Juan Gris, Uomo in un caffè, particolare, 1912, olio su tela, cm 127,6x88,3, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
INTRODUZIONE
Questo libro ha uno scopo: non ammaliare ma ammalare il lettore. Vorremmo fare di voi dei patiti dell’argomento, quindi degli afflitti da patologia vera e propria. E farvi uscire dall’ovattata noia del museo tradizionale, quando pensate che l’unico premio sarà il coffee break nella caffetteria, e consentirvi invece di scoprire il virus che si nasconde in fondo all’anima d’ogni uomo e donna d’Occidente, cioè la contorsione della sua modernità. Se cascate nel tranello che vi abbiamo preparato, sarete leggermente diversi dopo la cura. In fondo il dibattito su che cosa sia l’arte ha pervaso tutto il XX secolo, che spesso l’ha definita morta. È invece rimasta viva quando è patogena, quando è capace di alterare la visione che abbiamo delle cose.
Questo è il libro, per un certo verso ironico, d’un curatore frustrato, al quale il buon senso comune giustamente non ha concesso la libertà del pensiero folle, ovvero la possibilità di allestire alcune mostre riassuntive degli anni che ci hanno formati, quelli del secolo breve che ha sconvolto tutti i parametri preesistenti, scoprendo il profondo della psiche e del linguaggio.
Molto dobbiamo all’abilità dei mercanti d’arte, i quali, sostenendo con convinzione i prezzi, hanno fatto nascere collezioni e musei; a loro dobbiamo un serio riconoscimento a tal punto che abbiamo dedicato proprio a loro un piccolo spazio mnemonico che tutto è fuorché un cimitero. Da loro non possiamo neppure prescindere in quanto hanno stabilito ciò che conta, anche economicamente si intende, e hanno posto in un cono d’ombra ciò che non ha mercato, le immagini dei giornali e i ricordi del cinematografo, come le affiches pubblicitarie che hanno spesso condizionato ben di più l’immaginario collettivo. Il pubblico che oggi visita un museo a loro deve molto, talora ben di più di quanto non debba ai curatori che hanno conservato alla memoria futura le opere. Grazie al loro impegno, talvolta garbato e attento, talvolta comprensibilmente avido, si è formata la coscienza storica del secolo brevissimo. La memoria viene coltivata quotidianamente e la nostra non è eccellente, segue essa il simpatico adagio di Ingrid Bergman per la quale il segreto della felicità è una buona salute e una cattiva memoria, ecco perché i musei d’arte moderna contribuiscono alla felicità dei popoli: alterano questa memoria estetizzandola e potandola. Ma questa stessa memoria muta costantemente ed è confusa: ecco il motivo d’un tentativo azzardato di mettervi ordine.
Per quanto concerne la memoria recondita e dormiente, il lettore dovrà aspettare un secondo volume dove spero di potere rivelarne i contorni celati. Questo è un primo passo iniziatico che potrà forse consentire una calibratura in grandi linee del fenomeno noto, in modo da penetrare successivamente l’ignoto. La distanza fra l’epoca nostra e quella che siamo abituati a considerare la genesi della nostra cosmogonia estetica è in realtà lunghissima, c’è chi considera tuttora Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso un’opera di difficile comprensione, al pari dell’Ulisse di James Joyce o di Verklärte Nacht di Schönberg, eppure il tempo trascorso da allora a oggi è uguale a quello passato dalla battaglia di Waterloo alla Prima guerra mondiale o, per chi si appassiona alla musica, al tempo che corre dal Flauto magico di Mozart alla Bohème di Puccini. Pensiamo che tutto sia diverso da allora, eppure portiamo ancora come vestito contemporaneo contro la pioggia il trench delle trincee di questa guerra mondiale, le medesime cravatte Regimental e le desert boots in cuoio scamosciato. È bizzarra questa sospensione della Storia, come se all’epoca del Napoleone di Waterloo fosse apparso in parrucca Luigi XIV. Mai la storia fu così crudele e carica di drammi come nell’epoca nostra e mai così lenta nelle mutazioni del gusto. Stiamo seduti ancora ai medesimi tavolini tondi dei caffè come l’uomo di Juan Gris e ci capitano i medesimi incidenti automobilistici che capitarono a Marinetti per evitare un ciclista. Di questo percorso drammatico e compresso abbiamo più percezione che comprensione. La comprensione oggi sembra di dovere: sarebbe utile a rimettere in moto il corso e la corsa delle cose. Torniamo quindi all’ultimo momento denso del pensiero, quello della Scuola di Francoforte, quando Adorno si pone le sue astruse domande e Horkheimer le sue improbabili risposte per immaginare un mondo che sembrava sull’orlo della fine dei tempi e che tentava di raccontarsi anche con le immagini. Poi ci fu solo il pensiero debole.
Mettere ordine in una matassa così intricata è di per sé operazione intollerabile, oppure ambizione ingenua, tentare piccoli codici di lettura è invece opportuno. I grandi artisti sono grandi, tutti lo sanno, i piccoli artisti del passato spesso sono dimenticati o servono alla critica storica per alimentare il mercato antiquariale; nel mondo moderno non è così: la faccenda si è resa democratica e ogni appassionato è autorizzato a dire la sua. Per ottenere questo risultato servono però alcuni punti fermi, ecco il motivo che ci ha costretto a ingiustificabili riassunti e a dolorose amputazioni senza anestesia. Chiedo venia al lettore, ma salvo la mia coscienza col fatto che l’editore mi ha vietato di redigere un’enciclopedia lunga quanto uno scaffale della Biblioteca de Babel del sommo Jorge Luis Borges.
Nel presente volume l’intenzione è assai semplice, stimolare il lettore carpendone le grazie con la qualità dei dipinti e portarlo a porsi egli stesso le domande atte a rivedere il dogma.