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I bucaneve
«Cioè, è una merda, che cazzo è ’sta roba?»
Aveva i piedi sul tavolo, le scarpe da ginnastica e una maglietta bianca con il ponte di Brooklyn stampato sopra.
Mamma, che soggezione avevo.
«Tu sei buona per le televendite.»
Davide era spietato, ora si è ammorbidito, nove anni fa era capace di parlarti con una durezza a cui era difficile tenere testa.
Una sentenza del genere avrebbe potuto abbattermi completamente, detta da lui, poi, una persona che stimavo sopra le altre.
Sono uscita e mi sono detta: “Gliene porto un’altra”. Non era spirito di rivalsa, era che mi sentivo giusta per quel lavoro, sapevo che era il mio posto.
Ho lavorato tutta l’estate e a ottobre gliene ho portata una nuova. Anche quella era “una merda”, come la prima.
A marzo mi sono presentata di nuovo.
«Cioè, è inutile, non è il tuo mestiere.»
Ogni volta mi scoraggiava con motivazioni diverse e mi concedeva sempre meno tempo. Non ho mai tentennato, volevo spuntarla a ogni costo.
A giugno l’ho cercato ancora. Avevo preparato un servizio sugli alcol tester portatili che venivano dati in regalo coi settimanali. Volevo vedere se erano davvero attendibili. Per fare una prova comparativa avevo bisogno di quello ufficiale della polizia, avevo contattato la ditta produttrice per farmene prestare uno, ma non me lo volevano dare. Così avevo messo in piedi un cinema incredibile, dicendo che dovevo fare un provino per “Le Iene” e che ero a un soffio dal farmi prendere, alla fine per sfinimento me ne avevano dato uno. Avevo fatto ubriacare degli amici e poi li avevo testati con i due apparecchi, dimostrando che quelli dei giornali non funzionavano.
Questa volta avevo in tasca una cosa davvero forte. L’ho chiamato.
«Ancora tu?»
Oltre alla scocciatura percepivo un sottile divertimento, non perché provasse gusto a farmi soffrire, ma perché non mollavo e credo che la cosa gli piacesse.
«Stavolta ho una bomba, vedrai, è fortissima!»
«La redazione adesso è chiusa, sono tutti in vacanza.» Ha fatto una piccola pausa prima di dire: «Se vuoi, puoi venire a casa mia».
E mi ha dato il suo indirizzo. Non me lo sono fatto ripetere due volte, il giorno dopo mi sono presentata alla porta. Mi ricordo ancora com’ero vestita, avevo una maglia color corda, tribale, con una catenina attaccata, jeans larghi a pinocchietto e dei sandali di cuoio; a ripensarci ora sembravo scappata da una riserva indiana. Mi ha messo a tagliare i pomodori e mentre preparavamo il pranzo gli raccontavo dell’orto che avevo in montagna da mia nonna, dell’asina e le galline. E mi sembrava che gl’interessasse molto di più il mio lato agreste che la faccenda delle inchieste.
Alla fine del pranzo mi ha detto: «Va be’, vediamo ’sta merda».
Siamo andati in un ufficio dove c’era un computer. Ho preparato tutto e ho fatto partire il filmato.
Lo guardavo mentre le immagini scorrevano, era una sfinge. Alla fine ho spento e ho aspettato che dicesse qualcosa. Restava in silenzio e guardava il monitor nero.
Poi ha preso il telefono: «Ciao sono Davide, lo so che la sartoria è chiusa, però…».
Mentre parlava si è voltato verso di me e mi ha sussurrato: «Che taglia sei?».
Non ci volevo credere, ho esitato prima di rispondere: «Quaranta».
Stava parlando della mia divisa da Iena.
Quando ero piccola, passavamo il Natale in malga, dalla nonna. Capitava che i prati fossero tutti bianchi, immersi nel silenzio. Mi piaceva camminarci da sola e qualche volta, quando ero fortunata, mi imbattevo in una famiglia di bucaneve. Ogni volta mi meravigliavo di vederli lì, diritti, in grado di resistere al brutto tempo, alla poca luce, alle gelate più rigide. I loro boccioli, in apparenza fragili e piegati verso il basso, erano capaci di compiere un miracolo, fiorire in inverno.
Ogni volta che ripenso alla mia vita e a tutto quello che è successo, mi ricordo dei bucaneve, della loro audacia e del fatto che i miracoli accadono.