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Il mio migliore amico è un avvocato
La prima volta è stato per diffamazione. Mi
hanno chiesto due milioni di euro. Non ci ho dormito per tre
giorni.
In Molise avevano fatto
una sperimentazione con un macchinario che obliterava le ricette
mediche. Dopo che avevi apposto le fustelle, la ricetta veniva
obliterata e non potevi più appiccicare niente. L’obiettivo era
sempre quello di evitare le truffe legate al defustellamento dei
farmaci.
E il macchinario
funzionava alla grande.
Solo che a un certo
punto avevano interrotto la sperimentazione e io ho cercato di fare
chiarezza, di capire per quale ragione. Da Federfarma mi è arrivata
una querela generica per diffamazione, non in merito a un passaggio
specifico del servizio o a qualcosa che avevo detto. Ero infuriata,
ero sicura di avere fatto tutto per bene, e impaurita, il mio conto
in banca non avrebbe mai retto l’impatto con una condanna di
risarcimento.
Sono andata dal capo
degli avvocati di Mediaset. Quando sono entrata nel suo ufficio mi
sono sentita stupida e piccola.
Lui ha alzato gli occhi
dalla risma di carte che aveva sul tavolo: «Dimmi,
Toffa».
Sono rimasta in piedi
davanti a lui: «Non riesco più a dormire».
Ha capito al volo:
«Siediti».
E mi ha indicato una
delle due sedie che stavano di fronte alla sua
scrivania.
«Devi imparare a fartene
una ragione.»
«E se
perdiamo?»
«Questo è il tuo lavoro.
O ci fai l’abitudine o non ne esci fuori. Se vai a scardinare cose
grosse ti quereleranno sempre, anche se tu non dici il falso e hai
messo in fila tutto giusto.»
Continuavo a guardarlo
un po’ smarrita.
«L’alternativa è
smetterla con le inchieste e fare servizi di altro
tipo.»
E in quel momento mi è
scattato qualcosa dentro, ho sentito con chiarezza che non avevo
alternative. Avrei continuato a fare quello per cui avevo faticato
tanto, la passione della mia vita.
Alla fine ho vinto
contro Federfarma, e ho vinto anche tutte le querele successive.
Significa che ho lavorato bene.
Quando mi invitano a parlare da qualche parte,
dico sempre: “Il mio migliore amico è l’avvocato”.
Ed è vero. Prima di ogni
chiusa lo chiamo e mi consulto su come affrontare gli argomenti,
sulle domande da porre, le parole da usare. Nelle chiuse non c’è
solo il brivido del confronto in sé e per sé, c’è anche un risvolto
legale che ti fa stare con le orecchie tese, e con le antenne
dritte. Insieme concordiamo un vocabolario e una
strategia.
Un servizio lo fai se
trovi il modo giusto di raccontarlo, al massimo di quello che si
può dire compatibilmente con tutti i documenti. Arrivi sempre al
limite del querelabile, ti spingi fino al confine nel rispetto
della legge e della persona. Più sei vicino al limite, meglio fai
il tuo lavoro.