ANSIA GENETRIX
Arthur Rackham, Pandora, illustrazione per Il libro delle meraviglie di Nathaniel Hawthorne 1922, litografia a colori, cm 24x17, Collezione privata
SPLEEN E DECADENTISMO
La grande scoperta del disagio esistenziale venne sancita negli anni durante i quali il Romanticismo stava marciando e marcendo verso il Decadentismo. Come spesso capita per gli stati dell’animo, questi prendono forma più percepibile quando trovano un nome. E Baudelaire inventò lo spleen: l’impotenza esistenziale dinnanzi a un mondo con regole non percepibili o comunque non suscettibili d’essere condivise.
Il poeta francese pubblica nel 1857 Les fleurs du mal, dove il primo ciclo di poemi s’intitola Spleen et Idéal. Gustave Moreau sembra averli letti e interiorizzati quando, dieci anni dopo, dipinge Pegaso che s’invola nell’ideale e si trascina abbracciata la poesia nuda in versione Chimera, ovviamente oltre il baratro. La stessa poesia a cui fa riferimento Moreau, Élévation (terzo componimento del capolavoro di Baudelaire), viene illustrata, all’inizio del secolo nuovo, dal tedesco Carlos Schwabe.
Au-dessus des étangs, au-dessus des
vallées, |
Sopra gli stagni e sopra le valli, / sopra le montagne e le foreste e i mari e le nuvole, / al di là del sole e dell’etere, / oltre i confini delle sfere astrali, |
Mon esprit, tu te meus avec agilité, |
agile ti muovi, o mio spirito, / e simile a chi nuota bene e s’abbandona alle onde, / lieto, solchi la profonda immensità / con ineffabile e virile voluttà. |
Envole-toi bien loin de ces miasmes
morbides; |
Vola lontano da questo fetore che ammala; / va a purificarti nell’aria più fina e bevi, / bevanda pura e divina, / il limpido fuoco che riempie quello spazio chiaro. |
Derrière les ennuis et les vastes
chagrins |
Oltre i fastidi e le vaste sofferenze, / un grave fardello alla fosca esistenza, / felice chi si slancia con forte ala / verso i campi sereni e luminosi, |
chi ha pensieri simili alle allodole / che spiccano il volo al mattino verso il cielo / – chi sorvola la vita e capisce al volo le parole / dei fiori e delle cose che non hanno voce! |
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Celui dont les pensers, comme des
alouettes, |
Gustave Moreau, Chimera, 1867, olio su tavola, cm 33x27, Cambridge, Fogg Art Museums
Quanto sarà pesato il Simbolismo a cavallo del secolo su quel principe dell’illustrazione britannica che fu Arthur Rackham, nato nel 1867, anno del dipinto di Moreau? Vorrei immaginare che l’immaginario di lui bambino sia stato influenzato dal visionario francese e che di conseguenza lui stesso abbia deciso di dedicarsi, tanto intensamente, all’illustrazione per l’infanzia tentando di contaminare tutta una generazione a lui posteriore. In questo meccanismo, talvolta assai perverso, Rackham percorre una strada parallela dove l’esercitazione, nell’ambito del mondo adulto, si riversa costantemente in quello dell’infanzia: altro che Sigmund Freud! E nel giocare con la mente dei bambini pensando a quella dell’adulto apre il vaso di Pandora, dal quale escono mille diavoletti. I fantasmi dell’inconscio, che il secolo precedente aveva coltivato con ambigua attenzione, diventano nel secolo breve patrimonio accettato dei ragazzi e motivo di ricerca per la nascente psicoanalisi.
Arthur Rackham, Le figlie del Reno si impossessano dell’anello, illustrazione per Il crepuscolo degli dei, 1924, litografia a colori, cm 35,5x27, Collezione privata
Se allo spleen si aggiunge il disagio tedesco della Entfremdung, della sensazione di estraneità, allora ci si avvicina alla patologia poetica dell’ansia, che poco ha a che vedere con la patologia clinica vera e propria.
Alfred Kubin, L’uomo, 1902, incisione, cm 15x18, Vienna, Leopold Museum
Inizia così quello stato di sospensione che diventa un dato stabile della sensibilità all’inizio dell’era contemporanea. Il taedium vitae leopardiano è drammaticamente superato e non si è ancora giunti alla risposta filosofica che darà l’Esistenzialismo dopo la Seconda guerra mondiale. Forse l’ansia degli anni delle avanguardie è fenomeno di sostanza dell’epoca stessa e corrisponde alla sensazione di vertigine di un’era che si sta per concludere senza appello. Ci si trova sull’orlo del baratro della storia, quella che terminerà con il collasso dell’Europa. E gli artisti, mossi dalla loro naturale sensibilità, lo prevedono, lo sentono come i vaticinatori che Giorgio de Chirico inizia a celebrare nei suoi dipinti. È interessante pensare che l’indoeuropeo teorico che dovrebbe corrispondere alla radice angh, cioè stretto, porta sia all’angustus latino sia all’eng tedesco (stretto) ma pure alla Angst tedesca, che è la “paura”. L’uso diffuso della parola, comunque, è assolutamente moderno.
Giorgio de Chirico, Enigma di un pomeriggio d’autunno, 1910, olio su tela, cm 45x60, Collezione privata
Certamente uno degli epicentri della dissolvenza è costituito dal mondo germanico, che passerà nell’esperienza del secolo brevissimo affondando nella Seconda guerra mondiale. Bertolt Brecht lo scrive con inquietante precisione: Das große Karthago führte drei Kriege. Es war noch mächtig nach dem ersten, noch bewohnbar nach dem zweiten. Es war nicht mehr auffindbar nach dem dritten (La grande Cartagine condusse tre guerre. Era ancora potente dopo la prima, ancora abitabile dopo la seconda. Non era più individuabile dopo la terza). È questa la descrizione della Germania fra la guerra franco-prussiana del 1870, la Prima guerra mondiale e la Seconda. Ma è anche ciò che allora sembrò il destino ineluttabile dell’intera Europa.
Dal profondo della coscienza e dagli ultimi momenti di un XIX secolo in crisi proviene, fortissima, l’immagine e la capacità di disegnare di Alfred Kubin, all’inizio giovanotto legato alle tematiche complessive di quel sapore che si chiama simbolismo, nel quale si recuperano immagini antiche provenienti dal profondo del Medioevo, citazioni orrendamente burlesche di Hieronymus Bosch, inferni improbabili legati alla meccanica moderna, percorsi fra il satanico e l’ironico che lo avvicinano ad altri suoi colleghi, come Franz von Stuck. Ma subito questo percorso si tramuta in un’altra cosa, ovvero nella liberazione degli incubi profondi. Anche il suo operato, al pari di quello di Rackham, non è lontano da ciò che sta succedendo nello stesso periodo sotto l’occhio attento e calibratore di Sigmund Freud.
Penna, inchiostro e lavis, quella tecnica fenomenale che lascia apparire i grigi e i neri per una narrazione che è profondamente europea da sempre e germanica in modo particolare, quella dell’albero al quale vengono impiccati i disperati, ma qui con un segno poetico particolare e inquietante. La volpe che teneramente esce fra le erbe e l’altra che, in mezzo alla strada, li guarda con appetito.
Tutto ruota attorno alla bocca dell’inferno e l’ora inarrestabile della morte taglia le teste, a una a una, da un orologio dal quale cascano in una cesta: allegoria di una vita senza speranza, di una corsa dalla nascita alla morte, la velocissima vita dell’uomo dalla nascita alla morte. E poi le paure, lo spavento del naufragio, i misteri del passato, gli appetiti tremendi del potere, un’enorme foca bianca che divora tutto, l’epidemia, sparsa come una polvere notturna dallo scheletro della morte, la fame. Destino terminale: la tomba. E l’amazzone terribile, vestita di nero, cavalca un cavallo a dondolo che taglia l’umanità con una doppia mezzaluna. Siamo nel 1909, il terrore della malattia, il terrore dell’aggressività sessuale, la paura di un suicidio di massa che fra poco colpirà l’Europa.
Alfred Kubin, L’ora della morte, 1900 ca., incisione, cm 19x8,5, Collezione privata
Alfred Kubin, La forza, 1900, incisione, cm 21x17, Salisburgo, Museum der Moderne, Rupertinum
Alfred Kubin, Il tiglio di Hausham, 1903 ca., incisione, cm 17x28, Collezione privata
Alfred Kubin, Donna a cavallo, 1901, penna, inchiostro, guazzo su carta, cm 39,7x31, Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau
Copertina per “Simplicissimus” con Hitler a cavallo, aprile 1931, litografia a colori, cm 45x27, Collezione privata
Félicien Rops, Il dondolo, 1870, litografia a colori, cm 19x14, Londra, The British Museum
Alfred Kubin fa parte di quel curioso mondo austroungarico che ha una radice profonda nel mondo boemo e nelle sue strane paure attorno ai boschi. Tutti artisti con la kappa: Kubin, Klimt, Kokoschka, Kafka. Storicamente non sono afflitti dalla crudezza popolare del burlesco e del Grand-Guignol, ma discendono dallo stesso modello atavico che si forma e si ripresenta alla fine del Medioevo germanico quando la Riforma luterana libera l’anima profonda di quei popoli lontani.
APOCALISSE A TEMPO DI VALZER
È innegabile che le vertigini maggiori si siano sviluppate in quell’impero di mezzo asburgico dove la sensazione della fine possibile si stava trasformando in ansia per una fine certa, mentre nei giardini pubblici si suonano gli ultimi valzer di Johann Strauss e Franz Lehár mette in scena La vedova allegra nel 1905.
Fondamentale è la figura dell’imperatore Francesco Giuseppe, elegante nel suo guardaroba infinito e con una moglie bellissima che è la quintessenza della raffinatezza: Sissi. Francesco Giuseppe nasce nel 1830. Ha solo diciotto anni quando, nel 1848, la grande ventata di rivoluzione attraversa tutta l’Europa. Suo zio imperatore si dimette, suo padre rifiuta di prendere la corona, e lui senza neanche accorgersene finisce sul trono. L’anno dopo, nel 1849, si trova a reprimere duramente, ferocemente, la ribellione ungherese. Nel 1859, con la battaglia di Solferino, perde la cassaforte: il Lombardo-Veneto contribuiva per oltre il cinquanta per cento delle entrate finanziarie austriache. Anni dopo, nel 1869, finalmente l’Ungheria ce la fa: si separa dall’Austria ma rimane unita all’Impero. Da quel momento in poi il mondo dell’Europa di centro avrà due corone sulla stessa testa: Francesco Giuseppe è imperatore d’Austria e re d’Ungheria. Kaiser und König, doppiamente al vertice di un mondo che dalle iniziali dei suoi titoli prende il nome di kakanico. E anche le disgrazie, ovviamente, raddoppiano.
Nel 1867 suo fratello Massimiliano, diventato imperatore del Messico, viene fucilato. Nel 1889 l’unico suo figlio maschio Rodolfo, che fa il liberale e scrive sui giornali clandestini, si suicida all’età di trentun anni. Nel 1896 il fratello di Francesco Giuseppe, Carlo Ludovico erede al trono, muore. Nel 1898 Sissi, che non ne può più della vita di corte e delle sue molte insidie, decide di viaggiare. Parte in incognito, va a Ginevra e viene assassinata da un anarchico italiano. Il figlio del fratello, Francesco Ferdinando, diviene erede al trono. Almeno finché non viene ucciso nel 1914 a Sarajevo: scoppia la Prima guerra mondiale. Fra poco l’Impero scomparirà, ma nel 1916 muore anche Francesco Giuseppe.
Il praghese Franz Kafka pubblica nel 1915 il suo notissimo racconto La metamorfosi. La guerra stava già infuriando, ma si presume che l’ispirazione dell’opera sia antecedente all’evento e tragga la sua atmosfera dall’aria che si respirava negli anni immediatamente precedenti e che già Alfred Kubin rappresentava all’inizio del secolo con un senso di vertigine, di estraniazione, di ansia e di terrore che a sua volta trovava parallelismi evidenti nei teatri e nelle sale da concerto dove Richard Strauss eseguiva Salomè nel 1905, lui che era diventato noto e protagonista già nel 1889 con Morte e trasfigurazione e poi con il Così parlò Zarathustra del 1896, che prendeva senso teatrale dagli scritti di Friedrich Nietzsche del 1885.
Edvard Munch, La bambina malata, 1896, litografia a colori, cm 21x38, Oslo, Munchmuseet
Edvard Munch, Angoscia, 1894, olio su tela, cm 94x74, Oslo, Munchmuseet
Alfred Kubin, Il succhiatore, 1903, china e acquerello su carta, cm 29x38, Amburgo, Hamburger Kunsthalle
Ma forse il testo musicale più forte dell’epoca è quello costituito dal ciclo dei Canti per i bambini morti, composti fra il 1901 e il 1904 da Gustav Mahler scegliendo fra le oltre quattrocento poesie dedicate al tema da Friedrich Rückert negli anni trenta del secolo precedente. L’ansia sottile pervade tutto il secolo della felicità austriaca e trova il suo apice nella Morte e la fanciulla di Franz Schubert già nel 1817, forse ispirata dal suo primo testo musicale nel 1815 per la morte del fanciullo dell’Erlkönig di Goethe, e ovviamente le sue declinazioni di nuovo in Kubin (L’ora della morte) e in Munch (La bambina malata e Angoscia) nel 1903. Il rapporto fra vita e morte, fra sogno e realtà, fra notte e giorno lo esprimerà alla perfezione Arnold Schönberg venticinquenne in Verklärte Nacht del 1899, la “notte trasfigurata” o, meglio ancora, il buio che trova la luce.
Gustav Klimt, Volto di fanciulla, 1898, olio su tela, cm 20x20, Collezione privata
Arnold Schönberg, Sguardo rosso, 1910, olio su cartoncino, cm 32x25, Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau
Franz von Stuck, Il peccato, 1912, olio su tela, cm 88x52, Berlino, Nationalgalerie
Eppure nel 1888 era già avvenuta una fusione politica inquietante per le sue conseguenze storiche, quando a Vienna il partito nazionale germanico s’era unito con il partito cristiano socialista e il seme fra nazional e socialista era così lanciato per diventare il futuro Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, il Nationalsozialistische deutsche Arbeiterpartei (NSDAP), quella costola dissidente che uscirà nel febbraio del 1920 dal DAP (Deutsche Arbeiterpartei, il Partito dei lavoratori tedeschi). Il trasferimento politico dall’Austria alla Germania era dovuto a un imbianchino austriaco disoccupato momentaneamente impiegato come confidente per conto dell’esercito tedesco che aveva cercato fortuna politica nella Repubblica di Weimar, quell’Adolf Hitler che aveva partecipato al bagno di folla nel 1910 durante il funerale di Karl Lueger, sindaco di Vienna. Lueger era stato l’artefice della fusione dei due partiti austriaci e s’era fatto eleggere sindaco di Vienna già nel 1892, con un programma socialista, populista e antisemita, ma il vecchio Kaiser non ne aveva ratificato l’elezione sostenendo che egli era chiamato da Dio a governare tutti i sudditi contribuenti, al di là della loro appartenenza religiosa o razziale. Sigmund Freud sostenne allora d’avere acceso un sigaro alla salute dell’autocrate illuminato. Ma nel 1895 Lueger rivinse le elezioni municipali con una tale maggioranza che la sua vittoria dovette essere accettata. A dire il vero, il nuovo sindaco fu esemplare nella gestione delle questioni locali, innovando la prima municipalizzazione delle acque e dei trasporti pubblici. Ma la Vienna non industriale della piccola borghesia funzionariale e del sottoproletariato aveva così trovato una sua identità ambigua che con gli anni avrebbe portato alla catastrofe.
Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer, 1907, olio, argento e oro su tela, cm 140x140, New York, Neue Galerie New York
Gustav Klimt, Giuditta, 1901, olio e oro su tela, cm 84x42, Vienna, Belvedere
Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer II, 1912, olio su tela, cm 190x120, Collezione privata
Il senso di inquietudine cresceva nella borghesia storica e fra gli intellettuali. L’Europa del centro si contorceva come le dita dei modelli di Egon Schiele, lo psicopatologo della depressione viennese, esperto di gesti moderni e di mani gotiche. Figlio di una scuola linguistica che in quegli anni si stava evolvendo in tutta Europa; con le fragranze russe che sono il primo passo verso un’astrazione che fra poco dominerà tutta la cultura visiva: campiture inventate con tasselli, quadratini misteriosi uguali a quelli che negli stessi anni sta cominciando a immaginare Paul Klee con il suo viaggio in Nordafrica.
Egon Schiele, Nudo maschile in piedi con perizoma rosso, 1914, guazzo, acquerello e matita, cm 48x32, Vienna, Albertina
Egon Schiele, Autoritratto nudo con smorfia, 1910, guazzo, acquerello, matita su carta, cm 36,9x55,8, Vienna, Albertina
Gustav Klimt, che gli è contemporaneo, sembrerebbe il suo opposto: non la vittima ma il controllore dell’ansia nel frammento della decorazione effettuata per il padiglione della Secessione viennese. Qui il tassello decorativo imparato guardando Ravenna non è più decorazione, è struttura stessa del dipinto.
Ecco quindi che Gustav Klimt trova in Adele Bloch-Bauer una delle sue modelle e clienti preferite. La ritrae in varie versioni, talvolta di alto lusso e talvolta a seno nudo, senza pudori freudiani ma anzi con quel fremito orgasmico che è per Klimt un dato stabile del vivere in un’eleganza cittadina e mondana viennese che abbiamo totalmente scordato. Le dedica decine e decine di disegni, la usa come modello per la Giuditta, eroina dell’Antico Testamento che nel suo libro omonimo taglia la testa all’invasore Oloferne. La signora Bloch-Bauer era la ricca figlia d’un banchiere che aveva sposato la figlia del re dello zucchero e dava vita al più raffinato dei salotti viennesi, dove fra intellettuali e artisti apparivano anche i ragazzi Wittgenstein, quello che divenne noto filosofo, Ludwig, e l’altro che perdette il braccio destro in guerra, Paul, divenuto poi, ciò nonostante, un famoso e celebrato pianista, noto per l’esecuzione della Ciaccona di Bach nell’arrangiamento che ne dà Brahms per sola mano sinistra. Negli stessi anni Rachmaninov si arrovellava a Dresda nelle sue sonate per pianoforte.
In questo mondo di artisti Oskar Kokoschka gioca un ruolo particolare. Epifania di un bambino come un Cristo in mandorla retto da dita assolutamente gotiche. Marmellate di bambini che stanno aspettando lo scioglimento dell’Impero in cui sono nati. Un mondo che non potrebbe vivere senza musica. Capace di esaltare nel 1916 la figura del nemico Ferruccio Busoni, italiano: nemico per via della guerra, amico per le note musicali. E gli artisti si mettono tutti a collaborare con la Wiener Werkstätte.
Oskar Kokoschka, La sposa del vento, 1914, olio su tela, cm 125x248, Basilea, Kunstmuseum
DAI ROARING TWENTIES ALLA GRANDE DEPRESSIONE
Gli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale saranno ben diversi fra perdenti e vincitori. Da un lato l’ansia viene sedata dall’apparente gioia dei roaring twenties, gli anni della ripresa folle e scatenata, del charleston, del proibizionismo e delle bische americane e di qua dall’Atlantico delle serate in riviera e dalla crescita immobiliare di Londra; dall’altro viene sublimata dalle speranze democratiche della Repubblica di Weimar o dall’apparente successo d’un nuovo mondo in costruzione sia nella Russia bolscevica sia nel Messico rivoluzionario. Il sogno dura poco e la crisi drammatica di Wall Street riporta le nuvole di un’ansia forse peggiore ancora. Dopo i primi anni Trenta tornano gli spettri ad aggirarsi nell’Occidente. La Germania si risolleva sotto il segno della croce uncinata, l’Italia corre irresponsabile verso il suo impero. La Russia passa sotto il governo di Stalin e Ždanov dichiara la fine delle avanguardie domestiche portando Majakovskij al suicidio nella primavera del 1930 e milioni di oppositori nei campi di concentramento. I colori sgargianti si fanno cupi, dalla pittura alla moda.
Alberto Savinio, La battaglia dei centauri, 1930, olio su tela, cm 65x81, Collezione privata
I roaring twenties sono presto dimenticati. Giorgio de Chirico abbandona Parigi e se ne torna a Roma, non c’è più aria sulla Senna. Anche i surrealisti, allegri e spensierati si fanno cupi.
Tutto si fa più aggressivo e il design delle automobili scopre l’aerodinamica perché sa già che al lusso bisognerà sostituire l’efficacia, quella che fra pochi anni porterà alla finta guerra veloce, quel Blitzkrieg che avrebbe dovuto conquistare l’Europa con la velocità con la quale l’aviazione tedesca a sostegno dei panzer andrà a conquistare la Polonia annientandola. Henry Ford, il quale sosteneva che l’auto dovesse diventare democratica e che quindi ogni colore era consentito purché fosse nero, ha intuito un passaggio storico fondamentale che altera l’estetica dopo la crisi e durante il lungo periodo di ricomposizione dell’economia, una economia che si rimette a crescere fino al punto di consentire la deflagrazione bellica. Quei venti dell’ansia, espressi quasi in modo sonoro, appaiono con potente e sorda voglia cromatica nei quadri di Alberto Savinio, il quale abbandona il gusto colorato e allegro degli anni precedenti. I nuvoloni sono densi. Ma il centro del cataclisma sarà in realtà l’allegro mondo americano nel quale scoppia inattesa, imprevista e terribile la crisi finanziaria di Wall Street.
Mario Sironi, Nudo e albero, 1930, olio su tela, cm 80x60, Collezione privata
Victor Bobritsky, Copertina per “The New Yorker”, novembre 1930, litografia a colori, cm 36x23, Collezione privata
Sacha Zaliouk, L’Art negre à la mode. À la manière de Rodin, in “Fantasio”, 1923, litografia a colori, Collezione privata
Constantin Alajalov, Copertina per “Vanity Fair”, marzo 1930, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
Anne Harriet Fish, Illustrazione per “Vanity Fair”, 1925 ca., Collezione privata
Ci sono mille modi di raccontare la drammatica crisi di Wall Street. A essa si deve la fine del sogno d’una ricostruzione inarrestabile, d’una finanza che premiava chiunque partecipasse al suo gioco da roaring twenties. Con la crisi cambia il mondo: la Germania andrà a correre verso la conclusione drammatica d’una inflazione mai conosciuta prima, quella che in breve tempo porterà l’imbianchino caporale alla guida della politica nazionale e quella che negli Stati Uniti dà inizio alla grande depressione. Faulkner e Steinbeck racconteranno l’epica d’una catastrofe popolare senza precedenti. Questa mutazione avviene in pochi mesi; fortune consolidate, andate definitivamente a rotoli.
Eduardo Garcia Benito, Copertina per “Vanity Fair”, dicembre 1930, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
Eduardo Garcia Benito, Copertina per “Vanity Fair”, agosto 1931, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
Copertina per “Vanity Fair”, ottobre 1933, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
Locandina per “Farligt Sällskap”, 1929, litografia a colori, cm 99x71, Collezione privata
Eduardo Garcia Benito, Copertina per “Vogue”, ottobre 1929, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
Pierre Mourgue, Copertina per “Vogue”, settembre 1929, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
Georges Lepape, Copertina per “Vogue”, febbraio 1930, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
Harry Herzog, City of New York. Municipal Airports, 1936-1937, litografia a colori, cm 124x89, Collezione privata
Theodore Haupt, Copertina per “The New Yorker”, maggio 1930, litografia a colori, cm 36x23, Collezione privata
Eppure in quel drammatico 1929 aveva aperto il museo che doveva dare a New York la sua definizione nuova nel mondo delle arti, il MoMA, voluto dalla moglie di Rockefeller, la signora Abby Aldrich, assieme alle sue amiche Lillie Bliss e Mary Sullivan. Il primo direttore ne sarà Alfred Barr, un intellettuale di sottile capacità, lui che assieme a James Thrall Soby si darà alla prima redazione del catalogo delle opere metafisiche di de Chirico, ma che si interessa pure a tutte le avanguardie d’Europa da Cézanne in poi. A loro si devono gli arrivi dei miracolosi dipinti del doganiere Rousseau, quelli che andranno a pervertire le fantasie fino in fondo alle Americhe latine.
Il museo aprì al pubblico il 7 novembre 1929, nove giorni dopo il crollo di Wall Street, ed ebbe un successo immediato, forse per motivi lenitivi delle anime in pena. Il commento dell’opinione pubblica fu pari allo stupore d’una società abituata ancora alle estetiche perbeniste del tardo Impressionismo, come bene lo dimostrano le copertine delle riviste d’epoca: quella del “New Yorker” di Victor Bobritsky, scappato dalla Russia dopo la rivoluzione, e quella di “Vanity Fair” di Constantin Alajalov, anche lui fuggiasco russo. Si vede che agli esuli non piaceva l’arte di El Lissitzky, collaboratore dei bolscevichi.
È vero che così facendo gli illustratori non erano particolarmente d’avanguardia, perché a Parigi l’altro russo Sacha Zaliouk, che se n’era andato già negli anni Dieci come Bakst, per cercar successo nel disegno, dell’arte contemporanea sembrava avere la medesima opinione, così come faceva sempre a New York la signora Anne Harriet Fish che da Bristol in Inghilterra era approdata a Manhattan conservando tutto il suo sarcasmo britannico rétro.
Jean Pagès, Illustrazione per “Vogue”, marzo 1933, litografia a colori, Collezione privata
Alfred Kubin, Il perseguitato, 1900 ca., inchiostro su carta, cm 31x40, Vienna, Albertina
Alfred Kubin, Il muro del cimitero, 1902, inchiostro acquerellato su carta, cm 24,2x18,3, Linz, Schlossmuseum der Oberösterreichischen Landesmuseen
Un mondo si cancella per sempre. La prova più bella della trasformazione in corso viene dalla geniale superficialità di Benito, il cartellonista più di moda in quelli anni a Manhattan.
È evidente la mutazione da un’estetica ancora eccitata ed elegante proprio nella settimana del tracollo (copertina di “Vogue” del 26 ottobre, quindi disegnata una settimana prima), dove la borsa crolla definitivamente nel “martedì nero” del 1929, se si paragona l’elegante signora ancora tutta Art Déco con la preoccupata signorina che nel Natale del 1930 si trova in una posizione nella quale vige l’equivoco: è egli un signore cortese che le regala una collana o Arsène Lupin con la finta barba di Babbo Natale che le sottrae il gioiello? Comunque sia, la festa è finita. E ancora è una rivista a raccontarlo nel modo migliore, nell’emblematica copertina di “Vanity Fair” del 1933: il capitalista parla con il barbone e sono tutti e due di carta straccia, anzi sono la medesima persona, prima e dopo la cura.
La città ce la mette tutta per rilanciarsi, costruisce aeroporti, immagina l’avventura dei dirigibili. La loro visione onirica era cominciata all’inizio del secolo immaginando la città del futuro come in un disegno di Antonio Sant’Elia e facendo sognare un altro futurista che approdava dalla provincia italiana, il trentino Fortunato Depero; si concluse con la catastrofe del dirigibile von Hindenburg nel 1937. Preludio terribile quello, perché proveniva la macchina volante dalla Germania con la croce uncinata, e in quel medesimo 1937 si inaugurava a Parigi l’Expo del confronto delle potenze mondiali.
Barthel Gilles, Autoritratto con maschera antigas, 1930, tempera su tavola, cm 65x46, Aquisgrana, Suermondt-Ludwig-Museum
Otto Dix, Truppa d’assalto avanza sotto i gas, 1924, acquaforte, acquatinta e puntasecca, cm 34,8x47,3, New York, The Museum of Modern Art
Franz Sedlacek, Il chimico, 1932, olio su tela, cm 82,5x63, Vienna, Historisches Museum
Salvador Dalí, Ballerina in una testa di morto, 1932 o 1939, olio su tela, cm 97x76, Collezione privata
Charles Allan Gilbert, Tutto è vanità, 1892 ca., litografia in bianco e nero, cm 29x17,5, Collezione privata
Salvador Dalí, Senza titolo, 1942, olio su tela, cm 43x35,5, Collezione privata
La grande Expo di Barcellona del 1929 aveva segnato il momento della fiducia nella modernità, quella ben più magnificente parigina del 1937 manifestava tutti i segni dell’ansia. Nella Germania nazista del 1937, dove le leggi razziali erano in vigore già da quattro anni, si celebrava la prima mostra sull’arte degenerata. Nello stesso anno, a Mosca, l’ordine operativo n° 00447 del 31 luglio 1937 decreta di reprimere gli “elementi antisovietici e socialmente pericolosi”, dando inizio alle grandi purghe. Ežov dà ordine alla polizia segreta di fucilare 72.950 persone e di mandarne 193.000 nel GULag. Verrà lui stesso fucilato qualche anno dopo. Dal 1936 al 1938 si reputa che le esecuzioni siano state circa 750.000. In Spagna si combatte la guerra civile e a Guernica la legione aerea Condor della Luftwaffe nazista opera il bombardamento a tappeto il 26 aprile, un mese esatto prima dell’inaugurazione dell’Expo di Parigi.
E nell’Expo di Parigi di questo drammatico 1937, decisa prima degli inasprimenti politici della vecchia Europa, i due padiglioni dell’ansia si affronteranno, quello nazista e quello sovietico, in modo così palese che Max Ernst ne riprenderà la dialettica in un dipinto proprio del 1937, I barbari marciano verso Occidente, che contiene tutta l’angoscia di chi prevede che fra poco i barbari incominceranno a marciare verso l’Ovest del mondo: presenta due esseri diabolici, due uccelli del malaugurio che si fronteggiano. Il dado è tratto. I teschi torneranno di nuovo alla ribalta e popoleranno le fantasmagorie dell’immaginario.
Max Ernst, I barbari marciano verso Occidente, 1937, olio su carta montata su cartone, cm 24x33, Amburgo, Hamburger Kunsthalle
George Grosz, Wofür?, 1927, litografia in bianco e nero, cm 17x27,5, Norimberga, Germanisches Nationalmuseum
Francis Picabia, La rivoluzione spagnola, 1936-1937, olio su tela, cm 162x130, Collezione privata