Ragion di stato e democrazia

Il rapporto tra morale e politica è uno dei tanti aspetti della questione morale, oggi più viva che mai. Tra le questioni morali quella dei rapporti tra morale e politica è una delle più tradizionali accanto a quella del rapporto tra morale e vita privata, con un rilievo particolare al campo della vita sessuale, o a quella del rapporto tra morale e diritto, tra morale e arte. Oggi sono apparsi sulla scena del dibattito filosofico i problemi dei rapporti tra morale e scienza sia che si tratti di scienza fisica o di scienza biologica, tra morale e sviluppo tecnico, tra morale ed economia (o, come si dice, il mondo degli affari).

Il problema di fondo è sempre lo stesso. Nasce dalla constatazione che può manifestarsi un contrasto tra le azioni umane in tutti questi campi e alcune regole fondamentali e generalissime della condotta umana, chiamate abitualmente morali, e in quanto tali imposte come obbligatorie, senza le quali la convivenza sarebbe non soltanto impossibile ma sommamente infelice. Provvisoriamente possiamo accontentarci di dire che il fine di molte regole morali è di rendere possibile una buona convivenza, dove per «buona» s’intende una convivenza dove siano diminuite le sofferenze che gli uomini possono reciprocamente procurarsi con la loro condotta, gli uni contro gli altri (sofferenze che sono ineliminabili, invece, nel mondo animale dove domina spietata la lotta per la sopravvivenza) e siano protetti alcuni beni fondamentali come la libertà, la giustizia, la pace e un minimo di benessere.

Il modo più semplice, però anche meno convincente, di risolvere il problema è di sostenere l’autonomia delle varie sfere di azione rispetto a quella regolata dalle prescrizioni morali.

Autonomia dell’arte: l’arte ha un suo criterio di giudizio, che è il bello e il brutto, diverso da quello del buono e del cattivo proprio della morale. Il criterio in base al quale deve essere giudicata la scienza è il vero e il falso, che è anch’esso giudizio diverso da quello del bene e del male. Nello stesso senso si parla in economia dell’autonomia delle regole del mercato che ubbidiscono al criterio dell’utile. Nel mondo degli affari ci si riferisce al criterio dell’efficacia che deve prescindere da regole universali di condotta che li renderebbero, se non impossibili, per lo meno più difficili e non più redditizi.

Uno dei campi più controversi, ed è anche quello in cui ogni uomo o donna è particolarmente sensibile, e non soltanto l’artista, lo scienziato, l’uomo d’affari, ma ogni uomo e ogni donna in quanto tali, è quello della vita sessuale: autonomia della vita sessuale significa libertà nei rapporti erotici rispetto alla morale corrente, in altre parole significa che la vita sessuale non ha precise regole di condotta oppure ubbidisce a regole diverse da quelle della morale.

La stessa risposta è stata data riguardo alla politica, ed è la risposta che nella patria di Machiavelli e di Guicciardini è stata chiamata della ragion di stato o della autonomia della politica.

Credo superfluo ricordare che chi ha ribadito con grande successo questa tesi è stato Carl Schmitt, che ha attribuito alla sfera politica un criterio proprio di valutazione che è quello dell’opposizione amico-nemico. Testualmente: «Assumiamo che sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello estetico, bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso. La specifica distinzione alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione di amico e nemico».

Sia ben chiaro, ma lo dico qui per inciso, l’analogia tra le distinzioni tradizionali, vero-falso, buono-cattivo, bello-brutto, da un lato, e amico-nemico, dall’altro, non regge. Sono opposizioni che stanno su due piani diversi e non si possono allineare l’una dietro l’altra come se stessero sullo stesso piano. Le diadi tradizionali consentono di dare giudizi di valore nel senso proprio della parola, cioè di esprimere la propria approvazione o il proprio biasimo su di un’azione, e quindi di promuovere su quest’azione consenso o dissenso. La diade amico-nemico, spiega Carl Schmitt, sta a indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione. Ma non esprime affatto un giudizio di valore che permetta di distinguere azioni politicamente positive da azioni politicamente negative, così come, invece, la diade bello-brutto serve a distinguere opere d’arte esteticamente da approvare o da disapprovare. L’amico è l’alleato, il nemico è colui contro cui si combatte. Tra l’altro, la contrapposizione non è esauriente, perché tra l’amico e il nemico può esserci il neutrale, che non è né amico né nemico. Se si volesse affiancare alle diadi tradizionali una diade che permetta di dare giudizi di valore sulla condotta politica, si dovrebbe ricorrere alla diade opportuno-inopportuno oppure conforme allo scopo - non conforme allo scopo. Questo, sì, è un criterio di cui ci si può servire per dare un giudizio positivo o negativo su un’azione politica, in quanto permette di dare un giudizio dell’azione diverso tanto dal giudizio utile-disutile, mediante il quale si giudica l’azione economica, quanto dal giudizio buono-cattivo, mediante il quale si giudica l’azione morale. Se si guarda a tutte le teorie che sostengono l’autonomia della politica rispetto alla morale, queste contrappongono al criterio di giudizio buono-cattivo il criterio dell’opportunità e della inopportunità. Si ritiene che la politica possa dirsi autonoma in quanto un’azione può essere giudicata politicamente opportuna anche se non è eticamente buona, e anche se non è economicamente utile. La distinzione schmittiana amico-nemico non serve in alcun modo a caratterizzare la politica come sfera autonoma rispetto ai valori, ma unicamente a dare una definizione esplicativa di «politica».

Il problema del rapporto tra morale e politica nasce allo stesso modo che nelle altre sfere, dove, per continuare i nostri esempi, vi possono essere opere esteticamente pregevoli ma moralmente condannevoli, azioni economicamente utili ma moralmente riprovevoli. Ho in mente, per fare un esempio di grande attualità, il problema della vendita degli organi. Si è sostenuto che il miglior modo per ovviare alla difficoltà di trovare reni di trapianto sia quello di considerarli una merce, come un’altra, perché si troverà sempre un poveraccio che per pagare i suoi debiti o anche soltanto per sopravvivere, o, come anche si è detto, per comprarsi una casetta, è disposto a vendere un rene. O, per fare un altro esempio, se il fine dell’impresa in una società di mercato è il profitto, non è escluso che il profitto venga perseguito senza troppo tener conto del principio fondamentale della morale, il rispetto della persona umana.

Analogamente, il problema del rapporto tra morale e politica si pone in questo modo: è constatazione comune, di chiunque sappia un po’ di storia passata e presente, che nella sfera politica si compiono continuamente azioni che sono considerate illecite dalla morale o, all’inverso, si permettono azioni che la morale considera doverose. Da questa constatazione si è ricavata la convinzione che la politica ubbidisca a un codice di regole differente da quello morale. Faccio qualche esempio.

Il codice morale, in tutti i tempi e in tutti i paesi, ordina: «Non uccidere». E invece la storia umana può essere oggettivamente raffigurata come una lunga continua ininterrotta sequela di uccisioni, stragi d’innocenti, massacri senza scopo apparente, di sommosse, rivolte, rivoluzioni cruente, guerre, che vengono di solito giustificate con i più diversi argomenti. Hegel disse una volta che la storia umana è un «immenso mattatoio». Si è detto a ragione che il precetto di non uccidere vale all’interno del gruppo, non all’esterno del gruppo, ovvero nei rapporti tra gruppo e gruppo. Con questa spiegazione il precetto di non uccidere diventa puramente strumentale, perde qualsiasi carattere d’imperativo categorico. Vale all’interno del gruppo, perché assicura quella pace tra i suoi membri, che è necessaria per la sopravvivenza dell’insieme. Non vale all’esterno del gruppo per la stessa ragione, perché il gruppo sopravvive soltanto se riesce a difendersi dall’attacco dei gruppi ostili: fa parte della strategia della difesa l’autorizzazione, ma che dico?, l’obbligo, di uccidere il nemico.

Lo stesso si dica dell’altro precetto fondamentale di ogni morale: «Non mentire». Esiste una letteratura immensa sull’arte della simulazione e della dissimulazione in politica. Elias Canetti in Massa e potere ha scritto pagine di grande interesse sul tema: «È caratteristica del potere una ineguale ripartizione del vedere a fondo. Il detentore del potere conosce le intenzioni altrui, ma non lascia conoscere le proprie. Egli deve essere sommamente riservato: nessuno può sapere ciò che egli pensa, ciò che si propone». Come esempio di impenetrabilità, adduce quello di Filippo Maria Visconti, di cui dice: «Nessuno gli fu pari nell’abilità di celare il suo intimo».

Chi voglia saperne di più si legga il libretto di Rosario Villari, Elogio della dissimulazione,1 che si riferisce soltanto all’età barocca, ma fa esempi e citazioni che si attagliano a tutti i tempi. Tra le molte citazioni, scelgo quella di un brano di Giusto Lipsio che scrive: «Spiaccia a qualche bell’anima, e griderà: “Siano dalla vita umana bandite simulazione e dissimulazione”. Dalla vita privata, è vero, dalla pubblica non così, né altrimenti può fare chi abbia in mano tutta la Repubblica». Questo è uno dei tanti passi da cui sembra si debba dedurre che la distinzione fra morale e politica coincide con quella fra privato e pubblico. Ciò che si chiama correntemente morale varrebbe soltanto nella vita privata. Nella vita pubblica varrebbero altre regole.

Non c’è sfera politica senza conflitti. Nessuno può sperare di avere la meglio in un conflitto senza ricorrere all’arte della finzione, dell’inganno, del mascheramento delle proprie intenzioni. In quel regno dell’eterno conflitto per la sopravvivenza, che è la natura, universali sono le diverse tecniche del nascondersi, del rintanarsi, del mimetizzarsi praticate dagli animali. Dal vero duello, o da quel duello ludico che è la scherma, all’arte della strategia militare il saper fingere, la «finta», per ingannare l’avversario, fa parte delle condizioni stesse del successo. Non c’è politica senza uso del segreto: il segreto non solo tollera ma esige la menzogna. Essere tenuti al segreto significa il dovere di non rivelarlo; il dovere di non rivelarlo implica il dovere di mentire.

Faccio un terzo esempio: la massima che sta a fondamento di ogni possibile convivenza è pacta sunt servanda. Ogni società è un intreccio di rapporti di scambio. Una società sopravvive se e sino a che venga garantita la sicurezza degli scambi. Di qui una delle massime morali, che esige la reciproca osservanza dei patti. Uno degli esempi proposti da Kant per far capire il senso del principio etico fondamentale che suona così: «Non puoi fare ciò che non possa diventare una massima universale», è proprio l’osservanza dei patti. Devo osservare i patti, perché non voglio vivere in una società in cui i patti non siano osservati. Sarebbe il ritorno allo stato di natura in cui nessuno è tenuto a osservare un patto sino a che non sia sicuro che anche gli altri lo osserveranno. Ma nello stato di natura questa sicurezza non c’è. Chi osserva i patti in un mondo in cui gli altri non si ritengono obbligati a osservarli è destinato a soccombere.

Anche questa massima non sembra valere nella vita pubblica come vale incondizionatamente nella vita privata. Si suol dire che i trattati internazionali sono pezzi di carta. Gli impegni presi valgono soltanto secondo la formula rebus sic stantibus. I rapporti internazionali sono fondati più sulla diffidenza che sulla fiducia. Una società di contratto è invece una società fondata sulla fiducia. Una società in cui uno diffida dell’altro è una società in cui alla fine la vittoria, essendo del più forte, ognuno cerca la salvezza nella forza più che nella saggezza.

Questo riferimento alla saggezza ci mette di fronte a una ulteriore differenza radicale fra il mondo morale e quello politico, che tutte le riassume. Non è un caso che la virtù del politico per eccellenza non sia tanto la sapienza o la saggezza, quanto la prudenza, ovvero la capacità somma di adattare i princìpi alla soluzione delle situazioni concrete. Nel famoso capitolo XVIII del Principe Machiavelli afferma che un signore «prudente» non è obbligato a mantenere la parola data quando «tale osservanza gli torna contro». Uno dei maestri di comportamento dell’età barocca, Balthasar Gracián, scrisse: «I serpenti sono maestri di ogni sagacità. Essi ci mostrano il cammino della prudenza». Subito dopo la prudenza, virtù per eccellenza del politico, anch’essa risalente ai greci, è l’astuzia, raffigurata non più dal serpente ma dalla volpe. L’astuzia, in greco metis, rinvia nientemeno che a Ulisse. C’è anche in traduzione italiana un bel libro di Detienne e Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, in cui si legge: «La metis deve prevedere l’imprevedibile. Impegnata nel divenire, pronta di fronte a situazioni ambigue e nuove, il cui esito è sempre certo, l’intelligenza astuta riesce ad incidere sugli esseri e sulle cose perché è capace di prevedere, al di là dell’immediato presente, un segmento più o meno ampio di futuro. La metis appare molteplice, screziata, ondeggiante. Possiede la doppiezza per cui si presenta sempre diversa da ciò che è, e nasconde la sua realtà micidiale sotto apparenze rassicuranti».2 Fa parte dell’astuzia l’invenzione di tranelli che servono per ingannare l’avversario, di trappole, di insidie, di imboscate, di travestimenti, degli stratagemmi più vari (di cui il più celebre di tutti è stato il cavallo di Troia).

In un antico trattato greco di caccia e di pesca i due animali che fanno particolare sfoggio di metis sono la volpe e il polipo. L’astuzia della volpe consiste soprattutto nel capovolgersi quando l’aquila l’attacca; quella del polipo è di rendersi imprendibile per le molte forme che assume. Il suo calco umano è l’uomo polútropos, l’uomo dalle mille risorse. In questi anni si è diffuso lo studio delle metafore, specie delle metafore animali, nel linguaggio politico. Se ne fa un uso continuo: si pensi in quanti discorsi politici quotidiani entri per diritto o per traverso il riferimento ai «falchi» e alle «colombe». La metafora della volpe è arcinota. Meno usuale, se non addirittura dimenticata, quella del polipo. Il polipo è capace di adattarsi alle situazioni più varie, di assumere gli aspetti più diversi, d’inventare mille movimenti imprevedibili che renderanno la sua azione più efficace nelle più varie circostanze. Sembra da questa interpretazione che oggi gli stessi caratteri si attribuiscano piuttosto all’uomo politico che spregiativamente viene chiamato «camaleonte».

Vorrei osservare che nessuna di queste metafore animalesche, serpente, volpe, leone, polipo, camaleonte, potrebbe essere usata per raffigurare l’uomo morale, colui che agisce in vista del bene universale, e non soltanto di quello della città. Una prova di più, se ancora ce ne fosse bisogno, della irriducibilità delle cosiddette virtù politiche nel senso machiavellico della parola alla virtù morale.

A questo punto, dopo aver constatato che una divergenza tra le regole della morale e quelle della politica è sempre esistita ed esiste tuttora di fatto, sorgono due problemi fondamentali: come si spiega questa divergenza? è bene o male che questa divergenza ci sia? La prima è una quaestio facti, la seconda una quaestio iuris. Vediamole separatamente.

Una spiegazione plausibile non si può certo trovare, come abbiamo già detto all’inizio, nella tesi dell’autonomia della politica rispetto alla morale. Questa tesi non spiega nulla, è una mera tautologia. È come dire che morale e politica sono diverse perché sono diverse. Eppure il problema della diversità è un problema serio perché, nonostante la differenza accertata e comprovata storicamente, corre lungo la nostra storia anche l’esigenza che questa differenza venga meno o se non altro che il buon governo sia quello in cui politica e morale tendono a coincidere. O per lo meno, accanto a dottrine realistiche per le quali questa differenza è ineliminabile, vi sono teorie idealistiche per cui la politica deve uniformarsi alla morale, e, se non vi si conforma, è una cattiva politica.

In un noto libro, Il volto demoniaco del potere,3 lo storico tedesco Gerhard Ritter, sostiene che questi due indirizzi di pensiero si trovano ben rappresentati all’inizio dell’età moderna, quello realistico da Machiavelli, quello idealistico da Tommaso Moro, che descrive la Repubblica di Utopia in cui regna la perfetta pace insieme con la perfetta giustizia. I due indirizzi della politica amorale e della politica morale sarebbero confluiti secondo Ritter, l’uno nella Germania di Hitler, l’altro nel processo di Norimberga contro i criminali nazisti e nella istituzione dell’ONU. Del resto, non è da dimenticare che negli stessi anni in cui Machiavelli scrive Il Principe, considerato come un esempio insuperato di politica realistica, Erasmo scrive L’educazione del principe cristiano, che può essere considerato un esempio altrettanto puro di politica idealistica.

Il contrasto tra realismo e idealismo si è ripetuto continuamente nella storia del pensiero politico. Non se ne può addurre esempio più lampante che l’opposta posizione assunta di fronte al problema del rapporto tra morale e politica dai due maggiori filosofi dell’età moderna: Kant e Hegel. L’ideale di Kant è il «politico morale», ossia il sovrano che interpreta i princìpi dell’arte politica in modo che possano coesistere con i princìpi della morale ed eleva a regola del suo agire la massima secondo cui è tenuto a correggere i difetti della costituzione in conformità dei princìpi del diritto di natura, «anche con eventuale sacrificio del suo interesse particolare». Per Hegel, invece, vale il principio della ragion di stato nella sua formula più pura, vale a dire il principio secondo cui la morale politica, che egli chiama «eticità», ha la priorità sulla morale propriamente detta, che è la morale privata. Ne segue che l’affermazione secondo cui esiste un’opposizione tra la politica e la morale «riposa su un modo superficiale di rappresentarsi la moralità, la natura dello stato e i suoi rapporti con il punto di vista morale».

Nonostante la ricorrente aspirazione a ricondurre la politica alla morale, il contrasto continua a esistere di fatto. Si capisce che abbia provocato e continui a provocare tentativi di spiegazione. Questi tentativi sono innumerevoli. Mi limito a indicarne tre:

1) Il divario fra morale e politica nasce dal fatto che la condotta politica è guidata dalla massima che il fine giustifica i mezzi e il fine della politica – la conservazione dello stato, il bene pubblico, il bene comune o collettivo, come lo si voglia chiamare – è tanto superiore al bene dei singoli individui da giustificare la violazione di regole morali fondamentali che valgono per gli individui e nei rapporti fra loro. Tradizionale è la massima: Salus rei publicae suprema lex. Sarebbe troppo lungo mettere in rilievo tutti gli aspetti deboli di questa massima. La critica morale si appunta anzitutto sul valore del fine. Non tutti i fini sono tanto alti da giustificare l’uso di qualsiasi mezzo: di qui la necessità del governo delle leggi contrapposto al governo degli uomini, di un governo cioè in cui i governanti agiscano in conformità di leggi stabilite, siano controllati dal consenso popolare e siano responsabili delle decisioni che prendono. Nello stesso passo in cui Machiavelli enuncia e fa suo il principio della salvezza della patria come bene supremo, dice anche, riferendosi al re di Francia: «Il re non può patir vergogna qualunque sua deliberazione, o in buona o cattiva fortuna, perché se perde, se vince, tutti dicono cosa da re». Una simile affermazione sarebbe inaccettabile in uno stato di diritto.

La critica morale si appunta anche sulla liceità dei mezzi. Tutti i mezzi sono leciti? Basti pensare alle norme che sono state via via stabilite per il cosiddetto diritto di guerra, norme che hanno per scopo essenzialmente la limitazione nell’uso della forza. Che questi limiti non siano rispettati, non vuol dire che la loro violazione non sia percepita come un’offesa alla coscienza civile. Anche sotto questo aspetto una differenza c’è tra lo stato democratico e lo stato non democratico, sia per quel che riguarda l’uso di mezzi più o meno violenti da parte delle forze di polizia, sia per quel che riguarda, caso esemplare, l’abolizione della pena di morte.

2) La seconda giustificazione è quella che è stata data prevalentemente dalle teorie della ragion di stato, secondo cui la politica deve essere subordinata alla morale, ma vi possono essere situazioni eccezionali in cui è legittima una deroga ai princìpi. Nessun principio morale ha valore assoluto, vale senza eccezioni. Anche la norma «Non uccidere» può essere eccezionalmente violata; uno di questi casi è previsto in ogni codice penale, ed è la legittima difesa. Un altro è lo stato di necessità, perché la necessità non ha legge, è legge a se stessa.

E siccome abbiamo citato all’inizio Carl Schmitt, non si può non ricordare a questo proposito che secondo lui la caratteristica della sovranità sta nel potere di decidere lo stato d’eccezione, proprio quello stato che consente, in base al principio di necessità, di derogare alle leggi vigenti o di sospenderne provvisoriamente l’esecuzione.

Anche sotto questo aspetto c’è una differenza tra stato democratico e stato non democratico. Nella nostra Costituzione, per esempio, non è previsto lo stato di eccezione, ma è previsto soltanto lo stato di guerra, e non genericamente lo stato di necessità.

3) La terza giustificazione è quella che fa risalire il divario tra morale e politica alla contrapposizione insanabile fra due forme di etica, l’etica dei princìpi e quella dei risultati (o delle conseguenze). L’una giudica l’azione in base a quello che sta prima, il principio, la norma, la massima – non uccidere, non mentire, osserva i patti stabiliti –; l’altra la giudica in base a quello che viene dopo, cioè in base agli effetti dell’azione. I due giudizi possono coincidere, ma spesso divergono. Coinciderebbero soltanto se fosse sempre vero, il che non è, che l’osservanza di un principio dà buoni risultati oppure che buoni risultati si ottengono sempre e soltanto osservando i princìpi.

Faccio due esempi, tratti il primo da una norma proibitiva, l’altro da una norma permissiva. Consideriamo ancora una volta la norma proibitiva universale: «Non uccidere». La pena di morte dal punto di vista dell’etica dei princìpi dovrebbe essere riprovata. Ma se si dimostra che ha conseguenze utili alla società in quanto contribuisce a diminuire il numero dei delitti, può essere in alcuni casi eccezionali consentita. Questo è del resto l’argomento preferito dai suoi fautori. Si potrebbe anche sostenere, al contrario, che la pena di morte è conforme al principio della giustizia retributiva, secondo cui chi ha ucciso deve essere ucciso, e, viceversa, deve essere abolita tenendo conto delle conseguenze quando si sia dimostrato che per la maggior parte dei delitti per cui è applicata non ha effetto d’intimidazione, e quindi finisce per diventare una crudeltà inutile. Come si vede, i due giudizi, secondo i princìpi e secondo le conseguenze, in entrambi i casi divergono. Come esempio di una norma permissiva, prendo la legislazione sull’aborto, quale vige ormai in molti paesi, e anche in Italia: in base al principio «Non uccidere» vi sono buoni argomenti per considerarlo un delitto, ma chi lo ammette argomenta la sua ammissione giudicandolo in base alle conseguenze, come, per esempio, quella dell’impossibilità di mantenere decentemente il figlio nascituro, o addirittura l’eccesso di sovrappopolazione, cui l’umanità intera potrebbe non essere più in grado di far fronte con risorse adeguate.

Qual è il rapporto tra la distinzione di queste due etiche e la distinzione di morale e politica? Il rapporto nasce dalla constatazione che in realtà la distinzione fra morale e politica corrisponde quasi sempre alla distinzione fra etica dei princìpi ed etica dei risultati: l’uomo morale agisce e valuta le azioni altrui in base all’etica dei princìpi, il politico agisce e valuta le azioni altrui in base all’etica dei risultati. Il moralista si chiede: «Quali princìpi debbo osservare?». Il politico: «Quali conseguenze discendono dalla mia azione?». Come ho scritto in altra occasione, il moralista può anche accettare la massima: Fiat iustitia pereat mundus, ma il politico agisce nel mondo e per il mondo. E non può prendere una decisione che comporti la conseguenza che «il mondo perisca».

La prima spiegazione, «Il fine giustifica i mezzi», si fonda sulla distinzione tra imperativi categorici e imperativi ipotetici. Ammette soltanto imperativi ipotetici: «Se vuoi, devi». La seconda spiegazione in base alla deroga, si fonda sulla distinzione tra norma generale e norma eccezionale. La terza e ultima, quella che contrappone l’etica dei princìpi all’etica della responsabilità, va più a fondo e scopre che il giudizio sulle nostre azioni per approvarle o disapprovarle si sdoppia, dando luogo addirittura a due sistemi morali diversi, i cui giudizi non sono necessariamente coincidenti. È da questo sdoppiamento che nascono le antinomie della nostra vita morale. Dalle antinomie della nostra vita morale nascono quelle particolari situazioni di cui ognuno di noi fa quotidianamente esperienza, e che si chiamano «casi di coscienza».

Dalla constatazione che morale e politica sono di fatto separate non si deve dedurre che non ci siano vari gradi di diversificazione, e che non sia desiderabile una situazione in cui, anche se non è possibile una perfetta risoluzione della politica nella morale, il divario si attenui.

Ho più volte contrapposto la democrazia ai governi non democratici. Ritengo infatti che una delle caratteristiche positive della democrazia, che ci induce a dire che essa è la migliore, o la meno cattiva, delle forme di governo, è anche questa: la democrazia è quel sistema politico che permette il maggiore avvicinamento tra le esigenze della morale e quelle della politica.

Riprendo le osservazioni fatte in principio quando per sottolineare il divario tra morale e politica ho addotto tre esempi: «Non uccidere»; «Non mentire»; «I patti devono essere osservati».

Ebbene:

1) La democrazia è quella forma di governo le cui regole principali, quando sono osservate, hanno lo scopo di permettere la soluzione dei conflitti sociali senza bisogno di ricorrere alla violenza reciproca (le teste si contano e non si tagliano);

2) per poter vivere e rafforzarsi una democrazia ha bisogno della massima estensione del rapporto di fiducia reciproca fra i cittadini, e quindi di bandire quanto è più possibile la strategia della simulazione e dell’inganno (il che vuol dire anche ridurre quanto è più possibile lo spazio del segreto);

3) la democrazia, in quanto presuppone ed esige una società pluralistica in cui vari gruppi di potere concorrano pacificamente alla presa delle decisioni collettive, è un regime in cui gran parte delle decisioni vengono prese attraverso accordi tra i vari gruppi. La democrazia dà vita a una società eminentemente contrattuale. Una società eminentemente contrattuale presuppone ed esige il rispetto della massima: Pacta sunt servanda.

Non c’è da aspettarsi che il divario fra l’esigenza della morale e quella della politica venga meno interamente. C’è da aspettarsi però che la politica possa rispettare l’ideale morale di una buona società in una democrazia piuttosto che in una delle tante forme di governo dispotico che hanno imperversato e continuano a imperversare in questo mondo. Ben s’intende, non tutte le democrazie sono eguali. Ma appunto il diverso rapporto tra morale e politica, che ho cercato di illustrare brevemente, dovrebbe servire anche per distinguere le democrazie buone da quelle cattive, quelle migliori da quelle peggiori, e in tal modo indicare la direzione in cui ci si deve muovere per rendere la forma di governo democratica sempre più vicina al suo ideale.

Ho spesso parlato delle promesse non mantenute della democrazia. Un buon criterio per valutare lo scarto tra ideale e reale è quello di prendere in considerazione il rapporto tra morale e politica, e giudicare in una democrazia storica, di volta in volta, quale sia il grado di violenza politica che in essa ancora si trova, quanta parte delle relazioni politiche siano ancora coperte da segreto (che favorisce, come si è detto, l’arte della menzogna), quanto grande sia la forza vincolante dei patti tra le forze sociali e politiche, dalle quali dipende la maggiore o minore sanità di una società pluralistica qual è quella democratica.

1 R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Laterza, Bari 1987.

2 M. Detienne, J.P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, trad. it. di A. Giardina, Laterza, Roma-Bari 1978.

3 G. Ritter, Il volto demoniaco del potere (1948), il Mulino, Bologna 1997.