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Le volte in cui mi hanno mollato
PARTE 1
Ci sono persone che si danno facilmente, io
non sono così, davvero pochi conoscono le mie fragilità. Non mostro
mai il fianco. Affronto le persone di petto, vado in fondo alle
cose, non mi arrendo, ma difendo con uno scudo impenetrabile i miei
punti vulnerabili. Ci ho riflettuto molto negli anni e credo che
faccia parte della mia natura, penso però che anche alcune
esperienze abbiano contribuito a rendermi parecchio
diffidente.
Una sera sono tornata a
casa dall’allenamento con le gambe ricoperte da manate rosse, si
vedevano chiaramente le impronte delle dita. Mia madre le ha viste:
«Cosa ti è successo, tesoro?».
Non sapevo cosa dirle.
Con la trave avevo sempre avuto un blocco, non mi riusciva la
ribaltata indietro, avevo paura. Facevo tutto il resto, ma quella
no. Quel giorno l’allenatore mi aveva detto: «Falla, ti tengo
io».
Mi sono fidata e mi sono
lanciata. Nel momento in cui ho girato la testa indietro ho visto
che lui non c’era, non era lì accanto, pronto a prendermi. Sono
caduta e mi sono messa a piangere. Non piangevo perché mi ero fatta
male, piangevo perché lui era il mio maestro, gli avevo creduto e
aveva mancato di parola.
«Cosa ti è successo,
tesoro? Puoi dirlo alla mamma.»
Me ne sono stata zitta,
sentivo le lacrime spuntarmi dagli occhi e non volevo piangere. Le
ho ricacciate giù da dove erano arrivate, ma mia madre non aveva
bisogno delle mie parole per capire.
Il giorno dopo è andata
in palestra al posto mio: «Nadia qui non viene più. Hai perso una
grande atleta per colpa tua. Quelli non sono i modi, non con le
botte».
Non mi sono opposta alla
sua decisione, anche se non erano stati gli schiaffi a togliermi la
voglia, sapevo che erano un modo di indurirci, di prepararci a
competere.
È stato quello che
l’allenatore non ha fatto, a segnarmi: è mancato nel momento in cui avevo
bisogno di lui.
Ogni tanto mia madre mi dice che sono una
ragazza dolce.
«Mamma, ma dove la vedi
in me la dolcezza?» le ho chiesto.
«Basta che guardi il
servizio in cui intervisti le ragazze violentate che sono riuscite
a scappare dall’Isis, i bambini addestrati alla guerra. Il modo in
cui parli, come li guardi. I tuoi occhi hanno una dolcezza che non
ho mai visto in nessun altro.»
Ho ripensato al momento
in cui mi sono ritrovata di fronte a loro, alla dignità e al dolore
con cui mi hanno raccontato le loro storie, e ho ricordato quello
che ho provato, la rabbia mescolata a una profonda
tenerezza.
Per tanti anni ho
nascosto il mio lato dolce, perché credevo che mi potesse
indebolire, e la corazza mi è servita, mi ha reso forte, mi ha
portato lontano a raggiungere dei risultati importanti. Ma è stato
anche il mio tallone d’Achille, perché per qualche momento ho
pensato di essere una persona invincibile, che si schiera, difende,
combatte e che non soffre, non ha paura.
La malattia, il dover
stare a casa per così tanto tempo, l’avere bisogno di aiuto, mi
hanno costretta a riprendere contatto con la mia parte più tenera e
indifesa, quella più umana. Era come se mi fossi dimenticata che la
fragilità non è una debolezza, ma è la condizione dell’essere umano
ed è proprio lei che ci protegge, perché ci fa ascoltare quello che
proviamo, quello che siamo, nel corpo e nel cuore.