16
L’inferno
A settembre mi hanno chiamata, la divisa era pronta. Sono andata a ritirarla ed ero così emozionata che non sono riuscita a indossarla subito, l’ho tenuta qualche giorno nell’armadio, avvolta nella plastica. Poi una sera ero in casa da sola e mi sono decisa. Quando ho finito di annodarmi la cravatta, mi sono guardata nello specchio, ce l’avevo addosso finalmente, ero io.
Carica come una molla, ho ripreso in mano il servizio degli alcol tester e ho provato a rigirarlo, ma non è andato in onda per un problema legale.
Da lì l’inferno.
Ai tempi, nella redazione de “Le Iene” eri abbandonato a te stesso, nessuno ti spiegava come o che cosa fare, ti dovevi arrangiare, perché gli autori e i redattori erano pochi e l’olimpo degli inviati, Lucci, Golia, Viviani, Nobile, doveva andare in onda sempre. Le ore di programma da riempire erano due, non sei come adesso, e per ritagliarti uno spazio dovevi avere una bomba, soprattutto se arrivavi dal niente, come me. Allora, andare in onda era davvero una conquista.
Mi hanno dato una microcamera e mi hanno detto: «Vai».
E lì è stato chiaro che dovevo guadagnarmi ogni singolo centimetro. Non avevo nessun autore con me, nessun operatore, nessun infiltrato. Facevo tutto da sola, m’infiltravo, scrivevo i pezzi, giravo. Una libertà e un vuoto totale, a volte mi galvanizzava, a volte mi faceva sentire completamente spersa.
Avevo mollato ReteBrescia, perché un’occasione così volevo giocarmela fino in fondo, e andavo avanti e indietro da Brescia a Milano, perché i soldi per trasferirmi non li avevo. A “Le Iene” ti pagano a pezzo e quindi finché non fossi andata in onda non avrei visto un soldo. Avevo 5000 euro da parte e ho vissuto con quelli.
Le cose a casa non giravano bene, il mio fidanzato dell’epoca vedeva che faticavo come un somaro, i mesi passavano e non succedeva niente. In compenso io non c’ero mai.
Ha cominciato a dire che era un’impresa impossibile e che ormai ero ossessionata, era diventata una fissazione e stavo perdendo il mio tempo.
I fatti sembravano dargli ragione, eppure dentro di me sapevo che non era vero. Non era una fissazione: quando gli altri si fermano, io vado avanti. Sono programmata in questo modo.
La notte, quando rientravo a casa sulla Milano-Brescia, chiamavo mia madre al telefono: «Mi fai compagnia mentre guido?».
«Certo, tesoro.»
Aspettavo qualche minuto prima di arrivare al dunque: «Mamma, dici che ce la farò?».
«Datti tempo, le cose importanti non esplodono all’improvviso.»
«E coi soldi come faccio?»
«Aspetta ancora, non avere fretta, se proprio dovessi essere in difficoltà ti passo io qualcosa senza dirlo a nessuno. Poi, se tra un anno non è cambiato niente vuol dire che non è la tua cosa e ce ne sarà un’altra che ti aspetta dietro l’angolo.»
Mi sosteneva, mi infondeva fiducia. Ogni tanto mi dice che ha sempre saputo che prima o poi sarebbe successo qualcosa, perché vedeva in me le qualità e anche una passione, una determinazione feroce. Doveva solo arrivare il momento buono in cui tutto si sarebbe allineato, lei ci ha sempre creduto, forse anche più di me.
È stato l’anno in cui ho suonato tutti i campanelli e non mi voleva nessuno, può capitare a chiunque nella vita di provare questa sensazione. Ero pronta ad accettare di rimanere fuori, ma non senza essere sicura di averle provate tutte. Per un anno intero non è successo niente, a volte mi scappava qualche lacrima, ma la mattina successiva ero già in autostrada.
Non avevo le carte in regola per diventare una Iena, ero una donna, non troppo appariscente, non avevo un curriculum di prestigio, non avevo avuto nessun vero maestro che mi insegnasse il mestiere. Avevo solo una straordinaria capacità di resistere e attendere, ero forgiata per questo. Mi sentivo come un fiume largo, sulla superficie potevo essere increspata dal vento ed esposta a tutte le correnti, nelle profondità scorrevo calma e imperturbabile.
A febbraio ho mosso un passo, è andato in onda un servizio di due minuti sulla TIA, una tassa sui rifiuti che poi è stata dichiarata incostituzionale. È stata una cosa piccola, ma mi ha dato coraggio e un po’ di respiro con i soldi.
La prima vera bomba è arrivata più tardi, a maggio, quando sono incappata in qualcosa di bizzarro. Grazie alla mia fisicità sottile e acerba sono riuscita a infiltrarmi in un gruppo di ragazzini “emo”, in gran parte minorenni. Con loro ero entrata a feste private dentro alcuni locali, dove facevano sesso, a volte anche con adulti.
Sentivo di avere in mano una storia forte, mi sono fatta coraggio e ne ho parlato con uno degli autori senior, mostrandogli alcune immagini che avevo girato con la telecamera nascosta.
Alla fine dei video mi ha detto: «Lascia perdere, il pezzo non c’è e in più sono minorenni, avremo di sicuro problemi legali».
Non ci ho dormito due notti e alla fine ho deciso di seguire l’istinto, il pezzo c’era e sarei andata avanti comunque. Ho continuato a girare per tutto giugno e d’estate mi sono premontato il servizio da sola in modo rudimentale, in analogico, come avevo imparato a fare a ReteBrescia.
A settembre avevo in mano qualcosa di più strutturato e sono andata da un autore nuovo, giovane: «Matteo, senti, io ho questa roba, cosa ne dici?».
Lui l’ha guardato tutto dall’inizio alla fine, poi mi ha detto: «È fortissimo».
Bingo! Avevo trovato qualcuno che credeva nel pezzo e mi avrebbe aiutato a sistemarlo. E così è stato. Il servizio era già tutto girato, lui l’ha montato in modo accurato, ha messo le musiche, le grafiche, ha trovato un titolo, insomma me l’ha impacchettato tutto per bene. E poi l’abbiamo portato a Davide. Era fine settembre 2010.
Durante la messa in onda, mentre il servizio veniva proiettato nello studio con tutto il pubblico seduto, non ce l’ho fatta, me ne sono andata prima che finisse, avevo paura dell’applauso delle persone, di un’emozione così forte che avrebbe potuto travolgermi. Sono scappata in regia e quando Davide mi ha visto ha detto a tutti: «Questo è il primo servizio della Toffa!».
Se chiudo gli occhi riesco a vederli ancora tutti lì, in piedi che mi sorridono e mi battono le mani.
Quando ti sei guadagnato una cosa non te la scordi più. A me è sempre piaciuto guadagnarmi le cose. È come vincere una gara quando ti sei allenato oppure passare un esame dopo che hai studiato, non hai fregato nessuno, non sei stato furbo. Certo, c’è anche la fortuna, una magica coincidenza di tanti fattori, però l’impegno per me è stato sempre tutto, una sorta di profondo rispetto per il lavoro, lo sforzo. Con le cose che mi appassionano non mi risparmio. Se prendo in mano un tema è perché lo sento al cento per cento. È vero che poi guadagno anche, però non sono i soldi o la popolarità a farmi scatenare, è il desiderio di dar voce a qualcosa o qualcuno.
Mi ha insegnato tanto lo sport agonistico, la ginnastica artistica. Ti rendi conto dei tuoi limiti, di dove puoi arrivare e di quanto conta l’impegno per farlo.
Una sera sono stata alla Scala a vedere un balletto e di fronte ai corpi allenati e pieni di energia dei danzatori ho pensato: “Questi puntano alla perfezione, puntano a fare il meglio di se stessi”. Ho immaginato la fatica quotidiana, la devozione alla disciplina che si sono scelti. Alla fine ognuno di noi ha la sua chiamata e di ogni cosa, nella vita, si può tentare di farne il meglio che si può.