piazza con un gruppo di carciofi, una linea con un treno che ricorda i viaggi dell’infanzia, il babbo costruttore, gli spostamenti, l’abbandono.
Ricordano il giovanotto non ancora ventenne che arriva nella Monaco del 1906, uno dei luoghi più pulsanti della storia occidentale, e in cui scopre citazioni letterarie e pittoriche totalmente inattese. Qui per la prima volta il greco antico incontra la ciminiera industriale. Sembra provocatorio dirlo, ma lui e il fratello scoprono i templi greci in Baviera. E sono proprio queste forme che andranno a invadere il loro immaginario e la loro opera pittorica per tutta la vita. Scoprono anche la letteratura e la filosofia germanica che in quegli anni teneva in grande considerazione il mito greco.
A Monaco de Chirico frequenta la Neue Pinakothek, il museo d’arte moderna voluto da Lodovico I nel 1849. Si interesserà in particolare a due artisti in quel tempo fuori moda: Arnold Böcklin e Max Klinger. I centauri e la melanconia di Böcklin saranno la sua prima fonte di ispirazione. Le ombre e i personaggi che scivolano di Klinger lo accompagneranno durante tutta la sua opera di figurazione.
La basilica di Sant’Ambrogio di Giovanni Migliara del 1822 è identico nel suo equilibrio prospettico alla Piazza d’Italia del 1938. L’impostazione trapezioidale del vialetto di Migliara diventa l’impostazione della vasca di de Chirico. Nella copia che Ahlborn fa di un dipinto di Schinkel nel 1830 vi è la campionatura più ricca possibile di elementi dechirichiani. Nascosto in un paesaggio romantico delirante il tempio rotondo che appare nell’Enigma del 1911, in alto a destra la torre dell’altro dipinto enigmatico del 1913, gli archi scuri della Nemica del poeta del 1914 sempre simmetrici e invertiti rispetto a quelli definitivi e in basso a filo d’acqua il tempio che comparirà in ben due dipinti del 1927, ogni volta in una stanza.
Giorgio de Chirico, I dioscuri, 1934, olio su tela, cm 78x100, Collezione privata
Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia, 1938, olio su tela, cm 53x70, Collezione privata
Giovanni Migliara, La basilica di Sant’Ambrogio a Milano, 1822, olio su tela, cm 47,2x61,7, Monaco, Neue Pinakothek
Giorgio de Chirico, L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio, 1911-1912, olio su tela, cm 70x86,5, Collezione privata
Arnold Böcklin, L’isola dei morti III, 1883, olio su tela, cm 147x325, Berlino, Nationalgalerie
E in un pacifico dipinto di Karl Blechen compaiono le squadre che ossessioneranno de Chirico nel suo periodo ferrarese. I cannoni di Géricault compariranno nella Sorpresa del 1913, sempre ovviamente speculari.
De Chirico non ha mai detto la verità. Anche quando descrive la prima Piazza d’Italia mente, perché tutte le piazze non sono viste da una panchina ma come da un primo piano, da una telecamera cinematografica che riprende dall’alto. In questo senso sono identiche alle visioni dell’Espressionismo germanico dei primi vent’anni del XIX secolo e identiche anche ai film di Ejzenštejn. Quella telecamera non era sulla panchina di piazza Santa Croce a Firenze. L’edificio stesso, lo spostamento dell’ora, la convivenza dell’edificio storico con quello moderno neoclassico… tutto ciò proviene da un’altra parte.
Ma com’erano nate le Piazze d’Italia viste dal primo piano? Io l’ho scoperto per caso, a Monaco ovviamente, in una birreria accanto al teatro. Basta affacciarsi alla finestra del primo piano ed ecco apparire il prototipo delle Piazze d’Italia con l’edificio lungo di citazione fiorentina ad archi, la statua con l’ultimo re di Baviera e dietro l’Opera… esattamente come la Piazza d’Italia. Erano le potentissime immagini dell’infanzia di de Chirico.
Per de Chirico l’artista era un vaticinatore, colui che accompagna le persone per capire le cose che altrimenti non capirebbero. Lo spirito stesso della metafisica. I suoi quadri determinano meccanismi di pensiero che stanno da qualche parte accanto al fegato, lì dove i presocratici sostenevano si trovasse l’anima.
Pablo Picasso
Il nonno della mamma di Picasso era di Genova. Lui in realtà si chiamava Pablo Ruiz ed era figlio di un modesto pittore di Malaga. Decise di cambiare cognome per quello della mamma perché gli piaceva il suono della doppia esse, non consueto nella lingua spagnola. Siccome nomen omen, cioè il nome è un auspicio, anche Picasso esprime un desiderio, che noi interpretiamo in modo impertinente: abbandonò la parte cupa del carattere spagnolo e del suo periodo blu per scoprire il Mediterraneo solare della Liguria e della Costa Azzurra. E appena potrà, durante tutta la sua vita, andrà a risiedere a metà strada, più o meno fra il luogo del padre e quello del cognome materno: nei dintorni di Nizza, zona che più di ogni altra dà energia alla sua vita, passata in gran parte a torso nudo in Provenza.
Picasso sarà il maggior propagandista dello spirito del Mediterraneo del XX secolo: mai espressionista cupo come i migliori tedeschi, mai astrattista glaciale come Mondrian. E sarà pure portatore sano del germe mediterraneo dell’ironia e della sua anima neoclassica.
El Greco, San Francesco in meditazione, 1590-1595, olio su tela, cm 98x67, Vitoria-Gasteiz, Museo Diocesano
Pablo Picasso, La signora ubriaca è stanca, 1902, olio su tela, cm 56x44, Collezione privata
Gustave Moreau, I liocorni, 1888 ca., olio su tela, cm 115x90, Parigi, Musée Moreau
Pablo Picasso, Bagnanti a Biarritz, 1918, olio su tela, cm 89x67, Parigi, Musée National Picasso
Lui, il più immigrato degli immigrati, aveva scelto come punto di partenza il pittore più serio e più borghese di Francia, Paul Cézanne. Da straniero ha cercato di diventare ciò che la borghesia seria francese stava sperimentando in quel momento, e l’incrocio fra questa voglia di essere e quello che in realtà si è ha generato un’esplosione. Da quel momento in poi, i quadri non hanno più avuto bisogno di una definizione: si è definitivamente entrati nella magica realtà della rivoluzione plastica carica di significato e priva di contenuto.
Il Doganiere Rousseau gli diceva: “Siamo noi due i più grandi pittori del mondo, io nello stile moderno e lei in quello egizio”. E aveva ragione, perché Picasso è tutto egizio, potente, grafico, carico di vita, anche se spesso non riesco a capire che cosa dica. Debbo confessare che di lui poco mi importa, ma mi piace moltissimo, è il massimo lusso possibile per l’occhio. Ha il segno graffiante della miglior grafica che possa esistere, assieme alla passione per la materia: sempre, anche quando la dimensione è parallela con la terza dimensione della scultura.
Odilon Redon, Il carro d’Apollo, particolare, 1905-1914, pastello e tempera su tela, cm 91x77, Parigi, Musée d’Orsay
Pablo Picasso, Evocazione (Il funerale di Casagemas), 1901, olio su tela, cm 150x90, Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris
Pablo Picasso, Testa di donna (Fernande), 1909, bronzo, altezza cm 41, New York, The Museum of Modern Art
Pablo Picasso, Donna con pere (Fernande), 1909, olio su tela, cm 92x73, New York, The Museum of Modern Art
Arte Baule, Statuetta stante, XIX secolo, legno, altezza cm 81, Berlino, Ethnologisches Museum
Pablo Picasso, Studio per Les demoiselles d’Avignon, 1907, olio su tela, cm 81x60, Berlino, Nationalgalerie, Museum Berggruen
Arte Betsi, Testa reliquiario, XIX secolo, legno, altezza cm 62, New York, The Metropolitan Museum of Art
Pablo Picasso, Studio per Les demoiselles d’Avignon, 1906, acquerello su carta, cm 22x15, New York, The Museum of Modern Art
Picasso è stato definito il più grande artista del XX secolo, il padre del Cubismo, l’inventore della pittura moderna. Bambino prodigio, ha cominciato a dipingere a otto anni e ha stupito il mondo con la propria longevità creativa, producendo instancabilmente fino all’età di novantun anni.
Picasso è l’uomo che ha portato in Europa l’idea dell’art nègre, di quell’arte d’Africa delle Demoiselles d’Avignon senza la quale l’arte moderna non sarebbe esistita.
Pablo Picasso, Les demoiselles d’Avignon, 1907, olio su tela, cm 244x234, New York, The Museum of Modern Art
Nel 1917 poi accade un fatto apparentemente marginale che ebbe conseguenze per il cambio del gusto successivo, Pablo Picasso, non ancora comunista, dopo le Demoiselles e l’invenzione del Cubismo, uscito rallegrato dai successi di Parade, se ne va a fare un giro a Roma e lì per la prima volta scopre che c’è ben meglio che riassumere i suoi contemporanei. Scopre il fascino della citazione dall’antico. Vede il pugile del Museo Archeologico e lascia colpire la fantasia dalla grafica incisa sugli specchi e sulla Cista Ficoroni che lo influenzeranno per anni in quel suo ciclo vastissimo di incisioni che raccoglie Ambroise Vollard nella nota Suite e si pongono così in rapporto dialettico il formalismo neoclassico riscoperto con le geometrie degli astrattismi andando a porre le basi dell’Art Déco.
Nello stesso anno Mario Broglio e i suoi amici stanno ponendo le basi di una rivista che appare nel 1918 con il titolo “Valori Plastici” e che segnerà la fine del percorso di rottura avanguardistica per tornare alle forme del passato, quello talvolta dell’antichità maggiore, quello altre volte della grande pittura del primo Quattrocento. Nessuno può testimoniare d’un possibile incontro fra lo spagnolo e i romani, ma ciò che è certo è che ancora una volta Picasso annusa da che parte va il vento. L’Europa degli intellettuali e degli artisti mediterranei sente che sta venendo il proprio turno. Lo stesso de Chirico sta dipingendo i suoi ultimi dipinti strettamente metafisici e inizia a guardare alla Roma eterna. Sorge un bisogno trasversale in quell’anno di ritorno alla sicurezza formale come parallelo ritorno delle certezze della vita.
Lisippo e Lisistrato, Pugile seduto, 340-335 a.C., bronzo e rame, altezza cm 128, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo
Pablo Picasso, Nesso e Deianira, 1920, matita su carta, cm 20,9x26, New York, The Museum of Modern Art
Pablo Picasso, Il riposo del Minotauro, 1933-1939, acquaforte, cm 34x44, New York, The Museum of Modern Art
Cista Ficoroni, particolare, IV secolo a.C., bronzo, Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
Cista Ficoroni, IV secolo a.C., bronzo, altezza cm 58, Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
Pablo Picasso, Tre donne alla fonte, 1921, olio su tela, cm 204x174, New York, The Museum of Modern Art
Giorgio de Chirico, Lo spirito della Dominazione, 1927, olio su tela, cm 136x273, Collezione privata
Pablo Picasso, La sorgente, 1921, olio su tela, cm 76x125, Londra, Tate Modern
Marc Chagall, Compleanno, 1915, olio su tela, cm 80x99, New York, The Museum of Modern Art
A differenza di altri artisti, a Picasso il successo ha sorriso quasi subito: ha avuto un periodo infantile difficile, geniale, poi un periodo parigino in cui ha stretto la cinghia a lungo e a partire dal 1906 ha trovato il primo mercante, Ambroise Vollard, che gli ha dato duemila franchi di allora per tutto lo studio. In seguito è arrivato il secondo mercante, Daniel-Henry Kahnweiler, e ancora i grandi collezionisti americani.
Nel 1919 Picasso era già un uomo ricco e aveva una passione per l’ostentazione della ricchezza. Trentamila opere a un valore medio di mezzo milione di euro l’una sono una somma difficile persino da immaginare, un patrimonio incredibile. E lui, che amava visceralmente le donne in un secolo in cui fra gli artisti non c’erano molti eterosessuali, se l’è goduta fino in fondo. Ha avuto donne complicate, certo, ma che si sono rivelate una fonte di ispirazione perenne: i quadri che ne risultano sono forse i più vitali che ha fatto. Più che gli intellettuali, frequentava gli scrittori e i poeti tipo Paul Éluard o Louis Aragon, quei personaggi straordinari della Parigi degli anni Venti e Trenta, spesso molto impegnati politicamente. Picasso era realmente, concettualmente un rosso. Forse il comunista più ricco del mondo.
Pablo Picasso, La lettura, 1932, olio su tela, cm 130x97, Parigi, Musée National Picasso
Pablo Picasso, Bagnante seduta, 1930, olio su tela, cm 163x129, New York, The Museum of Modern Art
Di una cosa sono sicuro: quando fra cinque secoli si tenterà di trovare l’opera che rappresenta il XX secolo come la Cappella Sistina rappresenta il secolo del Rinascimento, quest’opera sarà Guernica, che rappresenta fino in fondo il secolo della catastrofe, delle guerre e delle distruzioni. Guernica, il dipinto realizzato nel 1937 in un mese e mezzo di lavoro dopo che le forze naziste su richiesta di Franco avevano bombardato e distrutto un piccolo villaggio in Spagna. Si narra che, dopo la presentazione pubblica dell’opera, l’ambasciatore nazista a Parigi andò a trovare Picasso nel suo studio, perché l’artista non aveva nessuna intenzione di andarsene dalla Francia (e non avrebbe saputo d’altronde dove andare, perché in Spagna sicuramente non sarebbe tornato e in America non amava andare). Ebbene il diplomatico Otto Abetz, che aveva capito alla perfezione il valore del gesto di Picasso, lo trovò nel suo studio in cui campeggiava anche una grande riproduzione di Guernica. Guardandola con un certo sdegno gli disse: “Ah, eccolo qua, è lei che ha fatto questo?”. E Picasso rispose: “No, siete voi che avete fatto questo”.
Pablo Picasso, Il sogno, 1932, olio su tela, cm 130x97, Collezione privata
Pablo Picasso, Ritratto di Dora Maar, 1937, olio su tela, cm 92x65, Parigi, Musée National Picasso
David Douglas Duncan, Picasso nel suo studio a Cannes, 1957, Barcellona, Museu Picasso
Pablo Picasso, Guernica, 1937, olio su tela, cm 350x782, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reína Sofía
Un artista dal talento totale e dal gesto innato e naturale. Uno spirito ludico e infantile in un corpo che non sembrava mai invecchiare: ha fumato Gauloises per settantatré anni ma non ha mai perso l’accento spagnolo. Picasso è morto nel 1973, appena in tempo per non dover vedere l’arrivo del fax, del telefonino e di internet. E oggi non c’è più un posto fisico per l’avanguardia.