LA CAVALCATA DELLE AVANGUARDIE


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Umberto Boccioni, Carica di lancieri, particolare 1915, tempera e collage su cartone, cm 32x50, Milano, Museo del Novecento

Umberto Boccioni, Carica di lancieri, particolare 1915, tempera e collage su cartone, cm 32x50, Milano, Museo del Novecento

DA GIULIO CESARE ALLA RIVOLUZIONE BORGHESE

Il concetto di avanguardia appare nella storia dell’arte solo a partire dalla metà del XIX secolo. Il termine deriva dal lessico militare: nel De bello Gallico di Giulio Cesare sono chiamati avanguardie quei gruppi di milizie mandati avanti a sfondare le fila nemiche, soldati destinati a un ruolo epico ma tendenzialmente catastrofico.

Quando nella Francia borghese del XIX secolo si renderà sempre più evidente la frattura tra arte ufficiale e arte di frontiera, gli impressionisti e poeti come Baudelaire si sentiranno avanguardie, piccoli nuclei illuminati, trascinatori di una massa cieca.

La prima rottura del mondo dell’arte con la società però era già avvenuta a Firenze ai tavolini del caffè Michelangiolo quando dal 1855 si era costituito il gruppo dei Macchiaioli (gli Impressionisti a Parigi nasceranno nel 1874), un manipolo di artisti che si radunava con la consapevolezza di fare arte senza scopo e senza successo e che scelse come mercante e critico Diego Martelli, pur sapendo benissimo che non sarebbe stato capace di vendere i loro quadri.

Il loro esistere si giustificava solo tra di loro (tra di loro si scambiavano le opere), si fondava sulla consapevolezza del gruppo stesso. Sono proprio i macchiaioli a formare la prima vera avanguardia della storia dell’arte, artisti che incominciano a chiamarsi fuori dalla società d’appartenenza per autoverificarsi. La storia però non ha reso giustizia a questo importantissimo movimento, e quando se ne parla oggi non sembra essere più che una curiosità etnica. Nell’accezione comune si reputa invece abitualmente che la genesi delle prime avanguardie sia francese e la si debba collegare ai Salons alternativi a quelli ufficiali, anche se la dialettica all’interno del mondo delle arti già aveva raggiunto punti di sofisticato dibattito nella nota Querelle des Anciens et des Modernes.

Giovanni Fattori, La Rotonda dei bagni Palmieri, 1866, olio su tela, cm 12x35, Firenze, Galleria d’Arte Moderna

Giovanni Fattori, La Rotonda dei bagni Palmieri, 1866, olio su tela, cm 12x35, Firenze, Galleria d’Arte Moderna

Questo dibattito fra antichi e moderni, fra classici e innovatori, ha infatti ossessionato la cultura d’Occidente sin dalle tensioni del Seicento francese. La Querelle des Anciens et des Modernes vide il confronto dei due partiti letterari opposti: di Boileau da un lato, sostenitore della necessità di mantenere i modelli degli antichi come riferimento per ogni gesto classico, e di Charles Perrault dall’altro, che reputava i suoi colleghi contemporanei altrettanto degni d’interesse. Invero la questione s’era già inscenata nel cuore del Rinascimento fra chi si riferiva al neoplatonismo e chi optava invece per la sperimentazione aristotelica: in modo più semplificato, fra Michelangelo e Leonardo.

Silvestro Lega, Il pergolato, 1868, olio su tela, cm 74x94, Milano, Pinacoteca di Brera

Silvestro Lega, Il pergolato, 1868, olio su tela, cm 74x94, Milano, Pinacoteca di Brera

Negli anni del Re Sole riprese un dibattito analogo con simpatiche conseguenze per i bambini del mondo intero in quanto, se dal lato degli antichi Jean de La Fontaine riprendeva le fiabe di Esopo e Fedro e i testi di Tito Livio e di Orazio, dal lato dei moderni Perrault scriveva Il gatto con gli stivali, Cappuccetto Rosso, Cenerentola e altre sue invenzioni altrettanto succose. E la prova della sua vittoria storica sta nel fatto che egli stesso è diventato oggi talmente “classico” da essere stato celebrato dai cartoni animati di Walt Disney. Perrault diventa così il padre concettuale d’ogni avanguardia.

Édouard Manet, Colazione sull’erba, 1863, olio su tela, cm 208x264,5, Parigi, Musée d’Orsay

Édouard Manet, Colazione sull’erba, 1863, olio su tela, cm 208x264,5, Parigi, Musée d’Orsay

La questione tornerà viva nell’ambito delle grandi mostre pubbliche del XIX secolo, in quanto ancora una volta sarà l’Accademia a scegliere i partecipanti mentre i suoi oppositori esterni s’impegnano a inventare i vari Salons des Refusés (dal 1863, in polemica con le istituzioni) e des Indépendants (dal 1884, totalmente indipendente dalle istituzioni). È comunque la Francia che mantiene il primato del dibattito sulla questione. Gli inglesi, si sa, erano da sempre più pragmatici anche se dalle parti loro pure i preraffaelliti dovettero trovare propri percorsi di promozione. La centralità francese in questa bizzarra faccenda è innegabilmente conseguente di quella rivoluzione quasi permanente che passò dalla convocazione degli Stati Generali al Terrore, poi all’Impero, alla Restaurazione, alla Rivoluzione del 1830 ch’era stata annunciata in teatro dall’Hernani di Victor Hugo, a quella poi del 1848 che pervase l’Europa fino a quella drammatica della Comune del 1871. Arte e politica, pulsioni generazionali e lotta di classe andavano in parallelo. È solo nel lungo periodo di pace tra il 1871 e il 1914 che le avanguardie si staccano dalla politica e si fanno esteticamente autonome. La fiamma dell’avanguardia torna in quegli ultimi anni nella politica pura, come vuole Lenin e come faranno gli interventisti italiani, perché l’effettiva idea di avanguardia artistica ci metterà oggettivamente qualche tempo a definirsi e ad affermarsi, mentre avrà una sua maturazione anticipata in area politica.

Il primo confronto che tende a definire il concetto di avanguardia è quello fra Lenin e Trockij tra il 1905 e il 1917: il concetto dell’essere intellettuale-artista creativo si trasferisce nell’idea di essere intellettuale-politico trascinante. Così nasce il sogno di creare un paese dove siano, al medesimo tempo, il percorso artistico e quello politico a portare a una trasformazione radicale della visione del mondo e a generare la Rivoluzione d’ottobre.

Per Lenin l’avanguardia doveva essere la parte evoluta interna alle masse, o meglio ancora alla “classe”, ad affrontare la responsabilità storica della rinascita sociale e politica. Per Trockij invece era un gruppo esterno a dover trascinare la massa verso una sua coscienza rinnovata, quindi: “L’arte deve essere indipendente da tutte le forme di governo, non deve mettersi ai suoi ordini né al suo servizio”. Questa distinzione concettuale porterà a una visione opposta del partito politico e del ruolo dell’intellettuale nei confronti della società. È Trockij in realtà che torna all’idea originaria di avanguardia e riprende l’immagine di Giulio Cesare: un gruppo scelto capace di precedere gli altri per poi informarli e trascinarli.

Aleksandr Samochvalov, Lenin al Secondo congresso dei Soviet dei deputati operai, soldati e contadini il 26 ottobre 1917, 1958, olio su tela, San Pietroburgo, Museo Statale Russo

Aleksandr Samochvalov, Lenin al Secondo congresso dei Soviet dei deputati operai, soldati e contadini il 26 ottobre 1917, 1958, olio su tela, San Pietroburgo, Museo Statale Russo

Anche Marinetti, con il Manifesto del Futurismo (pubblicato il 20 febbraio 1909 sulle colonne di “Le Figaro”), lancia l’ipotesi che possa esistere un gruppo intellettuale capace di trascinarle, le masse. Gli artisti futuristi che si impegnano a elaborare un’immagine “moderna” della vita “moderna” (dicevano di sentire un’“ansia” che li “sparava” nel futuro e a essa cercavano di dare rappresentazione) si lanciano con impeto entusiastico verso la “nuova barbarie” della scienza; lo fanno rivolgendosi al pubblico, urlano per strada e non si chiudono in una torre d’avorio.

Giacomo Balla, Velocità d’automobile, 1912, olio su tavola, cm 55,6x68,9, New York, The Museum of Modern Art

Giacomo Balla, Velocità d’automobile, 1912, olio su tavola, cm 55,6x68,9, New York, The Museum of Modern Art

Carlo Carrà, Manifestazione interventista, 1914, tecnica mista su tela, cm 38,5x30, Collezione Gianni Mattioli, deposito a lungo termine presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia

Carlo Carrà, Manifestazione interventista, 1914, tecnica mista su tela, cm 38,5x30, Collezione Gianni Mattioli, deposito a lungo termine presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia

Filippo Tommaso Marinetti, Marinetti in Russia, 1912, stampa, cm 48,4x14,6, Hannover, Sprengel Museum

Filippo Tommaso Marinetti, Marinetti in Russia, 1912, stampa, cm 48,4x14,6, Hannover, Sprengel Museum

Gino Severini, Treno blindato in azione, 1915, olio su tela, cm 115,8x88,5, New York, The Museum of Modern Art

Gino Severini, Treno blindato in azione, 1915, olio su tela, cm 115,8x88,5, New York, The Museum of Modern Art

Marinetti, a differenza di Lenin costretto tra Svizzera e Russia per ragioni politiche, divulga le sue idee viaggiando e intervenendo nei dibattiti culturali e artistici più ferventi, portando le opere dei futuristi a Parigi, a Londra, a Berlino e nel 1914 anche a Mosca. Il movimento futurista già prima della guerra scopre per naturale vocazione l’internazionalismo.

DALL’EUROPA ALL’AMERICA

L’avanguardia tende, sin dai suoi primi passi, a essere cosmopolita e a reinventare e rifondare il mondo intero: il suo è un linguaggio immediatamente e necessariamente universale.

Cartolina dell’esposizione internazionale d’arte moderna Armory Show, 1913, New York, The Museum of Modern Art

Cartolina dell’esposizione internazionale d’arte moderna Armory Show, 1913, New York, The Museum of Modern Art

Alfred Stieglitz, Mostra di Constantin Brancusi alla galleria 291, 1914, stampa al platino, cm 19,3x24,4, New York, The Museum of Modern Art

Alfred Stieglitz, Mostra di Constantin Brancusi alla galleria 291, 1914, stampa al platino, cm 19,3x24,4, New York, The Museum of Modern Art

Manifesto dell’esposizione internazionale d’arte moderna Armory Show, 1913, stampa a colori, cm 52x35,5, New York, The Museum of Modern Art

Manifesto dell’esposizione internazionale d’arte moderna Armory Show, 1913, stampa a colori, cm 52x35,5, New York, The Museum of Modern Art

Il momento di fortissima accelerazione della storia che si verifica in quegli anni deriva dalla ventata di innovazione portata dalla nuova classe politica e intellettuale dell’Italia postrisorgimentale e preindustriale. Ed è un fenomeno parallelo a quello che avviene in Russia politicamente: la rivoluzione delle avanguardie che influenzerà il sentire artistico alternativo e antiaccademico di tutto il secolo si genera in un paese sostanzialmente arretrato rispetto all’Europa, e allo stesso modo l’idea dell’avanguardia politica nasce nella Russia di San Pietroburgo, lontana dall’evoluzione tecnologica e industriale europea. Sono i paesi arretrati, non la Francia, l’Inghilterra e la Germania che hanno già metabolizzato la rivoluzione industriale, che inventano l’avanguardia.

Copertina con disegno di Francis Picabia per la rivista “291”, luglio-agosto 1915, Iowa University, Dada Archive

Copertina con disegno di Francis Picabia per la rivista “291”, luglio-agosto 1915, Iowa University, Dada Archive

Copertina con disegno di Francis Picabia per la rivista “291”, marzo 1915, Iowa University, Dada Archive

Copertina con disegno di Francis Picabia per la rivista “291”, marzo 1915, Iowa University, Dada Archive

Le cosiddette avanguardie artistiche che verranno successivamente chiamate “avanguardie storiche” replicheranno questi primi gesti alternativi e radicalmente innovativi: nei venticinque-trent’anni successivi lentamente si perderanno gli ingredienti fondamentali peculiari delle prime avanguardie. L’idea di essere un gruppo scollato dalla società, l’idea del colloquio e del trascinamento della massa e del cosmopolitismo perderanno progressivamente tono.

Nel passaggio dai tavolini del caffè Michelangiolo di Firenze a quelli dei boulevard di Parigi, pieni di giornali e bicchieri di seltz, avviene un cambiamento sostanziale: si passa dall’essere fuori, alternativa vera, all’essere in qualche modo protagonisti interni pur dichiarandosi fuori.

La modernità artistica del XX secolo, dalle correnti di Parigi alla rivolta spartachista del 1919 a Berlino fino ai movimenti newyorkesi, in realtà è figlia della accelerazione, tutta italiana, della fine del secolo precedente.

Il caso di New York è esemplare da questo punto di vista: dopo la Prima guerra mondiale gli Stati Uniti sentono il complesso di essere, seppure vincenti, ancora provinciali e legati a un atavico gusto per la narrazione – sempre presente nel DNA americano, basti pensare al romanzo, al cinema o alla musica narrativa di George Gershwin – ancora un po’ popolaresco. L’élite cittadina intuisce che l’unico modo per essere trendy è imitare il modello parigino e generare fermenti artistici d’avanguardia e sinergie con quelli del vecchio mondo. Già nel 1913 Alfred Stieglitz aveva partecipato alla prima mostra di avanguardia in America, l’Armory Show, presso l’armeria del 69° Reggimento, che presentava al pubblico americano oltre mille opere di artisti europei – e in parte americani – della seconda metà dell’Ottocento o contemporanei, tra i quali ricordiamo Piet Mondrian, Constantin Brancusi, Fernand Léger.

Pablo Picasso, Ritratto di Gertrude Stein, 1906, olio su tela, cm 100x81,3, New York, The Metropolitan Museum of Art

Pablo Picasso, Ritratto di Gertrude Stein, 1906, olio su tela, cm 100x81,3, New York, The Metropolitan Museum of Art

Georges Braque, Natura morta con clarinetto, 1913, carta, olio, carboncino, gessetto e matita su tela, cm 95,2x120,3, New York, The Museum of Modern Art

Georges Braque, Natura morta con clarinetto, 1913, carta, olio, carboncino, gessetto e matita su tela, cm 95,2x120,3, New York, The Museum of Modern Art

Henri Matisse, Lo studio rosso, 1911, olio su tela, cm 181x219,1, New York, The Museum of Modern Art

Henri Matisse, Lo studio rosso, 1911, olio su tela, cm 181x219,1, New York, The Museum of Modern Art

Si incominciava a formare un gusto americano per ciò che si definiva il modernism. Gertrude Stein, amica di Picasso ma anche di altri importanti artisti come Braque o Matisse, crea i presupposti per la nascita di un collezionismo sofisticato, jewish e d’élite, alternativo al gusto tradizionale wasp. Ma le basi per un vero matrimonio con gli alternativi si creano alla fine degli anni Trenta, quando a New York sbarcano i migliori intellettuali e artisti in fuga dalle persecuzioni naziste: la città decide di offrirsi come opportunità altra per un’Europa che sta morendo.

Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie, 1942-1943, olio su tela, cm 127x127, New York, The Museum of Modern Art

Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie, 1942-1943, olio su tela, cm 127x127, New York, The Museum of Modern Art

Si crea così un’enclave nuova, che si propone come avanguardia e che viene riconosciuta come tale, ma che in realtà non risponde più ai parametri marinettiani (di colloquio tra un gruppo intellettuale e la massa): un’élite culturale che più che altro rappresenta un tentativo di inserimento dall’esterno di un’estetica nuova su un look americano già ben definito – quello così bene riassunto dalla pubblicità della crema solare Coppertone –, di un tentativo di rottura con la cultura figurativa tradizionale americana che nasce dal desiderio di riscatto della borghesia ebraica newyorkese, in quegli anni innegabilmente la parte più evoluta e sofisticata della società americana.

La nuova arte di “avanguardia” americana tenderà a diventare aniconica – secondo la tradizione ebraica – e più tardi si identificherà perfettamente anche con le idee delle forze di governo, desiderose di creare un’immagine dell’America paese trascinante della cultura occidentale e attente a non superare mai il confine del politically correct. Negli anni della Guerra Fredda e dell’isteria maccartista l’idea di un’arte anarcoide, apolitica e priva di contenuti espliciti viene sposata: le tesi estetizzanti dell’art pour l’art che in Francia avevano trovato spazio quasi un secolo prima vengono riscoperte e così si torna ai primi passi delle avanguardie, quand’ancora la politica non tangeva e il dibattito era esclusivamente teorico o generazionale.

L’ONDA PASSA LONDA

Dall’art pour l’art di Théophile Gautier, la volontà nei singoli gruppi posteriori di affermarsi in onde successive suscettibili di cancellare quelle precedenti diventa una sorta di mantra. Appaiono forse per prime, nella complessità germanica, le pulsioni che portano un piccolo gruppo di studenti d’architettura a formare la Brücke, quel ponte verso la nuova era che sorge a Dresda all’inizio dell’estate del 1905 quando, iniziando le vacanze, decidono di tradire il righello per il pennello. Sono in realtà guidati da un guru del progetto, quell’Hermann Obrist al quale si deve parte della nascita delle arti decorative moderne germaniche. Loro quattro (Fritz Bleyl, Erich Heckel, Ernst Ludwig Kirchner e Karl Schmidt-Rottluff) si ritrovano in una fabbrica di lampadari e ne rimangono illuminati: diventano maniaci dell’espressionismo nascente e della grafica conseguente, quella della xilografia che obbliga al segno feroce suscettibile di cancellare tutte le eleganze preesistenti dell’acquaforte e dell’acquatinta. E scivolano quindi quasi automaticamente nel segno apparentemente primitivo e nelle campiture pittoriche à plat.

Innovatori totali ma già sin dall’origine ambigui, in quanto comunque la citazione del gruppo nasceva dai testi di Friedrich Nietzsche, quelli inneggianti al ponte verso l’umanità nuova, e il motto non era niente meno che quello di Orazio: odi profanum vulgus. Poi Heckel va ad affittare una macelleria in disuso dove s’insedia e dove verrà ad abitare pure Kirchner. Fra lampadari e macello nasce un’estetica del tutto inattesa che cancella ogni traccia di buon gusto preesistente.

Non potevano sapere che il loro percorso era nella realtà dei fatti cromatici già stato preceduto a Parigi dall’altrettanto feroce reazione al buon gusto impressionista che collegava un gruppo di pittori nel Salon d’Automne del 1905, quelli che Louis Vauxcelles, un critico rimasto legato al bon ton, definirà in senso dispregiativo come rinchiusi nella cage aux fauves, una gabbia di bestie feroci per via dei colori impiegati, in un articolo apparso su “Gil Blas” il 17 ottobre del 1905, quarantaquattro anni prima che io, vostro modesto relatore, nascessi. Così scriveva:

Ernst Ludwig Kirchner, Manifesto per la mostra Die Brücke alla Galerie Arnold di Dresda, 1910, litografia a colori, cm 70x56, Berlino, Kunstbibliothek

Ernst Ludwig Kirchner, Manifesto per la mostra Die Brücke alla Galerie Arnold di Dresda, 1910, litografia a colori, cm 70x56, Berlino, Kunstbibliothek

Karl Schmidt-Rottluff, Der Holzschneider, 1906, olio su tela, cm 33x67, Chemnitz, Kunstsammlungen Chemnitz

Karl Schmidt-Rottluff, Der Holzschneider, 1906, olio su tela, cm 33x67, Chemnitz, Kunstsammlungen Chemnitz

Erich Heckel, Giornata cristallina, 1913, olio su tela, cm 121x97, Monaco, Pinakothek der Moderne

Erich Heckel, Giornata cristallina, 1913, olio su tela, cm 121x97, Monaco, Pinakothek der Moderne

Ernst Ludwig Kirchner, Cinque donne per la strada, 1913, olio su tela, cm 120x90, Colonia, Wallraf-Richartz Museum

Ernst Ludwig Kirchner, Cinque donne per la strada, 1913, olio su tela, cm 120x90, Colonia, Wallraf-Richartz Museum

Sala n. VII. I signori Henri Matisse, Marquet, Manguin, Camoin, Girieud, Derain, Ramon Pichot. Sala superchiara, gente che osa, oltranzista, dei quali vanno decifrate le intenzioni, lasciando ai furbi e agli stolti il diritto di ridere, critica troppo facile… Al centro della sala, un torso di bambino e un piccolo busto in marmo, di Albert Marque, che modella con una sapienza delicata. Il candore di questi busti sorprende in mezzo all’orgia delle tonalità pure: “Donatello fra le belve”.

André Derain, Barche da pesca, 1905, olio su tela, cm 81x100, New York, The Metropolitan Museum of Art

André Derain, Barche da pesca, 1905, olio su tela, cm 81x100, New York, The Metropolitan Museum of Art

Kees van Dongen, Ballerina rossa, 1907, olio su tela, cm 50x38, Collezione privata

Kees van Dongen, Ballerina rossa, 1907, olio su tela, cm 50x38, Collezione privata

E negli stessi giorni Georges Braque, che fauve era già stato, si trovava nel golfo di Marsiglia in un paesino delizioso dal nome L’Estaque, dove aveva esercitato la sua arte paesaggistica anche Paul Cézanne, dopo avere studiato la forma volumetrica della montagna di Sainte Victoire. Cézanne espone a Parigi nel 1907 al Salon d’Automne; Braque lo vede e torna convertito nel meridione. Nello stesso anno Picasso stava dipingendo le sue Demoiselles d’Avignon, che non erano affatto meridionali poiché la dicitura “d’Avignon” non riguardava la cittadina provenzale bensì la strada omonima di Barcellona con un suo reputato bordello. Ma fra prostitute e montagne sacre nasce la volumetria definita che verrà chiamata cubista per la prima volta con incuriosito dispetto da Matisse quando vede il quadro di Braque, presentatogli mentre è giurato al Salon d’Automne. Successivamente Louis Vauxcelles, sempre ancora sul “Gil Blas”, inventa il secondo suo nome che lascerà un segno definitivo nella storia delle arti: dopo Fauve nel 1905, a lui si deve anche Cubisme nel 1908. Certo è che se avesse avuto remunerato il diritto d’autore per questi due appellativi sarebbe egli innegabilmente diventato il più ricco critico della storia dell’arte!

Henri Matisse, Donna vicino all’acqua, 1905, olio e matita su carta, cm 35x28, New York, The Museum of Modern Art

Henri Matisse, Donna vicino all’acqua, 1905, olio e matita su carta, cm 35x28, New York, The Museum of Modern Art

Tutto era iniziato in quel precedente 1896 nella calma provenzale di Cézanne. Ma così la storia sarebbe troppo banale e non terrebbe conto delle provocazioni costanti che il mondo artistico parigino generava durante la Belle Époque, in quanto, nello stesso anno domini 1896, il babbo d’ogni provocazione Alfred Jarry metteva in scena il suo spettacolo pirotecnico Ubu Roi, quello dove l’interiezione regolare del protagonista patafisico era merdre!, con una erre in più per rendere comica e stringente l’esclamazione del generale Cambronne, quella da lui, capo della Vieille Garde di Napoleone, pronunciata a Waterloo come risposta al generale britannico Colville che gli aveva imposto la resa. E da tre anni l’altro provocatore geniale, Erik Satie, già noto fra gli amici per le sue Gymnopédies, aveva composto Vexations, un brano musicale apparentemente semplicissimo che si ripeteva all’infinito per ventiquattro ore e che appariva nella scrittura quasi incomprensibile per la quantità di inutili doppi bemolle e doppi diesis. Questo meccanismo della provocazione come gradino del procedimento d’avanguardia verrà seguito fino a Marcel Duchamp quando inventa il suo Grande vetro dove la macchina macina cioccolata diventerà simbolo dell’autoerotismo degli scapoli, come recita il titolo La mariée mise à nu par ses célibataires, même.

Maurice de Vlaminck, La Senna a Chatou, 1906, olio su tela, cm 82x102, New York, The Metropolitan Museum of Art

Maurice de Vlaminck, La Senna a Chatou, 1906, olio su tela, cm 82x102, New York, The Metropolitan Museum of Art

Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q., 1919, matita su una riproduzione della Gioconda di Leonardo da Vinci, cm 19,7x12,4, Collezione privata

Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q., 1919, matita su una riproduzione della Gioconda di Leonardo da Vinci, cm 19,7x12,4, Collezione privata

Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1905, olio su tela, cm 63x83, Zurigo, Kunsthaus

Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1905, olio su tela, cm 63x83, Zurigo, Kunsthaus

Oggi abbiamo il diritto di porci la domanda profonda, storica, intelligente, esistenziale: nel secolo ormai nuovo, Grande vetro o grande bufala? Una geniale operazione di concetto fatta per il cervello e non per la retina. Vent’anni di sedimentazioni personali e mentali attorno alla donna messa a nudo, a significati che chiederebbero di aver vissuto con lui medesimo una parte dell’esperimento, geniale e voyeuristico. Pistoni appesi come salami che sono invece le vesti dei vari scapoli.

Duchamp è tutto assieme: l’inventore del ready made vissuto come pura provocazione, un oggetto in sé tutt’altro che artistico ma che lo diventa in quanto viene individuato come tale dall’artista. Ma è anche l’uomo che mette i baffi alla Gioconda, con la scritta L.H.O.O.Q. che vuol dire “lei ha caldo al culo”. Una visione quasi goliardica, di rottura totale con ogni linguaggio precedente.

Marcel Duchamp, Il grande vetro (La mariée mise à nu par ses célibataires, même) 1915-1923, tre pannelli di vetro in una cornice di legno e acciaio, fogli di piombo e d’argento, colori a olio, cm 272,5x173,8, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art

Marcel Duchamp, Il grande vetro (La mariée mise à nu par ses célibataires, même) 1915-1923, tre pannelli di vetro in una cornice di legno e acciaio, fogli di piombo e d’argento, colori a olio, cm 272,5x173,8, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art

MARINETTI, BORGHESE DI SICURO, ANARCHICO FORSE

In sintonia inattesa con ciò che avveniva nel mondo tedesco meridionale e in quello parigino, sorgeva il primo percorso dell’espressionismo italico che inconsapevolmente combinava la scomposizione statica cubista con i cromatismi movimentati germanici. Il Futurismo come il Cubismo smontava i linguaggi tradizionali, ma lo faceva in modo dinamico, credeva al movimento, ne esaltava la funzione vitale. Ma compiva la sua rivoluzione estetica fondandola su un gesto di presa di coscienza intellettuale: il manifesto. Qui si fa centrale la figura di Filippo Tommaso Marinetti, elegante poeta decadente formatosi nella cultura francese d’Egitto e spola fra le ansie italiche e i fragori parigini.

Filippo Tommaso Marinetti in una fotografia del 1911

Filippo Tommaso Marinetti in una fotografia del 1911

Rimane fondamentale, per capire le derive successive del Futurismo che sfocerà nell’avanguardismo bellico degli Arditi, la scelta iniziale della traduzione del manifesto futurista: già, perché è lo stesso Marinetti a scriverlo sia in francese sia in italiano. È centrale questo piccolo esercizio letterario.

In francese leggiamo: Nous avions discuté aux frontières extrèmes de la logique et griffé le papier de démentes écritures, cioè “abbiamo graffiato la carta con dementi scritture”. In italiano la stessa frase diventa “annerendo molta carta di frenetiche scritture” e si fa quindi già più decadente e morbida la questione. Tutta la prosa francese è qui stringata mentre in italiano diventa retorica come se fosse stata scritta assieme a d’Annunzio, il quale, a sua volta bilingue, quando scrive in francese è ben più conciso e concentrato.

Ma la differenza sostanziale fra i due testi è politica e la si trova al punto 9 del Manifesto, dove le geste destructeur des anarchistes diventa “il gesto distruttore dei libertari” e dove soprattutto les belles idées qui tuent, cioè “le belle idee che uccidono”, quelle degli anarchici appunto, diventano “le belle idee per cui si muore”. Nel passare da una lingua all’altra Marinetti da anarchico diventa oggettivamente prefascista. E qui sta l’equivoco che porterà Boccioni, il quale immediatamente aveva aderito al Futurismo e vi aveva portato la sua naturale inclinazione a esaltare il movimento per partecipare alla fondazione di una lingua nuova, a partire in guerra volontario trentatreenne con un reparto in bicicletta (altro che motori rombanti!) e a morire colpito da un calcio di cavallo perché non si ricordava il principio d’ogni soldato d’allora: “Davanti al cavallo, dietro ai cannoni e lontano dagli ufficiali”. Aveva però già fatto in tempo a ricredersi del manifesto marinettiano che reputava la guerra unica igiene del mondo, perché nel marasma delle trincee aveva in una lettera alla signora Baer, quella del noto ritratto milanese, già nell’ottobre 1915 anche lui scritto la sua parola in libertà che così suonava: “guerra=insetti+noia”.

Carlo Carrà, Ritratto di Filippo Tommaso Marinetti, 1910-1911, olio su tela, cm 136x97, Collezione privata

Carlo Carrà, Ritratto di Filippo Tommaso Marinetti, 1910-1911, olio su tela, cm 136x97, Collezione privata

NUDI ALLA META

Negli stessi anni bellici si formava il gruppo di quelli che non amavano la polvere da sparo. Sul Monte Verità, vicino a Lugano, s’adunavano da anni gli alternativi assoluti. Un incrocio simpatico di teosofi un po’ naturisti dove passarono gli anarchici amici, Bakunin e altri tipi strani fra i quali sarebbe sorta un’estetica che in un secondo tempo non sarebbe dispiaciuta ai tetri nazisti. Il luogo era stato scelto per le sue curiose caratteristiche geofisiche: infatti da quelle parti, attorno ad alcuni alberi centenari, le bussole impazzivano, e forse anche le menti. Il mondo lì si declinava fra dolcezze estive, bevute di tè e ipotesi miniagricole. Certo è che il linguaggio pittorico non appariva particolarmente innovativo; quello architettonico ben di più, ma solamente da un punto di vista antropomorfo poiché gli interni dell’abitato principale, laddove si svolgevano le sedute di danza, erano privi d’angoli acuti reputati troppo ostici e negativi per gli influssi esoterici. Ne sono significativa testimonianza pure le opere pittoriche che decorano uno dei padiglioni di legno del Monte, realizzate da Elisar von Kupffer: nato a Tallinn, formatosi a San Pietroburgo e poi a Berlino e rifugiatosi nelle dolcezze prealpine; drammaticamente realista, poetico ed esaltatore avanguardista dell’omofilia, il quale si stabilisce lì vicino in un proprio Sanctuarium Artis Elisarion. A lui si deve un’opera particolarmente significativa perché la intitola, in quel 1914 nel quale tutti gli altri corrono verso la guerra, Il disarmo.

Alexej von Jawlensky, Testa mistica: Testa di Ascona, 1918, olio su tavola, cm 40x29,7, Collezione privata

Alexej von Jawlensky, Testa mistica: Testa di Ascona, 1918, olio su tavola, cm 40x29,7, Collezione privata

Marianne von Werefkin, Processione presso Ascona, 1924, olio su cartone, cm 46,2x42,2, Berlino, Neue Nationalgalerie

Marianne von Werefkin, Processione presso Ascona, 1924, olio su cartone, cm 46,2x42,2, Berlino, Neue Nationalgalerie

Ritorno alla natura, un membro della colonia del Monte Verità fa giardinaggio, 1910

Ritorno alla natura, un membro della colonia del Monte Verità fa giardinaggio, 1910

Elisar von Kupffer, Il disarmo, 1914, olio su tela, cm 119x57, Minusio, Centro Culturale Elisarion

Elisar von Kupffer, Il disarmo, 1914, olio su tela, cm 119x57, Minusio, Centro Culturale Elisarion

Thomas Heine, Caricatura di Rudolf Steiner, in “Simplicissimus”, 1925, litografia, Collezione privata

Thomas Heine, Caricatura di Rudolf Steiner, in “Simplicissimus”, 1925, litografia, Collezione privata

L’originario Centro educativo Goetheanum, distrutto nel 1922, Dornach, Rudolf Steiner Archiv

L’originario Centro educativo Goetheanum, distrutto nel 1922, Dornach, Rudolf Steiner Archiv

La Confederazione Elvetica era già da anni terreno di sperimentazione. Al nord, nei dintorni di Basilea, s’era insediato un gruppo di ricerca antroposofica di forte portata per il futuro. La aveva inventata Rudolf Steiner, già studioso di Goethe e Nietzsche e autore sin dal 1894 della Filosofia della libertà.

Invece la neonata didattica steineriana diventerà un cardine della formazione libertaria durante tutto il secolo. Una nuova teosofia si stava facendo strada. Negli anni successivi alla guerra il centro educativo di Steiner diventerà il noto Goetheanum, che prenderà una forma fisica di rilievo dove le citazioni delle ricerche più avanzate dell’architettura utopista troveranno echi inattesi.

Intanto vicino ad Ascona si riuniscono in pieno periodo bellico gli altri alternativi, quelli che andranno a formare il futuro gruppo di dada. Lì si ritrova Yvan Goll, nato alsaziano ebreo con il nome di Isaac Lang. A lui si deve un trattato che in linea di massima interessa solamente al vostro modesto autore e ad alcuni studiosi, attratti dalla questione complessa protoeuropea di questi miei parenti che non sapevano mai se erano tedeschi o francesi in quanto discendevano dalla Lotaringia che due nipoti di Carlo Magno (il prefrancese Carlo il Calvo e il pretedesco Ludovico il Germanico) si spartirono ai danni del loro terzo fratello (Lotario I, allora ufficialmente imperatore). Questione invero fondamentale, perché da essa discende oltre un millennio di conflitti sul Reno: Zur Psychologie der Elsässer (A proposito della psicologia degli Alsaziani) viene pubblicato nel 1917 a Zurigo, territorio di libertà antibellica. E sempre a Zurigo Yvan Goll pubblica lo stesso anno un testo che tocca invece l’umanità intera: Requiem für die Gefallenen von Europa (Requiem per i caduti d’Europa), che qui pubblichiamo nella traduzione francese che ne fece la sua consorte Claire Goll:

Rudolf Steiner, Disegno alla lavagna, 1923, gesso su cartoncino, cm 64x100, Dornach, Rudolf Steiner Archiv

Rudolf Steiner, Disegno alla lavagna, 1923, gesso su cartoncino, cm 64x100, Dornach, Rudolf Steiner Archiv

Comme un mur gris autour de l’Europe
Courait la longue bataille.
La bataille éternelle, la bataille pourrie,
Qui n’était jamais la dernière.
Monotonie du combat. Tranchées sépulcres.
Sommeil de la faim.
Au dehors les ponts faits de cadavres.
Au dedans les rues pavées de cadavres.
Les fossés des murs cimentés de cadavres.

Come un muro grigio intorno all’Europa / Correva la lunga battaglia. / La battaglia eterna, la battaglia incancrenita, / che non era mai l’ultima. / Monotonia del combattere. Trincee di morte. Sonno del desiderio. / Fuori, i ponti fatti di cadaveri. / Dentro, le strade lastricate di cadaveri. / I fossati delle mura cementati di cadaveri.

Arild Rosenkrantz, L’archetipo di uomo e animali, 1951, olio su tela, cm 51x65, Collezione privata

Arild Rosenkrantz, L’archetipo di uomo e animali, 1951, olio su tela, cm 51x65, Collezione privata

Personaggio formidabile Claire Goll, nata Clara Aischmann a Norimberga, che la storia successiva dimenticò finché lei non decise di tornare alle cronache ormai settantaseienne quando fece, in un vestito di cuoio nero e rossetto rosso, una conferenza stampa per comunicare che aveva finalmente raggiunto il suo primo orgasmo, con un giovanotto ovviamente di ventun anni. Lo spirito d’avanguardia non era in lei defunto. Questa traduzione della moglie è di particolare interesse letterario in quanto vi si ritrovano le ritmiche linguistiche imparentate con il suo opposto, il Manifesto del Futurismo nella stesura francese di Marinetti.

E con loro pacifisti, antibellici convinti, si ritrovano l’altro alsaziano Hans Arp, anche lui incapace di prendere parte fra Germania e Francia, poi Hugo Ball, a cui si devono alcune pagine meravigliose di creatività linguistica trasformata in ritmo musicale. Scrittore già amico di Kandinskij a Monaco, Ball si fa riformare al servizio militare, scopre gli scritti anarchici di Kropotkin e Bakunin e, insieme alla sua compagna, va nella Confederazione Elvetica e affitta un postribolo zurighese con un pianoforte scordato che diventerà il Cabaret Voltaire. Passa un paio di notti in galera quando gli svizzeri scoprono che viaggia sotto falsa identità e poi non lo ferma più nessuno: il Cabaret apre ufficialmente il 5 febbraio 1916, e lì si forma il nucleo dada. Con un dettaglio che andrebbe indicato con maggiore attenzione: la Künstlerkneipe Voltaire non è ciò che noi pensiamo essere un cabaret, ma è una vera bettola, in senso etimologico, dove però avvengono conferenze, musiche e recite teatrali.

Hans Arp, Collage disposto secondo le leggi del caso, 1916-1917, collage, cm 48,6x34,6, New York, The Museum of Modern Art

Hans Arp, Collage disposto secondo le leggi del caso, 1916-1917, collage, cm 48,6x34,6, New York, The Museum of Modern Art

Copertina di “Dada”, n. 2, dicembre 1917, Iowa University, Dada Archive

Copertina di “Dada”, n. 2, dicembre 1917, Iowa University, Dada Archive

Il primo ad arrivare è un tale Richard Huelsenbeck, poeta cresciuto a Dortmund che s’era messo a studiare Medicina a Monaco di Baviera e poi nel 1912 Filosofia alla Sorbona di Parigi. Viene reclutato nell’esercito nel 1914, si fa riformare per dei presunti mal di testa (a qualcosa gli erano serviti gli studi abbreviati!) e se ne scappa a Zurigo. A lui s’aggiunge Samuel Rosenstock, ebreo di Romania che prende lo pseudonimo di Tristan Tzara (doppiamente triste, in francese e in rumeno, per protestare contro l’antisemitismo della sua patria). Suo è il manifesto del movimento; una dichiarazione di rottura definitiva. Cita Cartesio: “Non voglio nemmeno sapere se sono esistiti uomini prima di me”; “abbasso il futuro!”. Una esaltazione del nichilismo allegro, quasi apostolico nella voglia della contraddizione totale: “Abbandonate tutto, abbandonate dada, abbandonate la vostra moglie e la vostra amante, le vostre speranze e i vostri timori. Partite per le strade”.

Hugo Ball recita Karawane con un costume cubista al Cabaret Voltaire, 1918

Hugo Ball recita Karawane con un costume cubista al Cabaret Voltaire, 1918

Hugo Ball, Karawane, 1917

Hugo Ball, Karawane, 1917

Divampa il fuocherello dell’avanguardia. Dada ha un immediato riscontro mondiale. Si sparge ovunque, secondo il sapore dei luoghi dove va a finire. Non è un linguaggio estetico ma un modo di essere della mente. È incoerente. Più che libertario è libertino. Se i futuristi credono nella performance, a una cosa preparata, loro credono nell’happening, l’unico vero momento del vivere. Mentre ancora fumano i cannoni, Dada si espande da Zurigo a Berlino (George Grosz, il super creativo dell’Ecce Homo, della denuncia sociale, dell’intuito straordinario che gli permette di raccontarci in anteprima ciò che succederà, in Germania e in Europa, negli anni a seguire; e il poeta Franz Werfel, uno dei molti mariti della Alma Mahler che s’era appena separata da Walter Gropius, fondatore del Bauhaus a Dessau, poi tanti amici di Brecht, del cinema di Friedrich Wilhelm Murnau e di Fritz Lang), sicché diventa partecipe nell’impegno politico della mancata rivoluzione spartachista di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, Hannover (con il lupo solitario Kurt Schwitters e il suo Merzbau) e Colonia (Hans Arp, Max Ernst e Johannes Theodor Baargeld), poi a Parigi dove diventerà la radice del successivo movimento surrealista quando lì arriva Tzara e s’intreccia con la grinta letteraria di André Breton. E poi ancora a New York, dove il terreno era già stato preparato dal fotografo Alfred Stieglitz e dove Marcel Duchamp con la Société Anonyme aveva già portato il verbo parigino della provocazione. Gli Stati Uniti hanno bisogno di rendere il mondo comprensibile. Per l’America è molto importante capire cos’è l’Europa: l’Europa è dada e tutto quello che va bene in Europa è dada. A una sola condizione: che non contenga pensiero. Dada è la versione letta dall’America della storia complessiva delle avanguardie europee purché non esprimano pensiero politico. L’Europa può esistere se non è pericolosa. Dada è la rilettura del Surrealismo di Aragon, è la rilettura di Kurt Schwitters, è la rilettura del Futurismo, senza rischio che sia comunista.

Tristan Tzara, Calligrammes, 1916, matita e inchiostro su carta, cm 30x21, Collezione privata

Tristan Tzara, Calligrammes, 1916, matita e inchiostro su carta, cm 30x21, Collezione privata

Johannes Baargeld, Venere al bagno del re, 1920, collage, cm 18x12,5, Collezione privata

Johannes Baargeld, Venere al bagno del re, 1920, collage, cm 18x12,5, Collezione privata

Johannes Baargeld, Pastiche con rappresentazione dell’artista dadaista, 1920, collage, cm 22x16, Collezione privata

Johannes Baargeld, Pastiche con rappresentazione dell’artista dadaista, 1920, collage, cm 22x16, Collezione privata

Copertina del catalogo per la mostra Bauhaus a Weimar, 1923, litografia a colori, cm 25x19, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou

Copertina del catalogo per la mostra Bauhaus a Weimar, 1923, litografia a colori, cm 25x19, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou

Copertina per Paul Klee Pädagogisches Skizzenbuch, 1929, litografia a colori, cm 28x21, Berlino, Kunstbibliothek

Copertina per Paul Klee Pädagogisches Skizzenbuch, 1929, litografia a colori, cm 28x21, Berlino, Kunstbibliothek

Walter Gropius, Copertina per Gropius Bauhaus Bauten Dessau, 1930, litografia a colori, cm 34x28, Berlino, Kunstbibliothek

Walter Gropius, Copertina per Gropius Bauhaus Bauten Dessau, 1930, litografia a colori, cm 34x28, Berlino, Kunstbibliothek

Copertina per il catalogo della mostra Staatliches Bauhaus Weimar 1919-1923, 1923, litografia a colori, cm 25x25, Collezione privata

Copertina per il catalogo della mostra Staatliches Bauhaus Weimar 1919-1923, 1923, litografia a colori, cm 25x25, Collezione privata

Kurt Schwitters, Copertina di “Die Kathedrale”, 1920, litografia e collage, cm 22x14, New York, The Museum of Modern Art

Kurt Schwitters, Copertina di “Die Kathedrale”, 1920, litografia e collage, cm 22x14, New York, The Museum of Modern Art

Tristan Tzara, Une nuit d’echecs gras, 1920, penna e inchiostro su carta, cm 40x29, Parigi, Bibliothèque Littéraire Jacques Doucet

Tristan Tzara, Une nuit d’echecs gras, 1920, penna e inchiostro su carta, cm 40x29, Parigi, Bibliothèque Littéraire Jacques Doucet

Max Ernst, Il cappello fa l’uomo, 1920, collage, inchiostro, acquerello su carta, cm 35x45, New York, The Museum of Modern Art

Max Ernst, Il cappello fa l’uomo, 1920, collage, inchiostro, acquerello su carta, cm 35x45, New York, The Museum of Modern Art

Max Ernst, Dada, 1922-1923, olio su tela, cm 78x39, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

Max Ernst, Dada, 1922-1923, olio su tela, cm 78x39, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza

Kurt Schwitters, Merzbild 32A. Le ciliegie, 1921, collage su cartone, cm 92x70, New York, The Museum of Modern Art

Kurt Schwitters, Merzbild 32A. Le ciliegie, 1921, collage su cartone, cm 92x70, New York, The Museum of Modern Art

SU, LOTTIAMO! L’IDEALE NOSTRO FINE SARÀ

Contemporaneamente continuano a evolvere le lingue estetiche di rottura. La patria dell’innovazione più estrema, in politica come nelle arti, rimane innegabilmente il cadente impero degli zar di Russia e in ciò aveva ragione Karl Marx quando sosteneva contro Friedrich Engels che le sovrastrutture sono fra di esse collegate. Mentre Lenin scriveva il suo Che fare? (1902), a San Pietroburgo la musica trovava il suo da fare. Il Gruppo dei Cinque, che dal 1860 proponeva il rinnovamento russo sotto la guida di Milij Balakirev e adunava il capitano di marina Rimskij-Korsakov, Aleksandr Borodin, Modest Musorgskij e César Cui, aveva trovato gli emuli a cavallo del secolo nuovo nella generazione giovane di Sergej Prokof’ev, Igor’ Stravinskij e Dmitrij Šostakovič. Stravinskij e Sergej Djagilev avrebbero poi infiammato Parigi.

Kazimir Malevič si mise a cercare la sua di strada nel suprematismo mentre El Lissitzky la trovava nel costruttivismo. E a Lenin la cosa non dispiacque affatto, perché contemporaneamente Vladimir Tatlin inventa la sua Torre del 1919 per la Terza Internazionale e Majakovskij lancia il fuoco dei poemi, mentre Stanislavskij aveva già rivoluzionato il teatro portando l’espressività della coscienza a stimolo primario della recita, quella stessa recita d’istinto che avrebbe indotto Kandinskij a sostituire le diciture classiche dei titoli delle opere visive in “improvvisazione” o “composizione” come nelle opere musicali.

Michail Larionov, Ritratto caricaturale di Sergej Djagilev, Igor’ Stravinskij, Jean Cocteau ed Erik Satie, 1913, matita su carta, cm 22x39, Parigi, Bibliothèque nationale de France

Michail Larionov, Ritratto caricaturale di Sergej Djagilev, Igor’ Stravinskij, Jean Cocteau ed Erik Satie, 1913, matita su carta, cm 22x39, Parigi, Bibliothèque nationale de France

La lotta delle classi diventava così lotta fra i generi. La Grande Madre Russia, apparentemente ferma nella sua sospensione storica, stava invece diventando acceleratore della Grande Storia e Sergej Ejzenštejn si faceva protagonista d’un cinema espressionista che avrebbe tinto di epos tutta la cinematografia successiva. Sarebbe riduttivo, e per l’antropologo culturale incomprensibile, che queste pulsioni si fossero sviluppate solo nelle steppe della rivoluzione bolscevica. Tutto si sentiva coinvolto in una accelerazione comune per quanto distonica.

El Lissitzky, Copertina di Per la voce di Vladimir Majakovskij, 1923, litografia, cm 19x13,4, Collezione privata

El Lissitzky, Copertina di Per la voce di Vladimir Majakovskij, 1923, litografia, cm 19x13,4, Collezione privata

Vladimir Tatlin, Copertina per Monumento alla III Internazionale di Nikolaj Punin, 1920, litografia, cm 28x22, New York, The Museum of Modern Art

Vladimir Tatlin, Copertina per Monumento alla III Internazionale di Nikolaj Punin, 1920, litografia, cm 28x22, New York, The Museum of Modern Art

Ricostruzione di Proun di El Lissitzky distrutto nella Seconda guerra mondiale

Ricostruzione di Proun di El Lissitzky distrutto nella Seconda guerra mondiale

I suprematisti sono allora paralleli alle mutazioni stilistiche di Piet Mondrian e di Theo van Doesburg, il quale a Berlino s’era formato. La loro sperimentazione andrà a concludersi in un movimento olandese di particolare conseguenza per la mutazione del gusto, De Stijl, nato nel 1917 con la rivista corrispondente, e per un primo design che evolve in sintonia ma indipendente dal Bauhaus che sboccia a Weimar nel 1919. Nel 1922 li raggiunge anche il russo El Lissitzky che si stava esercitando per realizzare l’ambiente totale che chiamò Proun. Questi, in qualità di delegato russo per le arti, era già entrato in rapporto con Kurt Schwitters nel 1921. Perché intanto è successo ciò che sempre succede nei movimenti d’avanguardia: si litiga.

La cosa andò praticamente così. Hans Arp, alsaziano un po’ antitedesco, viene rifiutato dal club Dada di Berlino retto da Richard Huelsenbeck. Sbatte la porta, torna a casa e, insieme a Kurt Schwitters, crea un gruppuscolo alternativo dandogli un nome a caso. Arp era infatti il teorico del caso e aveva già sperimentato in Svizzera la forma che prendevano foglietti di carta strappata quando li si lasciava cadere a terra. Il loro minigruppo si chiama Merz, ovvero il frammento che rimane dopo lo strappo di Kurt della scritta Kommerzbank. Merz rimette l’ordine nel creato, ripone equilibrio fra le cose e torna a un elementarismo dell’estetica. Nel 1923 a gennaio esce la rivista omonima e Schwitters si dà alla raccolta d’ogni rifiuto degno d’attenzione con la quale inizia la decorazione del suo miniappartamento di Hannover, chiamandolo appunto Merzbau.

E poi migrano: Arp passa a Colonia, tira su il giovane Max Ernst e se ne vanno a vivere a Parigi dove faranno parte del primo nucleo surrealista alla Galerie Pierre nella mostra del 1925. Proprio a quest’ultimo, peraltro, si deve l’invenzione del frottage, un modo di strofinare la pittura con straccio e spatole in modo da farne vibrare le varie componenti di colore. Così come viene da Max Ernst anche l’invenzione di una parte sostanziale dell’immaginario del gruppo artistico al quale si lega, e che è capeggiato da André Breton: i ritratti degli amici, i primi personaggi extrareali che poi riprenderà Magritte, e uno straordinario bestiario immaginifico.

Piet Mondrian, Composizione con grande riquadro Rosso, Giallo, Nero, Grigio e Blu, 1921, olio su tela, cm 59,5x59,5, L’Aia, Gemeentemuseum

Piet Mondrian, Composizione con grande riquadro Rosso, Giallo, Nero, Grigio e Blu, 1921, olio su tela, cm 59,5x59,5, L’Aia, Gemeentemuseum

Theo van Doesburg, Contro composizione XIII, 1925-1926, olio su tela, cm 49,5x50, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim

Theo van Doesburg, Contro composizione XIII, 1925-1926, olio su tela, cm 49,5x50, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim

Fotografia dell’originario Merzbau, la stanza-installazione di Kurt Schwitters, 1933 Ricostruzione del Merzbau di Kurt Schwitters distrutto nella Seconda guerra mondiale, 1981-1983, Hannover, Sprengel Museum

Fotografia dell’originario Merzbau, la stanza-installazione di Kurt Schwitters, 1933

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Ricostruzione del Merzbau di Kurt Schwitters distrutto nella Seconda guerra mondiale, 1981-1983, Hannover, Sprengel Museum

Max Ernst, Frottage, 1926, matita su carta, cm 17x25, Collezione privata

Max Ernst, Frottage, 1926, matita su carta, cm 17x25, Collezione privata

Nel 1926 succede a Marcel Duchamp, da anni in America, una bizzarra disgrazia che lui, avendo già imparato la filosofia americana dell’how to turn a disaster into an opportunity, trasforma in una sua esaltazione del caso. Infatti, già noto e riverito, gli viene offerta l’opportunità di esporre il suo Grande vetro al Brooklyn Museum, dove un operaio inavvertitamente lo danneggia lasciando cadere un martello. Lui non se la prende, anzi: si ritrova felice che il caso abbia definitivamente completato l’opera. Arp aveva lasciato un segno, in tutti i sensi. Come lo aveva lasciato sempre a Parigi Tristan Tzara, attorno al quale nasce il gruppo surrealista. Come lo aveva lasciato pure André Breton sulla guancia di Giorgio de Chirico, quando gli mollò una sonora sberla dalle parti del Parc Monceau per segnare definitivamente la rottura fra surrealtà e metafisica.

Ma le avanguardie non erano allora solo di rottura. Talvolta il senso ordinato del neoplasticismo di De Stijl generava movimenti, avanguardistici sempre, ma ben ordinati: quelli parigini che ambivano a riunire ogni gioco geometrico come Cercle et Carré, brevissimo del 1929 con tutti radunati, e quello più elitario del 1931 di Abstraction-Création (con Georges Vantongerloo e Auguste Herbin) che durò fino al 1936 in opposizione ai surrealisti.

Auguste Herbin, Composizione astratta, 1933, olio su tela, cm 65x53, Collezione privata

Auguste Herbin, Composizione astratta, 1933, olio su tela, cm 65x53, Collezione privata

Auguste Herbin, Composizione astratta, 1932, olio su tela, cm 73x54, Nantes, Musée des Beaux-Arts

Auguste Herbin, Composizione astratta, 1932, olio su tela, cm 73x54, Nantes, Musée des Beaux-Arts

La considerazione più curiosa che si possa fare a questo proposito è che tendenzialmente ogni avanguardia considerava se stessa come assolutamente unica, mentre nella verifica odierna spesso appare che un movimento reputato dai suoi membri irripetibile si trovava a essere parallelo a un movimento analogo in un’altra parte d’Occidente, e questo senza esserne cosciente. La voglia che animava i futuristi quando si dedicavano al movimento e alla velocità aveva un suo parallelo nel raggismo che nei medesimi anni sviluppava una parte dell’avanguardia russa. La destrutturazione delle forme suprematiste viveva inconsapevolmente in parallelo con il vorticismo inglese nella sua fase di riarticolazione.

E intanto il dibattito continua…

Si stanno esaurendo le prove formali dei linguaggi. La diatriba intorno alla questione compositiva non poteva andare oltre. La questione necessariamente doveva spostarsi in una dimensione diversa, quella psicanalitica. Se il sentimento, dell’amore come della patria o del sociale fra serio e faceto, sembrava avere raggiunto il punto estremo, si apriva il territorio vastissimo che la psicanalisi freudiana, la metafisica dechirichiana, la semiologia di Ferdinand de Saussure e di Aby Warburg stava rivelando come scenario necessario. In questo fertile terreno si sviluppò il Manifesto del Surrealismo che André Breton si mise a redigere dopo avere mollato il ben noto ceffone a de Chirico. Così lo definisce lui stesso:

Georges Vantongerloo, No. 98 2478 Red/135 Green, 1936, olio su balsa, cm 57,5x72, Londra, Tate Gallery

Georges Vantongerloo, No. 98 2478 Red/135 Green, 1936, olio su balsa, cm 57,5x72, Londra, Tate Gallery

Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, che per iscritto, o d’ogni altra maniera, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là d’ogni preoccupazione estetica o morale.

Di più non si può chiedere: la gabbia è aperta e ogni fantasia è liberata.

Non contento Breton tenta anche una definizione che chiama filosofica:

Il surrealismo si basa sulla fede in una realtà superiore di certe forme di associazione neglette fino al lui, all’onnipotenza del sogno, al gioco disinteressato del pensiero. Tende a rovinare tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella soluzione dei principali problemi della vita. Hanno fatto atto di surrealismo assoluto Aragon, Baron, Boiffard, Breton, Carrive, Crevel, Delteil, Desnos, Éluard, Gérard, Limbour, Malkine, Morise, Naville, Noll, Péret, Picon, Soupault, Vitrac.

Questo messaggio andò allora a generare un gruppo di amici che si trovarono immediatamente imbarcati in un’avventura inattesa, perché inattese erano le “fantasie” che scatenò nel mondo intero. Ebbero seguaci laddove non se lo aspettavano affatto, e divennero surrealisti sia Magritte in Belgio sia Dalí in Spagna; per quanto Breton tentasse di passare talvolta dalla figura di guru a quella di padre padrone del movimento, il venticello si fece tempesta fino a convertire il morbido armeno Arshile Gorky che contaminò gli Stati Uniti e contribuì a far nascere l’Espressionismo astratto, e nel cuore della Spagna in ebollizione portò nella medesima direzione sia il giovane regista Luis Buñuel sia l’immaginifico Salvador Dalí. Gli echi si fecero sentire sempre più lontani, dalla Boemia all’America Latina.

René Magritte, Ritratto di Paul Nouge, 1927, olio su tela, cm 95x65, Collezione privata

René Magritte, Ritratto di Paul Nouge, 1927, olio su tela, cm 95x65, Collezione privata

Max Ernst, Au Rendez-vous des Amis, 1922, olio su tela, cm 130x195, Colonia, Ludwig Museum

Max Ernst, Au Rendez-vous des Amis, 1922, olio su tela, cm 130x195, Colonia, Ludwig Museum