La natura del pregiudizio

Che cosa è il pregiudizio

Per «pregiudizio» s’intende un’opinione o un complesso di opinioni, talora anche un’intera dottrina, che viene accolta acriticamente e passivamente dalla tradizione, dal costume oppure da un’autorità i cui dettami accettiamo senza discuterli: «acriticamente» e «passivamente», in quanto l’accettiamo senza verificarla, per inerzia o per rispetto o per timore, e l’accettiamo con tanta forza che resiste a ogni confutazione razionale, vale a dire a ogni confutazione che venga fatta ricorrendo ad argomenti razionali. Per questo si dice a buon diritto che il pregiudizio appartiene alla sfera del non razionale, al complesso di quelle credenze che non nascono dal ragionamento e si sottraggono a qualsiasi confutazione fondata su un ragionamento.

L’appartenenza alla sfera delle idee refrattarie a essere sottoposte al controllo della ragione serve a distinguere il pregiudizio da qualsiasi altra forma di opinione erronea. Il pregiudizio è un’opinione erronea creduta fortemente per vera, ma non ogni opinione erronea può essere considerata un pregiudizio. Per fare un esempio banale, chiunque di noi studiando una lingua straniera commette errori: si tratta di errori che non derivano da un pregiudizio, ma puramente e semplicemente dalla nostra ignoranza di alcune regole di quella lingua. Quale differenza c’è tra un errore di questo genere e l’errore del pregiudizio? La differenza consiste per l’appunto nel fatto che l’errore che commettiamo nello scrivere una lingua che conosciamo male è un errore che può essere corretto attraverso una conoscenza migliore, cioè attraverso argomenti che fanno appello alla nostra facoltà di ragionare e di apprendere attraverso l’esperienza.

Un’altra specie di errore che non deve essere confuso con il pregiudizio è quello in cui incorriamo quando siamo ingannati da qualcuno che ci fa credere vera una cosa che vera non è: noi possiamo cadere nell’errore in buona fede, ma anche in questo caso, una volta svelato l’inganno, siamo in grado di riconoscere l’errore e ristabilire la verità. In generale si può dire che si distinguono da quella opinione erronea in cui consiste il pregiudizio tutte le forme che possono essere corrette attraverso le risorse della ragione e dell’esperienza. Proprio perché non è correggibile o è meno facilmente correggibile, il pregiudizio è un errore più tenace e socialmente più pericoloso.

Ci si può ora domandare perché il pregiudizio abbia tanta forza da resistere più di qualsiasi altro errore alla confutazione razionale. Mi pare che si possa dare questa risposta: la forza del pregiudizio dipende generalmente dal fatto che il credere vera un’opinione falsa corrisponde ai miei desideri, sollecita le mie passioni, serve ai miei interessi. Dietro alla forza di convinzione con cui crediamo a ciò che il pregiudizio ci vuol far credere sta una ragione pratica, e quindi, proprio in conseguenza di questa ragione pratica, una predisposizione a credere nell’opinione che il pregiudizio tramanda. Questa predisposizione a credere si può chiamare anche prevenzione. Pregiudizio e prevenzione sono di solito legati l’uno all’altra. Il pregiudizio si radica più facilmente in coloro che sono già favorevolmente predisposti o prevenuti ad accettarlo. Anche per questo il pregiudizio come opinione erronea fortemente creduta vera si distingue dalle altre forme di errore perché in queste generalmente non c’è prevenzione: e proprio perché non c’è prevenzione sono più facilmente correggibili.

Diverse forme di pregiudizio

Vi sono varie forme di pregiudizio. Una prima distinzione utile è quella tra pregiudizi individuali e pregiudizi collettivi. In questa sede non mi interesso dei pregiudizi individuali, quali le superstizioni, le credenze più o meno idiote nella iettatura, nella iella, nel malocchio, che c’inducono a portare il ciondolo in forma di cornetto, oppure a fare certi gesti di scongiuro, o a non compiere certe azioni, come viaggiare di venerdì o sedersi in tredici a tavola, a procurarci amuleti per allontanare la sventura, o talismani per procurarla. Non me ne interesso, perché sono per lo più innocui, o comunque non hanno la pericolosità sociale dei pregiudizi collettivi.

Chiamo pregiudizi collettivi i pregiudizi condivisi da un intero gruppo sociale e riguardanti un altro gruppo sociale. La pericolosità dei pregiudizi collettivi dipende dal fatto che molti conflitti fra gruppi, che possono anche degenerare nella violenza, derivano dal modo distorto in cui un gruppo sociale giudica l’altro, generando incomprensione, rivalità, inimicizia, disprezzo, o dileggio. Generalmente questo giudizio distorto è reciproco, e da una parte e dall’altra è tanto più forte quanto più è intensa l’identificazione da parte dei singoli membri con il proprio gruppo. L’identificazione con il proprio gruppo fa sentire l’altro come diverso, o addirittura come ostile. A questa identificazione-contrapposizione contribuisce appunto il pregiudizio, ovvero il giudizio negativo che i membri di un gruppo si fanno dei caratteri del gruppo rivale.

I pregiudizi di gruppo sono innumerevoli, ma i due storicamente più rilevanti e influenti sono il pregiudizio nazionale e il pregiudizio di classe. Non per nulla i grandi conflitti che hanno contrassegnato tutta la storia dell’umanità sono quelli derivati dalle guerre fra nazioni o popoli (o anche razze), e dalla lotta di classe. Non c’è nazione che non abbia dietro alle spalle un’idea persistente, tenace, difficilmente modificabile, della propria identità che trova fondamento nella pretesa e presunta diversità da tutte le altre nazioni. C’è una grande differenza, talora un’opposizione, fra il modo in cui un popolo vede se stesso e il modo in cui è visto dagli altri popoli; ma generalmente tutte e due i modi sono costituiti da idee fisse, da generalizzazioni superficiali (tutti i tedeschi sono prepotenti, tutti gli italiani sono furbastri ecc.), che vengono chiamati proprio per questo «stereotipi». Per fare un esempio che ci è familiare, pensiamo all’idea che i piemontesi si fanno di se stessi (che è un’idea positiva) e all’idea che se ne fanno di solito le altre regioni d’Italia (che è un’idea negativa, il perfetto contrario dell’idea positiva che ce ne facciamo noi): tanto l’una quanto l’altra sono stereotipi. È uno stereotipo tanto il dire che il piemontese è un buon lavoratore, di poche parole, corretto, quanto il dire il contrario, che è uno sgobbone, tardo di mente, freddo nei rapporti interpersonali.

Sull’esistenza del pregiudizio di classe non ho bisogno di aggiungere altro, perché è un dato dell’esperienza comune. Non ho bisogno di precisare che il conflitto di classe nasce anche dal pregiudizio. Non dico che nasca solo dal pregiudizio. Nasce dalla contrapposizione reale fra coloro che hanno e coloro che non hanno, tra proprietari esclusivi dei mezzi di produzione e coloro che non posseggono altro bene che la forza-lavoro. Ma non c’è dubbio che viene rafforzato dal pregiudizio per cui le due classi contrapposte si attribuiscono reciprocamente caratteri soltanto negativi.

Pregiudizio e discriminazione

Mi occupo del pregiudizio per le sue conseguenze nocive. La conseguenza principale del pregiudizio di gruppo è la discriminazione. Dagli esempi che ho fatto, del pregiudizio nazionale (o regionale) e del pregiudizio di classe, cui si deve aggiungere il pregiudizio razziale, deriva che la conseguenza principale del pregiudizio collettivo è la distinzione, anzi la contrapposizione, fra gruppi di cui l’uno discrimina l’altro.

Che cosa significa discriminazione? La parola è relativamente recente ed è stata introdotta e diffusa soprattutto in relazione alla campagna razziale, prima nazista e poi anche fascista, contro gli ebrei, considerati come un gruppo «discriminato» rispetto al gruppo dominante. «Discriminazione» significa qualche cosa di più che differenza o distinzione, perché viene sempre usata con una connotazione peggiorativa. Possiamo dire allora che per «discriminazione» s’intende una differenziazione ingiusta o illegittima. Perché ingiusta o illegittima? Perché va contro il principio fondamentale della giustizia (quella che i filosofi chiamano «regola di giustizia»), secondo cui debbono essere trattati in modo eguale coloro che sono eguali. Si può dire che si ha una discriminazione quando coloro che dovrebbero essere trattati in modo eguale in base a criteri comunemente accolti nei paesi civili (quelli, tanto per intenderci, elencati nell’art. 3 della nostra Costituzione), vengono trattati in modo diseguale.

Cerchiamo di capire meglio in che cosa consista la discriminazione distinguendo le fasi attraverso cui essa si svolge. In un primo tempo la discriminazione si fonda su un mero giudizio di fatto, cioè sulla constatazione della diversità fra uomo e uomo, tra gruppo e gruppo. In un giudizio di fatto di questo genere non c’è niente di riprovevole: gli uomini sono di fatto fra loro diversi. Dalla constatazione che gli uomini sono diseguali non discende ancora un giudizio discriminante.

Il giudizio discriminante ha bisogno di un giudizio ulteriore, questa volta non più di fatto, ma di valore: ha bisogno cioè che dei due gruppi diversi uno sia considerato buono e l’altro cattivo, oppure uno sia considerato civile e l’altro barbaro, uno superiore (in doti intellettuali, in virtù morali ecc.) e l’altro inferiore. Si capisce benissimo che altro è dire che due individui o gruppi sono diversi, trattandosi di una mera constatazione di fatto che può essere fondata su dati obiettivi, altro è dire che il primo è superiore al secondo. Un giudizio siffatto introduce un criterio di distinzione non più fattuale ma valutativo, che, come tutti i giudizi di valore, è relativo, storicamente o anche soggettivamente condizionato. Nella discriminazione razziale, che è una delle discriminazioni più odiose, questo scambio fra il giudizio di fatto e il giudizio di valore avviene abitualmente. Che i neri siano diversi dai bianchi è un mero giudizio di fatto: si tratta fra l’altro di una differenza visibile, tanto visibile da non poter essere negata. La discriminazione comincia quando non ci si limita più a constatare che sono diversi, ma si aggiunge che i bianchi sono superiori ai neri, che i neri sono una razza inferiore. Inferiore rispetto a che cosa? Per dire che un essere è superiore all’altro devi avere un qualche criterio di valore. Ma questo criterio di valore da dove deriva? Si tratta di un criterio di valore che di solito viene tramandato acriticamente nell’ambito di un certo gruppo e che come tale si regge sulla forza della tradizione o su un’autorità riconosciuta (per esempio, su un testo considerato infallibile dai seguaci, come il Mein Kampf di Hitler).

Il processo di discriminazione non si ferma qui, ma si completa in una terza fase, che è quella veramente decisiva. Perché la discriminazione dispieghi tutte le sue conseguenze negative non basta che un gruppo, in base a un giudizio di valore, affermi di essere superiore all’altro. Si può benissimo pensare a un individuo che si consideri superiore a un altro ma non tragga affatto da questo giudizio la conseguenza che sia suo dovere renderlo schiavo, sfruttarlo o addirittura sopprimerlo. Pensate al rapporto abituale fra genitori e figli. Nulla da eccepire rispetto al giudizio di fatto per cui genitori e figli sono diversi (per età, per esperienza, per forza ecc.). Nulla da eccepire anche rispetto alla considerazione della superiorità dei genitori sui figli, perché in parte questa superiorità può essere fondata, almeno sino a che i figli sono minorenni, su basi oggettive. Ma da questi due giudizi non discende affatto la conseguenza che il superiore debba schiacciare l’inferiore. Anzi avviene nei rapporti familiari proprio l’opposto: in quanto superiore, il genitore deve soccorrere il figlio. Lo stesso accade, per fare un esempio attuale, nei rapporti fra il Nord e il Sud a livello mondiale. Nessuno mette in dubbio la superiorità del Nord rispetto al Sud se non altro sotto l’aspetto tecnologico. Ma da questa superiorità nessuno ritiene di poter derivare la conseguenza per cui è bene che il Nord viva nell’abbondanza e il Sud patisca la fame. Il rapporto di diversità, e anche quello di superiorità, non implicano le conseguenze della discriminazione razziale. La quale non si arresta alla considerazione della superiorità di una razza sull’altra, ma compie un altro passo decisivo (quello che ho chiamato la terza fase nel processo di discriminazione): sostiene che proprio sulla base del giudizio che una razza è superiore e l’altra inferiore, la prima deve comandare, la seconda obbedire, la prima dominare, l’altra essere soggetta, la prima vivere, l’altra morire. Dal rapporto superiore-inferiore può derivare tanto la concezione per cui il superiore ha il dovere di aiutare l’inferiore a raggiungere un livello più alto di benessere e di civiltà, quanto la concezione per cui il superiore ha il diritto di sopprimere l’inferiore. Solo quando la diversità conduce a questo secondo modo di concepire il rapporto fra superiore e inferiore si può a buon diritto parlare di vera e propria discriminazione con tutte le aberrazioni che ne seguono. Tra queste aberrazioni quella storicamente più distruttiva è stata la «soluzione finale» escogitata dai nazisti per risolvere il problema ebraico nel mondo: lo sterminio sistematico di tutti gli ebrei esistenti in tutti i paesi in cui il nazismo aveva esteso il suo dominio. Per arrivare a questa conclusione i dottrinari del nazismo erano dovuti passare attraverso queste tre diverse fasi: a) gli ebrei sono diversi dagli ariani; b) gli ariani sono una razza superiore; c) le razze superiori debbono dominare quelle inferiori, anche sopprimendole qualora sia necessario alla propria conservazione.

I vari tipi di discriminazione…

Ho tratto sinora il nostro maggior esempio di discriminazione da quella razziale. Ma non è la sola.

Ve ne sono molte altre: si consideri l’art. 3 della nostra Costituzione, nel quale si legge: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge». L’affermazione che tutti i cittadini sono eguali è già di per se stessa una presa di posizione nei riguardi di ogni forma di discriminazione. Come ho già detto, infatti, la discriminazione riposa prima di tutto sull’idea che gli uomini sono diseguali. Quindi continua: «… senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Mi soffermo in modo particolare sulla discriminazione rispetto alle opinioni politiche e su quella riguardo alle condizioni personali e sociali. La prima diventa sempre più irrilevante, almeno in uno stato democratico che è pluralistico per sua natura e vive anzi di questo pluralismo. Anche se non è del tutto vero che seguire un’opinione politica piuttosto che un’altra non abbia conseguenze pratiche, però è in linea di principio ammesso, e non più soggetto a discussione, che in una società democratica ognuno è libero di seguire l’opinione politica che ritiene migliore. Per fare un esempio di discriminazione rispetto all’opinione politica anche in uno stato democratico, si può prendere il Berufsverbot che era in vigore nella Repubblica federale tedesca; vale a dire il provvedimento in base al quale non potevano accedere ad alcuni uffici pubblici gli aderenti a certi movimenti o partiti considerati eversivi. Uno degli obiettivi primari dello Statuto dei lavoratori, che è in vigore in Italia dal 1970, fu quello di garantire la libertà di opinione anche all’interno della fabbrica. L’art. 1 infatti dice che i lavoratori «hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero».

Quanto alle condizioni personali e sociali, bisognerebbe prima di tutto interpretare esattamente il significato dell’espressione. Si può dire in linea molto generale che tra le condizioni personali rientrano certamente alcune menomazioni, come quelle che caratterizzano la categoria che oggi si chiama comunemente dei portatori di handicap, e tra le condizioni sociali l’appartenenza a una classe sociale. Ai fini del nostro discorso basti dire che il problema di una possibile (e non soltanto possibile, ma anche reale) discriminazione rispetto ai menomati esiste e se ne discute continuamente, specie in sede di politica scolastica. Non parliamo poi della discriminazione fondata sulla distinzione di classe sociale, che, nonostante la dizione dell’art. 3, continua ad avere il proprio effetto in tante situazioni, come, per esempio, nell’applicazione della legge penale, spesso più riguardosa o meno rigida nei confronti dei ricchi e dei potenti, nonostante il principio scritto sul frontone di tutti i tribunali «La legge è uguale per tutti».

… e le loro differenze

Una volta elencate le più comuni forme di discriminazione si tratta di vedere se si possono individuare fra di loro differenze rilevanti. Abbiamo già detto che la discriminazione riposa sull’osservazione di una diversità o diseguaglianza fra individuo e individuo, fra gruppo e gruppo. Ora la distinzione principale che si vuol fare tra diverse forme di diseguaglianza è la distinzione fra diseguaglianze naturali e diseguaglianze sociali. Si tratta di una distinzione relativa e non assoluta. Però è una distinzione che entro certi limiti ha un fondamento. Ognuno vede che la differenza fra uomo e donna è una differenza naturale, mentre la differenza linguistica è una differenza sociale o storica. Tanto è vero che mentre un uomo non può trasformarsi in donna e viceversa (se non in casi eccezionali) un uomo può parlare in due o più lingue diverse, e può darsi il caso che per un certo periodo della propria vita abbia parlato una lingua e in un altro periodo ne abbia parlata una diversa.

La distinzione fra queste due specie di diseguaglianze ha avuto una grande importanza in tutta la storia del pensiero politico. Una delle costanti aspirazioni degli uomini è di vivere in una società di eguali. Ma è chiaro che le diseguaglianze naturali sono molto più difficili da vincere che quelle sociali. Ragione per cui coloro che resistono alle richieste di maggiore eguaglianza sono portati a ritenere che la maggior parte delle diseguaglianze siano naturali e, come tali, invincibili o più difficilmente superabili. Al contrario, coloro che lottano per una maggiore eguaglianza sono convinti che la maggior parte delle diseguaglianze siano sociali o storiche. Si pensi al principe degli scrittori egualitari, Rousseau: nel Discorso sull’origine della diseguaglianza fra gli uomini sostiene che la natura ha fatto gli uomini eguali e che la civiltà li ha resi diseguali, in altre parole, che le diseguaglianze fra gli uomini hanno un’origine sociale, e per questo l’uomo tornando alla natura può ritornare alla eguaglianza. Si provi ora a considerare il principe degli scrittori inegualitari, Nietzsche (l’anti-Rousseau): per l’autore di Al di là del bene e del male, gli uomini sono per natura diseguali e soltanto la società, con la sua morale del gregge, con la sua religione della compassione per i «malriusciti», li ha resi eguali. Là dove Rousseau vede diseguaglianze artificiali e quindi condannevoli e superabili, Nietzsche vede diseguaglianze naturali e quindi non condannevoli né superabili. Mentre in nome dell’eguaglianza naturale l’egualitario condanna le diseguaglianze sociali, in nome della diseguaglianza naturale l’inegualitario condanna l’eguaglianza sociale.

La differenza fra diseguaglianza naturale e diseguaglianza sociale è rilevante per il problema del pregiudizio per questa ragione: spesso il pregiudizio nasce dal sovrapporre alla diseguaglianza naturale una diseguaglianza sociale senza riconoscerla come tale, senza riconoscere che la diseguaglianza naturale è stata aggravata dal sovrapporsi di una diseguaglianza creata dalla società, e che non essendo riconosciuta come tale viene considerata ineliminabile. Nella questione femminile proprio questo è avvenuto. Che fra uomo e donna vi siano differenze naturali è evidente. Ma la situazione femminile che i movimenti femministi rifiutano è una situazione in cui alla diversità naturale si sono aggiunte differenze di carattere sociale e storico, che non sono giustificate naturalmente e che, essendo un prodotto artificiale della società retta dai maschi, possono (o debbono) essere eliminate. Anche la differenza tra sano e malato di mente è una differenza naturale. Ma su questa differenza si sono sovrapposte discriminazioni sociali che sono il prodotto di pregiudizi. Uno degli esempi più discussi oggi di questa distorsione di una diversità naturale attraverso un pregiudizio di carattere sociale è quello che riguarda gli omosessuali. Anche in questo caso si può parlare di diversità naturale fra omosessuali ed eterosessuali. Ma il giudizio negativo che nella nostra società viene dato sull’omosessualità è di origine storica. Tanto è vero che nella classe colta dell’antica Grecia, questo giudizio negativo non esisteva. Anzi, l’amore del saggio per il giovane era considerato di natura superiore all’amore eterosessuale.

Tra le forme di discriminazione, che stiamo discutendo, sono invece di natura più sociale che naturale quelle linguistiche e quelle derivanti dall’appartenenza a una religione piuttosto che a un’altra. La religione, come la lingua, è un prodotto sociale. Ne è una riprova che, mentre le diseguaglianze naturali sono insuperabili, nulla osta a immaginare che le differenze linguistiche e quelle religiose possano essere superate. Come è sempre esistito l’ideale di una religione universale, così è stata spesso avanzata la proposta di una lingua universale. La religione universale è una religione eguale per tutti, allo stesso modo che una lingua universale è una lingua eguale per tutti. Mentre è improbabile che scompaiano le diversità di razza, perché è una differenza che non dipende dalla volontà degli uomini, potrebbero scomparire un giorno le differenze fra lingue e religioni, qualora si riuscisse a stabilire un accordo generale nell’unificare le une e le altre.

Beninteso, questa differenza tra diseguaglianze naturali e sociali deve essere presa con molta cautela, per quanto sia legittima. Però serve a far capire che il pregiudizio è un fenomeno sociale, è il prodotto della mentalità di gruppi formatasi storicamente, che proprio in quanto tale può essere eliminato.

Pregiudizio e minoranze

Un’ultima osservazione. Si è detto che il pregiudizio collettivo, che è il tipo di pregiudizio di cui mi sono esclusivamente occupato, è l’atteggiamento che un gruppo assume di fronte agli individui di un altro gruppo. Si può aggiungere che quasi sempre il gruppo di fronte al quale si forma un pregiudizio ostile è una minoranza. Il pregiudizio di gruppo è generalmente un pregiudizio della maggioranza nei riguardi di una minoranza. Tipico in questo senso il pregiudizio razziale. Vittime del pregiudizio di gruppo sono di solito le minoranze etniche, religiose, linguistiche ecc. Prova ne sia che altro è l’atteggiamento del cattolico nei confronti dei protestanti o degli ebrei in genere, altro è lo stesso atteggiamento quando il protestante, come fu il caso dei Valdesi in Piemonte in epoche storiche ora fortunatamente superate, o quando l’ebreo, come fu per secoli il caso dell’istituzione dei ghetti, costituiscono una minoranza in seno a una maggioranza. Lo stesso si può dire per il pregiudizio degli italiani del Nord nei riguardi dei meridionali: questo è diventato tanto più forte quanto più, in seguito al fenomeno dell’emigrazione, uomini provenienti dal Sud del paese hanno formato un gruppo di minoranza inserito in una maggioranza. Così per le minoranze linguistiche: non vi è alcun pregiudizio in generale contro i diversamente parlanti, mentre il pregiudizio può nascere quando i diversamente parlanti sono un’isola ristretta in un ambiente più vasto che tende naturalmente a far prevalere il proprio modo di parlare su quello della minoranza.

Se è vero che il pregiudizio di gruppo colpisce generalmente le minoranze, vi è almeno una eccezione che ci deve far riflettere. La serie di pregiudizi antifemminili degli uomini non riguardano una minoranza: quanto al numero, le donne sono su per giù come gli uomini e non vivono separate in gruppi minoritari. Ho già detto che tra uomini e donne vi sono diseguaglianze naturali che sarebbe sciocco dimenticare. Ma è un fatto che molte delle diseguaglianze fra la condizione maschile e quella femminile sono d’origine sociale, tanto è vero che i rapporti fra uomo e donna cambiano secondo le diverse società. L’emancipazione della donna cui assistiamo ormai da anni è un’emancipazione che deve farsi strada anche attraverso la critica di molti pregiudizi, cioè di veri e propri atteggiamenti mentali che sono radicati nel costume, nelle ideologie, nella letteratura, nel modo di pensare della gente, tanto radicati che, essendosi persa la nozione della loro origine, coloro che continuano ad averli ritengono in buona fede che siano giudizi fondati su dati di fatto.

Proprio perché questi pregiudizi che si sono frapposti fra l’uomo e la donna riguardano la metà del genere umano e non soltanto piccole minoranze, è da ritenere che il movimento per l’emancipazione delle donne e per la conquista da parte loro della parità dei diritti e delle condizioni sia la più grande (io sarei persino tentato di dire l’unica) rivoluzione del nostro tempo.

Conseguenze del pregiudizio

Sono partito dal presupposto che il pregiudizio è da combattere per le sue conseguenze. Quali conseguenze? Le conseguenze nocive del pregiudizio si possono distribuire in tre livelli diversi, che distinguo per grado di gravità o d’intensità.

Si comincia dalla discriminazione giuridica. In tutte le legislazioni moderne esiste un principio secondo il quale «tutti sono eguali di fronte alla legge». Questo principio vuol dire che tutti debbono godere degli stessi diritti. Uno degli effetti di una discriminazione è che alcuni sono esclusi dal godimento di certi diritti. Poiché abbiamo parlato poc’anzi della questione femminile, ecco che ci soccorre un esempio molto facile e illuminante: sino al 1946, in Italia, le donne erano escluse dal voto, cioè non godevano di un diritto di cui godevano gli uomini. Si trattava di una vera e propria discriminazione, anche se non era sempre sentita come tale. La conseguenza di tale discriminazione era naturalmente una menomazione. Quando scoppiò anche in Italia la campagna contro gli ebrei durante gli ultimi anni del regime fascista, la prima conseguenza di questa campagna fu la privazione, inflitta a coloro che erano considerati di razza ebraica, di alcuni diritti di cui avevano goduto, come tutti gli altri italiani, prima della discriminazione. Anche in questo caso vi era un gruppo che non era più eguale agli altri rispetto a certi diritti.

Una seconda conseguenza, ancora più grave, della discriminazione è l’emarginazione sociale. L’esempio classico è il ghetto in cui furono rinchiusi gli ebrei per secoli nel mondo cristiano. Ma anche se non istituzionalizzati, ghetti di minoranze etniche o sociali ce ne sono in tutte le grandi città. Si pensi ai quartieri neri, come Harlem, nelle città americane, o alle bidonville che circondano alcune metropoli. La forma estrema di emarginazione è quella che si esercita nelle cosiddette istituzioni totali, come le prigioni e i manicomi. Anche in questo caso il processo di emancipazione coincide con la individuazione di una discriminazione, e la individuazione di una discriminazione è spesso l’effetto di una presa di coscienza del pregiudizio. Rispetto al rapporto uomo-donna, oggi spesso, se pure in forma polemica, la casa dove è stata relegata per secoli la donna viene paragonata a una sorta di ghetto, che ha contrassegnato anche fisicamente, e spazialmente, l’emarginazione sociale della donna.

La terza fase, la più grave, del processo di discriminazione è la persecuzione politica. Qui intendo per persecuzione politica l’uso anche della forza per schiacciare una minoranza di «diseguali». Rappresenta in modo drammatico questa terza fase lo sterminio degli ebrei e di altre minoranze, come gli zingari, perpetrato dal regime nazista.

Conclusione inconcludente

So bene che dovrei concludere rispondendo alla domanda: «Ma se il pregiudizio reca tanti danni all’umanità, è possibile eliminarlo?». Riconosco molto francamente che a una domanda del genere non so dare alcuna risposta. Purtroppo. Chiunque conosca un po’ la storia, sa che di pregiudizi nefasti ce ne sono sempre stati e che anche quando alcuni di essi vengono superati ne sorgono subito altri.

Posso dire soltanto che i pregiudizi nascono nella testa degli uomini. Perciò bisogna combatterli nella testa degli uomini, cioè con lo sviluppo delle conoscenze, e quindi con l’educazione, attraverso la lotta incessante contro ogni forma di settarismo. Vi sono uomini che si ammazzano per una partita di calcio. Dove nasce questa passione se non nella loro testa? Non è un toccasana, ma credo che la democrazia possa servire anche a questo: la democrazia, vale a dire una società in cui le opinioni sono libere e quindi sono costrette a scontrarsi e scontrandosi a depurarsi. Per liberarsi dai pregiudizi, gli uomini hanno bisogno prima di tutto di vivere in una società libera.