Salvarsi da soli
L’articolo di Sergio Quinzio, pubblicato su La Stampa dell’11 febbraio 1989, «Il pettine di Dio», mi ha sollecitato e insieme sconcertato.
L’articolo ci pone sotto gli occhi in tutta la sua drammaticità il tema della tecnica che sembra ormai sfuggita al controllo dell’uomo, apprendista stregone. Il tema è heideggeriano. Anzi è il tema diventato heideggeriano per eccellenza. Riassumendo: i problemi connessi alla sopravvivenza dell’uomo sulla Terra sono sempre più numerosi, sempre più gravi e, quel che è minaccioso, senza precedenti. Come tali, apparentemente senza soluzioni.
Le ragioni per cui sembra non vi siano soluzioni sono, sempre riassumendo, queste:
1) i problemi sono così interconnessi che non se ne può risolvere uno senza sollevarne un altro;
2) non vi è alcun accordo sui possibili rimedi sì che stiamo smarrendoci in un generale disorientamento;
3) la dimensione dei problemi è tale che la soluzione di uno solo di essi è soltanto una goccia nel mare.
E allora? Queste considerazioni sono una ulteriore conferma che la fiducia nel progresso inarrestabile, che aveva ispirato per secoli le filosofie della storia dell’Occidente, è esaurita. Questa fiducia riposava sull’idea che i mali di cui aveva sofferto l’umanità avrebbero trovato il loro rimedio nella forza delle cose: la guerra attraverso il commercio e il libero scambio, travolto lo spirito di conquista dallo spirito degli affari; la miseria, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, tanto nella versione capitalistica quanto in quella contraria; le malattie attraverso lo sviluppo delle scienze biologiche e della medicina. Oppure in un grande moto rivoluzionario che avrebbe sconvolto il modo tradizionale di produrre e governare: anche Marx aveva evocato l’immagine dell’apprendista stregone a proposito della borghesia trionfante, ma aveva visto la soluzione nella rivoluzione degli espropriati contro gli espropriatori.
La fiducia nel progresso si è infranta, da un lato, contro le due guerre mondiali, contro l’accrescersi delle diseguaglianze tra paesi sempre più ricchi e paesi sempre più poveri, contro l’uso a fin di male della scienza e della tecnica, dall’altro, contro il fallimento (qualcuno ha parlato di «suicidio») della rivoluzione.
Venuta meno, per usare le parole stesse di Quinzio, la fede di chi «vede nello sviluppo delle scienze e della tecnica una specie di lancia d’Apollo, capace, insieme, di ferire e di guarire», abbiamo cominciato a porci il problema dei «limiti» dello sviluppo. Vorrei almeno ricordare il libro postumo di Aurelio Peccei, uno dei fondatori del Club di Roma, intitolato Campanello d’allarme per il XXI secolo.1 Il libro è guidato dall’idea che l’ipotesi di un progresso all’infinito urta contro la realtà dell’universo finito in cui l’uomo si trova a vivere, dilatabile quanto si vuole attraverso la conquista dello spazio e lo sfruttamento appena cominciato del fondo del mare, ma pur sempre finito.
Sin qui sono perfettamente d’accordo con Quinzio. Ma quando si passa dalla diagnosi ai rimedi, finisce la sollecitazione e comincia lo sconcerto. Riprendendo la celeberrima affermazione fatta da Heidegger nell’ultima intervista, pubblicata postuma sulla rivista Der Spiegel,2 Quinzio afferma di essersi convinto che l’unica soluzione è quella di chi pensa che «ormai solo un Dio ci può salvare». Sin da quando questa frase fu resa nota, mi sono chiesto se non fosse più consono all’essenza della filosofia il «silenzio» di Wittgenstein quando la risposta, come quella di Heidegger, è vaga e banale. Non si aveva il diritto di aspettarsi qualche cosa di più di questa rassegnata invocazione dell’afflitto, dell’umiliato, di colui che non sa darsi pace delle proprie tribolazioni, da parte del più grande, e per chi non lo considera il più grande, del più influente, filosofo di questo secolo?
La stessa domanda mi ripropongo ora. È una domanda, sia ben chiaro, che pongo prima di tutto a me stesso, alla mia invincibile, anche di fronte a tanto autorevole sentenza, incredulità. Anzitutto: perché «un Dio» (ein Gott), e non Dio? A chi dice «un Dio», è inevitabile che la nostra, pur limitatissima, facoltà di ragionare ponga subito una prima domanda: «Quale?». Segue immediatamente dopo una domanda che ci viene suggerita dalla nostra esperienza storica, anch’essa limitata, ma è l’unica che abbiamo per dare risposte sensate: «Quando mai un Dio ha salvato il mondo?». Cristo è venuto per il credente a salvare l’uomo dal peccato e dalla morte terrena, non per salvare il mondo, che non era il suo regno, il mondo con i suoi splendori (il cielo stellato di cui parlava Kant), e con i suoi errori (i terremoti che inghiottiscono intere città, la bufera che abbatte indifferentemente piante e case). Lungo tutta la storia che conosciamo, e per quel che sinora sappiamo, l’uomo si è salvato, quando si è salvato, e si è dannato, quando si è dannato, da solo. Chi lo ha salvato dalla peste? Chi lo ha condannato a sterminare i propri simili nelle lontane Americhe e nella vicinissima, anche nel tempo, Germania?
Mi si potrebbe obiettare: «Non puoi trarre da quel che è accaduto argomenti plausibili per giudicare di quel che avverrà o potrebbe avvenire. Non puoi escludere la speranza».
Non la escludo, non avendo, fra l’altro, alcuna certezza del futuro. Non ho però la minima incertezza nel pensare che affidarsi soltanto alla speranza, a una speranza di cui non abbiamo alcun segno premonitore anche in una storia profetica dell’umanità, come quella che aveva in mente Kant, può indurre alla rassegnazione, all’attesa inerte, a non tentare neppure di fare, come lo stesso Quinzio ammetteva «quel poco che si può e dove si può».
Infine, anche sospendendo il giudizio sul «se», non posso evitare di lasciare affiorare alla mia mente una domanda ancora più inquietante: «Perché?». Perché un Dio dovrebbe salvare il mondo? Perché? Nell’universo degli infiniti mondi, chi siamo noi? Quali meriti abbiamo? Siamo tanto intelligenti da capire il male, ma insieme tanto stupidi da non riuscire a trovare da noi stessi il rimedio. Perché dovrebbe salvarci chi non è responsabile delle nostre sventure?3
Quinzio terminava citando l’apologo di Kierkegaard, secondo cui «il mondo perirà tra il divertimento universale della gente di spirito». Anch’io ho la mia citazione: «Noi corriamo spensierati verso l’abisso dopo esserci messi dinanzi agli occhi qualcosa che ci impedisce di vederlo» (Pascal, Pensieri, 367). Ma non è forse un segno di questa «spensieratezza», ripetere con Heidegger: «Solo un Dio…?».
1 A. Peccei, I. Daisaku, Campanello d’allarme per il XXI secolo, Bompiani, Milano 1985.
2 M. Heidegger, «Ormai solo un Dio ci può salvare», intervista con lo Spiegel, Guanda, Milano 1987.
3 In un articolo, «Formaggio e diritti umani», Salman Rushdie ha scritto: «Non ci sono più dèi ad aiutarci. Siamo soli. Oppure, per dirla in altro modo, siamo liberi. La deriva del divino ci mette al centro della scena dove costruire la nostra morale e le nostre comunità, dove compiere le nostre scelte e agire secondo i nostri princìpi. Una volta di più, nell’alba dell’idea di Europa troviamo un’enfasi sull’umano. Gli dèi possono andare e venire ma noi andiamo avanti all’infinito. Per me, questa enfasi umanistica è uno degli aspetti più attraenti del pensiero europeo» (La Stampa, 5 febbraio 1996).