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L’inferno
A settembre mi hanno chiamata, la divisa era
pronta. Sono andata a ritirarla ed ero così emozionata che non sono
riuscita a indossarla subito, l’ho tenuta qualche giorno
nell’armadio, avvolta nella plastica. Poi una sera ero in casa da
sola e mi sono decisa. Quando ho finito di annodarmi la cravatta,
mi sono guardata nello specchio, ce l’avevo addosso finalmente, ero
io.
Carica come una molla,
ho ripreso in mano il servizio degli alcol tester e ho provato a
rigirarlo, ma non è andato in onda per un problema
legale.
Da lì
l’inferno.
Ai tempi, nella
redazione de “Le Iene” eri abbandonato a te stesso, nessuno ti
spiegava come o che cosa fare, ti dovevi arrangiare, perché gli
autori e i redattori erano pochi e l’olimpo degli inviati, Lucci,
Golia, Viviani, Nobile, doveva andare in onda sempre. Le ore di
programma da riempire erano due, non sei come adesso, e per
ritagliarti uno spazio dovevi avere una bomba, soprattutto se
arrivavi dal niente, come me. Allora, andare in onda era davvero
una conquista.
Mi hanno dato una
microcamera e mi hanno detto: «Vai».
E lì è stato chiaro che
dovevo guadagnarmi ogni singolo centimetro. Non avevo nessun autore
con me, nessun operatore, nessun infiltrato. Facevo tutto da sola,
m’infiltravo, scrivevo i pezzi, giravo. Una libertà e un vuoto
totale, a volte mi galvanizzava, a volte mi faceva sentire
completamente spersa.
Avevo mollato
ReteBrescia, perché un’occasione così volevo giocarmela fino in
fondo, e andavo avanti e indietro da Brescia a Milano, perché i
soldi per trasferirmi non li avevo. A “Le Iene” ti pagano a pezzo e
quindi finché non fossi andata in onda non avrei visto un soldo.
Avevo 5000 euro da parte e ho vissuto con quelli.
Le cose a casa non
giravano bene, il mio fidanzato dell’epoca vedeva che faticavo come
un somaro, i mesi passavano e non succedeva niente. In compenso io
non c’ero mai.
Ha cominciato a dire che
era un’impresa impossibile e che ormai ero ossessionata, era
diventata una fissazione e stavo perdendo il mio
tempo.
I fatti sembravano
dargli ragione, eppure dentro di me sapevo che non era vero. Non
era una fissazione: quando gli altri si fermano, io vado avanti.
Sono programmata in questo modo.
La notte, quando
rientravo a casa sulla Milano-Brescia, chiamavo mia madre al
telefono: «Mi fai compagnia mentre guido?».
«Certo,
tesoro.»
Aspettavo qualche minuto
prima di arrivare al dunque: «Mamma, dici che ce la
farò?».
«Datti tempo, le cose
importanti non esplodono all’improvviso.»
«E coi soldi come
faccio?»
«Aspetta ancora, non
avere fretta, se proprio dovessi essere in difficoltà ti passo io
qualcosa senza dirlo a nessuno. Poi, se tra un anno non è cambiato
niente vuol dire che non è la tua cosa e ce ne sarà un’altra che ti
aspetta dietro l’angolo.»
Mi sosteneva, mi
infondeva fiducia. Ogni tanto mi dice che ha sempre saputo che
prima o poi sarebbe successo qualcosa, perché vedeva in me le
qualità e anche una passione, una determinazione feroce. Doveva
solo arrivare il momento buono in cui tutto si sarebbe allineato,
lei ci ha sempre creduto, forse anche più di me.
È stato l’anno in cui ho
suonato tutti i campanelli e non mi voleva nessuno, può capitare a
chiunque nella vita di provare questa sensazione. Ero pronta ad
accettare di rimanere fuori, ma non senza essere sicura di averle
provate tutte. Per un anno intero non è successo niente, a volte mi
scappava qualche lacrima, ma la mattina successiva ero già in
autostrada.
Non avevo le carte in
regola per diventare una Iena, ero una donna, non troppo
appariscente, non avevo un curriculum di prestigio, non avevo avuto
nessun vero maestro che mi insegnasse il mestiere. Avevo solo una
straordinaria capacità di resistere e attendere, ero forgiata per
questo. Mi sentivo come un fiume largo, sulla superficie potevo
essere increspata dal vento ed esposta a tutte le correnti, nelle
profondità scorrevo calma e imperturbabile.
A febbraio ho mosso un
passo, è andato in onda un servizio di due minuti sulla
TIA, una tassa
sui rifiuti che poi è stata dichiarata incostituzionale. È stata
una cosa piccola, ma mi ha dato coraggio e un po’ di respiro con i
soldi.
La prima vera bomba è
arrivata più tardi, a maggio, quando sono incappata in qualcosa di
bizzarro. Grazie alla mia fisicità sottile e acerba sono riuscita a
infiltrarmi in un gruppo di ragazzini “emo”, in gran parte
minorenni. Con loro ero entrata a feste private dentro alcuni
locali, dove facevano sesso, a volte anche con adulti.
Sentivo di avere in mano
una storia forte, mi sono fatta coraggio e ne ho parlato con uno
degli autori senior, mostrandogli alcune immagini che avevo girato
con la telecamera nascosta.
Alla fine dei video mi
ha detto: «Lascia perdere, il pezzo non c’è e in più sono
minorenni, avremo di sicuro problemi legali».
Non ci ho dormito due
notti e alla fine ho deciso di seguire l’istinto, il pezzo c’era e
sarei andata avanti comunque. Ho continuato a girare per tutto
giugno e d’estate mi sono premontato il servizio da sola in modo
rudimentale, in analogico, come avevo imparato a fare a
ReteBrescia.
A settembre avevo in
mano qualcosa di più strutturato e sono andata da un autore nuovo,
giovane: «Matteo, senti, io ho questa roba, cosa ne
dici?».
Lui l’ha guardato tutto
dall’inizio alla fine, poi mi ha detto: «È
fortissimo».
Bingo! Avevo trovato
qualcuno che credeva nel pezzo e mi avrebbe aiutato a sistemarlo. E
così è stato. Il servizio era già tutto girato, lui l’ha montato in
modo accurato, ha messo le musiche, le grafiche, ha trovato un
titolo, insomma me l’ha impacchettato tutto per bene. E poi
l’abbiamo portato a Davide. Era fine settembre 2010.
Durante la messa in onda, mentre il servizio
veniva proiettato nello studio con tutto il pubblico seduto, non ce
l’ho fatta, me ne sono andata prima che finisse, avevo paura
dell’applauso delle persone, di un’emozione così forte che avrebbe
potuto travolgermi. Sono scappata in regia e quando Davide mi ha
visto ha detto a tutti: «Questo è il primo servizio della
Toffa!».
Se chiudo gli occhi
riesco a vederli ancora tutti lì, in piedi che mi sorridono e mi
battono le mani.
Quando ti sei guadagnato
una cosa non te la scordi più. A me è sempre piaciuto guadagnarmi
le cose. È come vincere una gara quando ti sei allenato oppure
passare un esame dopo che hai studiato, non hai fregato nessuno,
non sei stato furbo. Certo, c’è anche la fortuna, una magica
coincidenza di tanti fattori, però l’impegno per me è stato sempre
tutto, una sorta di profondo rispetto per il lavoro, lo sforzo. Con
le cose che mi appassionano non mi risparmio. Se prendo in mano un
tema è perché lo sento al cento per cento. È vero che poi guadagno
anche, però non sono i soldi o la popolarità a farmi scatenare, è
il desiderio di dar voce a qualcosa o qualcuno.
Mi ha insegnato tanto lo
sport agonistico, la ginnastica artistica. Ti rendi conto dei tuoi
limiti, di dove puoi arrivare e di quanto conta l’impegno per
farlo.
Una sera sono stata alla
Scala a vedere un balletto e di fronte ai corpi allenati e pieni di
energia dei danzatori ho pensato: “Questi puntano alla perfezione,
puntano a fare il meglio di se stessi”. Ho immaginato la fatica
quotidiana, la devozione alla disciplina che si sono scelti. Alla
fine ognuno di noi ha la sua chiamata e di ogni cosa, nella vita,
si può tentare di farne il meglio che si può.