Nota alla traduzione
L’ultimo uomo, a differenza del famosissimo Frankenstein che è stato e continua a essere oggetto di infinite traduzioni (oltre che di numerose trasposizioni cinematografiche), è una novità per il pubblico italiano, situazione questa tutto sommato privilegiata per il traduttore che può rischiare nel modo che ritiene migliore la propria libertà.
L’impronta di base che si è scelto di dare alla traduzione è quella della sostanziale fedeltà al testo originale, nel rispetto dell’unica autorità che sia possibile riconoscere: lo stile dell’autore. Si è dunque accettato di correre talora il rischio di una pesantezza di stile, facendo piuttosto attenzione a evitare quell’autentico vizio del traduttore che Milan Kundera ben definisce «un riflesso di sinonimizzazione», e cioè la costante tentazione, quasi il bisogno, di usare una parola diversa al posto di quella più semplice o più ovvia, oppure di intervenire sulle ripetizioni, dimenticando o ignorando che ad esse viene spesso affidata una valenza particolare e che, comunque, anche le ripetizioni distratte, goffe, sono parte dello stile personale dello scrittore.
Mary Shelley non rappresenta in ciò un’eccezione: nella sua prosa si incontra la ripetizione voluta, evocativa, frequente soprattutto nei passi più drammatici o lirici, e quella frutto della distrazione o dell’urgenza dettata dall’incandescenza della materia del romanzo, scritto, come l’autrice stessa sottolineò in una lettera a Leigh Hunt, sotto la spinta di una «vivida idea della storia» e «a gran velocità». Le cattive condizioni di salute le impedirono poi una revisione di cui ella stessa riconosceva la necessità, e la indussero a mandare il testo in stampa «in uno stato più rozzo» di quello che avrebbe normalmente avallato (The Letters of Mary Wollstonecraft Shelley, 3 vols., London, The Johns Hopkins University Press, vol. 1, lettera del 26 aprile 1837, pp. 285-86).
Nel segno di una versione fedele si sono peraltro apportate lievi modifiche alla punteggiatura. La traduzione è stata condotta sul testo dell’edizione curata da Morton D. Paley, pubblicata dalla Oxford University Press nel 1994, basata a sua volta sull’edizione in tre volumi di Henry Colburn, del 1826, la sola che poté contare sulla collaborazione diretta di Mary Shelley. L’unica altra edizione che vide la luce finché la scrittrice fu in vita (eccettuata un’edizione pirata del 1833, dell’editore di Filadelfia, Carey, Lea & Blanchard) fu quella pubblicata a Parigi nel marzo di quello stesso 1826 da Galignani: una riedizione più accurata di quella di Colbum, che adottava una punteggiatura più moderna e correggeva diversi errori di stampa. Ma a questa, come si è detto, Mary Shelley non mise mano. L’edizione inglese qui adottata mantiene pertanto fedelmente sia la punteggiatura arcaica del testo originale sia alcune delle sue eccentriche grafie e molti degli errori di stampa. Per rendere dunque più scorrevole una lettura altrimenti solo inutilmente faticosa, e nel rispetto delle linee della prosa della scrittrice (coi lunghi periodi che si alternano, nei momenti di maggiore tensione lirica, a una prosa più franta e ricca di interiezioni), si è reso più agile il periodare intervenendo principalmente sui frequentissimi punti e virgola, ai quali si sono preferite le più scorrevoli virgole, e sui trattini, che si è ritenuto esprimessero l’enfasi generalmente affidata in italiano ai puntini di sospensione.
Le note a piè di pagina, oltre a render conto di particolari scelte di traduzione danno illuminazioni circa le fonti utilizzate dalla scrittrice, fatti biografici o eventuali riferimenti alla vita contemporanea. In questo senso è risultata indispensabile la consultazione delle lettere e dei diari della scrittrice (Mary Shelley’s Journals, Oklahoma, University of Oklahoma Press, 1947). In nota si sono inoltre segnalate le rare occasioni in cui si sono incontrate espressioni italiane nel testo inglese, mentre non si è ritenuto opportuno indicare i frequenti errori di stampa dell’edizione inglese.
L’ultimo uomo si apre con un’Introduzione in cui un anonimo io narrante racconta gli strani eventi che hanno determinato la nascita della storia e conduce il lettore alle soglie del mondo della finzione romanzesca. Ma se questo io narrante sia uomo o donna non è dato sapere. Assistita dalle possibilità linguistiche dell’inglese Mary Shelley decide infatti di lasciare indeterminato il genere del narratore giocando su un’ambiguità preclusa alla lingua italiana, che ci costringe invece a una scelta di chiarezza (se non forse a costo di un improbabile giro di frasi). Si è allora stabilito di identificare tale narratore con una figura femminile, non tanto per i chiari riferimenti biografici presenti nell’Introduzione (un criterio, quello biografico, tutto sommato discutibile quando ci si trova davanti a un’opera di “finzione” che come tale si propone), quanto in considerazione del fatto che questo io narrante non è altro che un trascrittore/traduttore di un testo il cui vero autore è, questo sì, indiscutibilmente, una donna: la Sibilla Cumana. Dall’oracolo della Sibilla, dalle sue «rapsodie poetiche» e «dall’intuizione divina» che ella ottenne dal cielo, scaturisce infatti la «sostanza principale» del racconto.
Di questo stesso ordine sono anche altre infedeltà. La ‘morte’ e la ‘provvidenza’, per esempio, entrambe femminili in italiano, con un uso insolito per la lingua inglese vengono sempre considerate maschili. Ma anche nel caso dell’altra personificazione e grande protagonista del romanzo, la ‘peste’, cui la scrittrice decide di dare il genere femminile, quello che le è proprio anche nella nostra lingua, si commetterà una sorta di tradimento, perché il lettore italiano perderà anche in questo caso qualcosa, e cioè quell’effetto “straniarne” che l’autrice ottiene da tale scelta e che risulta subito evidente al lettore anglofono.
La stessa Mary Shelley, d’altronde, deve essersi confrontata col problema della difficoltà del tradurre se è vero che L’ultimo uomo non è che un testo tradotto, la trascrizione/traduzione degli oscuri e criptici segni vergati dalla Sibilla Cumana in mille lingue diverse: in «idiomi moderni, inglese e italiano» ma anche «in antico caldeo, in geroglifici egiziani […] e in altre lingue sconosciute» su foglie sparse e cortecce. Ed è anche del problema del tradurre che si parla nell’ultima parte dell’Introduzione, laddove l’io narrante confessa di essersi spesso interrogato sulla portata del suo intervento, «sul soggetto dei […] versi e sulla veste inglese della poesia latina», consapevole da una parte di aver in qualche modo trasformato quei testi con «la sua mente e [il] suo talento individuale», ma confermando dall’altra la necessità dell’intervento, a salvaguardia della loro stessa intelligibilità. Allora, forse, è vero proprio quello che Mary Shelley suggerisce nella conclusione dell’Introduzione quando afferma che «questa apologia» potrebbe non essere necessaria, perché si tratta di un problema destinato a restare aperto dal punto di vista teorico e semmai solo risolvibile nella pratica, alla prova dei singoli testi, perché infine sarà sempre «il valore dell’adattamento e della traduzione che deciderà» fino a che punto «il [nostro] tempo e i [nostri] mezzi imperfetti» siano stati ben impiegati.
M. F. M.