Capire prima di giudicare
È stata per me una sorpresa leggere nella prima pagina dell’Avvenire del 10 gennaio 1989 questo titolo: «Caro professore, scrivo a Lei come vescovo». Il professore sono io, il vescovo, monsignor Sandro Maggiolini. Una sorpresa, perché, nonostante i molti dibattiti cui ho partecipato in questi anni, mi è accaduto di rado, o forse mai, di trovare un interlocutore così autorevole nel mondo della Chiesa.
Ho sempre avuto un grande rispetto per i credenti, ma non sono un uomo di fede. La fede, quando non è un dono, è un’abitudine; quando non è né un dono né un’abitudine, deriva da una forte volontà di credere. Ma la volontà comincia dove la ragione finisce: io mi sono sinora arrestato prima.
Mi è anche completamente estranea la fede nella ragione. Non ho mai avuto la tentazione di sostituire la Dea Ragione al Dio dei credenti. Per me, la nostra ragione non è un lume: è un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo. Com’è nato l’universo? Come finirà? Che parte ha in esso l’uomo, questo essere che, a differenza di tutti gli altri esseri viventi che conosciamo, non solo è nel mondo ma s’interroga sul suo posto nel mondo, o, per usare il termine classico di tutta la nostra tradizione, sul suo destino che è per essenza «cieco»? Che è immerso nel male dell’universo, o almeno in quello che secondo il suo giudizio è male, e si pone la domanda, da quando ha cominciato a riflettere sulle cause e sui fini: «Perché il male?», una domanda cui non è mai riuscito a dare una risposta convincente?
Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che non vi è riuscita la scienza, e qui intendo per «scienza» il complesso delle conoscenze acquisite con l’uso della nostra intelligenza. Ma vi sono riuscite le religioni? Parlo di risposte convincenti, di cui questa stessa intelligenza si possa appagare, non di risposte consolatorie e quindi illusorie, che appagano l’animo di coloro che vogliono, disperatamente vogliono, per l’enormità e l’insopportabilità del male di cui soffrono, essere consolati.
Al contrario del lumicino della ragione, la fede illumina, ma spesso, per troppo illuminare, accieca. Donde nascono, se non da questo acciecamento, gli aspetti perversi della religione? L’intolleranza, la coazione a credere, la persecuzione dei non credenti, lo spirito di crociata? Non riprenderei questo vecchio argomento, tacendo il quale peraltro non si comprende la battaglia dei «lumi» così caratteristica del pensiero moderno, se non fosse che questo stesso argomento viene continuamente usato con la stessa partigianeria per imputare al processo di secolarizzazione tutte le perversioni del nostro secolo, come se l’età più cruenta prima delle due guerre mondiali non fosse stata quella delle guerre di religione.
Sono lieto di poter dare atto a monsignor Maggiolini che egli rifiuta con grande senso di responsabilità questo spirito di «rivalsa», e dice con la manifesta volontà di porre fine all’inutile e spesso perfido gioco delle ritorsioni: «Se un certo illuminismo sta mostrando adesso le sue falle, la Chiesa e in essa i Cristiani […] non hanno diritto di attribuirsi chi sa quale vanto».
Fatte queste premesse, rispondo brevemente ai problemi sollevati in quella lettera. Anzitutto, di fronte all’invito rivoltomi con pacatezza e senza presunzione a essere meno pessimista, rispondo che più che pessimista, giacché anche il pessimismo, come l’ottimismo, è una visione globale del mondo, e come tale fideistica, mi considero modestamente come uno che prima di giudicare cerca di capire. L’importante è che, partendo dalla constatazione del male radicale si sia d’accordo nel ritenere che l’unica antitesi del male, l’unico tentativo di superarlo, sia da ricercare nella creazione della vita morale, in cui consistono l’unicità e la novità del mondo umano.
Alla domanda se non sia venuto il momento di una giustificazione della morale che si ancori all’Assoluto, rispondo che la vera ragione dell’ancoraggio della morale a una visione religiosa non sta nell’esigenza di dare un fondamento assoluto alla morale, ma nel bisogno pratico d’imporne con più forza l’osservanza. L’appello a Dio non serve tanto a stabilire le norme da seguire quanto a indurre i credenti, quali che siano queste norme, a osservarle. Si rivolge in altre parole più a Dio come giudice (infallibile e quindi più temibile del giudice umano) che non a Dio come legislatore. La regola aurea del «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te» si trova in qualsiasi morale razionale, anche in quella che sembra più lontana da una morale religiosa, la morale utilitaristica.
L’ultima domanda: «E i laici?», è la più imbarazzante. Per una ragione molto semplice: non esiste una sola morale laica (forse non esiste neppure una sola morale religiosa, ma non è il caso di affrontare anche questo argomento). Leggiamo nelle storie della filosofia che gli antichi contrapponevano un’etica della virtù a un’etica della felicità. I moderni contrappongono un’etica del dovere a un’etica dell’utilità. Per non parlare della notissima distinzione weberiana tra etica della intenzione pura ed etica della responsabilità. L’unico principio che si può considerare propriamente laico è quello della tolleranza, vale a dire il principio che dalla constatazione della molteplicità degli universi morali trae la conseguenza della necessità di una pacifica convivenza tra essi.
Da questo punto di vista non ho alcun timore nell’affermare che il pensiero laico è un’espressione essenziale del mondo moderno e un effetto del processo di secolarizzazione in cui le stesse Chiese si sono riconosciute. Come si può leggere, tra l’altro, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes: «Il rispetto e l’amore deve estendersi pure a coloro che pensano e operano diversamente da noi nelle cose sociali, politiche e persino religiose, perché con quanta maggiore umanità e amore entreremo nei loro modi di sentire, tanto più facilmente potremo con loro iniziare un colloquio».
Di questo venire a colloquio, la lettera di monsignor Maggiolini è una bella testimonianza di cui gli sono grato.