Etica e politica
Come si pone il problema
I discorsi sempre più frequenti che si fanno da qualche anno nel nostro paese sulla questione morale ripropongono il vecchio tema del rapporto fra morale e politica. Vecchio tema e sempre nuovo, perché non vi è questione morale in qualsiasi campo venga proposta che abbia trovato una soluzione definitiva. Sebbene più celebre per l’antichità del dibattito, l’autorità degli scrittori che vi hanno partecipato, la varietà degli argomenti addotti, l’importanza del soggetto, il problema del rapporto fra morale e politica non è diverso dal problema del rapporto fra la morale e tutte le altre attività dell’uomo, che ci induce a parlare abitualmente di un’etica dei rapporti economici, o, com’è accaduto spesso in questi anni, del mercato, di un’etica sessuale, di un’etica medica, di un’etica sportiva e via dicendo. Si tratta in tutte queste diverse sfere dell’attività umana sempre dello stesso problema: la distinzione fra ciò che è moralmente lecito e ciò che è moralmente illecito.
Il problema dei rapporti fra etica e politica è più grave perché l’esperienza storica ha mostrato, almeno sin dal contrasto che contrappose Antigone a Creonte, e il senso comune sembra pacificamente aver accettato, che l’uomo politico può comportarsi in modo difforme dalla morale comune, che un atto illecito in morale può essere considerato e apprezzato come lecito in politica, insomma che la politica ubbidisce a un codice di regole, o sistema normativo, differente da, e in parte incompatibile con, il codice, o il sistema normativo, della condotta morale. Quando Machiavelli attribuisce a Cosimo de’ Medici (e sembra approvare) il detto che gli stati non si governano coi pater noster in mano, mostra di ritenere, e dà per ammesso, che l’uomo politico non possa svolgere la propria azione seguendo i precetti della morale dominante, che in una società cristiana coincide con la morale evangelica. Per venire ai giorni nostri, in un ben noto dramma, Les mains sales, Jean-Paul Sartre sostiene, o meglio fa sostenere a uno dei suoi personaggi, la tesi che chi svolge un’attività politica non può fare a meno di sporcarsi le mani (di fango o anche di sangue).
Per quanto, dunque, la questione morale si ponga in tutti i campi della condotta umana, quando viene posta nella sfera della politica assume un carattere particolarissimo. In tutti gli altri campi, la questione morale consiste nel discutere quale sia la condotta moralmente lecita e, viceversa, quale sia illecita, e per avventura, in una morale non rigoristica, quale sia indifferente, nei rapporti economici, sessuali, sportivi, tra medico e malato, tra maestro e scolaro, e così via. La discussione verte su quali siano i princìpi o le regole che rispettivamente gli imprenditori o i commercianti, gli amanti o i coniugi, i giocatori di poker o di calcio, i medici e i chirurghi, gli insegnanti, debbano seguire nell’esercizio delle loro attività. Ciò che non è generalmente in discussione è la questione morale stessa, ovvero che vi sia una questione morale, che in altre parole sia plausibile porsi il problema della moralità delle rispettive condotte. Prendiamo, per esempio, il campo, in cui da anni ferve tra moralisti un dibattito particolarmente vivace, dell’etica medica e più in generale della bioetica: la discussione è animatissima per quel che riguarda la liceità o l’illiceità di certi atti, ma a nessuno viene in mente di negare il problema stesso, cioè che nell’esercizio dell’attività medica sorgano problemi che tutti coloro che ne trattano sono abituati a considerare morali, e nel considerarli tali s’intendono perfettamente fra di loro, anche se non s’intendono su quali siano i princìpi o le regole da osservare e applicare. Non diversamente accade nella disputa corrente sulla moralità del mercato.1 Solo là dove si sostenga che il mercato come tale, in quanto è un meccanismo razionalmente perfetto, se pure di una razionalità spontanea e non riflessa, non può essere sottoposto ad alcuna valutazione d’ordine morale, il problema viene posto in modo simile a quello in cui si è posto tradizionalmente il problema morale in politica. Se pure con questa differenza: anche nelle valutazioni moralmente più spregiudicate del mercato non si arriverà mai a sostenere consapevolmente e ragionatamente l’immoralità del mercato ma al massimo la sua premoralità, o amoralità, ovvero non tanto la sua incompatibilità con la morale quanto la sua estraneità a ogni valutazione d’ordine morale. L’amico a oltranza del mercato non ha alcun bisogno di affermare che il mercato non si governa coi pater noster. Se mai afferma che non si governa affatto.
Naturalmente il problema dei rapporti fra morale e politica ha senso soltanto se si è d’accordo nel ritenere che esista una morale e se si accettano in linea di massima alcuni precetti che la caratterizzano. Per essere d’accordo sull’esistenza della morale e su alcuni precetti generalissimi, negativi come neminem laedere, positivi come suum cuique tribuere, non vi è bisogno di essere d’accordo sul loro fondamento, che è il tema filosofico per eccellenza su cui si sono sempre divise, e continueranno a dividersi, le scuole filosofiche. Il rapporto fra etiche e teorie dell’etica è molto complesso, e possiamo qui limitarci a dire che il disaccordo sui fondamenti non pregiudica l’accordo sulle regole fondamentali.
Se mai occorre precisare che, quando si parla di morale in rapporto alla politica, ci si riferisce alla morale sociale e non a quella individuale, alla morale cioè che riguarda azioni di un individuo che interferiscono con la sfera di attività di altri individui e non a quella che riguarda azioni relative, per esempio, al perfezionamento della propria personalità, indipendentemente dalle conseguenze che il perseguimento di questo ideale di perfezione possa avere per gli altri. L’etica tradizionale ha sempre distinto i doveri verso gli altri dai doveri verso se stessi. Nel dibattito sul problema della morale in politica vengono in questione esclusivamente i doveri verso gli altri.
L’azione politica è sottoponibile al giudizio morale?
A differenza degli altri campi della condotta umana, nella sfera della politica il problema che è stato posto tradizionalmente non riguarda tanto quali siano le azioni moralmente lecite e quali illecite, ma se abbia un qualche senso porsi il problema della liceità o illiceità morale delle azioni politiche. Per fare un esempio che serve a far capire la differenza meglio che una lunga dissertazione: non c’è sistema morale che non contenga precetti volti a impedire l’uso della violenza e della frode. Le due principali categorie di reati previste nei nostri codici penali sono i reati di violenza e di frode. In un celebre capitolo del Principe Machiavelli sostiene che il buon politico deve conoscere bene le arti del leone e della volpe. Ma il leone e la volpe sono il simbolo della forza e dell’astuzia.
Nei tempi moderni il più machiavellico degli scrittori politici, Vilfredo Pareto, e tra i machiavellici annoverato in un noto libro, recentemente rimesso in circolazione,2 sostiene tranquillamente che i politici sono di due categorie, quelli in cui prevale l’istinto della persistenza degli aggregati, e sono i machiavellici leoni, e quelli in cui prevale l’istinto delle combinazioni, e sono le machiavelliche volpi. In una celebre pagina, Croce, ammiratore di Machiavelli e di Marx per la loro concezione realistica della politica, svolge il tema dell’«onestà politica», cominciando il discorso con queste parole che non hanno bisogno di commento: «Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica». Dopo aver detto che si tratta dell’ideale che canta nell’animo di tutti gl’imbecilli spiega che «l’onestà politica non è altro che la capacità politica».3 La quale, aggiungiamo noi, è quella che Machiavelli chiamava «virtù», che, come tutti sanno, non ha niente a che vedere con la virtù di cui si parla nei trattati di morale, a cominciare dall’Etica nicomachea di Aristotele.
Da questi esempi, che si potrebbero moltiplicare, sembrerebbe non potersi trarre altra conclusione che quella della impossibilità di porre il problema dei rapporti tra morale e politica negli stessi termini in cui si pone nelle altre sfere della condotta umana. Non già che non vi siano state teorie che hanno sostenuto la tesi contraria, la tesi cioè che anche la politica sottostà, o meglio deve sottostare, alla legge morale, ma non hanno mai potuto affermarsi con argomenti molto convincenti e sono state considerate tanto nobili quanto inutili.
Il tema della giustificazione
Più che alla argomentazione, destinata ad avere scarsa forza persuasiva circa la moralità della politica, la maggior parte degli autori che si sono occupati della questione hanno preso atto della lezione della storia e dell’esperienza comune, dalla quale si trae l’insegnamento del divario fra morale comune e condotta politica, e hanno rivolto la loro attenzione a cercare di capire e, in ultima istanza, di giustificare questa divergenza. Ritengo si possa riassumere tutta, o per lo meno gran parte, della storia del pensiero politico moderno nella ricerca di una soluzione del problema morale in politica interpretandola come una serie di tentativi di dare una giustificazione del fatto, di per se stesso scandaloso, del contrasto evidente tra morale comune e morale politica. Quando assumono di fronte al problema questo atteggiamento, gli scrittori politici non si propongono di prescrivere quello che il politico deve fare. Abbandonano il campo della precettistica e si pongono su un terreno diverso, quello della comprensione del fenomeno. Accogliendo la distinzione oggi corrente tra etica e meta-etica, la maggior parte delle disquisizioni sulla moralità della politica, di cui è ricca la filosofia politica dell’età moderna, sono prevalentemente di meta-etica, anche se non si possono escludere riflessi secondari, non sempre intenzionali, in etica.
Parlo a ragion veduta di «giustificazione». La condotta che ha bisogno di essere giustificata è quella non conforme alle regole. Non si giustifica l’osservanza della norma, cioè la condotta morale. L’esigenza della giustificazione nasce quando l’atto viola o sembra violare le regole sociali generalmente accettate, non importa se morali, giuridiche o del costume. Non si giustifica l’obbedienza ma, se si ritiene che abbia un qualche valore morale, la disobbedienza. Non si giustifica la presenza a una riunione obbligatoria, ma l’assenza. In generale, non v’è alcun bisogno di giustificare l’atto regolare o normale, bensì è necessario dare una giustificazione, se lo si vuole salvare, dell’atto che pecca per eccesso o per difetto. Nessuno chiede una giustificazione dell’atto della madre che si getta nel fiume per salvare il figlio che sta per annegare. Ma si pretende una giustificazione se non lo fa. Uno dei più grandi problemi teologici e metafisici, il problema della teodicea, nasce dalla constatazione del male nel mondo e nella storia. Candide non si arrovella per giustificare l’esistenza del migliore dei mondi possibile: il suo compito è se mai quello di dare una spiegazione o una dimostrazione del fatto che il mondo è così e non in altro modo.
Premetto che di fronte alla vastità del tema mi sono proposto un compito molto modesto. Ho pensato che potesse essere di qualche utilità presentare, a guisa d’introduzione, una «mappa» delle diverse e opposte soluzioni che storicamente sono state date al problema del rapporto tra etica e politica.
Si tratta di una mappa certamente incompleta e imperfetta, perché è soggetta alla possibilità di un duplice errore: rispetto alla classificazione dei tipi di soluzione e rispetto all’inquadramento delle diverse soluzioni in questo o quel tipo. Il primo errore è di natura concettuale, il secondo di interpretazione storica. Si tratta dunque di una mappa che è certamente da rivedere con ulteriori osservazioni. Ma intanto credo sia in grado di offrire almeno un primo orientamento a chi, prima di avventurarsi su un terreno poco noto, voglia conoscere tutte le vie che lo percorrono.
Tutti gli esempi sono tratti dalla filosofia politica moderna, da Machiavelli in poi. È vero che la grande filosofia politica nasce in Grecia, ma la discussione del problema dei rapporti tra etica e politica diventa particolarmente acuta con la formazione dello stato moderno, e riceve per la prima volta un nome che non l’abbandona più: «ragion di stato».
Per quale motivo? Adduco qualche ragione, sia pure con molta cautela. Il dualismo tra etica e politica è uno degli aspetti del grande contrasto tra Chiesa e Stato, un dualismo che non poteva nascere se non con la contrapposizione tra un’istituzione la cui missione è quella di insegnare, predicare, raccomandare leggi universali della condotta, che sono state rivelate da Dio, e un’istituzione terrena il cui compito è di assicurare l’ordine temporale nei rapporti degli uomini tra loro. Il contrasto tra etica e politica nell’età moderna si risolve, in realtà, sin dal principio, nel contrasto tra la morale cristiana e la prassi di coloro che svolgono azione politica. In uno stato precristiano, dove non esiste una morale istituzionalizzata, il contrasto è meno evidente. Il che non vuol dire che il pensiero greco lo ignori: basta pensare all’opposizione fra le leggi non scritte cui si richiama Antigone e quelle del tiranno. Ma nel mondo greco non c’è una morale, ci sono varie morali. Ogni scuola filosofica ha la sua morale. Il problema del rapporto tra morale e politica, laddove ci sono più morali con cui si può confrontare l’azione politica, non ha più alcun senso preciso. Ciò che ha suscitato l’interesse del pensiero greco non è tanto il problema del rapporto tra etica e politica, quanto il problema del rapporto tra buon governo e malgoverno, da cui nasce la distinzione tra il re e il tiranno. Ma è una distinzione all’interno del sistema politico, che non riguarda il rapporto tra un sistema normativo, quale la politica, e un altro sistema normativo, quale la morale. Come avviene invece nel mondo cristiano e postcristiano.
La seconda ragione della mia scelta è che, soprattutto con la formazione dei grandi stati territoriali, la politica si rivela sempre più come luogo in cui si esplica la volontà di potenza, in un teatro ben più vasto, e quindi ben più visibile, di quello delle faide cittadine o dei conflitti della società feudale; soprattutto quando questa volontà di potenza viene messa al servizio di una confessione religiosa. Il dibattito sulla ragion di stato esplode nel periodo delle guerre religiose. Il contrasto tra morale e politica si rivela in tutta la sua drammaticità quando azioni moralmente condannevoli (si pensi, per fare il grande esempio, alla notte di San Bartolomeo, lodata tra l’altro da uno dei machiavellici, Gabriel Naudé) sono compiute in nome della fonte stessa, originaria, unica, esclusiva, dell’ordine morale del mondo, che è Dio.
Si può aggiungere anche una terza ragione: solo nel Cinquecento il contrasto viene assunto come problema anche pratico, e si cerca di darne una qualche spiegazione. Il testo canonico ancora una volta è Il Principe di Machiavelli, in particolare il capitolo XVIII che comincia con queste fatali parole: «Quanto sia laudabile in un principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascun lo intende: non di manco si vede per esperienza, ne’ nostri tempi quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto». La chiave di tutto è l’espressione «gran cose». Se si incomincia a discutere intorno al problema dell’azione umana, non dal punto di vista dei princìpi, ma dal punto di vista delle «gran cose», cioè del risultato, allora il problema morale cambia completamente aspetto, si rovescia radicalmente. Il lungo dibattito sulla ragion di stato è un commento durato secoli a questa affermazione, perentoria e inconfondibilmente veridica: che nell’azione politica contano non i princìpi ma le grandi cose.
Tornando alla nostra tipologia, dopo questa premessa, ne faccio ancora una seconda. Delle dottrine su etica e politica, che enumererò, alcune hanno prevalentemente valore prescrittivo, in quanto non pretendono di dare una spiegazione del contrasto, ma tendono a dare a esso una soluzione pratica. Altre hanno un valore prevalentemente analitico, in quanto tendono non già a suggerire come dovrebbe essere risolto il rapporto tra etica e politica, ma a indicare qual è la ragione per cui il contrasto esiste. Ritengo che il non aver tenuto conto della diversa funzione delle teorie abbia condotto a grandi confusioni. Per esempio, non ha senso confutare una dottrina prescrittiva facendo osservazioni di tipo realistico, così come non ha senso opporsi a una teoria analitica proponendo una migliore o la migliore soluzione del contrasto.
Divido le teorie che si sono poste il problema del rapporto tra morale e politica in quattro grandi gruppi, anche se di fatto non sempre nettamente separabili, anzi spesso confluenti l’uno nell’altro. Distinguo le teorie monistiche da quelle dualistiche; le monistiche, a loro volta, in monismo rigido e monismo flessibile; le dualistiche in dualismo apparente e dualismo reale. Nel monismo rigido faccio rientrare quegli autori per cui non esiste contrasto tra morale e politica perché vi è un solo sistema normativo, o quello morale o quello politico; nel monismo flessibile gli autori per cui vi è un solo sistema normativo, quello morale, che tuttavia consente, in determinate circostanze o per particolari soggetti, deroghe o eccezioni giustificabili con argomenti appartenenti alla sfera del ragionevole; nel dualismo apparente, gli autori che concepiscono morale e politica come due sistemi normativi distinti ma non totalmente indipendenti l’uno dall’altro, bensì posti l’uno sull’altro in ordine gerarchico; infine nel dualismo reale gli autori per cui morale e politica sono due sistemi normativi diversi che ubbidiscono a diversi criteri di giudizio. Ho esposto le varie teorie nel senso della via via sempre maggiore divaricazione tra i due sistemi normativi.
Il monismo rigido
Del monismo rigido vi sono naturalmente due versioni secondoché la reductio ad unum sia ottenuta risolvendo la politica della morale o, viceversa, la morale nella politica.
Esempio della prima è l’idea, anzi l’ideale, tipicamente cinquecentesco, del principe cristiano, così bene rappresentato da Erasmo, il cui libro L’educazione del principe cristiano è del 1515, quindi più o meno contemporaneo del Principe di Machiavelli, di cui è l’antitesi più radicale. Il principe cristiano di Erasmo è l’altra faccia del volto demoniaco del potere. Alcune citazioni. Erasmo si rivolge al principe e dice: «Se vuoi mostrarti ottimo principe, stai ben attento a non lasciarti superare da alcun altro in quei beni che veramente sono tuoi propri, la magnanimità, la temperanza e l’onestà». Queste virtù esclusivamente morali non hanno niente a che vedere con la virtù nel senso machiavellico della parola. Oppure: «Se vorrai entrare in gara con altri principi, non ritenere di averli vinti perché hai tolto loro parte del dominio. Li vincerai veramente se sarai meno corrotto di loro, meno avaro, arrogante, iracondo». E ancora: «Qual è la mia croce?» chiede il principe. E risponde: «Il seguire ciò che è onesto, il non far del male a nessuno, non depredare nessuno, non lasciarsi corrompere dai doni». La soddisfazione del principe sta nell’essere giusto, non nel fare «gran cose».
Traggo il secondo esempio da Kant. Nell’appendice a quell’aureo libro che è Per la pace perpetua, distingue il moralista politico che condanna dal politico morale che esalta. Il politico morale è colui che non subordina la morale alle esigenze della politica ma interpreta i princìpi della prudenza politica in modo da farli coesistere con la morale: «Sebbene la massima “L’onestà è la migliore politica”, implichi una teoria che la pratica purtroppo assai spesso smentisce, la massima parimenti teoretica “L’onestà è migliore di ogni politica”, è tuttavia infinitamente superiore a ogni obiezione e costituisce anzi la condizione indispensabile della politica». Per uno studioso di morale può essere interessante sapere che tanto Erasmo quanto Kant, pur partendo da teorie morali, intendo sul fondamento della morale, diverse, ricorrono, allo scopo di sostenere la loro tesi, allo stesso argomento, che nella teoria etica di oggi si chiamerebbe «consequenzialità», vale a dire che tiene conto delle conseguenze. Contrariamente a ciò che affermano i machiavellici, per cui l’inosservanza delle regole morali correnti è la condizione per aver successo, i nostri due autori sostengono che alla lunga il successo arride al sovrano rispettoso dei princìpi della morale universale. È come dire: «Fai il bene, perché questo è il tuo dovere; ma anche perché indipendentemente dalle tue intenzioni, la tua azione sarà premiata». Si tratta, come ognuno vede, di un argomento pedagogico molto comune, ma non di grande forza persuasiva. Diciamolo pure: è un argomento debole che non è suffragato né dalla storia né dall’esperienza comune.
Come esempio della seconda versione del monismo, ovvero della riduzione della morale alla politica, io ho scelto Hobbes, naturalmente anche qui con tutte le cautele del caso, soprattutto dopo che alcuni critici recenti hanno messo in rilievo quella che è stata chiamata la chiarezza piena di confusione dell’autore del Leviathan e hanno diffidato il lettore, avvinto e affascinato dalla forza logica dell’argomentazione hobbesiana, nei riguardi di interpretazioni troppo unilaterali. A me tuttavia pare che, per certi aspetti, sia difficile trovare un autore in cui il monismo normativo sia più rigoroso, e il sistema normativo, esclusivo di tutti gli altri, sia il sistema politico, ovvero il sistema di norme che derivano dalla volontà del sovrano legittimato dal contratto sociale. Si possono addurre molti argomenti: per Hobbes, i sudditi non hanno il diritto di giudicare ciò che è giusto e ingiusto perché questo spetta soltanto al sovrano, e il sostenere che il suddito abbia il diritto di giudicare ciò che è giusto e ingiusto è considerato una teoria sediziosa. Ma l’argomento fondamentale è che Hobbes è uno dei pochi autori, forse l’unico, in cui non c’è distinzione tra principe e tiranno: e non c’è questa distinzione perché non esiste la possibilità di distinguere il buon governo dal mal governo. Infine, siccome mi sono riferito al contrasto tra Chiesa e Stato come al contrasto determinante per capire il problema della ragion di stato nel Cinquecento e nel Seicento, ricordo che Hobbes riduce la Chiesa allo Stato: le leggi della Chiesa sono leggi soltanto in quanto sono accettate, volute e rafforzate dallo Stato. Hobbes, negando la distinzione tra Chiesa e Stato, e riducendo la Chiesa allo Stato, elimina la ragione stessa del contrasto.
Teoria della deroga
Secondo le teorie del monismo flessibile, il sistema normativo è uno solo ed è quello morale, abbia esso il proprio fondamento nella rivelazione o nella natura da cui la ragione umana è in grado di ricavare con le sole sue forze leggi universali della condotta. Ma queste leggi, proprio per la loro generalità, non possono essere applicate in tutti i casi. Non vi è legge morale che non preveda eccezioni in circostanze particolari. La regola «Non uccidere» viene meno nel caso della legittima difesa, vale a dire nel caso in cui la violenza è l’unico rimedio possibile, in quella particolare circostanza, alla violenza, in base alla massima che espressamente o tacitamente è accolta dalla maggior parte dei sistemi normativi morali e giuridici: Vim vi repellere licet. La regola «Non mentire» viene meno, per esempio, nel caso in cui l’affiliato a un movimento rivoluzionario viene arrestato e gli si chiede di denunciare i propri compagni. In ogni sistema giuridico è massima consolidata che lex specialis derogat generali. Questa massima è altrettanto valida in morale, e in quella morale codificata che è contenuta nei trattati di teologia morale a uso dei confessori.
Secondo la teoria che sto esponendo, ciò che appare a prima vista una violazione dell’ordine morale, commessa dal detentore del potere politico, altro non è che una deroga alla legge morale compiuta in una circostanza eccezionale. In altre parole, ciò che giustifica la violazione è la eccezionalità della situazione in cui il sovrano si è trovato a operare. Giacché stiamo cercando di individuare i diversi motivi di giustificazione della condotta non morale dell’uomo politico, qui il motivo viene trovato non nel presupporre l’esistenza di un diverso sistema normativo, ma all’interno dell’unico sistema normativo ammesso, dentro il quale si considera valida la regola che prevede la deroga in casi eccezionali. Ciò che se mai caratterizza la condotta del sovrano è la straordinaria frequenza delle situazioni eccezionali in cui si viene a trovare in paragone all’uomo comune: questa frequenza è dovuta al fatto che egli opera in un contesto di rapporti, specie con gli altri sovrani, in cui l’eccezione viene elevata, per quanto possa essere considerato contraddittorio, a regola (ma contraddittorio non è, perché qui si tratta di regola nel senso di regolarità, e la regolarità di un comportamento contrario non è detto che faccia venir meno la validità della regola data). Anche se può sembrare che la deroga sia sempre vantaggiosa per il sovrano (ed è proprio questo vantaggio che è stato guardato con ostilità dai moralisti), si può dare anche il caso contrario, se pure più raramente: la deroga infatti può agire estensivamente perché permette al sovrano ciò che è moralmente proibito, ma può agire anche restrittivamente perché proibisce il compimento di azioni che all’uomo comune sono permesse: noblesse oblige.
Sull’importanza storica di questo motivo di giustificazione non ho bisogno di spendere molte parole. I teorici della ragion di stato, che fiorirono nel corso del XVII secolo, ai quali si deve la più intensa e continua riflessione sul tema dei rapporti fra politica e morale, erano spesso dei giuristi, e fu per loro naturale applicare alla soluzione del problema, che Machiavelli aveva posto all’ordine del giorno, con una soluzione nettamente dualistica, come vedremo fra poco, il principio ben noto ai giuristi della deroga per circostanze eccezionali in stato di necessità. In questo modo essi erano in grado di salvaguardare il principio dell’unico codice morale, e nello stesso tempo di offrire ai sovrani un argomento per le loro azioni compiute in violazione di quell’unico codice, che serviva a coprire quel «volto demoniaco del potere» che Machiavelli aveva con scandalo scoperto. Jean Bodin, scrittore cristiano e giurista, inizia la sua grande opera, De la République, con un’invettiva contro Machiavelli (un’invettiva che era di rito per uno scrittore cristiano), ma là dove tratta della differenza fra il buon principe e il tiranno sostiene che «non si può considerare tirannico quel governo che debba valersi di mezzi violenti, come uccisioni, bandi o confische, o altri atti di forza e d’armi, come avviene necessariamente all’atto del cambiamento o del ristabilimento di un regime». Cambiamento e ristabilimento di regime sono per l’appunto quelle circostanze eccezionali, quello stato di necessità, che giustifica atti che in circostanze normali sarebbero considerati immorali.
La teoria dell’etica speciale
Per illustrare il secondo motivo di giustificazione del divario fra morale comune e condotta politica mi servo di un’altra categoria giuridica: quella del ius singulare. Sono il primo a riconoscere che queste analogie fra teorie politiche e teorie giuridiche debbono essere assunte con prudenza: ma, per effetto della loro lunga elaborazione e della loro costante applicazione nella casistica legale, esse offrono spunti di riflessione e suggerimenti pratici in campi affini, com’è quello della casistica morale e politica. A differenza del rapporto fra regola ed eccezione, che riguarda la particolarità di una situazione, lo «stato di necessità», il rapporto fra ius commune e ius singulare riguarda in primo luogo la particolarità dei soggetti, ovvero lo status di certi soggetti che proprio in ragione di questo loro status godono o soffrono di un regime normativo diverso da quello della gente comune. Anche in questo caso si può parlare di deroga rispetto al diritto comune, ma ciò che distingue questo tipo di deroga da quella esaminata nel paragrafo precedente è il riferimento non già a un tipo di situazione ma a un tipo di soggetto, e non importa poi se la tipicità del soggetto derivi dalla condizione sociale, per cui l’ordinamento giuridico cui è sottoposto il nobile è diverso da quello cui è sottoposto il borghese o il contadino, oppure dall’attività svolta, in base alla quale, per fare un esempio noto, si è venuto formando da secoli il diritto dei mercanti in «deroga» al diritto civile.
Applicata al discorso morale, la categoria del ius singulare serve egregiamente, a mio parere, come introduzione al capitolo delle cosiddette etiche professionali. S’intende per etica professionale quell’insieme di regole di condotta cui si debbono considerare sottoposte le persone che svolgono una determinata attività e che generalmente differiscono dall’insieme delle norme della morale comune o per eccesso o per difetto, vale a dire perché impongono ai membri della corporazione obblighi più rigidi oppure perché li esentano da obblighi impraticabili, come quello di dire la verità nel caso del medico di fronte al malato di una malattia incurabile. Nulla vieta di chiamare le etiche professionali morali singolari nello stesso senso in cui si parla nella teoria giuridica di diritti singolari, tanto più che gli stessi utenti amano attribuire a esse un nome specifico e particolarmente impegnativo per la sua solennità: deontologia.
Costituiscono coloro che svolgono un’attività politica qualcosa che può essere assimilato a una professione o a una corporazione? Sia ben chiaro che qui non si tratta di prendere posizione di fronte al problema attuale del «professionismo politico». Si tratta di sapere se l’attività politica sia un’attività con caratteristiche specifiche tali da richiedere un regime normativo particolare che abbia la stessa ragion d’essere di una qualsiasi altra etica professionale, la ragione di consentire lo svolgimento di quella determinata attività e di raggiungere il fine che le è proprio: il fine del politico è il bene comune come quello del medico è la salute, quello del sacerdote la salvezza delle anime. Il porre la domanda in questi termini non ha nulla di stravagante: la riflessione sulla natura dell’attività politica ha avuto inizio nella Grecia antica da quando la si è considerata come una tecnica, una forma del fare costruttivo (il poiéin), e dalla comparazione di questa arte con altre forme di arte in cui è richiesta per il loro buon esito una competenza specifica. Il dialogo platonico Il Politico, il cui scopo è di spiegare in che cosa consiste la scienza regia, cioè il sapere proprio di colui che deve governare, è una dotta comparazione fra l’arte del governo e quella del tessitore. Del resto, la similitudine tanto frequente da diventare rituale fra l’arte del governo e quella del nocchiero ci ha lasciato in eredità la parola «governo» e derivati, di cui ci serviamo abitualmente senza ricordarne il significato primitivo, salvo vederlo rispuntare in situazioni e ambienti storici diversissimi allorquando abbiamo appreso che Mao veniva chiamato il «Grande Timoniere».
Lungo tutta la storia del dibattito secolare sulla ragion di stato, accanto alla giustificazione della «immoralità» della politica, dedotta dall’argomento dello stato di necessità, si svolge quello derivato dalla natura dell’arte politica, che impone a chi la esercita azioni moralmente riprovevoli ma richieste dalla natura e dal fine dell’attività stessa. Se vi è un’etica politica diversa dall’etica etica, ciò dipende, secondo questa argomentazione, dal fatto che il politico, come il medico, il commerciante, il prete, non potrebbe fare il suo mestiere senza obbedire a un codice che gli è proprio e che in quanto tale non è detto debba coincidere con il codice della morale comune né con quello degli altri mestieri. L’etica politica diventa così l’etica del politico e, in quanto etica del politico e dunque in quanto etica speciale, può avere i suoi giustificati motivi per l’approvazione di una condotta che al volgo può apparire immorale ma che al filosofo appare semplicemente come il necessario conformarsi dell’individuo-membro all’etica del gruppo. Si rilegga il brano di Croce già citato, e si vedrà come la considerazione dell’arte politica come un mestiere tra gli altri mestieri non ha perso nulla della sua perenne vitalità. Condannando la comune e, a suo parere, errata richiesta da parte degli «imbecilli», che il politico sia onesto, Croce si lascia andare a profferire questa sentenza: «Laddove nessuno, quando si tratti di curare i propri malanni o sottoporsi a un’operazione chirurgica, chiede un onest’uomo …] ma tutti chiedono e cercano e si procurano medici e chirurgi, onesti o disonesti che siano, purché abili in medicina o in chirurgia […] nelle cose della politica si chiedono, invece, non uomini politici [uomini cioè che sappiano fare il loro bravo mestiere di politici, aggiungo io], ma onest’uomini, forniti tutt’al più di attitudini d’altra natura». E continua: «Perché è evidente che le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politico, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere, ma non già nella politica».4 Vorrei richiamare l’attenzione su quell’«improprio», che fa pensare, per contrasto, a una «proprietà» della politica, che non è evidentemente quella della morale.
La teoria della superiorità della politica
Ora passo da concezioni di monismo attenuato o corretto, «la moralità è una sola ma la sua validità viene meno in situazioni eccezionali o in sfere di attività speciali», a una concezione di dualismo dichiarato ma apparente. Chiedo un po’ di tolleranza per questo insistente riferimento a categorie giuridiche, ma anche in questo caso mi viene in aiuto un ben noto principio giurisprudenziale, secondo cui quando due norme sono poste l’una sopra l’altra, ovvero in ordine gerarchico, se sono antinomiche, prevale quella superiore.
Rispetto al problema dei rapporti fra morale e politica, una delle soluzioni possibili è il concepire morale e politica come due sistemi normativi distinti ma non totalmente indipendenti l’uno dall’altro, sebbene posti l’uno sull’altro in ordine gerarchico. Naturalmente una soluzione di questo genere può avere due versioni: dei due sistemi normativi, il morale è superiore al politico, oppure il politico è superiore al morale. Della prima versione si può trovare un esempio caratteristico nella filosofia pratica di Croce, della seconda in quella di Hegel. Nel sistema di Croce, economia ed etica sono due distinti, non sono né opposti né collocati sullo stesso piano: la seconda è superiore alla prima in quanto appartiene al momento dello Spirito che supera il momento inferiore. La politica appartiene alla sfera dell’economia e non a quella dell’etica. Non è detto che «superare» significhi essere superiore anche in senso assiologico, ma di fatto ogni qualvolta Croce si pone il problema machiavellico del rapporto tra etica e politica, sembra ammettere che la differenza tra i due momenti sia una differenza assiologicamente gerarchica, anche se non è sempre molto chiaro quali ne siano le conseguenze. Una azione politica contraria alla morale è da condannare? Che cosa significa che è lecita nella sua sfera particolare, se poi si ammette che esiste una sfera normativamente superiore? Sono domande cui è molto difficile rispondere. Croce è ritornato sul tema infinite volte. Qui mi riferisco a un passo che si trova nel volume intitolato, per l’appunto, Etica e politica, dove insiste su un punto: la cerchia della politica è quella dell’utilità, degli affari, dei negoziati, delle lotte, e in queste continue guerre, individui, popoli e stati si mantengono vigili contro individui, popoli, stati, intenti a mantenere e a promuovere la propria esistenza, rispettando l’altrui solo in quanto giovi alla loro propria. Poi, continuando il proprio ragionamento, ammonisce che bisogna guardarsi dal comune errore di staccare l’una dall’altra le forme di vita. Esorta a respingere le sciocche moralizzazioni e a tenere per falso a priori ogni dissidio che si crede di scorgere tra la politica e la morale, perché la vita politica o prepara la vita morale o è essa stessa strumento di forma di vita morale. Insomma, nella dialettica crociana, che è dialettica non degli opposti ma dei distinti, di cui l’uno è superiore all’altro, morale e politica vengono interpretate come due distinti e, come si vede dall’ultima parte del brano, la politica sta sotto e la morale sta sopra.
Al contrario, Hegel, pur ammettendo l’esistenza dei due sistemi, ritiene gerarchicamente superiore il sistema politico, e in questa superiorità del sistema politico trova un ottimo argomento di giustificazione della condotta immorale dell’uomo politico, se e in quanto essa sia conforme a una norma superiore, dalla quale si deve considerare abrogata, e quindi invalida, una norma con essa incompatibile del sistema normativo inferiore. Per fare i soliti esempi di scuola, se nel sistema normativo di un gruppo di latrones, o di pirati o di «masnadieri», o perché no? di zingari, per non parlare di mafia, camorra, et similia, che appartengono alla nostra esperienza quotidiana, esiste una norma che considera lecito il furto (s’intende delle cose non appartenenti a membri del gruppo), è evidente che la norma che proibisce il furto esistente nel sistema normativo considerato inferiore, sia esso quello dello Stato o della Chiesa o della morale dei non appartenenti al gruppo, deve considerarsi implicitamente abrogata, in quanto incompatibile con una norma del sistema normativo ritenuto superiore. Gli stati, in fondo, potrebbero essere anch’essi, secondo il famoso detto di sant’Agostino, «magna latrocinia».
A maggior ragione, chi ha considerato lo stato non come un magnum latrocinium ma come il «razionale in sé e per sé», come il momento ultimo dell’eticità la quale è a sua volta il momento ultimo dello Spirito obiettivo (della filosofia pratica nel senso tradizionale della parola), doveva porre gli imperativi ultimi dello stato al di sopra degli imperativi della morale individuale. Il sistema di Hegel è un grande esempio, e grandemente illuminante, anche per la sua singolarità, della totale inversione del rapporto fra morale e politica che aveva avuto una delle massime espressioni nel pensiero kantiano. Serve, infatti, magnificamente a illustrare una forma di giustificazione della immoralità della politica diversa da tutte quelle esaminate sin qui: la morale nel senso tradizionale della parola non è da Hegel espunta dal sistema, ma è considerata un momento inferiore nello sviluppo dello Spirito oggettivo che trova il suo compimento nella morale collettiva o eticità (di cui lo stato è il portatore).
Hegel era un ammiratore di Machiavelli di cui aveva tessuto le lodi già nell’opera giovanile sulla Costituzione della Germania. In politica era un realista che sapeva quale posto dare alle chiacchiere dei predicatori quando entrano in campo gli ussari con le loro sciabole luccicanti. Forse che la maestà dello stato, «di quella ricca membratura dell’ethos in sé che è lo stato», deve chinarsi dinanzi a coloro che vi contrappongono la «pappa del cuore, dell’amicizia e dell’ispirazione»?
Nel paragrafo 337 dei Lineamenti di filosofia del diritto, riassume brevemente ma esaurientemente la sua dottrina in proposito. Il paragrafo comincia così: «Si è molto discusso, un tempo, del contrasto di morale e politica e della pretesa che la seconda sia conforme alla prima». Ma è una discussione, lascia capire Hegel, che ha fatto il suo tempo, ed è diventata anacronistica, almeno da quando si è cominciato a comprendere che il bene dello stato ha una «giustificazione» completamente diversa dal bene del singolo: lo stato ha una sua ragion d’essere «concreta» e solo questa sua esistenza concreta può valere come principio della sua azione, non un imperativo morale astratto che prescinda completamente dalle esigenze e dai vincoli imposti dal movimento storico, di cui lo stato, non il singolo individuo e nemmeno la somma dei singoli individui, è il protagonista. Di qui deriva fra l’altro la nota tesi che solo la Storia universale, non un’astorica morale posta (da chi?) al di sopra di esso, può giudicare del bene e del male degli stati, dai quali dipende la sorte del mondo ben più che dalla condotta, per morale che sia, di questo o quel singolo individuo. Da questo punto di vista mi pare giusto dire che per Hegel la morale individuale è inferiore per quel che riguarda la sua validità alla morale dello stato e deve cedere a essa quando il compito storico dello stato lo richiede.
Il fine giustifica i mezzi
Una soluzione dualistica non più soltanto apparente ma reale è quella che è passata alla storia col nome di «machiavellica», perché a torto o a ragione vien fatta risalire all’autore del Principe. Qui il dualismo è fondato sulla distinzione fra due tipi di azioni, le azioni finali che hanno un valore intrinseco, e quelle strumentali, che hanno un valore solo in quanto servono a raggiungere un fine considerato esso solo come avente un valore intrinseco. Mentre le azioni finali, chiamate buone in sé, come il soccorrere il sofferente, e in genere tutte le tradizionali «opere di misericordia», vengono giudicate di per se stesse, in quanto azioni «disinteressate», che appunto vengono compiute con nessun altro interesse che quello di compiere un’azione buona, le azioni strumentali, o buone per altro da sé, vengono giudicate in base alla loro maggiore o minore idoneità al raggiungimento di un fine.
Non c’è teoria morale che non avverta questa distinzione. Per fare un esempio noto, vi corrisponde la distinzione weberiana tra azioni razionali conformi al valore (wert-rational) e azioni razionali conformi allo scopo (zweck-rational). Così non vi è teoria morale che non si renda conto che la stessa azione può essere giudicata in due modi diversi secondo il contesto in cui si svolge e l’intenzione con cui è stata compiuta. Il soccorrere il povero, un’azione che di solito viene citata a esempio di azione buona in sé, diventa un’azione buona per altro, e come tale deve essere giudicata, se viene compiuta allo scopo di ottenere un premio di virtù: se chi la compie non ottiene il premio, si potrà anche dire che l’azione è stata razionale rispetto al valore ma certamente non rispetto allo scopo.
Ciò che costituisce il nucleo fondamentale del machiavellismo non è tanto il riconoscimento della distinzione fra azioni buone in sé e azioni buone per altro, quanto la distinzione fra morale e politica sulla base di questa distinzione, vale a dire l’affermazione che la sfera della politica è la sfera di azioni strumentali che in quanto tali debbono essere giudicate non in se stesse ma in base alla loro maggiore idoneità al raggiungimento dello scopo. Il che spiega perché si sia parlato, a proposito della soluzione machiavellica, di amoralità della politica, cui corrisponderebbe, sebbene l’espressione non sia entrata nell’uso (non essendo necessaria), l’«apoliticità della morale» : amoralità della politica nel senso che la politica nel suo complesso, come insieme di attività regolate da norme e valutabili con un certo criterio di giudizio, non ha niente a che vedere con la morale nel suo complesso come insieme, anch’essa, di azioni regolate da norme diverse e valutabili con un diverso criterio di giudizio. Appare a questo punto chiaramente la differenza fra una soluzione come quella di cui stiamo discorrendo, fondata sull’idea della separatezza e dell’indipendenza fra morale e politica, e che in quanto tale si può ben chiamare dualistica, senza attenuazione, e le soluzioni precedentemente esaminate in cui manca o la separazione, giacché la politica è inglobata nel sistema normativo morale se pure con uno statuto speciale, oppure l’indipendenza, essendo morale e politica distinte sì ma in rapporto di reciproca dipendenza. La soluzione machiavellica dell’amoralità della politica viene presentata come quella il cui principio fondamentale è: «Il fine giustifica i mezzi». Per contrasto si potrebbe definire la sfera non politica (quella, tanto per intenderci, che si governa coi pater noster) come la sfera in cui è scorretto il ricorso alla distinzione fra mezzi e fini, perché ogni azione deve essere considerata di per se stessa per il valore o disvalore in essa intrinseco, indipendentemente dal fine. In una morale rigoristica come quella kantiana, in generale in una morale del dovere, la considerazione di un fine esterno all’azione non solo è impropria ma è anche impossibile, perché l’azione per essere morale non deve avere altro fine che l’adempimento del dovere, che è per l’appunto il fine intrinseco all’azione medesima.
Anche se la massima «Il fine giustifica i mezzi» non si trova letteralmente in Machiavelli, si considera di solito come equivalente il passo del capitolo XVIII del Principe in cui, ponendosi il problema se il principe sia tenuto a rispettare i patti (il principio pacta sunt servanda, i patti devono essere osservati, è un principio morale universale quale che ne sia il fondamento, religioso, razionale, utilitaristico eccetera), risponde che i principi che hanno fatto «gran cose» ne hanno tenuto poco conto. Risulta chiaro da questo passo che ciò che conta nella condotta dell’uomo di stato è il fine, la «gran cosa», e il raggiungimento del fine rende lecite azioni, come il non osservare i patti convenuti, condannate da quell’altro codice, il codice morale, cui sono tenuti i comuni mortali. Ciò che non risulta altrettanto chiaro è in che cosa consistano le grandi cose. Ma già una prima risposta si trova nello stesso capitolo verso la fine dove importante per il principe è «di vincere e mantenere lo stato».
Una seconda risposta, ancora più chiara e anche più comprensiva, è quella che si trova in un passo dei Discorsi, in cui si celebra spiegatamente la teoria della separazione: «Dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi deve cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che salvi la vita e mantenghile la libertà» (III, 41). Niente di nuovo sotto il sole: in questo brano Machiavelli non fa altro che illustrare con parole particolarmente efficaci la massima: Salus rei publicae suprema lex (Legge suprema è la salvezza dello stato). L’illustrazione avviene contrapponendo al solo principio che deve guidare il giudizio politico, al principio della «salvezza della patria», altri possibili criteri di giudizio dell’azione umana, fondati rispettivamente sulla distinzione fra il giusto e l’ingiusto, fra il pietoso e il crudele, fra il lodevole e l’ignominioso, che fanno riferimento, se pur da diversi punti di vista, a criteri di giudizio della morale comune.
Le due etiche
Di tutte le teorie sul rapporto fra morale e politica quella che ha condotto alle estreme conseguenze la tesi della separazione, e che quindi può essere considerata la più conseguentemente dualistica, ammette l’esistenza di due morali fondate sopra due diversi criteri di giudizio delle azioni, che portano a valutazioni della stessa azione non necessariamente coincidenti, e quindi sono fra di loro incompatibili e non sovrapponibili. Un esempio ormai classico della teoria delle due morali è la teoria weberiana della distinzione fra etica della convinzione ed etica della responsabilità. Ciò che distingue queste due morali è proprio il diverso criterio che esse assumono per giudicare buona o cattiva un’azione. La prima si serve di qualche cosa che sta prima dell’azione, un principio, una norma, in generale una qualsiasi proposizione prescrittiva la cui funzione è quella di influire in maniera più o meno determinante sul compimento di un’azione e insieme di permetterci di giudicare positivamente o negativamente un’azione reale in base all’osservazione della conformità o della difformità di essa all’azione astratta nella norma contemplata. La seconda, invece, per dare un giudizio positivo o negativo di un’azione si serve di qualche cosa che viene dopo, cioè del risultato, e dà un giudizio positivo o negativo dell’azione in base al raggiungimento o meno del risultato proposto. Popolarmente, queste due etiche si possono anche chiamare etica dei princìpi ed etica dei risultati. Nella storia della filosofia morale vi corrispondono, da un lato, le morali deontologiche, come quella kantiana, dall’altro, le morali teleologiche, come quella utilitaristica, oggi prevalente.
Le due etiche non coincidono: ciò che è bene rispetto ai princìpi non è detto sia bene rispetto ai risultati. E viceversa. In base al principio «Non uccidere» la pena di morte è da condannarsi. Ma in base al risultato, in seguito a una eventuale provata constatazione che la pena di morte ha un grande potere d’intimidazione, potrebbe essere giustificata (e infatti gli abolizionisti si sono sforzati di dimostrare con dati statistici alla mano che un grande potere deterrente non ha).
Questa distinzione corre lungo tutta la storia della filosofia morale indipendentemente dalla connessione che essa possa avere con la distinzione fra morale e politica. Diventa rilevante rispetto a questa distinzione, quando si sostenga che l’etica del politico è esclusivamente l’etica della responsabilità (o dei risultati), che l’azione del politico si giudica in base al successo o all’insuccesso, che il giudicarla col criterio della fedeltà ai princìpi è dar prova di moralismo astratto e quindi di poco senno negli affari di questo mondo. Chi agisce secondo princìpi non si preoccupa del risultato delle proprie azioni: fa quel che deve e avvenga quel che può. Chi si preoccupa esclusivamente del risultato, non va tanto per il sottile rispetto alla conformità dei princìpi: fa quel che è necessario affinché avvenga quello che vuole. Il giudice, come si è letto più volte nei giornali, che chiede al terrorista «pentito» se i terroristi si erano posti il problema del «non uccidere» rappresenta l’etica dei princìpi. Il terrorista che risponde che il gruppo si era posto soltanto il problema di riuscire o non riuscire rappresenta l’etica del risultato. Se si pente, non è perché senta rimorso per aver violato la legge morale, ma perché ritiene che alla fin fine l’azione politica intrapresa era fallita rispetto agli scopi proposti. In questo senso non può dirsi propriamente un pentito, ma piuttosto uno che si è convinto di aver sbagliato. Non ha riconosciuto tanto la colpa, quanto l’errore.
Si può non raggiungere lo scopo, ma si può anche raggiungere uno scopo diverso da quello che ci si era proposti. L’attentatore dell’arciduca Ferdinando disse, durante l’interrogatorio al processo: «Non prevedevo che dopo l’attentato sarebbe venuta la guerra. Credevo che l’attentato avrebbe agito sulla gioventù incitandola alle idee nazionalistiche». E uno dei complici, che fallì il colpo, disse: «Questo attentato ha avuto conseguenze che non si potevano prevedere. Se avessi potuto prevedere che cosa ne sarebbe derivato, mi sarei seduto io stesso su quella bomba per farmi a pezzi».
Superfluo insistere sulla illustrazione di questa nota distinzione, anche se è da osservare che la risoluzione di tutta la politica a etica della responsabilità è un’indebita estensione del pensiero di Weber, il quale in tema di etica (e non di meta-etica), ovvero di convinzione personale (e non di astratta teoria), non è affatto disposto a compiere questa riduzione. Nell’azione del grande politico etica della convinzione ed etica della responsabilità non possono andare disgiunte, secondo Weber, l’una dall’altra. La prima, presa in sé, condotta alle estreme conseguenze, è propria del fanatico, figura moralmente ripugnante. La seconda, totalmente scissa dalla considerazione dei princìpi da cui nascono le grandi azioni, e tutta tesa soltanto al successo (si ricordi il machiavellico «facci uno principe di vincere»), caratterizza la figura moralmente non meno riprovevole del cinico.
Esiste una relazione fra le varie teorie?
Ciò che mi pare ancora interessante osservare in forma di conclusione di questa rassegna delle «giustificazioni», proprio a proposito di quest’ultima che pare la più drastica, una volta che venga accettata la distinzione tra morale come etica della convinzione e politica come etica della responsabilità, è che tutte e cinque si richiamano l’una con l’altra, tanto da poter essere considerate, come del resto è forse già apparso al lettore, variazioni dello stesso tema. Il che naturalmente non esclude la possibilità e non toglie l’utilità della loro distinzione dal punto di vista analitico, che è quello adottato sin qui. In una catena discendente, cioè percorrendo il nostro cammino a ritroso, l’ultima variazione, ovvero l’etica della responsabilità, si ricollega alla precedente, la dottrina machiavellica, secondo cui conta nel giudizio politico l’idoneità del mezzo al raggiungimento del fine indipendentemente dalla considerazione dei princìpi. Questa a sua volta, considerata la «salute della patria» come fine ultimo dell’azione politica, da cui dipende il giudizio sulla bontà o meno delle singole azioni in base alla maggiore o minore conformità al fine ultimo, richiama immediatamente la soluzione che la precede, quella di Hegel, non a caso, come si è detto, ammiratore di Machiavelli, secondo cui lo stato (la «patria» dei Discorsi e la res publica del detto tramandato dalla morale politica tradizionale) ha una sua ragion d’essere «concreta», che è poi la «ragion di stato» degli scrittori politici che osservano e commentano la nascita e la crescita dello stato moderno, e questa ragione concreta vale come principio esclusivo dell’azione del sovrano e quindi del giudizio positivo o negativo che si può dare su di essa. A ben guardare, anche la giustificazione fondata sulla specificità dell’etica professionale, la nostra seconda variazione, deriva da una netta prevalenza del fine come criterio di valutazione: ciò che caratterizza infatti la singola professione è il fine comune a tutti i membri del gruppo, la salute del corpo per il medico o la salute dell’anima per il sacerdote. Tra questi fini professionali specifici è perfettamente legittimo annoverare una terza forma di salute, non meno importante delle altre due, la salus rei publicae, come fine proprio dell’uomo politico. Infine, anche la prima variazione, quella fondata sulla deroga in caso di necessità, che è a mio parere la più comune, ed è la più comune perché è, tutto sommato, la meno scandalosa o la più accettabile da chi si pone dal punto di vista della morale comune, può essere interpretata come una deviazione dal retto cammino dovuta al fatto che proseguire nel retto cammino in quella particolare circostanza condurrebbe a una meta diversa da quella proposta o addirittura a nessuna meta.
Varrebbe la pena mettere alla prova tutti questi motivi di giustificazione (ed eventuali altri) di fronte a un caso storico concreto, a uno di quei casi limite, rappresentati bene dalla figura tradizionale del tiranno, in cui il divario fra la condotta che la morale prescrive all’uomo comune e la condotta del signore della politica è più evidente. Uno di questi casi esemplari è il regno di Ivan il Terribile, che ha suscitato un dibattito intensissimo e appassionatissimo, ormai secolare, nella storiografia russa e sovietica.
Assumo questo caso, ma se ne potrebbero assumere altri, non solo perché è davvero un caso limite, ma soprattutto perché se ne può leggere una dotta e ampia sintesi in un libro di uno storico molto sensibile al problema che ci sta a cuore.5 Nella difesa di colui che è stato considerato il fondatore dello stato russo, i motivi di giustificazione sin qui esaminati vi compaiono, in forma più o meno esplicita, tutti. Soprattutto il primo, lo stato di necessità, e l’ultimo, il risultato ottenuto. Ma tutte queste iustae causae sono tenute insieme dalla considerazione della grandiosità del fine, che sono esattamente le «gran cose» di Machiavelli. Uno degli storici presi in considerazione, I.I. Smirnov, parla di «necessità oggettiva dello sterminio fisico dei principali rappresentanti delle famiglie ostili aristocratiche e boiare».6 Proprio così: la necessità non ha legge. È un vecchio detto che non si possa costringere una persona a compiere un’azione impossibile. Con la stessa logica si deve dire che non si può proibire la stessa persona dal fare ciò che è necessario. Come lo stato d’impossibilità è incompatibile con l’osservanza di comandi, così lo stato di necessità è incompatibile con l’osservanza di divieti. La considerazione dello stato di necessità è strettamente connessa con la considerazione del risultato: ciò che rende «oggettivamente necessaria» un’azione è la considerazione di essa come l’unica possibile condizione per il raggiungimento del fine voluto e giudicato buono. E infatti lo stesso Smirnov conclude immancabilmente che, nonostante la «forma crudele» che assunse la lotta per l’accentramento, questo era il prezzo che si doveva pagare al progresso e alla liberazione dalle «forze della reazione e della stagnazione».7 Si parla di Ivan ma la mente corre subito a Stalin. E Yanov infatti commenta: «Usando la stessa analogia, uno storico che sostenesse che la Russia sovietica degli anni Trenta era veramente satura di tradimento, che tutto il personale dirigente del paese stava complottando contro lo stato e che l’asservimento dei contadini durante la collettivizzazione e l’attaccamento degli operai e degli impiegati al loro lavoro era “storicamente necessario” alla sopravvivenza dello stato, sarebbe costretto a “giustificare moralmente” il terrore totale e il Gulag».8
Un’ultima considerazione. Tutte queste giustificazioni hanno in comune l’attribuzione delle regole della condotta politica alla categoria delle norme ipotetiche, sia nella forma delle norme condizionate, del tipo «Se è A, deve essere B», come è il caso della giustificazione sulla base del rapporto fra regola ed eccezione, sia nella forma delle norme tecniche o prammatiche, del tipo «Se vuoi A, devi B», dove A può essere un fine soltanto possibile o anche necessario, come in tutti gli altri casi. Questa esclusione degli imperativi categorici dalla sfera della politica corrisponde, del resto, alla opinione comune secondo cui la condotta degli uomini di stato è guidata da regole di prudenza, intese come quelle dalle quali non deriva un obbligo incondizionato che prescinda da ogni considerazione della situazione e del fine, ma soltanto un obbligo da osservarsi quando si verifichi quella determinata condizione o per il raggiungimento di un determinato fine. A chiarire questo tratto essenziale delle teorie morali della politica nulla serve più di questo pensiero di Kant, cui si deve la prima e più compiuta elaborazione della distinzione fra imperativi categorici e imperativi ipotetici. «La politica dice: “Siate prudenti come serpenti”; la morale aggiunge (come condizione limitativa) “e senza malizia come le colombe”.»
Osservazioni critiche
Sia ben chiaro che tutte queste giustificazioni (valgano quel che valgono, ma pur devono valere qualche cosa se rappresentano tanta parte della filosofia politica dell’età moderna) non tendono a eliminare la questione morale in politica, ma soltanto, proprio partendo dalla importanza della questione, a precisarne i termini e a delimitarne i confini. Ho detto che si giustifica la deviazione e non la regola. Ma appunto la deviazione ha bisogno di essere giustificata, perché la regola in tutti i casi in cui la deviazione non è giustificabile continua a valere. Nonostante tutte le giustificazioni della condotta politica che devia dalle regole della morale comune, il tiranno resta il tiranno, e può essere definito come colui la cui condotta non riesce a essere giustificata da nessuna delle teorie che pur riconoscono una certa autonomia normativa della politica rispetto alla morale. Machiavelli, sebbene affermi che quando si tratta della salute della patria non vi deve essere alcuna considerazione di «pietoso e di crudele», condanna Agatocle come tiranno perché le sue crudeltà erano «male usate». Bodin, sopra ricordato come un teorico dello stato di eccezione, illustra in alcune pagine famose la differenza fra il re e il tiranno.
Riprendendo brevemente le varie teorie:
1) Vale anche per la teoria dello stato di necessità che l’eccezione conferma la regola proprio in quanto eccezione, perché, se valesse sempre il criterio dell’eccezione, non vi sarebbe più eccezione e non vi sarebbe più regola. Se la deviazione deve essere consentita solo se è giustificata, vuol dire che si dà come presupposto che vi siano deviazioni non giustificabili e in quanto tali inammissibili.
2) L’etica politica è l’etica di colui che esercita attività politica, ma l’attività politica nella concezione di chi svolge il proprio argomento partendo dalla considerazione dell’etica professionale non è il potere in quanto tale, ma il potere per il raggiungimento di un fine che è il bene comune, l’interesse collettivo o generale. Non è il governo ma il buon governo. Uno dei criteri tradizionali e continuamente rinnovati per distinguere il buon governo dal malgoverno è per l’appunto la valutazione del conseguimento o meno di questo fine specifico: buon governo è quello di chi persegue il bene comune, malgoverno è quello di chi persegue il bene proprio.
3) La politica è superiore alla morale? Ma è tale non ogni politica ma solo quella di chi realizza in una determinata epoca storica il fine supremo dell’attuazione dello Spirito oggettivo, la politica dell’eroe o dell’individuo della Storia universale.
4 ) Il fine giustifica i mezzi. Ma chi giustifica il fine? Forse che il fine a sua volta non deve essere giustificato? Ogni fine che si proponga l’uomo di stato è un fine buono? Non deve esservi un criterio ulteriore che permetta di distinguere fini buoni da fini cattivi? E non ci si deve domandare se i mezzi cattivi non corrompano per avventura anche i fini buoni?
5) L’etica politica è l’etica dei risultati e non dei princìpi. Ma di tutti i risultati? Se si vuole distinguere risultato da risultato non occorre ancora una volta risalire ai princìpi? Si può ridurre il buon risultato al successo immediato? I vinti hanno sempre torto per il solo fatto di essere vinti? Ma il vinto di oggi non può essere il vincitore di domani? Victrix causa deis placuit / Sed victa Catoni. Catone non appartiene alla Storia? E così via. E così via.
Il problema della legittimità del fine
Tutte queste domande non sono una risposta, ma fanno capire in quale direzione si debba cercare la risposta, e questa direzione non è quella dell’idoneità dei mezzi, ma quella della legittimità del fine. Un problema non esclude l’altro, ma si tratta di due problemi diversi e conviene tenerli ben distinti. Il problema dell’idoneità dei mezzi si pone quando si vuol dare un giudizio sull’efficienza del governo, che è chiaramente giudizio tecnico e non morale: un governo efficiente non è di per se stesso un buon governo. Questo giudizio ulteriore non si accontenta del raggiungimento del fine ma si pone la domanda: quale fine? Riconosciuto come fine dell’azione politica la salvezza della patria o l’interesse generale o il bene comune (contrapposti alla salute del governante, agli interessi particolaristici, al bene proprio), il giudizio non più sull’idoneità dei mezzi ma sulla bontà del fine è un vero e proprio giudizio morale, anche se, per le ragioni che vengono addotte da tutte le teorie giustificazionistiche, di una morale diversa o in parte diversa dalla morale comune, in base alla quale vengono giudicate le azioni degli individui singoli. Il che vuol dire che, pur tenendo conto delle ragioni specifiche dell’azione politica della cosiddetta «ragion di stato», che evoca episodi sinistri per il cattivo uso che se n’è fatto, anche se di per se stessa indica unicamente i caratteri distintivi dell’etica politica, l’azione politica non si sottrae affatto, come ogni altra azione libera o presunta libera dell’uomo, al giudizio di lecito e illecito, in cui consiste il giudizio morale, e che non si può confondere con il giudizio di idoneo o inidoneo.
Si può porre lo stesso problema anche in questi termini. Si ammetta pure che l’azione politica abbia in qualche modo riguardo alla conquista e alla conservazione e all’ampliamento del potere, del massimo potere dell’uomo sull’uomo, dell’unico potere cui si riconosce, se pure in ultima istanza, il diritto di ricorrere alla forza (ed è ciò che distingue il potere di Alessandro da quello del pirata che questo diritto non ha), tuttavia nessuna delle teorie giustificazionistiche, qui illustrate, considera la conquista, la conservazione e l’ampliamento del potere come beni in se stessi. Nessuna ritiene che lo scopo dell’azione politica «immorale» (morale rispetto alla morale dei pater noster) sia giustificato soltanto se ha per fine le «grandi cose», o «la salute della patria». Perseguire il potere per il potere vorrebbe dire trasformare un mezzo, che come tale deve essere giudicato alla stregua del fine, in un fine in se stesso. Anche per chi considera l’azione politica come un’azione strumentale, essa non è strumento per qualsiasi fine che all’uomo politico piaccia perseguire. Ma una volta posta la distinzione tra un fine buono e un fine cattivo, una distinzione cui non è sfuggita alcuna teoria del rapporto fra morale e politica, è inevitabile distinguere l’azione politica buona da quella cattiva, il che significa sottoporla a un giudizio morale. Valga un esempio. Il dibattito sulla questione morale riguarda spesso, e in Italia prevalentemente, il tema della corruzione, in tutte le sue forme, previste del resto dal codice penale sotto la rubrica di reati quali interesse privato in atti di ufficio, peculato, concussione, eccetera, e specificamente, con riferimento quasi esclusivo a uomini di partito, il tema cosiddetto delle tangenti. Basta una breve riflessione per rendersi conto che ciò che rende moralmente illecita ogni forma di corruzione politica (tralasciando l’illecito giuridico), è la fondatissima presunzione che l’uomo politico che si lascia corrompere abbia anteposto l’interesse individuale all’interesse collettivo, il bene proprio al bene comune, la salute della propria persona e della propria famiglia a quella della patria. E ciò facendo sia venuto meno al dovere di chi si dedica all’esercizio dell’attività politica, e abbia compiuto un’azione politicamente scorretta.
Il discorso sarebbe finito qui se in uno stato di diritto, com’è quello della Repubblica italiana, dalle condizioni di salute della quale sono nate queste mie riflessioni, oltre al giudizio sull’efficienza e a quello morale o di morale politica, come ho cercato di spiegare sin qui, non si desse sull’azione politica anche un giudizio più propriamente giuridico, vale a dire di conformità o meno alle norme fondamentali della Costituzione, cui è sottoposto l’esercizio dell’azione politica anche degli organi superiori dello stato. Tra le varie accezioni di stato di diritto mi riferisco a quella che lo definisce come il governo delle leggi contrapposto al governo degli uomini, e intende il governo delle leggi nel senso del moderno costituzionalismo.
Il giudizio sulla maggiore o minore conformità degli organi dello stato, o di quella parte integrante del potere sovrano che sono i partiti, alle norme della Costituzione e ai princìpi dello stato di diritto, può dar luogo al giudizio, che risuona così frequente nell’attuale dibattito politico, di scorrettezza costituzionale e di pratica antidemocratica, il che accade, per fare qualche esempio, nel caso dell’abuso dei decreti legge, di appello al voto di fiducia unicamente per stroncare l’opposizione e, per quel che riguarda i partiti, nella pratica del sottogoverno, che viola uno dei princìpi fondamentali dello stato di diritto, la visibilità del potere e la controllabilità del suo esercizio.
Anche se spesso la polemica politica non distingue i vari giudizi e li pone tutti e tre sotto l’etichetta della «questione morale», i tre giudizi, quello di efficienza, quello di legittimità e quello più propriamente morale (che si potrebbe anche chiamare di merito), sul quale esclusivamente mi sono soffermato, debbono essere tenuti distinti per ragioni di chiarezza analitica e di attribuzione di responsabilità.
1 Si veda A.K. Sen, «Mercato e morale», Biblioteca della libertà, n. 94, 1986, pp. 8-27.
2 Mi riferisco a J. Burnham, The Machiavellians Defenders of Freedom, Putnam & C., New York 1943. Vedi la trad. it., a cura di Ernesto Mari, I difensori della libertà, Mondadori, Milano 1947. La stessa traduzione, rivista e corretta da Gaetano Pecora, con la collaborazione di Vittorio Ghinelli, è stata riproposta di recente con il titolo I machiavelliani. Critica della mentalità ideologica, prefazione di Luciano Pellicani, Dunod, Milano 1997.
3 B. Croce, L’onesta politica, in Etica e politica, Laterza, Bari 1945, p. 165.
4 B. Croce, op. cit, p. 166.
5 A. Yanov, Le origini dell’autocrazia russa. Il ruolo di Ivan il terribile nella storia russa, trad. dall’inglese di Bruno Osimo, Edizione di Comunità, Milano 1984.
6 Ivi, p. 312.
7 Ivi, p. 371.
8 Ivi, p. 312.