Libro I
INTRODUZIONE
Visitai Napoli nel 1818. L’8 dicembre di quell’anno, io e il mio compagno attraversammo il golfo, per visitare le antichità sparse sulle coste di Baia.46 Le calme acque del mare, traslucide e brillanti, ricoprivano i frammenti di antiche ville romane a cui si erano intrecciate le alghe marine, e che assumevano sfumature adamantine in virtù del gioco variegato dei raggi del sole; l’elemento blu e semitrasparente era come quello che potrebbe aver sfiorato Galatea sul suo cocchio di madreperla, o quello che, più adeguatamente del Nilo, Cleopatra potrebbe aver scelto come via per la sua magica nave. Sebbene fosse inverno, l’aria sembrava più quella dell’inizio della primavera, e il mite tepore contribuiva a suscitare quelle sensazioni di sereno piacere che sono riservate dal destino a ogni viaggiatore quando si attarda, restio ad abbandonare le tranquille insenature e i radiosi promontori di Baia.
Visitammo i cosiddetti Campi Elisi e Averno, vagammo attraverso varie rovine di templi, terme e luoghi classici, e infine entrammo nella cupa caverna della Sibilla Cumana. I nostri Lazzeroni47 portavano le torce che bruciavano con fiamme irregolari e brillavano rosse, quasi tetre, nei foschi passaggi sotterranei, circondati da un’oscurità assetata e desiderosa di assorbire sempre più l’elemento della luce. Attraversammo un arco naturale che conduceva a una seconda galleria, e chiedemmo se non fosse possibile entrare anche là. Le guide indicarono il riflesso delle torce sull’acqua che la pavimentava, lasciandoci trarre le nostre conclusioni, ma aggiungendo che era un peccato, poiché essa conduceva alla Caverna della Sibilla. La nostra
curiosità e il nostro entusiasmo furono eccitati da questo fatto, e insistemmo per tentare di attraversarla. Come in genere accade in imprese come queste, le difficoltà diminuirono analizzando la situazione. Scoprimmo, a ogni lato del sentiero umido, «terra asciutta per le piante dei piedi».48 Arrivammo infine in una caverna larga, deserta, scura che, i Lazzeroni ci assicurarono, era la Caverna della Sibilla. Restammo piuttosto delusi… E tuttavia la esaminammo con attenzione, come se le sue pareti nude e rocciose potessero ancora recare traccia di visitatori celesti. Su di un lato c’era una piccola apertura. Dove conduce? chiedemmo: possiamo entrarvi? «Questo poi, no»,49 disse il selvaggio dall’aria incolta che reggeva la torcia; «si può proseguire solo per un breve tratto, e nessuno di solito la visita».
«Voglio provarci lo stesso», disse il mio compagno; «potrebbe condurre alla vera caverna. Devo andare solo, o vuoi accompagnarmi?».
Manifestai il mio entusiasmo a proseguire, ma le nostre guide si opposero vivamente a una tale decisione. Con grande loquacità, nel loro nativo dialetto napoletano a noi poco familiare, ci dissero che c’erano degli spettri, che il tetto sarebbe potuto crollare, che la caverna era troppo stretta per permetterci di passare, che all’interno c’era un profondo burrone ricolmo d’acqua, e che avremmo potuto affogare. Il mio amico diede un taglio all’arringa togliendo la torcia all’uomo, e procedemmo da soli.
Il passaggio, che in un primo momento ci permetteva di passare solo a fatica, si fece ben presto più stretto e angusto; eravamo quasi piegati in due, e tuttavia continuammo ad avanzare. Alla fine entrammo in uno spazio più ampio, e il soffitto basso si rialzò; ma, mentre ci rallegravamo con noi stessi per questo cambiamento, la torcia fu spenta da una corrente d’aria e rimanemmo completamente al buio. Le guide di solito si portano il necessario per riaccendere la luce, ma noi non avevamo nulla, e la nostra unica risorsa era tornare da dove eravamo venuti. Procedemmo a tentoni tutto intorno, nello spazio divenuto più largo, per trovare l’entrata, e dopo un po’ credemmo di esserci riusciti. Ci eravamo però in realtà imbattuti in un nuovo passaggio, che con ogni evidenza saliva. Anch’esso si chiudeva, come il precedente; e tuttavia, qualcosa che somigliava a un raggio (non potevamo dire proveniente da dove) diffondeva nello spazio un’incerta luce crepuscolare. A poco a poco gli occhi si abituarono a quella debole luce e ci accorgemmo così che non c’era alcun passaggio diretto che ci conducesse oltre. Era però possibile arrampicarsi, su per un lato della caverna, fino a un basso arco situato in alto, che prometteva un sentiero più agevole dal quale, scoprimmo allora, proveniva questa luce. Con notevole difficoltà ci arrampicammo su, e giungemmo a un altro passaggio, che era ancora più illuminato, e conduceva a un altro pendio simile al precedente.
Dopo un susseguirsi di salite, che solo la nostra determinazione ci permise di superare, giungemmo in una vasta caverna dalla volta arcuata, simile a quella di una cattedrale. La luce del cielo filtrava grazie a un’apertura situata nel mezzo, coperta però dalla crescita rigogliosa dei rovi e del sottobosco che, come un velo, oscuravano il giorno e donavano all’ambiente una tonalità solennemente religiosa. Era uno spazio ampio, quasi circolare; da un lato c’era un rialzo in pietra a mo’ di sedile, all’incirca della grandezza di un giaciglio greco. Il solo segno che la vita era passata di lì era lo scheletro di una capra, del perfetto candore della neve: l’animale non si era probabilmente accorto dell’apertura mentre pascolava sulla collina soprastante, ed era caduto a capofitto. Secoli erano forse trascorsi da questa catastrofe, e al disastro provocato in superficie aveva posto riparo, nel corso di molte centinaia di estati, la crescita della vegetazione.
Il resto delle suppellettili della caverna era costituito da mucchi di foglie, frammenti di corteccia, e da una bianca sostanza trasparente, simile alla parte interna della membrana verde che protegge il chicco del granturco non ancora maturo. Affaticati dagli sforzi per raggiungere questo luogo, ci sedemmo sul trono roccioso; dall’alto ci raggiungevano il tintinnio dei campanelli delle pecore e le grida di un pastorello.
Alla fine il mio amico, che aveva raccolto alcune delle foglie sparpagliate all’intorno, esclamò: «Questa è la caverna della Sibilla; queste sono le foglie della Sibilla».50 Esaminandole scoprimmo che tutte le foglie, le cortecce e gli altri materiali recavano dei caratteri, tracciati con cura. Ciò che ci parve più stupefacente era che tali segni erano scritti in varie lingue: in antico caldeo, in geroglifici egiziani, antichi come le piramidi, e in altre lingue sconosciute al mio compagno. Cosa ancor più strana, alcuni erano in idiomi moderni, inglese e italiano. Potemmo decifrare poco per via della fioca luce, ma sembrava contenessero profezie, relazioni dettagliate di eventi trascorsi solo di recente, nomi, ora ben noti, ma di età moderna, e spesso sulle loro esili ed esigue pagine erano riportate esclamazioni di esultanza o di dolore, di vittoria o di sconfitta. Questa era certamente la caverna della Sibilla: in realtà non era esattamente come la descrive Virgilio, ma considerando che questa terra, nel suo insieme, era stata così sconvolta dal terremoto e dal vulcano, il cambiamento non destava poi meraviglia, anche se le tracce della rovina erano state cancellate dal tempo; e dovevamo probabilmente al caso, che aveva chiuso la bocca della caverna, e alla vegetazione che crescendo rapidamente aveva reso impervia alla tempesta l’unica sua apertura, la conservazione delle foglie. Facemmo una frettolosa selezione di quelle foglie la cui scrittura almeno uno di noi due era in grado di capire; poi, carichi del nostro tesoro, dicemmo addio all’oscura caverna ipetrale e, dopo molte difficoltà, riuscimmo a ricongiungerci alle nostre guide.
Durante il nostro soggiorno a Napoli, tornammo spesso in questa caverna, talvolta soli, sfiorando il mare illuminato dal sole, e ogni volta aggiungemmo qualcosa alla nostra raccolta. Da allora, quando le circostanze del mondo non mi hanno imperiosamente richiamato altrove, o la mia disposizione d’animo non ha impedito tale studio, sono stata impegnata’ nella decifrazione di questi sacri resti. Il loro significato, portentoso ed eloquente, ha spesso ripagato la mia dura fatica recandomi sollievo nel dolore, e spingendo l’immaginazione a viaggi arditi, attraverso l’immensità della natura e la mente dell’uomo. Per un po’ il mio lavoro non fu solitario; ma quel tempo è passato e, con l’unico e incomparabile compagno delle mie fatiche, si perde per me anche la loro più preziosa ricompensa:
Di mie tenere frondi altro lavoro
Credea mostrarte; e qual fero pianeta
Ne’nvidiò insieme, o mio nobil tesoro?51
Presento al pubblico le mie ultime scoperte sulle sottili pagine sibilline. Sparse e sconnesse com’erano, sono stata costretta ad aggiungere dei nessi e a ritoccare il lavoro fino a dargli una forma coerente. Ma la sostanza principale riposa sulle verità contenute in queste rapsodie poetiche e sull’intuizione divina che la fanciulla cumana ottenne dal cielo.
Mi sono spesso interrogata sul soggetto dei suoi versi e sulla veste inglese della poesia latina. Talvolta ho pensato che, oscuri e caotici come sono, devono la loro forma presente a me, che li ho decifrati, proprio come accadrebbe se si affidassero a un altro artista i frammenti dipinti che formano la copia del mosaico della trasfigurazione a opera di Raffaello in San Pietro; egli li metterebbe insieme in una forma il cui stile sarebbe forgiato dalla sua mente e dal suo talento individuale. Nelle mie mani le foglie della Sibilla Cumana hanno senza dubbio subito delle distorsioni e hanno perduto parte del loro interesse e dei loro pregi. La mia unica scusa per averle così trasformate è che, nel loro stato originario, risultavano inintelligibili.
Le mie fatiche hanno rallegrato lunghe ore di solitudine, e mi hanno allontanata da un mondo che ha distolto da me il suo volto un tempo benigno, per condurmi verso un altro mondo risplendente di immaginazione e potenza. Si chiederanno forse i miei lettori come potessi trovare sollievo in una narrazione che tratta di miseri e dolorosi cambiamenti. Questo è uno dei misteri della nostra natura che ha totale controllo su di me e alla cui influenza non posso sfuggire. Confesso di non essere rimasta impassibile allo sviluppo di questa storia, e di essermi depressa, anzi di aver sofferto, in alcune parti della narrazione che ho fedelmente trascritto dal materiale in mio possesso. Tuttavia la natura umana è tale che l’eccitazione della mente mi era cara, e che l’immaginazione, pittrice di tempeste e terremoti, o, peggio, le burrascose e rovinose passioni dell’uomo, rendevano più dolci i miei dolori reali e i miei infiniti rimpianti, rivestendo quelli fittizi dell’idealità che toglie al dolore la sua fitta mortale.
Non so in realtà se questa apologia sia necessaria. Perché sarà il valore dell’adattamento e della traduzione che deciderà fino a che punto abbia ben impiegato il mio tempo e i miei mezzi imperfetti, per dare forma e sostanza alle fragili e sottili foglie della Sibilla.
CAPITOLO I
Sono nato in un lembo di terra circondato dal mare, in una regione oscurata dalle nuvole, che, quando mi si presenta alla mente la superficie del globo con il suo oceano sconfinato e i suoi continenti selvaggi, privi di sentieri, mi appare solo come una macchia irrilevante nell’immenso tutto. E tuttavia, se valutata sul metro del potere della mente, questa isola superava di gran lunga paesi ben più vasti e più popolati, a tal punto è vero che solo la mente dell’uomo ha creato tutto ciò che era buono o grande per lei, e che la Natura stessa non è stata che il suo primo ministro. L’Inghilterra, situata nel torbido mare del lontano Nord, visita ora i miei sogni nelle sembianze di una nave grande e ben equipaggiata, che sapeva dominare i venti e cavalcare orgogliosamente le onde. Nei giorni della mia infanzia essa era per me l’universo. Quando salivo sulle colline del mio paese, e vedevo distendersi fino all’estremo limite dell’orizzonte pianure e montagne punteggiate dalle abitazioni dei miei conterranei e rese fertili dal loro duro lavoro, il centro esatto del mondo era fissato per me in quel luogo, e il resto del globo terrestre era come una favola, che non sarebbe costato alcuno sforzo né all’immaginazione né alla ragione dimenticare.
Le mie vicende sono state, sin dall’inizio, un’esemplificazione del potere che la volubilità può avere sul corso mutevole della vita dell’uomo. Per quanto mi riguarda, ciò avvenne quasi per eredità. Mio padre era uno di quegli uomini ai quali la natura aveva concesso con prodigalità gli invidiati doni dell’ingegno e dell’immaginazione, lasciando poi che il vascello della sua esistenza fosse sospinto da questi venti senza aggiungere la ragione quale timone, o il giudizio come pilota del viaggio. La sua origine era oscura, ma le circostanze lo portarono ben presto all’attenzione pubblica, e la sua piccola proprietà patema venne in breve tempo dissipata sul palcoscenico sontuoso della moda e dello sfarzo in cui era un attore. Durante i brevi anni di spensierata gioventù, era adorato dai nobili sfaccendati del tempo, non ultimo dal giovane sovrano, che sfuggiva gli intrighi delle fazioni e gli ardui doveri degli affari reali, per trovare immancabile divertimento e allegrezza d’animo in sua compagnia. Gli impulsi di mio padre, che non tenne mai sotto controllo, lo ponevano sempre in difficoltà dalle quali solo il suo ingegno poteva trarlo d’impaccio; la crescente pila di debiti d’onore e d’affari, che avrebbe trascinato a terra chiunque altro, veniva da lui sopportata con animo lieve e ilarità indomabile, mentre la sua compagnia era così necessaria alle tavole e alle assemblee dei ricchi, che la sua negligenza veniva considerata veniale, e lui stesso ricevuto con adulazione inebriante.
Questo genere di popolarità, come ogni altra, è fugace, e le difficoltà di ogni tipo contro cui doveva combattere aumentavano spaventosamente se paragonate ai poveri mezzi di cui disponeva per trarsi d’impaccio. A quei tempi il re, preso dalla sua passione per mio padre, era solito venirgli in aiuto, rimproverandolo poi gentilmente; mio padre faceva le più rassicuranti promesse di cambiamento, ma la sua indole socievole, il desiderio ardente della consueta dose di ammirazione e, soprattutto, il demone del gioco d’azzardo che lo possedeva del tutto, rendevano passeggere le sue buone risoluzioni e vane le sue promesse. Con l’acuta sensibilità del suo carattere, intuì che il suo potere all’interno del brillante circolo era al tramonto. Il re si sposò, e l’altezzosa principessa d’Austria, che divenne, in qualità di regina d’Inghilterra, colei che dettava la moda, guardava con occhi severi ai suoi difetti, e con disprezzo all’affetto che il consorte reale provava per lui. Mio padre sentì che la sua rovina era vicina, ma anziché approfittare di quest’ultima calma prima della tempesta per salvarsi, cercò di dimenticare il male previsto offrendo sacrifici ancora maggiori alla divinità del piacere, arbitro crudele e ingannevole del suo destino.
Il re era un uomo di indole eccellente, ma si faceva facilmente influenzare; ora era diventato un pronto discepolo della sua imperiosa consorte. Fu indotto a guardare con estrema disapprovazione, e infine con avversione, alle imprudenze e alle follie di mio padre. È vero che la sua presenza dissipava queste nuvole; la sua calorosa franchezza, le sue brillanti battute, il suo comportamento fiducioso erano irresistibili: egli perdeva la sua influenza solo quando, da lontano, storie sempre nuove dei suoi errori venivano riversate alle orecchie del suo amico reale. L’abile manovra della regina era volta a prolungare queste assenze, e a mettere insieme le accuse. Alla lunga il re fu indotto a vedere in lui una fonte di eterna inquietudine, sapendo che avrebbe dovuto pagare l’effimero piacere della sua compagnia con prediche tediose, e con ancor più penosi racconti di eccessi, la cui verità non poteva confutare. Il risultato fu che egli avrebbe fatto ancora un tentativo per redimerlo, e in caso di esito negativo, lo avrebbe abbandonato per sempre.
Quella che ne seguì deve essere stata una scena molto interessante e carica di intensa passione. Un re potente, distintosi per una bontà che lo aveva fino a questo momento reso mite, e ora altero nei suoi ammonimenti, nei quali alternava supplica e rimprovero, scongiurava il suo amico di seguire i suoi veri interessi, di evitare con decisione quelle fascinazioni che lo stavano di fatto rapidamente abbandonando, e di impiegare le sue grandi capacità in un campo degno, in cui lui, il suo sovrano, gli sarebbe stato di aiuto e sostegno, e lo avrebbe preceduto per aprirgli la strada. Mio padre avvertì la magnanimità di questo gesto di benevolenza; per un attimo gli fluttuarono davanti agli occhi sogni ambiziosi; e pensò che sarebbe stato bene scambiare le sue attuali occupazioni con più nobili doveri. Con sincerità e fervore fece la promessa richiestagli: a garanzia del rinnovato favore, ricevette dal re suo signore una somma di denaro per pagare i debiti urgenti e per iniziare sotto buoni auspici la nuova carriera. Quella stessa notte, pur colmo di gratitudine e di buoni propositi, perse al tavolo da gioco l’intera somma, anzi il doppio. Infatti, cercando di rimediare alle prime perdite, mio padre rischiò una posta doppia, e così incorse in un debito d’onore che era assolutamente incapace di pagare. Si vergognava a rivolgersi nuovamente al re, e così volse le spalle a Londra, ai suoi falsi divertimenti e alle sue incalzanti miserie; con la povertà come unica compagna, si seppellì in solitudine tra le colline e i laghi del Cumberland. L’ingegno, i motti di spirito, il fascino personale, i suoi modi seducenti e il talento sociale di lui furono a lungo ricordati e riportati di bocca in bocca. A chiedere dove fosse ora questo favorito del momento, questo compagno della nobiltà, questo raggio eccellente che indorava col suo splendore alieno le riunioni di cortigiani e gaudenti, si sentiva dire che era caduto in disgrazia, un uomo finito; non uno pensò che spettasse a lui ripagare i piaceri con servigi concreti, o che il suo lungo regno di brillante ingegno meritasse una rendita quando si fosse ritirato dalle scene. Il re si rammaricava per la sua assenza; amava ripetere i suoi detti, narrare le avventure che avevano vissuto insieme, ed esaltare le sue qualità, ma qui finivano le sue reminiscenze.
Intanto mio padre, dimenticato, non poteva dimenticare. Si lamentava per la perdita di ciò che gli era più necessario dell’aria o del cibo: l’eccitazione del piacere, l’ammirazione dei nobili, la vita lussuosa e ricercata dei grandi. Conseguenza ne fu una febbre nervosa, durante la quale fu assistito dalla figlia di un povero contadino, sotto il cui tetto egli abitava. Ella era amabile, dolce e, soprattutto, gentile con lui; né può suscitare stupore il fatto che l’ultimo idolo di bellezza raffinata dovesse apparire, anche se in uno stato decaduto, un essere di straordinaria, elevata natura alla modesta ragazza di campagna. L’attaccamento tra i due condusse all’infausto matrimonio di cui io fui il frutto.
Nonostante la tenerezza e la dolcezza di mia madre, suo marito continuava a deplorare il proprio stato di degradazione. Non avvezzo all’operosità, non sapeva come contribuire al sostentamento della sua crescente famiglia. Talora pensò di rivolgersi al re; orgoglio e vergogna per un po’ lo trattennero e, prima che le necessità divenissero così imperiose da costringerlo a uno sforzo qualsiasi, morì. Per breve tempo prima di questa catastrofe, egli guardò avanti, al futuro, e contemplò con angoscia la situazione desolante in cui avrebbe lasciato sua moglie e i figli. Il suo ultimo sforzo fu una lettera al re, piena di commovente eloquenza, e di occasionali sprazzi di quel brillante spirito che era parte integrante del suo carattere. Egli fece lascito all’amicizia del re, suo signore, della vedova e degli orfani, e si sentì in questo modo certo che la loro prosperità sarebbe stata garantita più dalla sua morte che dalla sua presenza. Questa lettera fu affidata alle cure di un gentiluomo che, egli non ne dubitava, avrebbe eseguito l’ultimo e ben poco dispendioso compito di consegnarla nelle mani del re.
Morì nei debiti, e la sua piccola proprietà fu immediatamente sequestrata dai creditori. Mia madre, senza un soldo e con il carico di due bambini, aspettò settimana dopo settimana, e mese dopo mese, nell’attesa stremante di una risposta che non venne mai. La sua esperienza di vita non oltrepassava la dimora del padre; e il palazzo del signore della tenuta era la più raffinata forma di magnificenza che potesse concepire. Quando mio padre era in vita le erano diventati familiari, grazie a lui, i nomi dei reali e di coloro che appartenevano al circolo di corte; ma tali cose, mal accordandosi con la sua esperienza personale, le apparivano, dopo la perdita di colui che aveva dato loro sostanza e realtà, vaghe e fantastiche. Se pure avesse potuto raccogliere il coraggio sufficiente per rivolgersi ai nobili menzionati dal marito, il cattivo esito della richiesta di lui la indussero a bandire tale idea. Non vedeva perciò nessuna via di scampo da una terribile povertà: la costante preoccupazione, unita al dolore per la perdita dell’essere straordinario che lei continuava a contemplare con ardente ammirazione, il duro lavoro, e una salute delicata, la liberarono alla lunga dalla triste catena di bisogno e miseria.
La condizione dei suoi orfani era particolarmente desolante. Suo padre era un emigrante che proveniva da un’altra parte del paese, ed era morto da molto tempo ormai: essi non avevano dunque alcun parente che li prendesse per mano; erano reietti, senza amici, e il più misero gesto di carità era per loro una questione di favore; erano trattati semplicemente come figli di contadini, e tuttavia erano più poveri dei più poveri che, morendo, li avevano affidati, lascito ingrato, alla parca carità della terra.
Io, che ero il più grande, avevo cinque anni quando mia madre morì. Un ricordo dei discorsi dei miei genitori, e le notizie sugli amici di mio padre che mia madre si sforzò di farmi restare in mente nella vaga speranza che avrei potuto un giorno trarne beneficio, mi fluttuavano in testa come un sogno indistinto. Mi convinsi di essere diverso e superiore rispetto ai miei protettori e ai miei compagni, ma non sapevo in che modo o per quale motivo. Il senso di oltraggio, associato al nome del re e della nobiltà, mi si avvinghiò addosso; ma non ero in grado di ricavare da tali sensazioni alcuna conclusione che mi servisse da guida nell’azione. La prima vera percezione che ebbi di me stesso fu quella di un orfano indifeso tra le valli e le brughiere del Cumberland. Ero al servizio di un fattore, e col bastone in mano, il cane al mio fianco, conducevo al pascolo negli altopiani vicini un numeroso gregge. Non posso dire molto in lode di un tale tipo di vita, in cui le sofferenze superavano di gran lunga i piaceri. Avevo libertà, familiarità con la natura, e una sprezzante solitudine; ma tutto ciò, per quanto fosse romantico, non si conciliava con l’amore per l’azione e il desiderio di comunione umana, propri della gioventù. Né la cura del gregge, né il cambio delle stagioni erano sufficienti a domare il mio animo ardente; la vita all’aperto e il tempo ozioso furono le tentazioni che mi indussero ben presto ad abitudini illecite. Mi unii ad altri, senz’amici come me; li riunii in una banda, di cui io ero il capo. Tutti pastori, mentre le nostre greggi erano sparse per i pascoli, progettavamo e mettevamo in pratica molte monellerie, anche dannose, che ci attiravano contro la rabbia e la vendetta degli abitanti delle campagne. Io ero la guida e il protettore dei miei compagni, e a mano a mano che mi distinguevo tra di loro, le loro malefatte venivano generalmente fatte espiare a me. Ma se, in loro difesa, sopportavo la punizione e il dolore con lo spirito di un eroe, esigevo poi da parte loro, come ricompensa, lode e obbedienza.
A questa scuola il mio carattere si fece duro, ma fermo. La sete di ammirazione e la scarsa capacità di autocontrollo che ereditai da mio padre, assecondati dalle avversità, mi resero intrepido e sprezzante. Ero burrascoso come gli elementi della natura e incolto come gli animali di cui mi occupavo. Spesso mi paragonavo a loro, e trovando che la superiorità consistesse soprattutto nel potere che avevo su di loro, presto mi persuasi che era solo in virtù del potere che io ero inferiore ai maggiori sovrani della terra. Del tutto privo di ogni insegnamento morale e perseguitato dall’inquietante sensazione di essere stato degradato dalla mia vera posizione nella società, vagabondavo tra le colline della civile Inghilterra, un selvaggio rozzo come il fondatore dell’antica Roma, allevato da una lupa. Riconoscevo una sola legge, quella del più forte, e il mio maggior vanto era di non sottomettermi mai.
Ma lasciatemi ritrattare, almeno in parte, quanto ho appena pronunciato sul mio conto. Mia madre, morendo, in aggiunta alle sue altre lezioni, quasi dimenticate e mal utilizzate, aveva affidato alla mia tutela fraterna, con solenne esortazione, l’altra sua figlia; e all’adempimento di questo dovere dedicai il meglio delle mie capacità, con tutto lo zelo e l’affetto di cui la mia natura era capace. Mia sorella aveva tre anni meno di me e io ne avevo avuto cura quando era piccola; e anche quando fummo allontanati l’uno dall’altra, destinati per via del nostro sesso a occupazioni diverse, lei continuò a essere oggetto del mio amore premuroso. Orfani nel senso più pieno del termine, eravamo poverissimi tra i poveri, e disprezzati tra i senza onore. Se la mia audacia e il mio coraggio mi guadagnarono una sorta di avversione rispettosa, la sua fanciullezza e il suo sesso non suscitarono tenerezza, dimostrando anzi che lei era un essere debole, le furono causa di infinite mortificazioni. La sua stessa disposizione d’animo non l’aiutava ad attenuare gli effetti negativi della sua situazione infelice.
Era un essere singolare e, come me, aveva ereditato molto del carattere particolare di nostro padre. Tutto il suo volto era espressivo: gli occhi non erano scuri, ma impenetrabilmente profondi; sembrava si potessero scoprire spazi infiniti nel loro sguardo intellettuale e percepire che l’anima, che era la loro anima, accogliesse nella propria visuale un intero universo di pensiero. Era pallida e bella, e i capelli d’oro le si ammassavano sulle tempie, facendo contrastare il loro intenso colore col marmo vivente che riposava al di sotto. Il grezzo vestito contadinesco, poco consono in apparenza alla raffinatezza dei sentimenti che il viso esprimeva, vi si accordava in realtà in modo strano. Era come uno dei santi di Guido,52 col cielo nel cuore e nello sguardo, così che quando la si vedeva si poteva pensare solo all’interiorità, e il vestito e persino i lineamenti diventavano secondari rispetto alla luce della mente che irradiava sul suo viso.
Tuttavia, pur se amabile e piena di nobili sentimenti, la mia povera Perdita53 (perché questo era il nome fantasioso che mia sorella aveva ricevuto dal genitore morente), non aveva un carattere propriamente santo. I suoi modi erano freddi e scostanti. Se fosse stata allevata da chi la considerava con affetto, avrebbe potuto essere diversa; ma, privata di amore e di cure, ripagò la mancanza di gentilezza con diffidenza e silenzio. Era remissiva con coloro che avevano autorità su di lei, ma una nube perenne le dimorava sulla fronte; sembrava che si aspettasse ostilità da chiunque le si avvicinasse, e le sue azioni erano improntate dalla stessa sensazione. Tutto il tempo di cui poteva disporre lo trascorreva in isolamento. Era solita vagabondare fin nelle zone più solitarie, e scalare cime pericolose: poteva così, in quei luoghi non visitati da esseri umani, avvolgersi nella solitudine. Passava spesso intere ore passeggiando su e giù per i sentieri dei boschi; intrecciava ghirlande di fiori ed edera, o guardava il tremolio delle nuvole e il balenio delle foglie; talora si sedeva sulle sponde di un corso d’acqua, e mentre i suoi pensieri sostavano, gettava fiori o ciottoli nelle acque, osservando come questi restavano a galla mentre quelli andavano a fondo; oppure faceva salpare barchette di cortecce d’alberi o di foglie, con una piuma per vela, e seguiva la navigazione della sua flotta tra le rapide e le secche del torrente. Nel frattempo la sua fervida fantasia in tesseva migliaia di combinazioni; sognava di «toccanti episodi per terra e per mare»…54 Si perdeva con gioia in queste fantasticherie da lei stessa create, e tornava con spirito recalcitrante agli ottusi dettagli della vita quotidiana.
La povertà era la nube che oscurava la sua gioia, e tutto quanto di buono c’era in lei sembrava destinato a morire per la mancanza del ristoro gioviale dell’affetto. Non aveva neppure il vantaggio, a me riservato, della memoria dei suoi genitori; si aggrappò a me, suo fratello, come al suo unico amico, ma tale alleanza completò l’avversione che i suoi protettori provavano per lei, e ogni errore veniva da loro ingigantito fino a farlo apparire un crimine. Se fosse stata allevata in quella sfera dell’esistenza alla quale, per eredità, si confaceva la delicata struttura della sua mente e della persona, sarebbe stata quasi oggetto di adorazione, perché le sue virtù erano eminenti come i suoi difetti. Tutta la genialità che faceva nobile il sangue di suo padre, rendeva illustre anche il suo, e una marea generosa scorreva nelle sue vene: falsità, invidia o meschinità erano agli antipodi della sua natura; il suo viso, quando illuminato da sentimenti piacevoli, avrebbe potuto appartenere a una regina delle nazioni; i suoi occhi erano luminosi e il suo sguardo impavido.
Sebbene, per via della nostra condizione e dei nostri caratteri, fossimo entrambi tagliati fuori dalle consuete forme di rapporti sociali, eravamo molto diversi fra noi. Io avevo sempre bisogno degli stimoli della compagnia e degli applausi. Perdita era sufficiente a se stessa. Nonostante le mie abitudini sregolate, il mio era un carattere sociale, il suo solitario. La mia vita trascorreva tra realtà tangibili, la sua era un sogno. Si può persino affermare che io amavo i miei nemici, perché provocando la mia eccitazione mi portavano in qualche modo felicità; Perdita provava quasi avversione per i suoi amici, perché interferivano con i suoi umori visionari. Tutte le mie sensazioni, persino quelle di esaltazione e trionfo, si tramutavano in amarezza se non condivise; Perdita, persino nella gioia, correva incontro alla solitudine, e poteva passare giorni e giorni senza dar voce alle proprie emozioni, o ricercare un sentimento affine in un’altra anima. Anzi, poteva amare e indugiare con tenerezza sullo sguardo e sulla voce di un amico, mentre il comportamento esteriore esprimeva il più freddo riserbo. Una sensazione per lei si trasformava in un sentimento, e non parlava fino a quando non avesse mescolato le sue percezioni degli oggetti esterni con altre che nascevano spontaneamente nella sua mente. Era come un suolo fertile che si imbeveva dell’aria e della rugiada celesti, e le restituiva di nuovo alla luce nelle forme più amabili di fiori e frutti; ma poi era anche spesso scura e dura come quel suolo, rastrellato e di nuovo seminato con semi invisibili.
Mia sorella abitava in una casetta il cui prato ben tenuto declinava verso le acque del lago di Ulswater; un faggeto si stendeva su per la collina alle sue spalle, e un torrente gorgogliante, che scendeva dolcemente dal pendio, correva tra le sponde ombreggiate dai pioppi fino a gettarsi nel lago, lo vivevo con un fattore, in una casa costruita molto in alto tra le colline: dietro la casa si apriva un oscuro dirupo, esposto a nord, così che la neve restava nelle sue fenditure per tutta l’estate. Prima dell’alba conducevo il mio gregge ai pascoli e lo sorvegliavo per tutto il giorno. Era una vita di duro lavoro perché pioggia e freddo erano più frequenti del sole; ma disprezzavo gli elementi con orgoglio. Il mio fedele cane faceva la guardia alle pecore (quando io sgattaiolavo via per raggiungere i compagni all’appuntamento, e quindi procedere alla realizzazione dei nostri piani. A mezzogiorno ci incontravamo di nuovo, e gettato via con disprezzo il cibo contadino, costruivamo il nostro focolare per poi accendere la fiamma rallegrante, destinata a cuocere la selvaggina rubata nelle riserve confinanti. Poi veniva il racconto delle fughe dell’ultimo minuto, dei combattimenti coi cani, degli agguati e delle ritirate, mentre, come zingari, ci stringevamo intorno alla pentola. La ricerca di un agnello disperso o gli stratagemmi coi quali cercavamo di evitare le punizioni, riempivano le ore pomeridiane; la sera il mio gregge andava al suo ovile, e io da mia sorella.
Succedeva in realtà raramente che, per usare una vecchia espressione, ce la cavassimo senza pagare scotto alcuno. La nostra selvaggina prelibata era spesso ripagata con percosse e prigionia. Una volta, a tredici anni, fui mandato per un mese nella prigione della contea. Ne uscii, i miei costumi affatto migliorati, l’odio nei confronti dei miei oppressori decuplicato. Pane e acqua non domarono il mio sangue, né l’isolamento e la segregazione mi ispirarono pensieri miti. Ero iroso, insofferente, infelice; le mie uniche ore di gioia erano quelle in cui concepivo progetti di vendetta; questi vennero perfezionati durante la mia forzata solitudine, così che per tutta la stagione seguente (venni liberato all’inizio di settembre), continuai a procurare a me e ai miei compagni selvaggina eccellente in abbondanza. Fu un inverno glorioso. Il gelo pungente e le pesanti nevicate resero gli animali mansueti, e tennero i signori di campagna vicino ai focolari; prendemmo più selvaggina di quella che potevamo mangiare, tanto che il mio fedele cane, grazie ai nostri rifiuti, divenne florido.
Così passarono gli anni; e gli anni non fecero che aggiungere nuovo amore per la libertà, e disprezzo per tutto ciò che non era selvaggio e rude come me. All’età di sedici anni ero rapidamente cresciuto fino ad avere l’aspetto di un uomo; ero alto e atletico, abituato a imprese di forza, e avvezzo all’inclemenza degli elementi. La mia pelle era scurita dal sole e il mio passo reso fermo dalla consapevolezza della forza. Non temevo e non amavo nessuno. Negli anni successivi ho riflettuto con stupore su quello che ero allora; sarei diventato indicibilmente indegno se avessi proseguito quella mia carriera senza legge. La mia vita era come quella di un animale, e il mio spirito correva il rischio di degenerare fino a essere uguale a quello che pervade la natura bruta. Fino ad allora, le mie abitudini selvagge non mi avevano provocato alcun danno irreparabile; la mia forza fisica era cresciuta e fiorita sotto la loro influenza, e la mente, sottostando alla stessa disciplina, si era imbevuta di tutte le virtù dell’audacia. Ma ora la mia vantata indipendenza mi istigava ogni giorno ad atti di tirannia, e la libertà stava diventando licenziosità. Ero alla soglia dell’età virile; passioni, forti come alberi di una foresta, si erano già radicate in me, e stavano per oscurare, con la loro malefica crescita rigogliosa, il sentiero della mia vita.
Anelavo a imprese ben al di là delle mie prodezze infantili. Evitavo i miei antichi compagni, e ben presto li persi. Essi avevano raggiunto l’età in cui erano indotti a occupare le posizioni a loro destinate nella vita; mentre io, un reietto, senza nessuno che mi guidasse o mi spronasse ad andare avanti, ero incerto. I vecchi cominciavano ad additarmi come esempio da evitare, i giovani a stupirsi di fronte a me che ero diverso da loro; li odiavo, e presi, ultima e peggiore degradazione, a odiare me stesso. Mi aggrappai alle mie feroci abitudini, anche se in parte le disprezzavo, e continuai la mia guerra contro la civiltà, anche se nutrivo un certo desiderio di appartenerle.
Rimuginavo ancora e ancora su tutto quello che mia madre mi aveva narrato sulla precedente vita di mio padre; contemplavo i pochi resti che gli appartenevano rimasti in mio possesso, ed essi parlavano di una raffinatezza superiore a quella che si può incontrare tra case di montagna; ma nulla di tutto ciò servì a guidarmi a un tipo di vita diverso e più piacevole. Mio padre aveva avuto rapporti con i nobili, ma tutto quello che io sapevo al riguardo era l’abbandono che ne era seguito. Il nome del re, a cui mio padre morente aveva indirizzato le sue ultime preghiere, e che le aveva brutalmente ignorate, veniva associato solo a pensieri di scortesia, ingiustizia, e conseguente risentimento. Io ero nato per qualcosa di più grande di ciò che ero. E più grande sarei diventato. Ma la grandezza, almeno secondo le mie distorte percezioni, non era necessariamente alleata della bontà, e i miei pensieri selvaggi erano liberi da considerazioni morali quando si abbandonavano a sogni di distinzione. Così mi posi su un piedistallo, mentre un mare di malvagità scorreva ai miei piedi; ero sul punto di abbandonarmici e di travolgere come un torrente tutti gli ostacoli pur di raggiungere l’oggetto dei miei desideri, quando un’influenza del tutto inesplicabile si impossessò della corrente del mio destino e cambiò il suo corso turbolento in quello che, al confronto, era come il gentile serpeggiare di un ruscelletto che circonda un prato.
CAPITOLO II
Vivevo lontano dagli attivi ritrovi degli uomini e alle nostre dimore montane le voci di guerre o di cambiamenti politici giungevano soltanto come eco. L’Inghilterra era stata teatro di gravi lotte nel periodo della mia adolescenza. Nell’anno 2073, l’ultimo dei suoi re, l’amico di lunga data di mio padre, aveva abdicato per assecondare la nobile forza delle rimostranze dei suoi sudditi, ed era stata istituita una repubblica. Al monarca detronizzato e alla sua famiglia furono assicurate ampie tenute; egli ricevette il titolo di conte di Windsor, e il Castello di Windsor, un’antica tenuta reale, con le sue vaste proprietà terriere, fu una parte delle ricchezze a lui destinate. Egli morì subito dopo, lasciando due bambini, un figlio e una figlia.
L’ex regina, una principessa della casa d’Austria, aveva a lungo incitato suo marito a opporre resistenza alle necessità dei tempi. Altezzosa e temeraria, serbava in cuore l’amore per il potere e un implacabile disprezzo per colui che si era spogliato di un regno. Fu solo per amore dei figli che accettò di restare, privata della regalità, membro della repubblica inglese. Quando divenne vedova, rivolse tutti i suoi pensieri all’educazione di suo figlio Adrian, secondo conte di Windsor, così da realizzare i suoi scopi ambiziosi; ed egli si nutrì del latte materno, e fu cresciuto col fermo proposito di riconquistare la corona perduta. Adrian aveva ora quindici anni. Sua grande passione era lo studio, ed era imbevuto di sapere e di talento in misura molto superiore rispetto ai suoi coetanei: correva voce che avesse già iniziato a contrastare le opinioni materne, e a abbracciare principi repubblicani. Ma, comunque stessero le cose, l’altezzosa regina non confidò a nessuno i segreti della sua educazione familiare. Adrian fu allevato in solitudine, e tenuto lontano dai compagni della sua stessa età e del suo rango. Alcune circostanze sconosciute indussero sua madre ad allontanarlo dalla propria diretta tutela; e sentimmo dire che lui era in procinto di visitare il Cumberland. Migliaia di storie erano pronte a spiegare il comportamento della contessa di Windsor, nessuna proba- bilmente vera, ma ogni giorno si faceva più certo che avremmo avuto tra di noi il nobile rampollo dell’ultima casa reale inglese.
C’era un’ampia tenuta con annesso un palazzo, appartenente a questa famiglia, a Ulswater. Una delle sue propaggini era costituita da un ampio parco, disegnato con grande gusto, e abbondantemente fornito di selvaggina. Avevo spesso depredato queste riserve, e lo stato di incuria della proprietà facilitava le mie incursioni. Quando fu deciso che il giovane conte di Windsor avrebbe visitato il Cumberland, giunsero degli operai per predisporre la casa e i terreni all’accoglienza. Gli appartamenti vennero restituiti al loro originario splendore, e il parco, una volta restaurato, venne custodito con insolita cura.
Ero molto turbato da queste notizie, che risvegliavano tutù i miei ricordi sopiti, i sentimenti di offesa rimasti sospesi, e ne facevano sorgere uno nuovo, di vendetta. Non ero più in grado di prestare attenzione alle mie occupazioni; dimenticai tutti i miei piani e gli stratagemmi; sembrava stessi per iniziare una nuova vita, e non certo sotto buoni auspici. Il tiro alla fune, pensai, stava per cominciare. Egli sarebbe giunto trionfante al distretto nel quale il mio genitore era fuggito col cuore a pezzi, e vi avrebbe trovato i suoi disgraziati discendenti in miserabile povertà, quegli stessi che, con una fiducia rivelatasi poi così vana, erano stati lasciati in eredità al re suo padre. Che lui sarebbe venuto a conoscenza della nostra esistenza, e ci avrebbe trattato, pur vicinissimo, con lo stesso disprezzo che il padre aveva usato da lontano e assente, mi sembrava la conseguenza certa di tutto quello che era accaduto precedentemente. Così dunque avrei incontrato il nobile adolescente… il figlio dell’amico di mio padre. Egli sarebbe stato circondato da servitori, con i nobili e i figli dei nobili a fargli da cortigiani. Tutta l’Inghilterra risuonava del suo nome, il suo arrivo si udiva, come un tuono, fin da molto lontano, e io, illetterato e incolto quale ero, se mi fossi messo in contatto con lui avrei fornito, con la mia stessa persona, a giudizio dei suoi raffinati seguaci, la prova dell’opportunità di quell’ingratitudine che, in realtà, mi aveva reso l’essere spregevole che apparivo.
Con la mente completamente occupata da queste idee, si può quasi dire che fossi costretto, come da una malia, a frequentare ossessivamente la futura dimora del giovane conte. Osservavo il progredire dei lavori di risanamento, ed ero lì quando scaricarono i vagoni e diversi pezzi lussuosi, portati da Londra, vennero tirati fuori e trasportati all’interno della dimora. Faceva parte del piano dell’ex regina circondare il figlio di una magnificenza principesca. Vidi così ricchi tappeti e tende di seta, ornamenti d’oro e metalli riccamente sbalzati, mobili e suppellettili finemente decorati, in modo che solo ciò che era di splendore regale potesse raggiungere lo sguardo di chi discendeva da un re. Rimasi a guardare tutto questo, poi volsi lo sguardo al mio misero vestito. Da dove scaturiva questa differenza? Da dove se non da ingratitudine, da falsità, e dalla mancanza, da parte del padre del principe, di qualsiasi nobile solidarietà e munificenza? Senza dubbio anche a lui, il cui sangue ricevette la marea impura dalla madre orgogliosa, a lui, il centro riconosciuto della ricchezza e della nobiltà del regno, avevano insegnato a ripetere con disprezzo il nome di mio padre, e a farsi beffa della mia giusta richiesta di protezione. Mi sforzavo di pensare che tutta questa grandezza era solo un’infamia ancor più evidente, e che, piantando la sua bandiera ricamata d’oro vicino al mio stendardo lacero e annerito, egli proclamava non la sua superiorità, ma la sua bassezza. E tuttavia lo invidiavo. La scuderia coi suoi bei cavalli, le armi di preziosa manifattura, le lodi che lo circondavano, l’adorazione, i servitori scattanti, il rango elevato e l’alta stima… li consideravo come strappati a me con la forza, e li invidiavo tutti con rinnovata e tormentosa amarezza.
A coronare la mia vessazione di spirito, Perdita, la visionaria Perdita, sembrò risvegliarsi con trasporto alla vita reale quando mi disse che stava per arrivare il conte di Windsor.
«E ciò ti fa piacere?», osservai imbronciato.
«In verità sì, Lionel», rispose; «e quasi muoio dalla voglia di vederlo; egli è il discendente dei nostri re, il primo nobile della nazione: tutti lo ammirano e lo amano, e dicono che il rango sia il suo merito minore; è generoso, coraggioso e affabile».
«Hai imparato una bella lezione, Perdita», dissi, «e la ripeti così alla lettera, che dimentichi nel frattempo le prove che noi abbiamo sulle virtù del conte; la sua generosità nei nostri confronti è resa evidente dalla nostra ricchezza, il suo coraggio dalla protezione che ci offre, la sua affabilità dalla considerazione che ha per noi. Il suo rango il merito minore, dici? Certo, tutte le sue virtù derivano solo dalla sua posizione; in quanto ricco, dicono sia generoso; in quanto potente, coraggioso; in quanto ben servito, è affabile. Che lo chiamino pure così, che tutta l’Inghilterra lo consideri tale, noi lo conosciamo: è il nostro nemico, il nostro meschino, vile, arrogante nemico. Se fosse dotato di una sola particella delle virtù che a tuo dire gli appartengono, ci tratterebbe con giustizia, fosse anche solo per
mostrare che, se proprio deve colpire, non dovrebbe essere un nemico caduto in disgrazia. Suo padre offese mio padre; suo padre, inattaccabile sul suo trono, osò disprezzare colui che si umiliò fino a essere indegno di se stesso solo quando accondiscese ad associarsi con l’ingrato reale. Anche noi, discendenti dell’uno e dell’altro, dobbiamo essere nemici. Scoprirà che io so riconoscere le offese inflittemi; imparerà a temere la mia vendetta!».
Pochi giorni dopo il conte arrivò. Tutti gli abitanti, anche quelli provenienti dalle più misere abitazioni, andarono a ingrossare il fiume di gente che si riversava fuori a incontrarlo; persino Perdita, nonostante la mia recente filippica, scivolò furtivamente nei pressi della via principale, per osservare l’idolo di tutti i cuori. Quasi impazzito via via che incontravo i gruppi di gente del paese che, scappata dalle cime velate di nuvole, col vestito della festa, il migliore, scendeva giù dalle colline, e guardando le sterili rocce intorno a me, esclamai: «Esse non gridano, lunga vita al conte!». Né, quando giunse la notte accompagnata da una pioggerella fine e dal freddo, volli tornare a casa, perché sapevo che ogni dimora risuonava delle lodi per Adrian; quando sentii che le membra mi si intorpidivano e diventavano gelide, la sofferenza serviva da nutrimento per la mia insana avversione, anzi, quasi ne trionfavo, perché sembrava fornirmi il motivo e la scusa per l’odio verso il mio avversario che ostentava indifferenza. Tutto veniva attribuito a lui, poiché io confondevo così radicalmente l’idea di padre e figlio, da dimenticare che quest’ultimo avrebbe potuto ignorare completamente che il padre ci avesse abbandonato a noi stessi; e mentre mi colpivo con la mano la testa dolorante, urlai: «Sentirà parlare di tutto ciò! Sarò vendicato! Non subirò come un vile! Saprà che, pur se povero e senza amici, non mi sottometterò docilmente all’offesa!».
Ogni giorno, ogni ora aggravavano questi torti esagerati. Le lodi a lui rivolte erano altrettanti morsi di vipera inflitti al mio petto vulnerabile. Se lo vedevo da lontano cavalcare un bel cavallo, il sangue mi ribolliva di rabbia; l’aria sembrava avvelenata dalla sua presenza, e la mia stessa lingua natale si trasformava in un infimo gergo, poiché ogni frase che udivo era associata al suo nome e al suo onore. Desideravo ardentemente dare sollievo a questo doloroso rancore con qualche misfatto che gli desse la misura della mia ostilità. Era il colmo dell’ingiuria che lui provocasse in me tali sensazioni intollerabili e non si degnasse in alcun modo di fornire una qualsiasi dimostrazione della consapevolezza che io vivevo, addirittura, per provarle.
Presto si venne a sapere che Adrian amava molto il parco e le riserve. Non andava mai a caccia, ma passava ore intere a guardare le frotte di animali, amabili e quasi domestici, dei quali erano rifornite, e ordinò che venisse loro prestata cura maggiore di sempre. Ecco un appiglio per i miei piani di trasgressione, e mi ci aggrappai con tutta la brutale irruenza che mi derivava dalla mia vita attiva. Proposi ai pochi compagni rimastimi, i più determinati e sregolati della banda, di cacciare di frodo nelle sue tenute; ma tutti si ritirarono di fronte al pericolo; così fui lasciato a compiere la mia vendetta da solo. All’inizio le mie sortite passarono inosservate; allora mi feci ancora più audace, fino a che impronte sull’erba umida di rugiada, rami spezzati e tracce delle uccisioni mi tradirono di fronte ai guardacaccia, che fecero guardia migliore; fui preso e mandato in prigione. Entrai nelle sue mura oscure con uno slancio di estasi trionfante: «Ora si accorgerà di me», esclamai, «e mi sentirà sempre più!». Trascorsi un solo giorno in isolamento; il pomeriggio venni liberato, come mi fu detto, per ordine del conte stesso. Questa notizia mi fece precipitare giù dal piedistallo d’onore che mi ero innalzato. Mi disprezza, pensai; ma dovrà imparare che sono io a disprezzarlo, e che considero con pari noncuranza le sue punizioni e la sua clemenza. La seconda notte dopo il mio rilascio, fui nuovamente catturato dai guardacaccia, di nuovo imprigionato, e poi rilasciato; e di nuovo, tanta era la mia caparbietà, la quarta notte mi trovò nel parco proibito. I guardacaccia erano più arrabbiati del loro padrone per la mia ostinazione. Avevano ricevuto l’ordine che, se fossi stato preso un’altra volta, avrebbero dovuto condurmi dal conte, e la sua indulgenza faceva prevedere una conclusione che ritenevano mal si adattasse al mio crimine. Uno di loro, che era stato il capo tra coloro che mi avevano catturato, era deciso a soddisfare il suo risentimento personale prima di passarmi ai poteri superiori.
Il tardo tramonto della luna e l’estrema cautela che fui costretto a usare in questa terza spedizione richiesero tanto tempo che, quando mi accorsi che la notte oscura cedeva al chiarore, qualcosa di simile a uno spasmo di paura si impossessò di me. Scivolai vicino alla felce, strisciando sulle mani e sulle ginocchia e cercando il riparo ombroso del sottobosco; in alto gli uccelli si svegliavano con canti a me sgraditi e il vento fresco del mattino, giocando tra i rami, mi faceva sospettare il rumore di passi a ogni svolta. Il cuore mi batteva veloce mentre mi avvicinavo alle palizzate; la mano ne aveva raggiunta una, un salto mi
avrebbe portato dall’altra parte, quando due guardie, tesami un’imboscata, mi balzarono addosso: una mi buttò a terra con un pugno, e cominciò a frustarmi con violenza. Mi alzai in piedi, e trovandomi un coltello a portata di mano glielo affondai nel braccio destro, che era alzato, infliggendogli una ferita ampia e profonda alla mano. La rabbia e le urla dell’uomo ferito, le grida di imprecazione del suo compagno, alle quali io risposi con pari furia e asprezza, riecheggiarono per la valle; il mattino avanzava sempre più, e la sua celestiale bellezza mal si accordava con la nostra contesa brutale e rumorosa. Io e il mio nemico stavamo ancora lottando, quando l’uomo ferito esclamò: «Il conte!». Mi liberai con un balzo dalla stretta erculea della guardia, ansimando per lo sforzo; gettai sguardi furiosi ai miei persecutori e mi misi con la schiena contro un albero, deciso a difendermi fino alla fine. I miei vestiti erano strappati e macchiati, come le mani, del sangue dell’uomo che avevo ferito; una mano serrava saldamente gli uccelli morti, la preda duramente guadagnata, l’altra il coltello; i capelli arruffati; la faccia imbrattata recava le stesse tracce di colpevolezza che testimoniavano contro di me sull’arma gocciolante che stringevo in mano; tutto il mio aspetto era selvaggio e miserabile. Alto e muscoloso come ero per costituzione, dovevo sembrare, cosa che di fatti ero, la più infima canaglia che mai calpestò la terra.
Il nome del conte mi fece trasalire e tutto il sangue indignato che riscaldava il mio cuore mi affluì al volto; non lo avevo mai visto prima; me lo figuravo come un giovane altezzoso, presuntuoso, che mi avrebbe rimproverato, se pure si fosse degnato di parlarmi, con tutta l’arroganza della superiorità. La mia risposta era pronta; un rimprovero che io ritenevo dovesse ferirlo esattamente al cuor.e. Nel frattempo egli sopraggiunse e la sua comparsa spazzò via, con lieve brezza d’occidente, la mia rabbia tempestosa: un bel ragazzo, alto e snello, con una fisionomia che lasciava trapelare l’eccesso di sensibilità e raffinatezza, mi si parò innanzi. I raggi mattutini tingevano d’oro i suoi capelli di seta, e spandevano luce e gloria sul suo viso radioso. «Che succede?», esclamò. Gli uomini cominciarono a difendersi con zelo, ma egli li congedò dicendo: «Due di voi contemporaneamente addosso a un semplice ragazzo… Vergogna!». Mi si avvicinò: «Verney», gridò, «Lionel Verney, ci incontriamo dunque in questo modo per la prima volta? Siamo nati per essere l’uno amico dell’altro, e anche se la cattiva sorte ci ha diviso, vorrai forse non riconoscere il legame ereditario di amicizia che io confido d’ora in avanti ci unirà?».
Mentre parlava, i suoi occhi onesti, fissi su di me, sembravano leggermi fin dentro l’anima: il mio cuore, il mio selvaggio vendicativo cuore, sentì penetrare al suo interno l’influsso di questa dolce benevolenza; mentre la sua voce vibrante, come una melodia dolcissima, risvegliò una muta eco dentro di me, scuotendo il sangue vitale nel mio corpo fin nelle sue profondità. Desideravo rispondere, dargli atto della sua bontà, accettare la sua profferta di amicizia; ma le parole, delle parole adeguate, non erano concesse al rude montanaro; avrei voluto porgergli la mano, ma la macchia di colpevolezza che la segnava mi trattenne. Adrian provò pietà per le mie esitazioni: «Vieni con me», disse, «ho molte cose da dirti. Vieni a casa con me… Sai chi sono?»
«Sì», esclamai, «credo di conoscerti ora, e penso che tu perdonerai i miei errori… il mio crimine».
Adrian sorrise gentilmente; dopo aver impartito alcuni ordini ai guardacaccia, mi venne vicino, prese il mio braccio col suo e camminammo insieme fino al palazzo.
Non fu il suo rango. Dopo tutto quanto ho detto, sicuramente non si sospetterà che, sin dall’inizio, fosse il rango di Adrian a sottomettere il mio cuore fin nel profondo e a far prostrare tutto il mio spirito davanti a lui. Né ero d’altronde io l’unico che si rendesse conto così intimamente della sua perfezione: tutti erano affascinati dalla sua sensibilità e dalla sua gentilezza. La sua vivacità, l’intelligenza, e lo spirito attivo di benevolenza, completavano la conquista. Pur così giovane, era profondamente colto e imbevuto dello spirito dell’alta filosofia che dava un tono di irresistibile persuasione ai suoi discorsi con gli altri, tanto da somigliare a un musicista ispirato, che faceva vibrare, con infallibile abilità, la «lira della mente»,55 traendone un’armonia divina. Il suo aspetto lo faceva a malapena sembrare di questo mondo. L’esile struttura fisica era pervasa, fino a esserne sopraffatta, dall’anima che l’abitava all’interno: era tutto spirito. «Organizzate anche un solo attacco contro»56 il suo petto, e sarebbe bastata a vincere la sua forza; ma la potenza del suo sorriso avrebbe domato un leone affamato, o indotto una legione di uomini armati a deporre le loro armi ai suoi piedi.
Passai il giorno con lui. All’inizio non fece riferimento al passato, o almeno a nessun episodio personale. Desiderava probabilmente infondermi fiducia, e darmi il tempo di raccogliere i miei pensieri dispersi. Parlò di argomenti generali, e mi suggerì idee che io non avevo mai concepito prima. Ci sedemmo nella sua biblioteca, ed egli parlò degli antichi sapienti greci e del potere che avevano conquistato sulle menti degli uomini, grazie solamente alla forza dell’amore e della saggezza. La stanza era decorata da molti dei loro busti, ed egli me ne descrisse il carattere. Mentre parlava, io mi sentii dominato da lui; e tutto il mio vantato orgoglio e la mia forza erano sottomessi dai dolci accenti di questo ragazzo dagli occhi blu. Il territorio circoscritto e ordinato della civiltà che io, dalla mia giungla selvaggia, avevo prima d’ora considerato inaccessibile, mi aprì grazie a lui il suo cancello; feci un passo al suo interno e sentii, mentre entravo, che calpestavo il mio suolo nativo.
Quando sopraggiunse la sera si volse al passato. «Ho una storia da raccontarti», disse, «e molte spiegazioni da darti riguardo al passato; forse puoi aiutarmi a renderla più breve. Ricordi tuo padre? Non ebbi mai la gioia di vederlo, ma il suo nome è uno dei miei primi ricordi che inciso nel libro della mia mente come il prototipo di tutto ciò che di galante, amabile e affascinate è dato nell’uomo. E il suo ingegno non era più ricco della bontà che traboccava dal suo cuore, e che egli riversava in misura così generosa sui suoi amici, da lasciare, ahimè!, ben poco per se stesso».
Incoraggiato da questo elogio cominciai a raccontare, in risposta alle sue domande, quanto ricordavo del mio genitore; egli intanto mi fornì un resoconto delle circostanze che avevano portato a ignorare la lettera testamentaria di mio padre. Quando il padre di Adrian, allora re d’Inghilterra, avvertì che la sua situazione si faceva più pericolosa e la sua linea di condotta più incerta, desiderò sempre più il suo vecchio amico, colui che poteva innalzare una barriera contro l’ira impetuosa della sua regina e fare da mediatore con il parlamento. Dopo aver lasciato Londra, la sera fatale della sua sconfitta al tavolo da gioco, il re non aveva più avuto sue notizie; e quando, dopo anni, si diede da fare per ritrovarlo, ogni traccia era andata perduta. Con rimpianto ancor più vivo si aggrappò alla sua memoria; e diede incarico al figlio, se mai avesse dovuto incontrare questo valevole amico, di concedergli a suo nome qualsiasi aiuto e di assicurarlo che, fino alla fine, il suo affetto sarebbe sopravvissuto alla separazione e al silenzio.
Poco tempo prima che Adrian visitasse il Cumberland, l’erede del nobiluomo cui mio padre aveva affidato il suo ultimo appello al re suo signore, mise questa lettera, con i sigilli intatti, nelle mani del giovane conte. Era stata ritrovata insieme a un mucchio di vecchie carte, e solo il caso la riportò alla luce. Adrian la lesse con profondo interesse; e vi trovò quel vitale spirito di genialità e ingegno che aveva sentito commemorare così spesso. Scoprì il nome del luogo in cui mio padre si era ritirato e in cui morì; venne a sapere dell’esistenza dei suoi orfani. Nel breve intervallo tra il suo arrivo a Ulswater e il nostro incontro nel parco era stato occupato nel fare domande sul nostro conto e nel predisporre, a nostro beneficio, una varietà di piani che dovevano precedere il momento in cui egli si sarebbe presentato.
Il modo in cui parlava di mio padre gratificava la mia vanità; il velo che delicatamente stendeva sulla sua benevolenza, come se si trattasse di un doveroso adempimento dell’ultima volontà del re, leniva il mio orgoglio. Altri sentimenti, meno ambigui, furono chiamati in gioco dal suo conciliante modo di fare e dal generoso calore delle sue parole: rispetto, di cui prima raramente avevo fatto esperienza, ammirazione, e amore… Egli aveva toccato il mio cuore duro come roccia col suo potere magico, e ora ne sgorgava il torrente dell’affetto, indistruttibile e puro. La sera ci separammo; egli mi strinse la mano: «Dobbiamo rivederci. Vieni da me domani». Io afferrai quella mano gentile, cercai di rispondere, un fervente «Dio ti benedica!» fu tutto ciò cui la mia ignoranza fu in grado di dare forma in parole; poi fuggii veloce come una saetta, quasi soffocato dalle mie nuove emozioni.
Non riuscivo ad aver pace. Cercai le mie colline; le spazzava un vento occidentale e in alto brillavano le stelle. Continuai a correre, incurante delle cose che mi circondavano, ma cercando con la fatica fisica di dominare lo spirito che combatteva dentro di me. «Questo», pensai, «è potere! Non essere forte di membra, duro di cuore, feroce e intrepido; ma gentile, compassionevole e indulgente». D’un tratto mi fermai, mi strinsi convulsamente le mani, e col fervore di un nuovo proselita, esclamai: «Non dubitarne, Adrian, anch’io diventerò saggio e buono!», e poi, quasi sopraffatto, piansi ad alta voce.
Superato questo accesso di passione, mi sentii più sereno. Mi distesi a terra, e lasciando briglia sciolta ai miei pensieri, passai mentalmente in rivista tutta la mia vita precedente; e come srotolando un gomitolo cominciai, passo dopo passo, a mettere in luce i molteplici errori del mio cuore e a scoprire quanto, fino a questo momento, fossi stato brutale, selvaggio e indegno. Non potevo comunque allora provarne rimorso, perché mi sembrava di essere nato a nuova vita; la mia anima gettò via il fardello dei vecchi peccati per iniziare un nuovo corso all’insegna dell’innocenza e dell’amore. Nulla di aspro o di rude rimase a stridere con le dolci sensazioni che gli avvenimenti di quella giornata avevano suscitato in me; ero come un bambino che balbettava la propria devozione alla madre, e la mia anima duttile veniva rimodellata da una mano espertissima, senza che io volessi né potessi resistere.
Questo fu l’inizio della mia amicizia con Adrian, e devo commemorare questo giorno come il più fortunato della mia vita. Cominciai allora a divenire un essere umano. Fui ammesso all’interno dei sacri confini che separano la natura intellettuale e morale dell’uomo da quella che appartiene agli animali. Per poter dare risposte adeguate alla generosità, alla saggezza e alle cortesie del mio nuovo amico furono chiamati in gioco i miei migliori sentimenti. Lui, con la nobile bontà che gli era propria, provava un piacere infinito nel concedere fino alla prodigalità i tesori della sua mente e delle sue fortune al figlio così a lungo negletto dell’amico del padre, la prole di quell’essere carico di talento i cui meriti e il cui ingegno egli aveva sentito celebrare fin dall’infanzia.
Dopo aver abdicato, l’ultimo re si era ritirato dalla sfera politica, ma la cerchia familiare gli procurava ben poca soddisfazione. L’ex regina non aveva alcun talento per la vita domestica, mentre le virtù di coraggio e audacia che lei possedeva erano rese nulle dall’abdicazione del marito: lo disprezzava, né si curava di mascherare i propri sentimenti. Il re, per accondiscendere alle sue pretese, aveva rinnegato i suoi vecchi amici ma, sotto la guida di lei, non ne aveva acquisiti di nuovi. In tale deserto di comprensione umana ricorse al figlio, ancora quasi bambino, il cui precoce sviluppo di talento e sensibilità ne fecero un degno depositario delle confidenze del padre. Adrian non era mai stanco di ascoltare i racconti, di frequente ripetuti, dei vecchi tempi in cui mio padre aveva ricoperto un ruolo eminente. Le penetranti osservazioni dell’amico venivano ripetute al ragazzo, ed egli le teneva a mente; il suo ingegno, le sue malie, le sue stesse colpe venivano quasi santificate dal rimpianto dell’affetto; e la sua perdita era sinceramente compianta. Persino l’avversione della regina per l’amico prediletto non riuscì a privarlo dell’ammirazione di suo figlio: era pungente, sarcastica, sprezzante… ma mentre ella poneva la sua pesante censura egualmente sulle sue virtù e sui suoi errori, sull’amicizia devota e sugli amori mal riposti, sul disinteresse e sulla prodigalità, sull’innata grazia dei modi e la facilità con cui cedeva alla tentazione, il suo doppio colpo risultava troppo pesante, e mancava il bersaglio. Né la sua rabbiosa avversione impedì ad Adrian di immaginare mio padre, come aveva detto, come il prototipo di tutto ciò che di galante, amabile e affascinante è dato nell’uomo. Non fu dunque strano che, quando egli venne a sapere dell’esistenza della prole di questo celebrato personaggio, avesse deciso di concederle tutti i vantaggi che il suo rango gli permetteva di procurare con abbondanza. Quando mi trovò, un pastore che vagabondava per le colline, un cacciatore di frodo, un selvaggio illetterato, la sua benevolenza non venne per questo meno. In aggiunta alla convinzione da lui nutrita che suo padre fosse in certo grado colpevole di negligenza nei nostri confronti, e che egli era tenuto a ogni possibile atto di riparazione, si compiaceva nel dirmi che sotto tutta la mia rudezza balenava una nobiltà d’animo che poteva essere distinta dal semplice coraggio animale, e che io avevo ereditato una somiglianza d’espressione con mio padre, che provava che non tutte le sue virtù e i suoi pregi erano morti con lui. Qualunque cosa potesse essere ciò che era arrivato fino a me, il mio giovane e nobile amico decise che non avrebbe dovuto disperdersi per mancanza di cultura.
Conformemente a questo piano, nei nostri incontri successivi indusse in me il desiderio di poter partecipare di quella formazione che ingentiliva il suo stesso intelletto. La mia mente vivace, una volta impossessatasi di questa nuova idea, vi si aggrappò con estrema avidità. All’inizio il grande obiettivo della mia ambizione fu quello di emulare i meriti di mio padre, e rendermi degno dell’amicizia di Adrian. Ma presto si svegliò la curiosità, e con essa un serio desiderio di conoscenza, che mi spinsero a passare giorni e notti immerso nella lettura e nello studio. Avevo già una buona familiarità con quello che potrei definire il panorama della natura, il cambiamento delle stagioni e i vari volti del cielo e della terra. Ma fui al tempo stesso sbigottito e incantato dall’improvviso ampliamento di visione quando la cortina che era stata gettata davanti al mondo dell’intelletto venne ritirata, e io vidi l’universo, non solo come mi si presentava ai sensi esteriori, ma anche come era apparso ai più saggi tra gli uomini. La poesia e le sue creazioni, la filosofìa e le sue ricerche e classificazioni, risvegliarono le idee sopite nel mio spirito e, al tempo stesso, me ne diedero di nuove.
Mi sentii come il navigatore che dall’albero maestro avvistò per primo le sponde dell’America, e come lui mi affrettavo a riferire ai miei compagni le mie scoperte in territori sconosciuti. Ma ero incapace di risvegliare nel petto altrui la stessa ardente sete di conoscenza che viveva nel mio. Persino Perdita non riusciva a comprendermi. Io avevo vissuto in quello che viene generalmente chiamato il mondo della realtà, e per me, scoprire che c’era un significato più profondo in tutto quello che vedevo, al di là di ciò che gli occhi mi comunicavano, significava rendersi conto dell’esistenza di un nuovo mondo. La visionaria Perdita vedeva in tutto ciò solo una nuova glossa per un vecchio modo di leggere le cose, e quello che a lei era consueto era sufficientemente inesauribile per soddisfarla. Mi ascoltava come aveva fatto quando le raccontavo le mie avventure, e talvolta provava anche un certo interesse per questo tipo di informazioni, ma non le considerava, come me, una parte integrante del suo essere. Io invece, avendole conquistate, non avrei potuto sbarazzarmene più di quanto ci si potrebbe liberare del senso universale del tatto.
Entrambi condividevamo l’amore per Adrian: anche se lei, non avendo ancora abbandonato l’infanzia, non poteva apprezzare come me la grandezza dei suoi meriti, o come me provare consonanza con le sue ricerche e le sue opinioni. Ero sempre con lui. C’erano una dolcezza e una sensibilità nella sua indole che davano un tono delicato e soprannaturale alla nostra conversazione. Inoltre egli era allegro come un’allodola che canti gioiosa dalla sua torre alta quasi fino al cielo, elevato nel pensiero come un’aquila che s’innalzi in volo, innocente come la colomba dallo sguardo mite. Poteva far dileguare come per magia la serietà di Perdita, ed estirpare il dolore pungente dalla torturante attività propria della mia natura. Rivolsi indietro lo sguardo ai miei desideri inquieti e alle doloróse lotte coi miei simili come a un sogno agitato, e mi sentii enormemente cambiato, quasi fossi trasmigrato in un’altra forma e questa, col suo giovane complesso sensorio e il suo meccanismo nervoso, avesse alterato il riflesso dell’universo sensibile nello specchio della mente. Ma non era così; avevo la stessa forza, lo stesso serio e ardente desiderio di comprensione umana, la stessa brama per l’esercizio della vita attiva. Le mie virtù virili non mi abbandonarono perché Urania l’incantatrice risparmiò le ciocche di Sansone57 mentre egli dormiva ai suoi piedi; ma tutto era reso più dolce e umano. Adrian non mi istruì soltanto nelle fredde verità della storia e della filosofia. Mentre mi insegnava come dominare grazie a loro il mio spirito sprezzante e incolto, offrì al mio sguardo la pagina vivente del suo stesso amore, e mi diede modo di arrivare a sentire e comprendere il suo carattere straordinario.
L’ex regina d’Inghilterra si era sforzata, persino durante l’infanzia, di infondere nell’animo del figlio disegni ambiziosi e audaci. Si accorse che egli era dotato di genio e talento fuori del comune, e coltivò queste qualità con l’intento di usarle per perseguire i suoi progetti. Stimolò il suo ardente desiderio di conoscenza e il suo coraggio impetuoso; tollerò persino il suo indomabile amore per la libertà, nella speranza che avrebbe portato, come spesso accade, alla passione per il comando. Si sforzò di crescerlo coltivando in lui un senso di risentimento e un desiderio di vendetta nei confronti di coloro che avevano contribuito a determinare l’abdicazione del padre. Ma ciò non le riuscì. I racconti fornitigli, per quanto distorti, di una grande e saggia nazione che rivendicava il proprio diritto a governarsi da sé, suscitavano la sua ammirazione: fin da giovane egli divenne per principio un repubblicano. E tuttavia la madre non disperava. All’amore per il dominio e all’altezzoso orgoglio della nascita ella univa un’ambizione determinata, pazienza e dominio di sé. Si dedicò allo studio del carattere del figlio. Con lodi, divieti ed esortazioni cercò di trovare e toccare le corde giuste; e sebbene la melodia che seguiva il suo tocco le sembrasse discordante, costruì le proprie speranze sulle capacità del figlio, e si sentì certa che, alla lunga, avrebbe avuto ragione di lui. Quella sorta di esilio in cui egli viveva ora derivava da altre cause.
L’ex regina aveva anche una figlia, che aveva allora dodici anni, la sua bella sorellina, come Adrian amava chiamarla: un essere amabile e vivace, tutto sensibilità e sincerità. Con loro, i suoi figli, la nobile vedova risiedeva permanentemente a Windsor, e non ammetteva visitatori, eccetto i suoi sostenitori, viaggiatori provenienti dalla sua nativa Germania, e pochi ministri stranieri. Tra questi, riscuoteva molta stima presso di lei il principe Zaimi, ambasciatore in Inghilterra dei liberi stati della Grecia, e sua figlia, la giovane principessa Evadne, trascorreva molto tempo nel castello di Windsor. In compagnia di questa ragazza vivace e intelligente, la contessa era solita assumere un atteggiamento più rilassato rispetto a quello adottato di solito. I suoi progetti sui figli imponevano una limitazione a tutte le parole e le azioni che riguardavano loro: ma Evadne era un trastullo ch’ella non poteva in alcun modo temere. E le sue doti e la sua vivacità non recavano un sollievo di poco conto alla monotona vita della contessa.
Evadne aveva diciotto anni. Sebbene a Windsor trascorressero molto tempo insieme, l’estrema giovinezza di Adrian impediva che nascessero sospetti sulla natura della loro relazione. Ma egli era ardente e tenero di cuore oltre la comune natura dell’uomo, e aveva già imparato ad amare, mentre la bella fanciulla greca sorrideva benevola al ragazzo. Era strano per me, che pur essendo più grande di Adrian non avevo mai amato, essere testimone della totale dedizione di cuore del mio amico. Non c’erano gelosia, inquietudine né sfiducia nel suo sentimento che era fatto di devozione e fede. La sua vita era completamente assorbita dall’esistenza dell’amata, e il suo cuore batteva all’unisono solo con le pulsazioni che vivificavano quello di lei. Questa era la legge segreta della sua vita: egli amava ed era amato. L’universo era per lui una dimora da abitare con la persona prescelta; non dunque uno schema di società né un concatenamento di eventi, che potevano procurargli gioia o dolore. Che importava, se anche la vita e il sistema dei rapporti sociali erano una regione selvaggia, una giungla minacciata dalla tigre! Attraverso la cortina dei suoi errori, nelle profondità dei suoi recessi selvaggi, c’era un sentiero libero, cosparso di fiori, che avrebbero potuto percorrere sicuri e gioiosi. La loro via sarebbe stata come il passaggio del Mar Rosso, che avrebbero potuto attraversare coi piedi asciutti, anche se un muro di distruzione incombeva da entrambi i lati.
Ahimè! Perché devo ricordare la sfortunata illusione di questo incomparabile campione dell’umanità? Che cos’è nella nostra natura che ci spinge sempre e inesorabilmente verso la pena e l’infelicità? Non siamo creati per la gioia e, anche se disposti in ogni modo a ricevere emozioni piacevoli, la delusione è il pilota che, immancabilmente, guida il vascello della nostra vita e senza alcuna pietà, ci conduce verso le secche. Chi più di questo giovane altamente dotato, era fatto per amare ed essere amato, e per raccogliere gioia inalienabile da una passione senza macchia? Se il suo cuore avesse dormito solo pochi anni ancora, egli avrebbe potuto essere salvato; ma si svegliò nella sua infanzia, quando aveva la forza ma non la sapienza, e fu rovinato, proprio come un bocciolo fiorito troppo presto viene bruciato dal gelo mortale.
Non accusai Evadne di ipocrisia o di voler ingannare il suo innamorato; ma la sua prima lettera che vidi mi convinse che lei non lo amava. Era scritta con eleganza e, considerato che era straniera, con grande padronanza della lingua. La grafia stessa era mirabilmente bella, e c’era qualcosa anche nella carta e nelle sue pieghe che persino io, che non ero innamorato e per di più inesperto in tali questioni, intuivo come raffinato. C’erano molta gentilezza, gratitudine e dolcezza nelle sue frasi, ma non amore. Evadne aveva due anni più di Adrian; e chi, a diciotto anni, ha mai amato qualcuno tanto più giovane? Confrontai le sue lettere pacate con quelle febbrili di Adrian. L’anima del mio amico sembrava riversarsi stilla a stilla nelle lettere che scriveva, che palpitavano sulla carta portando con sé una parte della vita dell’amore, che era la sua vita. L’atto stesso della scrittura lo consumava, e sempre vi lasciava cadere delle lacrime, solo per l’eccesso di emozione che si risvegliava nel suo cuore.
Adrian aveva l’anima dipinta sul volto, e la dissimulazione o l’inganno erano agli antipodi dell’impavida franchezza della sua natura. Evadne gli chiese in modo pressante che il racconto dei loro amori non venisse riferito a sua madre; e dopo aver per un po’ contestato il punto, egli le cedette. Una concessione vana: il comportamento di Adrian tradì in breve il suo segreto agli occhi acuti dell’ex regina che, con la stessa accorta prudenza che caratterizzava tutto il suo comportamento, nascose la propria scoperta, ma si affrettò ad allontanare suo figlio dalla sfera dell’attraente fanciulla greca. Fu mandato nel Cumberland; ma il piano di corrispondenza tra gli amanti, escogitato da Evadne, le rimase effettivamente nascosto. Così l’assenza di Adrian, concertata allo scopo di separarli, li unì in un legame più forte che mai. Con me egli discorreva incessantemente della sua amata della Ionia. Il suo paese, i suoi antichi annali, le sue recenti memorabili lotte, erano tutti fatti per partecipare alla gloria e all’eccellenza di lei. Egli si rassegnò a starle lontano, perché fu lei a ordinare una tale sottomissione: non fosse stato per il suo ascendente egli avrebbe infatti dichiarato la propria devozione davanti a tutta l’Inghilterra, e avrebbe resistito, con irremovibile fermezza, all’opposizione di sua madre. La prudenza femminile di Evadne le fece comprendere quanto sarebbe stata inutile, da parte di lui, qualsiasi dichiarazione delle sue decisioni fino a che gli anni non avessero dato peso al suo potere. Forse c’era anche una segreta avversione a legarsi di fronte al mondo con una persona che non amava; non amava, almeno, con quell’appassionato trasporto che il cuore le diceva avrebbe un giorno potuto provare per un altro uomo. Egli obbedì a tale ingiunzione, e trascorse un anno in esilio nel Cumberland.
CAPITOLO III
Felici, mille volte felici furono i mesi e le settimane e le ore di quell’anno. L’amicizia, mano nella mano con l’ammirazione, la tenerezza e il rispetto costruivano un pergolato di delizie nel mio cuore che, fino a poco prima, era arido come un deserto dell’America mai calpestato da essere umano, come il vento senza dimora o il mare sterile. Un’insaziabile sete di conoscenza e uno sconfinato affetto per Adrian mi tenevano occupati il cuore e la mente, e così ero felice. Quale felicità è così vera e limpida come la gioia traboccante e loquace dei giovani? In barca, sul mio lago nativo, vicino ai ruscelli costeggiati dai pallidi pioppi, nelle valli e sulle colline, gettato il bastone, con un gregge ben più nobile di sciocche pecore cui badare, un gregge di idee appena nate, leggevo o ascoltavo Adrian; e le sue parole, riguardassero il suo amore o le sue teorie per il miglioramento dell’uomo, comunque mi incantavano. Talvolta ritornava il mio umore insofferente alle regole, l’amore per il pericolo, la resistenza all’autorità, ma soltanto in sua assenza; sotto la dolce influenza dei suoi cari occhi, ero docile e buono come un bimbo di cinque anni che ubbidisce agli ordini della madre.
Dopo una permanenza di circa un anno a Ulswater, Adrian andò in visita a Londra e tornò pieno di buoni progetti per noi. Devi cominciare la vita, disse: hai diciassette anni, e un ulteriore ritardo renderebbe sempre più fastidioso il necessario periodo di apprendimento. Prevedeva che la sua vita sarebbe stata una vita di lotte, e io dovevo condividerne le fatiche. Perché io fossi più preparato a tale compito, dovevamo ora separarci. Egli trovava che il mio nome fosse un buon mezzo per l’avanzamento, e mi aveva procurato il posto di segretario privato dell’ambasciatore a Vienna, dove avrei dovuto iniziare la mia carriera sotto i migliori auspici. Nel giro di due anni, sarei dovuto tornare al mio paese con un nome ben conosciuto e una reputazione già solida.
E Perdita? Perdita doveva diventare l’allieva, l’amica e la sorella più piccola di Evadne. Con la sua consueta saggezza, egli aveva provveduto, alla sua indipendenza in questa situazione. Come rifiutare le offerte di questo generoso amico? Io in verità non desideravo rifiutarle, ma nel profondo del cuore feci il voto di consacrare la vita, il sapere, il potere – tutte cose che, se avevano un valore qualsiasi, lui mi aveva concesso – tutto, tutte le mie capacità e le mie speranze, a lui e a lui soltanto.
Questo mi ripromettevo nel dirigermi verso la mia meta, carico delle più ardenti aspettative: poter finalmente realizzare tutte le speranze di gloria e di piacere che, durante l’adolescenza, ci figuriamo per la vita adulta. Ritenevo che fosse ormai arrivato il momento in cui, messe da parte le occupazioni infantili, dovessi entrare nella vita. Persino nei Campi Elisi Virgilio descrive le anime dei felici come avide di bere all’onda che li avrebbe ricondotti a questa spirale mortale. I giovani si trovano raramente nell’Eliso perché i loro desideri, andando al di là del possibile, li lasciano poveri come debitori senza denari. I più saggi filosofi ci avvertono dei pericoli del mondo, degli inganni degli uomini e dei tradimenti del nostro stesso cuore: e tuttavia ognuno di noi fa salpare con coraggio il proprio naviglio dal porto, spiega le vele, e lotta faticosamente sui remi per raggiungere le innumerevoli correnti del mare della vita. Ben pochi, nel rigoglio della giovinezza, ormeggiano i propri vascelli sulle «spiagge dorate»,58 e raccolgono le conchiglie dipinte che le cospargono. Ma tutti alla fine del giorno, con le assi spaccate e le vele lacerate cercano di guadagnare la riva, ma o fanno naufragio prima di averla raggiunta, oppure trovano un porto battuto dalle onde, una spiaggia deserta, sulla quale gettarsi e morire senza essere compianti.
Ma ora basta con la filosofia! La vita mi si staglia innanzi, e io corro a prenderne possesso. Speranza, gloria, amore e innocente ambizione mi fanno da guida, e la mia anima non conosce paura. Ciò che è stato, seppur dolce, è passato; il presente è bello solo perché sta per cambiare, e quello che verrà mi appartiene già tutto. Ho forse paura che il mio cuore palpiti? Aspirazioni elevate mi fanno pulsare il sangue, gli occhi sembrano penetrare nell’oscura mezzanotte del tempo, e discernere nel profondo delle sue tenebre, la realizzazione di tutti i desideri della mia anima.
Ora un po’ di riposo! Durante il viaggio potrei sognare, e con ali vigorose raggiungere la sommità dell’alto edificio della vita. Ora che sono arrivato alla sua base, le mie ali sono ripiegate, le scale maestose mi si parano innanzi, e passo dopo passo devo ascendere il mirabile tempio:
Parla! Quale porta è aperta?59
Guardatemi nella nuova funzione. Un diplomatico: un giovane di belle speranze, il favorito dell’ambasciatore, parte di una compagnia sempre alla ricerca del piacere, in una gaia città. Tutto era insolito e degno di ammirazione per il pastore del Cumberland. Con uno stupore che toglieva il respiro mi affacciai sulla gaia scena, i cui attori erano
i gigli gloriosi come Salomone,
Che non si affaticano, e neppure girano.60
Presto, troppo presto entrai nel turbine vertiginoso, dimenticando le ore di studio e la compagnia di Adrian. Ancora mi erano propri l’appassionato desiderio di comprensione, e l’ardente ricerca di un oggetto agognato. La visione della bellezza mi rapiva e le maniere affascinanti degli uomini e delle donne conquistavano la mia totale fiducia. Quando un sorriso mi faceva battere il cuore, lo chiamavo rapimento; e sentivo il sangue della vita fremermi nel corpo, quando mi avvicinavo all’idolo che per un momento adoravo. Il puro fluire delle pulsioni animali era per me il paradiso, e alla fine della notte desideravo soltanto rinnovarne l’inebriante illusione. La luce abbagliante delle stanze adornate, le forme attraenti avvolte in splendide vesti, i movimenti di una danza, gli accordi voluttuosi della splendida musica cullavano i miei sensi in un sogno incantevole.
E non è questa a suo modo felicità? Mi appello ai moralisti e ai saggi. Chiedo se nella calma delle loro misurate fantasticherie, se nelle profonde meditazioni che riempiono le loro ore, provano l’estasi di un giovane novizio alla scuola del piacere. E se i raggi calmi dei loro occhi alla ricerca del cielo possono eguagliare i lampi della passione conturbante che acceca i suoi;
- ancora, se l’influenza della fredda filosofia pervade la loro anima di una gioia uguale alla sua, impegnata
In questa diletta fatica dei giovanili bagordi.61
Ma in verità, né le meditazioni solitarie dell’eremita né i tumultuosi rapimenti del gaudente sono in grado di soddisfare il cuore dell’uomo. Dal primo otteniamo speculazioni inquietanti, dall’altro disgusto. Lo spirito langue sotto il peso del pensiero, e si abbatte nell’aridità di relazioni che hanno come unico scopo il divertimento. Non c’è gioia nel loro vuoto piacere, e sotto le ridenti increspature di queste acque basse si celano rocce acuminate.
Così mi sentii quando delusione, stanchezza e solitudine mi spinsero a ripiegarmi sul mio cuore, per ottenere la gioia di cui era stato privato. Il mio umore languente chiedeva qualcosa che parlasse agli affetti; e non trovandolo, mi avvilii. Così, nonostante i piaceri spensierati che accompagnarono il suo inizio, l’impressione che mi resta della mia vita a Vienna è di melanconia. Goethe ha detto che in gioventù non possiamo essere felici se non amando.62 Io non amavo; ma ero divorato dall’inquieto desiderio di rappresentare qualcosa per gli altri. Divenni la vittima dell’ingratitudine e della fredda civetteria. Poi mi persi d’animo, e immaginai che la mia scontentezza mi desse il diritto di odiare il mondo. Mi chiusi in solitudine; feci ricorso ai libri, e di nuovo il desiderio di godere della compagnia di Adrian divenne una sete ardente.
L’emulazione, che nei suoi eccessi assumeva quasi le caratteristiche venefiche dell’invidia, era un pungolo a questi sentimenti. In questo periodo il nome e le imprese di un mio compatriota riempivano il mondo di ammirazione. I resoconti di ciò che aveva fatto, le congetture sulle sue azioni future erano gli immancabili argomenti di conversazione del momento. Non ero tanto irritato per me, quanto perché avevo la sensazione che le lodi tributate a questo idolo fossero foglie strappate agli allori destinati ad Adrian. Ma è tempo ch’io inizi a raccontare qualcosa di questo beniamino della fama, il favorito di quel mondo che ama solo eventi mirabili.
Lord Raymond era l’unico discendente di una famiglia nobile ma ridotta alla povertà. Fin dalla prima gioventù si compiaceva del proprio nobile lignaggio e rimpiangeva amaramente la mancanza di ricchezze. Il suo primo desiderio era arricchirsi, e i mezzi per ottenere lo scopo erano per lui considerazioni secondarie. Altezzoso, e tuttavia pronto a vibrare per ogni dimostrazione di rispetto; ambizioso, ma troppo orgoglioso per mostrare la propria ambizione; desideroso di conquistare onori, e tuttavia appassionato seguace del piacere. Fece il suo ingresso in società e fu accolto sulla soglia da qualche offesa, reale o immaginaria; da qualche rifiuto, laddove meno se lo aspettava; da qualche delusione dura da sopportare per il suo orgoglio. Fremette per un’ingiuria che non poté vendicare e abbandonò l’Inghilterra giurando di non tornarvi, fino a che non fosse giunto il momento felice in cui la patria avrebbe riconosciuto il potere di colui che ora disprezzava.
Divenne un avventuriero nelle guerre greche. La sua temerarietà e l’ingegno notevole richiamarono su di lui l’attenzione di tutti. Divenne l’eroe prediletto di questo popolo in rivolta. Soltanto la sua origine straniera – egli rifiutò sempre di rinunciare alla fedeltà vero il suo paese natale – gli impedì di ricoprire le maggiori cariche dello Stato. Anche se altri potevano collocarsi più in alto in base al titolo e alla formalità cerimoniale, Lord Raymond si trovava tuttavia in una posizione al di sopra e al di là di tutto questo. Egli guidava le armate greche alla vittoria; i loro trionfi erano tutti suoi trionfi. Quando compariva, intere città si riversavano in strada per incontrarlo; sulle melodie nazionali vennero adattate nuove canzoni che inneggiavano alla sua gloria, al suo valore e alla sua generosità.
Tra i turchi e i greci fu stabilita una tregua. Proprio allora Lord Raymond, per un caso imprevisto, entrò in possesso di un’immensa fortuna in Inghilterra, e tornò, coronato di gloria, per ricevere quegli onori prima negati alle sue aspirazioni. Il suo cuore orgoglioso si ribellava a questo cambiamento. In cosa il disprezzato Raymond non era lo stesso? Se questo mutamento era causato dalla conquista del potere sotto forma di ricchezza, quel potere lo avrebbero sentito come un giogo di ferro. Il potere, dunque, fu la meta cui tesero tutti i suoi sforzi, l’arricchimento il bersaglio al quale sempre mirava. Con scoperta ambizione o impenetrabile intrigo, il suo fine era lo stesso: ottenere nel suo paese la posizione più importante.
Questo racconto mi riempì di curiosità. Gli eventi che si susseguirono al suo ritorno in Inghilterra mi procurarono sensazioni ancor più vive. Tra gli altri suoi vantaggi, Lord Raymond era estremamente bello, tutti lo ammiravano ed era l’idolo delle donne. Era affabile, le sue parole erano dolci come miele, un esperto nell’arte della seduzione. Cosa non poteva ottenere quest’uomo nell’indaffarato mondo inglese? Mutamenti seguirono a mutamenti; non mi giunse l’intera storia, perché Adrian aveva smesso di scrivere, e Perdita era un corrispondente laconico. Girava voce che Adrian fosse divenuto – come scrivere la parola fatale? – pazzo, e che Lord Raymond fosse il favorito dell’ex regina, destinato a essere il futuro consorte della figlia. Anzi, di più, si diceva che questo aspirante nobile facesse rivivere il diritto della Casa di Windsor alla corona e che, qualora la malattia di Adrian si fosse rivelata incurabile e avesse potuto sposare sua sorella, la fronte dell’ambizioso Raymond poteva cingersi del magico cerchio della regalità.
Tale storia dava fiato alle trombe delle molte voci che già circolavano, rendendo intollerabile una mia ulteriore permanenza a Vienna, lontano dall’amico della mia gioventù. Ora devo adempiere alla mia promessa; ora devo schierarmi al suo fianco, farmi suo alleato e sostenitore fino alla morte. Addio ai raffinati piaceri di corte, agli intrighi politici, al labirinto di passioni e follie! Salve a te, Inghilterra! Inghilterra, terra natale, accogli il tuo figlio! Tu sei la scena di tutte le mie speranze, il maestoso teatro dove si recita l’unico dramma che può avvincermi, anima e corpo, nel suo svolgersi. Una voce cui era assolutamente impossibile resistere, una forza onnipotente mi trascinarono là. Dopo un’assenza di due anni approdai a riva, non osando fare domande, timoroso di qualsiasi osservazione. La mia prima visita sarebbe stata a mia sorella, che abitava in una piccola dimora, un dono di Adrian, ai confini della foresta di Windsor. Da lei avrei appreso la verità sul nostro protettore; avrei ascoltato il motivo per cui si era sottratta alla protezione della principessa Evadne, e sarei stato informato sull’influenza che questo eccelso e trionfante Raymond esercitava sul destino del mio amico.
Non ero mai stato prima d’allora nelle vicinanze di Windsor; la fertilità e la bellezza della campagna circostante mi colpirono, suscitando in me un’ammirazione crescente mano a mano che mi avvicinavo all’antico bosco. Le rovine delle querce maestose che nel corso dei secoli erano cresciute, fiorite e decadute segnavano i limiti un tempo raggiunti dalla foresta; gli steccati distrutti e il sottobosco abbandonato dimostravano che gli alberi più giovani, nati all’inizio del diciannovesimo secolo e ora nel pieno della maturità, non erano più stati piantati in questa parte. La modesta dimora di Perdita era situata ai margini della parte più antica; davanti si stendeva la foresta di Bishopgate Heath, che verso oriente sembrava sconfinata, mentre a occidente si univa a Chapel Wood e al boschetto di Virginia Water. Sul dietro, la casetta era ombreggiata dai venerabili padri della foresta, sotto i quali venivano a pascolare i cervi; gli alberi secolari, per la maggior parte ormai vuoti e decadenti, formavano grovigli fantastici in forte contrasto con la bellezza regolare delle piante più giovani, che, discendenza di un’epoca più recente, si ergevano dritte, pronte ad avanzare impavide nel tempo a venire, mentre gli altri, stremati, disseccati e spezzati, si avvinghiavano l’uno all’altro, e i loro deboli rami sospiravano quando il vento li investiva come un equipaggio battuto dalle intemperie.
Una leggera cancellata circondava il giardino della casa che, col suo tetto basso, sembrava sottomettersi alla maestà della natura e farsi piccola tra i venerabili resti dei tempi dimenticati. I fiori, figli della primavera, adornavano il giardino e le finestre a battenti; mischiata alla semplicità, c’era un’aria di eleganza che rivelava il gusto gentile della sua ospite. Col cuore che batteva entrai nel recinto; non appena fui davanti all’ingresso, udii la sua voce, che era sempre stata melodiosa, e che mi assicurò, ancor prima di vederla, che stava bene.
Ancora un momento e Perdita apparve; mi stava di fronte nel fresco rigoglio della sua femminilità giovane e fiorente, diversa e tuttavia uguale alla ragazza di montagna che avevo lasciato. Gli occhi non potevano essere più profondi di quelli dell’infanzia, né il volto più eloquente, ma l’espressione era cambiata e migliorata; l’intelligenza abitava la sua fronte; quando sorrideva, il viso era abbellito dalla più dolce sensibilità, e la voce bassa e modulata sembrava accordata dall’amore. La sua figura era modellata secondo le proporzioni più femminili; non era alta, ma la vita di montagna aveva dato una libertà tale ai suoi movimenti che l’andatura leggera rendeva appena percebile il suo passo quando, lieve e agile, attraversò l’ingresso per venirmi incontro. Quando ci eravamo lasciati, l’avevo stretta al petto con un calore che non conosceva pudore; ci rincontrammo, e nacquero dei nuovi sentimenti: quando ci guardammo l’un l’altro, l’infanzia sparì, quasi fossimo attori maturi su questa mutevole scena. Ma la pausa durò solo un attimo; la marea dei ricordi e il sentimento naturale sinora frenati fluirono nuovamente nei nostri cuori come un fiume in piena; con la più tenera emozione ci trovammo, in un breve attimo, serrati l’una nelle braccia dell’altro.
Passato questo accesso di passione, con la mente più calma ci sedemmo insieme parlando del passato e del presente. Accennai alla freddezza delle sue lettere; ma i pochi minuti che avevamo trascorso insieme bastarono a spiegarne l’origine. Erano nati in lei nuovi sentimenti, ai quali era incapace di dare espressione scrivendo a colui che aveva conosciuto soltanto nell’infanzia. Ma ora che ci eravamo incontrati, la nostra intimità si rinnovò come se nulla fosse intervenuto a frenarla. Le raccontai minutamente gli avvenimenti del mio soggiorno all’estero, e poi l’interrogai sui mutamenti che si erano verificati in patria, le cause dell’assenza di Adrian, e della sua vita ritirata.
Le lacrime che offuscarono gli occhi di Perdita quando pronunciai il nome del nostro amico e il suo colorito più acceso sembravano confermare la verità delle voci che mi avevano raggiunto. Il loro contenuto era tuttavia per me troppo terribile per dar credito immediato al mio sospetto. Regnava dunque l’anarchia nel sublime universo dei pensieri di Adrian, la pazzia disperdeva quelle legioni ben equipaggiate, egli non era più il signore della sua anima? Diletto amico, questo mondo malvagio non offriva clima adatto al tuo animo gentile; tu ne consegnasti il governo alla falsa umanità, che lo spogliò delle sue foglie prima dell’inverno e abbandonò nuda la sua tremante esistenza al soccorso malvagio dei venti più tempestosi. Hanno forse perso quegli occhi gentili, quegli «specchi dell’anima»,63 il loro significato, o rivelano soltanto nel loro balenio la terribile storia delle sue aberrazioni? E quella voce, non «profonde più la sua musica eccellente»?64 Orribile, cento volte orribile! Mi stendo un velo sugli occhi nel terrore del cambiamento, mentre le lacrime sgorganti testimoniano la mia partecipazione a questa inimmaginabile rovina.
Accogliendo la mia richiesta, Perdita mi fornì un resoconto dettagliato delle tristi circostanze che condussero a questo evento.
L’animo leale e fiducioso di Adrian, dotato com’era di ogni grazia naturale, provvisto di straordinarie facoltà intellettive, e immune anche solo dall’ombra di un difetto (a meno che la sua intrepida autonomia di pensiero non dovesse essere interpretata come tale), era consacrato, quasi come una vittima sacrificale, al suo amore per Evadne. Alla custodia di lei egli affidò i tesori della sua anima, le sue aspirazioni alla perfezione e i progetti per il miglioramento dell’umanità. Quando cominciò a sorgere in lui l’età virile, i suoi piani e le sue teorie, lungi dall’essere modificate per motivi personali o di prudenza, acquistarono nuovo vigore grazie alle capacità che sentiva nascergli dentro; e il suo amore per Evadne si radicò profondamente, poiché ogni giorno era sempre più certo che il sentiero da lui seguito era pieno di difficoltà, e che doveva ricercare la propria ricompensa non negli applausi o nella gratitudine dei suoi simili, e ancor meno nel successo dei suoi progetti, ma nell’approvazione del suo stesso cuore, nell’amore e nella comprensione di colei che doveva alleviargli ogni fatica e compensare ogni sacrificio.
In solitudine, e durante molti vagabondaggi lontano dai ritrovi degli uomini, maturò le sue opinioni per la riforma del governo inglese e per il miglioramento del popolo. Sarebbe stato un bene se avesse nascosto i suoi sentimenti fino al momento in cui avesse ottenuto quel potere che doveva assicurargli la loro effettiva attuazione. Ma egli era schietto di cuore; così intrepido e irrequieto non poteva sopportare l’attesa degli anni che dovevano passare. Non solo rifiutò seccamente di accondiscendere ai piani della madre, ma divulgò la sua intenzione di usare la propria influenza per diminuire il potere dell’aristocrazia, per realizzare un maggiore livellamento di privilegi e ricchezze, e per introdurre in Inghilterra un perfetto sistema di governo repubblicano. In principio la madre considerò le sue teorie come i folli vaneggiamenti dell’inesperienza. Ma esse erano organizzate in modo così sistematico, e le argomentazioni così ben sostenute, che sebbene ancora in apparenza incredula, cominciò a temerlo. Cercò di ragionare con lui ma, trovandolo inflessibile, imparò a odiarlo.
Strano a dirsi, questo sentimento fu contagioso. Il suo entusiasmo per una bontà che non esisteva, il disprezzo per il carattere sacro dell’autorità, il suo ardore e la sua imprudenza, tutto questo era agli antipodi del modo di vita consueto; i potenti del mondo lo temevano; i giovani e gli inesperti non capivano l’elevato rigore delle sue convinzioni morali, e provavano avversione per lui perché era una creatura diversa da loro. Evadne prendeva parte alle sue teorizzazioni solo in modo distaccato. Riteneva ch’egli facesse bene ad affermare la propria volontà, ma avrebbe voluto che tale volontà fosse stata più comprensibile alla moltitudine. Non aveva nulla dello spirito di un martire, e non era incline a condividere la vergogna e la sconfitta di un patriota caduto in disgrazia. Era consapevole della purezza dei suoi moventi, della generosità del suo carattere, del suo sincero e ardente attaccamento a lei, e provava per lui un grande affetto. Adrian ripagava tale spirito di gentilezza con la più appassionata gratitudine, e fece di lei il custode del tesoro di tutte le sue speranze.
In questo periodo Lord Raymond tornò dalla Grecia. Non potevano esservi due persone più diverse di lui e Adrian. Le incongruenze del suo carattere facevano di Raymond un uomo di mondo. Le sue passioni erano violente, e spesso lo dominavano, così che non era sempre in grado di conformare la sua condotta all’ovvia linea dell’interesse personale, ma in ogni caso la gratificazione di sé era per lui oggetto della massima importanza. Egli considerava la struttura della società solo come una parte del congegno che sosteneva la trama su cui era tracciata la sua vita. La terra gli si stagliava davanti come una strada maestra, costruita per lui, i cieli come un baldacchino, innalzato per lui.
Adrian sentiva di far parte di un grande insieme. Non solo riconosceva la sua affinità con il genere umano, ma tutta la natura gli era simile: le montagne e il cielo erano suoi amici, i venti celesti e i prodotti della terra suoi compagni di gioco, mentre lui stesso, non più che il fulcro di questo specchio maestoso, sentiva la sua vita mescolarsi all’universo dell’esistenza. La sua anima era tutta partecipazione, ed era dedita all’adorazione della bellezza e della perfezione. Adrian e Raymond vennero ora in contatto, e tra di loro nacque uno spirito di avversione. Adrian disdegnava le ristrette vedute del politico, e Raymond considerava con sommo disprezzo le visioni ben intenzionate del filantropo.
Con l’arrivo di Raymond prese corpo la tempesta che con un unico colpo crudele devastò i giardini di delizia e i sentieri riparati che Adrian immaginava di essersi garantito come rifugio da sconfitte e ingiurie. Raymond, il liberatore della Grecia, il bel soldato, il cui aspetto recava traccia di tutto quello che era peculiare della sua regione natale, Evadne lo teneva nel cuore come sommamente caro: Raymond era dunque amato da Evadne. Sopraffatta dalle sue nuove sensazioni, ella non si soffermò ad analizzarle, o a disciplinare la sua condotta con un sentimento diverso da quello tirannico che improvvisamente usurpò l’impero del suo cuore. Cedette alla sua influenza, e la conseguenza fin troppo naturale per un animo cui non si addicevano le emozioni delicate, fu che le attenzioni di Adrian le divennero sgradite. Diventò capricciosa; il comportamento gentile di un tempo si trasformò in scontrosità e indifferenza. Quando intuiva la supplica appassionata o patetica del suo volto espressivo, allora si inteneriva, e per un po’ riprendeva la sua antica dolcezza. Ma queste oscillazioni scossero fin nel profondo l’anima sensibile del giovane; non sentiva più di avere il mondo ai suoi piedi perché possedeva l’amore di Evadne; avvertiva in ogni fibra che l’infausta tempesta dell’universo mentale stava per attaccare il suo fragile essere, che tremava in attesa del suo arrivo.
Perdita, che allora abitava con Evadne, si accorse della tortura che subiva Adrian. Mia sorella lo amava come fosse un caro fratello maggiore, un parente che la guidava, la proteggeva e istruiva, senza l’autoritarismo tirannico che spesso hanno i congiunti. Ne adorava le virtù, e con un misto di disprezzo e indignazione vide che Evadne, per amore di chi la notava appena, accatastava sul suo capo dispiaceri terribili. Nella sua disperazione solitaria Adrian era solito cercare spesso mia sorella, e manifestava con parole velate la sua infelicità, mentre fermezza e agonia si dividevano il trono del suo spirito. Presto, ahimè!, fu pronto a essere conquistato. La collera non entrava a far parte delle sue emozioni. Con chi avrebbe dovuto essere in collera? Non con Raymond, che era inconsapevole dell’infelicità che provocava; non con Evadne, per lei la sua anima piangeva lacrime di sangue… Povera ragazza, confusa, schiava e non tiranno, per la cui sorte futura egli si affliggeva, in preda all’angoscia. Una volta uno scritto di Adrian cadde nelle mani di Perdita; c’erano tracce di lacrime, e certo chiunque avrebbe egualmente potuto versarne:
«La vita», cominciava così, «non è come la descrivono gli scrittori dei romanzi fantastici; compiere tutti i passi di una danza, e dopo varie piroette arrivare a una conclusione, dopo di che tutti i danzatori possono sedersi e riposare. Finché c’è vita c’è azione e cambiamento. Andiamo avanti, ogni pensiero legato a quello che gli era vicino, ogni atto a un atto precedente. Né la gioia né il dolore muoiono sterili della progenie che, in eterno generata e generante, intreccia la catena della nostra vita:
Un dia llama à otro dia
Y assi llama, y encadena
Llanto à llanto, y pena à pena.65
In verità la delusione è la divinità guardiana della vita umana: siede sulla soglia del tempo non ancora nato e dispone in ordine gli eventi via via che si presentano. Un tempo il cuore mi si adagiava lieve in petto; tutta la bellezza del mondo era doppiamente meravigliosa, irradiata dalla luce solare diffusa dalla mia stessa anima. Oh, perché l’amore e la rovina sono in eterno congiunti in questo nostro sogno mortale? E così, quando facciamo del nostro cuore un rifugio per quella bestia apparentemente gentile, la sua compagna vi entra con lei, e distrugge impietosamente ciò che avrebbe potuto essere una dimora e un rifugio».66
A poco a poco la sua salute venne scossa dall’infelicità, poi anche l’intelletto cedette alla stessa tirannia. Le sue maniere sfuggivano ormai al suo controllo: talvolta era feroce, talvolta assorto in una muta malinconia. Improvvisamente Evadne lasciò Londra per Parigi; egli la seguì, e la raggiunse quando la nave stava per salpare; nessuno seppe ciò che accadde tra loro, ma da allora Perdita non lo aveva più visto; egli viveva in reclusione, nessuno sapeva dove, assistito da persone scelte dalla madre per tale compito.
CAPITOLO IV
Il giorno seguente Lord Raymond, mentre si stava recando al castello di Windsor, passò a casa di Perdita. Il colorito più acceso e gli occhi scintillanti di mia sorella mi svelarono in parte il suo segreto. Egli aveva un perfetto dominio di se stesso, si rivolse a noi con cortesia, sembrò subito prender parte al nostro stato d’animo ed essere in sintonia con noi. Ne esaminai la fisionomia, che mutava mentre parlava, e tuttavia era bella in ogni cambiamento. L’espressione consueta dei suoi occhi era dolce, sebbene talora potesse addirittura farli brillare di ferocia, la carnagione era pallida, e ogni tratto esprimeva forte caparbietà, il suo sorriso era gradevole, sebbene il disprezzo gli increspasse troppo spesso le labbra… labbra che agli occhi femminili costituivano il vero trono della bellezza e dell’amore. La voce, solitamente gentile, faceva spesso trasalire per un’improvvisa nota discordante, che rivelava come il tono basso abituale fosse più frutto di studio che opera di natura. Così carico di contraddizioni, inflessibile eppure altezzoso, gentile eppure feroce, tenero e insieme noncurante, in virtù di qualche strana abilità trovava facile via all’ammirazione e all’amore delle donne, adulandole o tiranneggiandole a seconda dell’umore, ma, in ogni mutamento, un despota.
In quel momento Raymond desiderava evidentemente mostrarsi amabile. Ingegno, ilarità e osservazioni profonde si mescolavano nel suo discorso, rendendo ogni frase che pronunciava quasi un lampo di luce. Presto conquistò la mia avversione latente; mi sforzavo di guardare lui e Perdita e di tenere a mente qualunque cosa avessi udito contro di lui. Ma sembrava così pieno d’ingegno e così affascinante che dimenticai tutto tranne il piacere che mi procurava la sua compagnia. Con l’idea di introdurmi sulla scena della politica e della società inglese, di cui dovevo presto diventare parte, mi raccontò un gran numero di aneddoti e mi descrisse molti personaggi; il suo eloquio ricco e forbito scorreva fluente, inondandomi piacevolmente tutti i sensi. Non fosse stato che per una cosa soltanto, avrebbe trion-
fato totalmente. Alluse ad Adrian, e ne parlò con quella riserva con la quale i saggi di questo mondo trattano sempre gli idealisti. Si accorse della nube che si stava addensando, e cercò di disperderla; ma la forza dei miei sentimenti non mi avrebbe permesso di sorvolare così superficialmente su questo argomento sacro. Dissi dunque con enfasi: «Permettetemi di sottolineare che io sono devotamente legato al conte di Windsor: egli è il mio migliore amico e il mio benefattore. Rispetto profondamente la sua bontà, concordo con le sue opinioni e compiango amaramente la sua attuale, spero momentanea, malattia. Quella malattia, per la sua peculiarità, mi rende oltremodo doloroso sentirlo nominare se non in termini di rispetto e affetto».
Raymond replicò, ma non c’era nulla di conciliante nella sua risposta. Capii che in cuor suo disprezzava chi si dedicava a idoli diversi da quelli mondani. «Ogni uomo», disse, «ha un sogno: amore, onore e piacere; voi sognate l’amicizia, e vi consacrate a un pazzo. Bene, se questa è la vostra vocazione, senza dubbio siete nel giusto se la seguite».
Un pensiero sembrava assillarlo, e lo spasimo di dolore che per un attimo gli contrasse il volto trattenne la mia indignazione. «Felici sono i sognatori», proseguì, «che non vengano risvegliati! Come vorrei riuscire a sognare! Ma “il giorno vasto e abbagliante”67 è l’elemento in cui vivo; l’accecante bagliore della realtà capovolge per me la scena. Persino il fantasma dell’amicizia se n’è andato, e l’amore…». Si interruppe, e non riuscii a indovinare se le labbra gli si increspavano per il disprezzo della passione o del fatto di esserne schiavo.
Questo racconto può essere preso come un esempio del mio rapporto con Lord Raymond. Diventammo intimi, e ogni giorno avevo l’occasione di ammirare sempre più le sue doti potenti e versatili che, insieme al suo eloquio, gradevole e arguto, e alle sue ricchezze diventate immense, ne facevano l’uomo temuto, amato e odiato più di qualunque altro in Inghilterra.
La mia discendenza, che suscitava interesse, se non rispetto, il mio precedente legame con Adrian, il favore dell’ambasciatore del quale ero stato segretario, e ora la mia familiarità con Lord Raymond mi procurarono facile accesso ai salotti e ai circoli politici dell’Inghilterra. Ai miei occhi inesperti parve, in un primo momento, che fossimo alla vigilia di una guerra civile: ogni partito era violento, astioso e ostinato. Il parlamento era diviso in tre fazioni: gli aristocratici, i democratici e i monarchici. Dopo che Adrian aveva dichiarato la propria predilezione per la forma di governo repubblicana, il partito monarchico era quasi scomparso, senza una guida o nessuno che organizzasse i suoi sostenitori; ma quando Lord Raymond si fece avanti proponendosi come loro capo, rifiorì con forza raddoppiata. Alcuni erano monarchici per pregiudizio e per antica consuetudine; molti, inclini alla moderazione, temevano allo stesso modo l’imprevedibile tirannia del partito popolare e il dispotismo inflessibile degli aristocratici. Più di un terzo dei membri si schierò con Raymond, e il loro numero era costantemente in aumento. Gli aristocratici fondavano le loro speranze sulla loro preponderante ricchezza e influenza; i riformatori sulla forza della nazione stessa; i dibattiti erano violenti, e più violenti ancora i discorsi tenuti nei crocchi dei politici quando si riunivano per predisporre le loro misure. Si scambiavano epiteti vergognosi, si minacciava persino di resistere fino alla morte; assembramenti di popolo turbavano il quieto ordine del paese; se non in una guerra, come poteva finire tutto ciò? Proprio quando le fiamme distruttrici erano pronte a irrompere le vidi indietreggiare; placate dalla mancanza dell’esercito, dall’avversione nutrita da tutti per ogni tipo di violenza, eccetto quella verbale, e dalla gentilezza cordiale, se non addirittura l’amicizia, che i capi delle opposte fazioni mostravano l’un l’altro quando si incontravano in privato. Per migliaia di motivi fui spinto a seguire con attenzione incessante il corso degli eventi, e a considerare ogni rivolgimento con profonda preoccupazione.
Non potei non accorgermi che Perdita amava Lord Raymond; e mi parve che anche lui considerasse la bella figlia di Verney con ammirazione e tenerezza. Tuttavia sapevo che stava sollecitando la realizzazione del suo matrimonio con la presunta erede della contessa di Windsor, e riponeva grandi aspettative sui vantaggi che da ciò gli sarebbero derivati. Tutti gli ex amici della regina erano suoi amici e non passava settimana in cui non si tenessero consultazioni in sua presenza a Windsor.
Non avevo mai visto la sorella di Adrian. Avevo sentito dire che era graziosa, affabile e affascinante. Perché avrei dovuto vederla? A volte siamo colti dalla sensazione indefinibile che da un evento scaturirà un cambiamento imminente; non sappiamo se in meglio o in peggio; tuttavia lo temiamo, e cerchiamo allora di fuggire quell’evento. Ecco dunque perché evitavo questa damigella dai nobili natali. Per me lei era tutto e niente; il suo stesso nome menzionato da un altro mi faceva trasalire e tremare; le infinite discussioni sulla sua unione con Lord Raymond erano per me una vera agonia. Mi pareva che, ritiratosi Adrian dalla vita attiva, ed essendo questa bella Idris probabilmente una vittima dei progetti ambiziosi della madre, io dovevo farmi avanti per proteggerla da un’influenza indebita, difenderla dall’infelicità e garantirle la libertà di scelta, il diritto di ogni essere umano. E tuttavia come potevo fare tutto ciò? Lei stessa avrebbe rifiutato la mia interferenza. Dato che devo essere per lei oggetto di indifferenza o disprezzo, meglio, molto meglio evitarla e non espormi, di fronte a lei e al mondo sprezzante, al rischio di giocare il folle gioco di un Icaro appassionato e sciocco.
Un giorno, molti mesi dopo il mio ritorno in Inghilterra, lasciai Londra per andare a trovare mia sorella. La sua compagnia era la mia principale consolazione e delizia, e il mio spirito si risollevava sempre di fronte alla prospettiva di vederla. I suoi discorsi erano pieni di giudizio e di saggezza; nel suo piacevole rifugio, fragrante del profumo dei fiori più dolci, ornato di magnifici calchi, vasi antichi, e copie dei quadri più raffinati di Raffaello, Correggio e Claude,68 che lei stessa dipingeva, immaginavo di essere in un nascondiglio di fate incontaminato e inaccessibile alle dispute assordanti dei politici e alle frivole occupazioni di moda. Questa volta mia sorella non era sola; non potevo sbagliare nel riconoscere la sua compagna: era Idris, l’oggetto che non avevo ancora mai visto della mia folle idolatria.
Con quali termini di stupore e piacere, con quali espressioni scelte e dolce fluire di parole, riuscirò a presentare la donna più graziosa, più saggia, la migliore che vi sia? Come esprimere in un misero insieme di vocaboli l’alone di gloria che la circondava, le mille grazie che, infaticabili, erano al suo servizio? La prima cosa che colpiva osservando quel volto affascinante era la sua assoluta bontà e franchezza; il candore dimorava nella fronte, la semplicità negli occhi, una benevolenza celeste nel sorriso. La sua figura snella e alta si inchinava graziosamente, come un pioppo all’occidente ventoso, e il passo, simile a quello di una dea, era come di un angelo alato, appena sceso dall’alto dei piani celesti; un leggero colorito tingeva lievemente la trasparenza perlacea della carnagione; la voce somigliava al suono basso e pacato di un flauto. E più facile forse descriverla per contrasto. Ho narrato minuziosamente le perfezioni di mia sorella, e tuttavia era completamente diversa da Idris. Perdita, anche quando amava, era timida e riservata; Idris era schietta e fiduciosa. L’una si ritirava nella solitudine, così da potersi proteggere dalle delusioni e dalle offese; l’altra procedeva in pieno giorno, fiduciosa che nessuno le avrebbe fatto del male. Words- worth ha paragonato una donna amata a due begli elementi della natura; ma i suoi versi mi parvero sempre come un contrasto più che una similitudine:
Una violetta vicino a una pietra muscosa Quasi nascosta alla vista,
Bella come una stella quando solo una Ne brilla in cielo.69
La dolce Perdita era la violetta, che tremava anche solo nell’affidarsi all’aria ed evitava di essere osservata; tuttavia veniva tradita dai suoi pregi, e ripagava con le sue mille grazie la fatica di coloro che la cercavano nel suo sentiero solitario. Idris era come la stella, posta nell’unico solitario splendore della sera fragrante, pronta a distribuire luce e gioia al mondo suo suddito, protetta da qualsiasi contaminazione dalla distanza incommensurabile che la separava da tutto quanto non era come lei affine al cielo.
Trovai questa visione di bellezza nel rifugio di Perdita, in seria conversazione con la sua ospite. Quando mia sorella mi vide, si alzò e, presomi per mano, disse: «Eccolo, proprio secondo i nostri desideri; questo è Lionel, mio fratello».
Anche Idris si alzò; chinò su di me i suoi occhi di un blu celestiale e con grazia particolare disse: «Non c’è quasi bisogno di presentazione; abbiamo un ritratto, molto stimato da mio padre, che dice immediatamente quale sia il vostro nome. Verney, so che vorrete riconoscere questo legame e, come amico di mio fratello, sento di potermi fidare di voi».
Poi, con le palpebre inumidite da una lacrima e con voce tremante, proseguì: «Cari amici, non pensiate che sia strano che io ora, venendovi a trovare per la prima volta, chieda la vostra assistenza, e vi confidi i miei desideri e le mie paure. Solo con voi oso parlare; ho sentito spettatori imparziali che vi lodavano; voi siete amici di mio fratello, perciò dovete essere anche miei amici. Che posso dire? Se vi rifiutate di aiutarmi, sono veramente perduta!». Alzò lo sguardo, mentre lo stupore teneva muti i suoi ascoltatori; poi, come trasportata dai suoi sentimenti, esclamò: «Mio fratello! amato, infelice Adrian! Come parlare delle tue sventure? Avrete senz’altro entrambi sentito la storia corrente; forse anche voi credete alla menzogna, ma lui non è pazzo! Se anche lo affermasse un angelo sceso dai piedi del trono di Dio, mai, mai lo crederei. E stato denigrato, tradito, imprigionato… Salvatelo! Verney, voi dovete farlo; scovatelo in qualsiasi parte dell’isola egli sia rinchiuso; trovatelo, salvatelo dai suoi persecutori, restituitelo a se stesso, a me. Su tutta la vasta terra io non ho altri da amare se non lui!».
Il suo fervido appello, espresso in modo così dolce e appassionato, mi riempì di stupore e compassione; e quando aggiunse, con voce e sguardo vibranti: «Accettate di impegnarvi in questa impresa?», giurai, con vigore e sincerità, di consacrare me stesso, nella vita e nella morte, alla salvezza e al benessere di Adrian. Parlammo allora del piano che avrei seguito, e discutemmo dei mezzi possibili per scoprire la sua dimora. Mentre eravamo intenti in questi gravi discorsi, Lord Raymond entrò senza preavviso: vidi Perdita tremare e farsi mortalmente pallida, mentre le guance di Idris si avvampavano del rossore più vivo. Doveva essere rimasto stupito, o forse seccato dalla nostra riunione; ma non lasciò trasparire niente di tutto questo; salutò le mie compagne e si rivolse a me con un cenno cordiale. Idris apparve indecisa per un attimo, e poi con estrema dolcezza disse: «Lord Raymond, ho fede nella vostra bontà e nel vostro onore».
Con un sorriso altezzoso, egli inchinò il capo e rispose con enfasi: «Davvero avete fede in me, Lady Idris?».
La fanciulla si sforzò di leggere il suo pensiero, e poi rispose con dignità: «Come volete. E certamente meglio non compromettersi con alcuna dissimulazione».
«Perdonatemi», egli replicò, «se vi ho offeso. Che voi vi fidiate di me o no, fate assegnamento sul fatto che io farò tutto ciò che è in mio potere per esaudire i vostri desideri, qualunque essi possano essere».
Idris ringraziò con un sorriso e si alzò per prendere congedo. Lord Raymond chiese il permesso di accompagnarla al castello di Windsor, cosa alla quale Idris acconsentì, e abbandonarono insieme la casetta. Io e mia sorella restammo davvero come due sciocchi che immaginino di aver ottenuto un tesoro dorato, fino a che la luce del giorno non rivela loro che era di piombo; due farfalle stupide e sfortunate che avevano giocato nei raggi del sole ed erano state prese nella tela del ragno. Mi appoggiai alla finestra, e guardai quelle due creature gloriose fino a che non scomparvero nelle radure della foresta. Poi mi voltai. Perdita non si era mossa; stava seduta, gli occhi fissi a terra, le guance pallide, le labbra smorte, immobile e rigida, ogni lineamento segnato dalla pena. Quasi spaventato, avrei voluto prenderle la mano; ma ella rabbrividendo la ritrasse, e lottò per riprendere il controllo di sé. La supplicai di parlarmi: «Non ora», rispose, «e neppure tu, mio caro Lionel, devi parlarmi; non puoi dire niente, perché non sai niente. Ti vedrò domani; nel frattempo, addio!». Si alzò e attraversò la stanza per uscire; poi si fermò sulla porta, appoggiandosi a essa come se i suoi pensieri vorticosi e intensi le avessero sottratto le forze necessarie a sostenersi, e disse: «Probabilmente Lord Raymond ritornerà. Digli, ti prego, che deve scusarmi per oggi, perché non mi sento bene. L’incontrerò domani, se lo desidera, e anche te. Sarebbe meglio che tornassi a Londra con lui; là puoi fare le ricerche che abbiamo concordato riguardo al conte di Windsor, e tornare a trovarmi domani, prima di proseguire per il tuo viaggio… Fino ad allora, addio!».
Parlò in modo esitante e finì con un profondo singhiozzo. Diedi il mio consenso alla sua richiesta e lei mi lasciò. Mi sentivo come se dall’ordine sistematico del mondo fossi sprofondato nel caos, oscuro, contraddittorio, inintelligibile. Che Raymond sposasse Idris era più che mai intollerabile; tuttavia la mia passione, sebbene un gigante fin dalla nascita, era troppo strana, tempestosa e inattuabile, perché non mi accorgessi al tempo stesso della disperazione di Perdita. Come dovevo agire? Lei non si era confidata con me; non potevo chiedere una spiegazione a Raymond senza il rischio di tradire quello che forse era il segreto che ella custodiva più gelosamente. Avrei ottenuto da lei la verità il giorno seguente… nel frattempo… Ma, mentre ero assorto in riflessioni sempre più numerose, Lord Raymond ritornò. Chiese di mia sorella e io riferii il suo messaggio. Dopo una breve riflessione, mi chiese se non stessi per tornare a Londra e se non lo volessi accompagnare: acconsentii. Era molto pensieroso, e rimase in silenzio per gran parte della cavalcata; alla fine disse: «Vi chiedo scusa per essermi così appartato; la verità è che stasera viene discussa la mozione di Ryland,70 e io sto riflettendo sulla mia replica».
Ryland era il capo del partito popolare, un uomo ostinato, e a suo modo eloquente; aveva ottenuto il permesso di presentare un disegno di legge che trasformava in tradimento il tentativo di cambiare lo stato attuale del governo inglese e le leggi in vigore nella repubblica. Questo attacco era diretto contro Raymond e i suoi complotti per la restaurazione della monarchia.
Raymond mi chiese se ero disposto ad accompagnarlo quella sera in Parlamento. Mi ricordai della mia ricerca di informazioni su Adrian e, sapendo che mi avrebbe occupato molto tempo, mi scusai. «Tutt’altro», disse il mio compagno, «posso liberarvi da ciò che al momento vi è d’impedimento. Voi vi state apprestando a fare ricerche sul conte di Windsor. Io posso rispondere subito a tutte le vostre domande: egli si trova nella residenza del duca di Athol, a Dunkeld. Al primo manifestarsi della sua malattia, viaggiò da un luogo all’altro fino a che, giunto in quel romantico luogo di reclusione si rifiutò di abbandonarlo, e prendemmo accordi con il duca perché potesse continuare a risiedervi».
Fui ferito dal tono indifferente con cui mi riferiva queste notizie, e risposi con freddezza: «Vi sono debitore per le vostre informazioni, e me ne servirò».
«Fatelo, Verney», disse lui, «e se resterete della stessa opinione, vi faciliterò il compito. Ma prima siate testimone, vi scongiuro, dei risultati della contesa di questa notte, e del trionfo che sto per ottenere, se così posso chiamarlo, perché temo che la vittoria significhi per me una sconfitta. Cosa posso fare? Le mie speranze più care sembrano essere vicine al compimento. L’ex regina mi concede la mano di Idris; Adrian è del tutto inadatto a succedere alla guida della contea, e quella contea nelle mie mani diventa un regno. Ve lo giuro sul Dio che regna sovrano, è la verità; l’insignificante contea di Windsor non soddisferà più colui che erediterà i diritti che devono appartenere in eterno alla persona che li possiede. La contessa non può assolutamente dimenticare di essere stata una regina, e disdegna l’idea di lasciare un’eredità mutilata ai propri figli; il suo potere e il mio ingegno ricostituiranno il trono, e questa fronte sarà cinta da un diadema regale.
Ioposso farlo… posso sposare Idris».
Si interruppe bruscamente, il volto gli si oscurò e, sotto l’influenza delle passioni interiori, la sua espressione cambiò più e più volte. Chiesi: «Lady Idris vi ama?»
«Che domanda», rispose ridendo. «Lo farà, naturalmente, così come io l’amerò, quando saremo sposati».
«Iniziate tardi», dissi io, ironicamente, «il matrimonio viene considerato in genere la tomba, e non la culla dell’amore. Dunque presto l’amerete, ma non l’amate ancora?»
«Non impartitemi lezioni, Lionel; farò il mio dovere con lei, statene certo. Amore! Devo rendere il mio cuore insensibile contro di esso; scacciarlo dalla sua torre di dominio, barricarlo fuori: la fontana dell’amore deve cessare di zampillare, le sue acque essere prosciugate, e tutti i pensieri appassionati che lo accompagnano morire… e cioè, l’amore che mi domina, non quello che io domino. Idris è una creaturina gentile, graziosa, dolce; è impossibile non provare affetto per lei, e io le voglio sinceramente bene; solo non si può parlare di amore… Amore, il tiranno e il domatore del tiranno; amore, fin qui mio conquistatore, ora mio schiavo; il fuoco divoratore, la bestia indomabile, il serpente dal dente velenoso… no… no… io non avrò niente a che fare con quell’amore. Ditemi, Lionel, acconsentite al mio matrimonio con questa giovane dama?».
Chinò su di me il suo sguardo penetrante, e il mio cuore, incontrollabile, mi si gonfiò in petto. Risposi con voce calma, ma in realtà quanto lontano dalla calma era il pensiero che si rispecchiava nelle mie tranquille parole! «Mai! Non posso in alcun modo approvare che Lady Idris venga data in sposa a uno che non l’ama».
«Perché voi stesso l’amate».
«Vostra Signoria avrebbe potuto risparmiarsi questo sarcasmo; non l’amo, non oso amarla».
«Lei comunque», proseguì con fare altezzoso, «non vi ama. Non sposerei una sovrana regnante se non fossi certo che il suo cuore fosse libero. Ma, Lionel!, un regno è una parola potente, e dolcemente sonanti sono i termini che compongono lo stile della regalità. Non erano forse re gli uomini più potenti dei tempi antichi? Alessandro era un re; Salomone, il più saggio degli uomini, era un re; Napoleone era un re; Cesare morì nel tentativo di diventarlo, e Cromwell, il puritano e l’uccisore di un re, aspirava alla regalità. Il padre di Adrian cedette lo scettro già spezzato dell’Inghilterra; ma io solleverò la pianta caduta, riunirò il suo corpo smembrato, e la innalzerò al di sopra di tutti i fiori del campo.
«Non dovete stupirvi del fatto che vi riveli spontaneamente la dimora di Adrian. Non crediate ch’io sia malvagio o sciocco al punto da fondare la progettata sovranità su di una frode, e così facile da scoprire come la verità o la menzogna della follia del conte. Torno prorio ora dalla sua dimora. Prima di prendere una decisione sul mio matrimonio con Idris, decisi di vederlo ancora una volta, di persona, per valutare le sue possibilità di guarigione: e irrecuperabilmente pazzo».
Feci uno sforzo per cercare di prendere fiato.
«Non starò a raccontarvi i dettagli», proseguì Raymond, «i tristi particolari. Lo vedrete, e giudicherete da solo; sebbene io tema che questa visita, inutile per lui, sarà intollerabilmente penosa per voi. Da allora la mia anima è rimasta gravata da un peso enorme. Eccelso e gentile com’è anche nell’eclissi della ragione, io non lo venero come fate voi, ma darei tutte le mie speranze di una corona e la mia mano destra per giunta, pur di vederlo tornare in sé».
La sua voce esprimeva la più profonda compassione: «Creatura tra tutte incomprensibile», esclamai, «dove condurranno le vostre azioni, in tutto questo labirinto di propositi in cui sembrate perduto?»
«Dove in verità? A una corona, una corona d’oro, incastonata di gemme, spero; e tuttavia non oso crederlo e anche se sogno una corona e veglio per ottenerne una, di tanto in tanto un diavolo intrigante mi sussurra che quello ch’io cerco è un copricapo da buffone, e che, se fossi saggio, lo calpesterei, e prenderei in sua vece ciò che vale tutte le corone dell’Est e le presidenze dell’Ovest».
«E cos’è questo?»
«Se faccio la mia scelta, allora lo saprete; al momento non oso parlarne, e nemmeno pensarvi».
Di nuovo si fece silenzioso, e dopo una pausa si volse ridendo verso di me. Quando il disprezzo non ispirava il suo divertimento, quando una gaiezza genuina dipingeva i suoi lineamenti con un’espressione gioiosa, la sua bellezza diventava preminente, divina. «Verney», disse, «il mio primo atto ufficiale quando diventerò re d’Inghilterra sarà di unirmi ai greci, conquistare Costantinopoli e sottomettere tutta l’Asia. Ho intenzione di essere un guerriero, un conquistatore; il nome di Napoleone dovrà sottomettersi al mio; e gli entusiasti, invece di visitare la sua tomba rocciosa, ed esaltare i meriti dei caduti, dovranno adorare la mia maestà e magnificare le mie gesta illustri».
Ascoltavo Raymond con profondo interesse. E non potevo essere che tutt’orecchi di fronte a uno che sembrava governare, nella sua avida immaginazione, la terra intera, e che provava sgomento solo quando tentava di dominare se stesso. Dunque dalla sua parola e dalla sua volontà dipendeva la mia stessa felicità, il destino di tutto quanto mi era caro. Mi sforzai di indovinare il significato nascosto delle sue parole. Non faceva cenno al nome di Perdita; e tuttavia non potevo aver dubbi che era l’amore per lei che provocava quei tentennamenti di propositi da lui dimostrati. E chi era tanto degno di amore quanto una creatura dai sentimenti così elevati come mia sorella? Chi meritava la mano di questo re, da solo elevatosi di rango, più di colei che aveva lo sguardo di una regina di intere nazioni? E che lo amava come lui amava lei, nonostante la delusione soffocasse in lei la passione, e che contro di questa combattesse duramente l’ambizione di lui?
La sera andammo insieme in Parlamento. Raymond, pur sapendo che i suoi progetti sarebbero stati discussi e decisi durante l’atteso dibattito, era allegro e spensierato. Un brusio, come di mille sciami di api ronzanti, ci stordì appena entrammo nel caffè, dove si radunavano in crocchi politici dalla fronte inquieta e dalla voce sonora e profonda. Gli uomini del partito aristocratico, i più ricchi e influenti d’Inghilterra, sembravano meno agitati degli altri, perché il problema doveva essere discusso senza il loro intervento. Ryland e i suoi sostenitori si trovavano vicino al camino. Ryland era uomo di oscuri natali e immense ricchezze, ereditate dal padre, un manifatturiero. Era stato testimone, da giovane, dell’abdicazione del re e della fusione delle due Camere dei Lords e dei Comuni; aveva simpatizzato con queste usurpazioni popolari, e si era poi prefisso il compito, nella sua vita, di consolidarle e accrescerle. Da allora, l’influenza dei proprietari terrieri era aumentata. All’inizio Ryland non aveva osservato con dispiacere le macchinazioni di Lord Raymond, che eliminavano molti avversari dei suoi sostenitori. Ma la cosa stava ora andando troppo in là. La parte più povera della nobiltà salutava con piacere il ritorno della sovranità, come un evento che le avrebbe consentito di reimpossessarsi del potere e dei diritti ora perduti. Si risvegliava nelle menti degli uomini lo spirito, quasi scomparso, della regalità; ed essi, schiavi volontari, sudditi autonominatisi tali, erano pronti a chinare il capo sotto questo giogo. Rimanevano ancora alcuni spiriti saldi, virili, veri pilastri dello Stato; ma la parola repubblica era divenuta stantia all’orecchio della gente, e molti (gli eventi avrebbero deciso se si trattava di una maggioranza) si struggevano per gli orpelli e la pompa legati alla dignità regale. Ryland si era sollevato per resistere; solo la sua tolleranza aveva permesso la crescita di questo partito; ma il tempo dell’indulgenza era finito, e con un solo gesto egli avrebbe spazzato via le ragnatele che accecavano i suoi concittadini.
L’entrata di Raymond nel caffè fu salutata dai suoi amici quasi con un urlo. Gli si raccolsero intorno, si contarono, e riferirono in dettaglio i motivi per cui avrebbero ora potuto contare sull’aggiunta di questo e quest’altro parlamentare, che non aveva ancora reso nota la sua posizione. Sbrigate le incombenze ordinarie della Camera, i capi presero posto nella sala. Il clamore continuò fino a che Ryland si alzò per parlare: allora si potevano udire anche i commenti appena sussurrati. Quando il capo dei democratici si alzò in piedi tutti gli occhi si concentrarono su di lui: la corporatura pesante, la voce sonora e i modi, pur non gentili, comunque imponenti. Volsi lo sguardo dal suo volto segnato da lineamenti marcati, ferrei, a Raymond, il cui volto, velato da un sorriso, non ne tradiva di solito la preoccupazione; tuttavia le labbra tremavano leggermente, e la mano era aggrappata alla panca su cui sedeva, con una presa convulsa che faceva sussultare di continuo i muscoli.
Ryland iniziò lodando la situazione attuale dell’impero britannico. Richiamò alla loro memoria gli anni passati; le contese meschine che al tempo dei nostri padri condussero quasi alla guerra civile, l’abdicazione dell’ultimo re, e l’istituzione della repubblica. Descrisse questa repubblica e dimostrò come essa desse, a ogni cittadino dello Stato, il privilegio di diventare persona importante, e di assurgere persino a una temporanea sovranità. Mise a confronto lo spirito regio e quello repubblicano: dimostrò come l’uno tendesse a rendere schiave le menti degli uomini, mentre tutte le istituzioni dell’altro servivano a risvegliare anche nel più meschino tra noi qualcosa di grande e buono. Dimostrò come l’Inghilterra fosse divenuta potente, e i suoi abitanti valorosi e saggi, per mezzo della libertà di cui godevano. Mentre parlava, ogni cuore si gonfiò d’orgoglio, e ogni volto arrossì di piacere nel ricordare che ciascuno di loro lì dentro era inglese e sosteneva e contribuiva al felice stato di cose or ora ricordato. Il fervore di Ryland cresceva, gli occhi si illuminavano, la voce assumeva il tono della passione. C’era un uomo, egli proseguì, che desiderava alterare tutto ciò, e riportarci a quei giorni segnati da impotenza e contese, un uomo che avrebbe osato accreditarsi l’onore dovuto a tutti coloro che rivendicavano l’Inghilterra come luogo natale, un uomo che poneva il proprio nome e titolo al di sopra del nome e del titolo del suo paese. Vidi in questo frangente che Raymond cambiò colore mentre gli occhi, distolti dall’oratore, erano volti a terra. Gli ascoltatori si voltavano l’uno verso l’altro; ma nel frattempo la voce dell’oratore riempiva loro le orecchie, il tuono delle sue denunce ne influenzava i sensi. La stessa audacia del linguaggio gli conferiva autorevolezza; tutti sapevano che diceva la verità, una verità nota, ma non riconosciuta. Egli strappò alla realtà la maschera con la quale era stata travestita; e le argomentazioni di Raymond, che prima avanzavano circospette, prese furtivamente in trappola, erano ora come un cervo inseguito, addirittura in scacco, come potevano notare tutti quelli che osservavano l’incontenibile cambiamento del suo volto. Ryland concluse chiedendo formalmente che ogni tentativo di ricostituire il potere regale dovesse essere dichiarato tradimento, e traditore colui che osasse cambiare l’attuale forma di governo. Grida di evviva e rumorose acclamazioni seguirono la fine del suo discorso.
La sua mozione fu approvata; poi Lord Raymond si alzò. L’espressione affabile, la voce melodiosa, i modi tranquillizzanti: dopo la potente voce d’organo del suo avversario, la sua grazia e la sua amabilità sopraggiunsero come il dolce soffio di un flauto. Egli si alzava, disse, per parlare in favore della mozione dell’onorevole membro, con l’aggiunta di un piccolo emendamento. Era pronto a tornare ai vecchi tempi, e a commemorare le dispute dei nostri padri, e l’abdicazione del monarca. Con nobiltà e grandezza, disse, l’ultimo e illustre sovrano d’Inghilterra si era sacrificato per il bene apparente del suo paese, e si era spogliato di un potere che avrebbe potuto essere mantenuto solo col sangue dei suoi sudditi… Questi sudditi che non si chiamavano più così, questi, suoi amici ed eguali, avevano conferito per sempre, a lui e alla sua famiglia, determinati privilegi e onorificenze in segno di gratitudine. Era stata loro destinata un’ampia tenuta e, tra i pari della Gran Bretagna, detenevano inoltre il rango più elevato. Tuttavia si poteva supporre che non avessero dimenticato il loro antico patrimonio; ed era difficile che il suo erede dovesse lottare come un pretendente qualsiasi, se avesse tentato di riguadagnare quello che, per antico diritto ed eredità, gli apparteneva. Egli non diceva che avrebbe favorito un tale tentativo; ma sosteneva che un tale tentativo sarebbe stato perdonabile; e, se il pretendente non si fosse spinto fino al punto di dichiarare guerra, e di innalzare un vessillo sul regno, la sua colpa doveva essere considerata con occhio indulgente. Nel suo emendamento egli proponeva che nella proposta di legge si facesse un’eccezione a favore di chiunque rivendicasse il potere sovrano spettante di diritto ai conti di Windsor.
Raymond concluse non senza aver dipinto, con colori vividi e accesi, lo splendore di un regno contrapposto allo spirito commerciale del repubblicanesimo. Sostenne che sotto la monarchia inglese ogni individuo era, allora come ora, in grado di raggiungere il potere e un’elevata posizione sociale, con un’unica eccezione, quella della funzione di primo magistrato; posizione ben più elevata e nobile di quella che potesse offrire una federazione timorosa e incline al baratto. E quanto a quest’unica eccezione, a cosa si riduceva? La natura delle ricchezze e dell’influenza limitava con forza la lista dei candidati a pochi tra i più facoltosi; e c’era seriamente da temere che, davanti a occhi imparziali, il malumore e le contese generate da questa lotta triennale ne avrebbero controbilanciato i vantaggi. Riesco a malapena a ricordare il fluire del suo linguaggio e i graziosi giri di parole, l’arguzia e le piacevoli celie che davano vigore e autorità al suo discorso. I suoi modi, all’inizio timidi, divennero decisi, il suo volto mutevole si illuminò di uno splendore sovrumano e la sua voce, varia come la musica, era, come quella, incantevole.
Sarebbe inutile ricordare il dibattito che seguì quest’arringa. I rappresentanti di partito tennero i loro discorsi, e rivestirono la questione di luoghi comuni, ne nascosero il semplice significato dietro un velo intessuto di vacue parole. La mozione fu bocciata; Ryland si allontanò colmo di rabbia e disperazione; e Raymond, allegro ed esultante, si ritirò per sognare del suo futuro regno.
CAPITOLO V
Esiste un sentimento come l’amore a prima vista? E se sì, in cosa si differenzia dall’amore che cresce a poco a poco e si fonda su una lunga frequentazione? Forse i suoi effetti non sono così stabili ma, fino a quando durano, sono altrettanto impetuosi e intensi. Privi di gioia, noi camminiamo nei labirinti ciechi della società finché non afferriamo la traccia che, attraverso quel labirinto, ci conduce fino al paradiso. La nostra fioca natura, simile a una torcia spenta, dorme in un vuoto informe fino a che non la raggiunge il fuoco, vita della vita, luce della luna, e gloria del sole. Che importa, se il fuoco viene acceso dall’acciarino e dalla pietra focaia, nutrito con cura fino a che si sviluppa nella fiamma, e trasmesso poi lentamente allo scuro lucignolo, oppure se la forza radiosa della fiamma e del calore si trasforma rapidamente in un potere affine, e accende insieme il falò e la speranza? I miei impulsi vitali vennero scossi fin nella sorgente più intima del mio cuore: dall’alto, dal basso, tutt’intorno, la Memoria mi avvolgeva come un manto. Non ci fu un momento nel tempo a venire in cui mi sentii come nel tempo passato. L’animo di Idris aleggiava nell’aria che respiravo; i suoi occhi erano sempre e per sempre chinati sui miei; il ricordo del suo sorriso accecava il mio timido sguardo, e mi faceva camminare come chi è immerso non nell’eclissi, né nell’oscurità e nel vuoto… bensì in una luce nuova e brillante, troppo insolita e abbagliante per i miei sensi umani. Ogni foglia, ogni minima piccola particella dell’universo recava impresso (come A, è inciso sul giacinto)71 il talismano della mia esistenza… Lei vive! Esiste! Non ebbi tuttavia il tempo di analizzare i miei sentimenti, di ricondurmi all’ordine, di porre un freno alla mia passione indomabile; tutto era una sola idea, un solo sentimento, una sola consapevolezza… Questa passione era la mia vita!
Ma il dado era tratto: Raymond avrebbe sposato Idris. Le campane del felice matrimonio mi risuonavano nelle orecchie; sentivo le congratulazioni della nazione che seguivano l’unione; il nobile ambizioso si levava con rapido volo d’aquila dall’umile terreno alla supremazia regale… e all’amore di Idris. Eppure, no! Lei non lo amava, aveva chiamato me suo amico, a me aveva sorriso, a me aveva affidato la più cara speranza del suo cuore, il bene di Adrian. Questa riflessione sciolse il mio sangue raggelato, e ancora la marea della vita e dell’amore rifluì in avanti impetuosa, per calare di nuovo appena i miei pensieri irrequieti mutavano.
Il dibattito si concluse alle tre del mattino. La mia anima era in tumulto; attraversai le strade con passo rapido e smanioso. Ero davvero pazzo quella notte. L’amore, che ho chiamato un gigante, fin dalla sua nascita, lottava con la disperazione! Il mio cuore, campo di battaglia, era ferito dal piede d’acciaio dell’uno, bagnato dalle lacrime dell’altra. Il giorno, per me detestabile, spuntava; mi ritirai nei miei appartamenti, mi gettai su un divano. Dormii… Era sonno? Il pensiero era ancora vivo… L’amore e la disperazione ancora guerreggiavano, e io mi dibattevo per la pena insopportabile.
Mi svegliai mezzo inebetito; avvertivo un pesante senso di oppressione, ma non sapevo perché; entrai, per così dire, nella camera del consiglio del cervello, e interrogai i vari ministri del pensiero lì raccolti. Troppo presto ricordai tutto; troppo presto le mie membra fremettero sotto il potere tormentoso; presto, troppo presto, seppi di essere uno schiavo!
Improvvisamente, non annunciato, Lord Raymond entrò nel mio appartamento. Venne dentro con fare gaio, cantando la canzone tirolese della libertà;72 mi degnò di un grazioso cenno di capo e si gettò su un sofà posto di fronte alla copia di un busto di Apollo Belvedere.73 Dopo una o due frivole osservazioni alle quali risposi in modo scontroso, esclamò improvvisamente, guardando il busto: «Mi chiamano come quel vincitore! Non è una cattiva idea; la testa servirà per il mio nuovo conio, e sarà un auspicio per tutti i sudditi testimoni obbedienti del mio futuro successo».
Parlò coi suoi modi più allegri e benevoli, e sorrise, non con sprezzo, anzi prendendosi scherzosamente gioco di se stesso.
Poi all’improvviso il suo volto si oscurò, e con quel tono acuto che gli era proprio, esclamò: «Ho combattuto una bella battaglia, la scorsa notte; gli altopiani della Grecia non mi videro mai ottenere una conquista maggiore. Ora sono l’uomo più importante dello Stato, motivo dominante di ogni ballata e oggetto delle devozioni borbottate dalle vecchie. Quali sono le vostre riflessioni? Voi che immaginate di poter leggere l’anima umana come il vostro lago natale legge ogni crepa e insenatura delle colline che lo circondano, dite, cosa pensate di me, speranzoso futuro re, sono un angelo o un demone, che cosa?».
Il suo tono ironico strideva col mio cuore traboccante e sovraeccitato; la sua insolenza mi esasperò, e replicai con asprezza: «C’è un’anima, né angelo né demone, dannata solamente al limbo». Vidi le sue guance farsi pallide e le labbra sbiancare e tremare; la sua rabbia servì solo a infiammare la mia, e risposi con uno sguardo determinato ai suoi occhi che mi fissavano irosi; d’un tratto questi si ritrassero, si chinarono e una lacrima, pensai, inumidì le ciglia scure; ne fui intenerito, e con involontaria emozione aggiunsi: «Non che voi siate tale, mio caro signore».
Mi arrestai, quasi spaventato dall’agitazione che lasciava intravedere: «Sì», disse alla fine, alzandosi e mordendosi il labbro, mentre si sforzava di dominare la sua passione, «tale son io! Voi non mi conoscete, Verney; né voi, né il nostro pubblico dell’altra notte, né l’intera Inghilterra sa nulla di me. Io sono qui, a quanto parrebbe, eletto re; questa mano sta per afferrare uno scettro, questa fronte sente in ogni suo nervo il futuro diadema. In apparenza ho la forza, il potere, la vittoria, eretto come una colonna che sostiene una cupola; ma io sono… una canna! Posseggo l’ambizione, e questa riesce a conseguire il suo scopo; i miei sogni notturni sono realizzati, le mie speranze diurne compiute; un regno attende il mio sì, i miei nemici sono sconfitti. Ma qui», e si colpì con violenza il cuore, «qui è il ribelle, qui è l’ostacolo: questo cuore prevaricatore, ch’io potrei prosciugare del suo sangue vitale, ma, fino a che resta anche una sola tremolante pulsazione, sono suo schiavo».
Parlò con voce rotta, poi chinò il capo e, nascondendo il volto tra le mani, pianse. Io soffrivo ancora per via della mia delusione, e tuttavia questa scena mi colpì fin quasi allo sgomento, né fui in grado di frenare il suo accesso di passione. Finalmente si placò; si gettò su un divano e rimase silenzioso e fermo; solo i suoi mobili lineamenti rivelavano un forte conflitto interiore. Infine si alzò e disse, col suo consueto tono di voce: «Il tempo incalza, Verney, e io devo andare. E non sia ch’io dimentichi l’ambasciata più importante della mia visita. Volete accompagnarmi a Windsor domani? Non sarete disonorato dalla mia compagnia, e poiché questo sarà probabilmente l’ultimo servizio, o cattivo servizio, che potete rendermi, acconsentirete alla mia richiesta?».
Mi porse la mano con aria quasi timida. Riflettei velocemente… Sì, voglio essere testimone dell’ultima scena del dramma. Il suo atteggiamento mi conquistò e un sentimento affettuoso nei suoi confronti mi riempì di nuovo il cuore. Lo pregai di disporre di me. «Certo, lo farò», disse con gaiezza, «questa è la mia parte ora: trovatevi da me domani mattina per le sette, siate discreto e leale, e fra breve sarete il custode della stola».74
Così dicendo si affrettò ad andarsene, con un volteggio balzò a cavallo e con un gesto, come se mi porgesse la sua mano da baciare, mi lanciò un altro allegro saluto. Lasciato a me stesso, mi sforzai con dolorosa intensità di indovinare il motivo della sua richiesta, e prevedere gli eventi del giorno seguente. Le ore scorrevano inavvertite; la testa mi doleva per i pensieri, i nervi sembravano carichi di un peso eccessivo; mi afferrai la fronte bruciante, come se le mie mani febbricitanti potessero alleviarne il tormento.
Il giorno seguente giunsi puntuale all’ora fissata e trovai Lord Raymond che mi stava aspettando. Salimmo sulla sua carrozza e procedemmo alla volta di Windsor. Mi ero dominato, ed ero deciso a non rivelare la mia interna agitazione.
«Che errore ha fatto Ryland», disse Raymond, «quando ha pensato di sopraffarmi l’altra notte. Ha parlato bene, molto bene; ma una tale arringa avrebbe avuto maggior successo se fosse stata indirizzata personalmente a me, piuttosto che agli sciocchi e alle canaglie là riuniti. Se fossi stato solo, lo avrei ascoltato col desiderio di scendere a più miti consigli, ma quando ha tentato di sconfiggermi nel mio stesso territorio, con le mie stesse armi, ha messo alla prova il mio amor proprio, e il risultato è stato quello che tutti avrebbero potuto aspettarsi».
Sorrisi incredulo e replicai: «Io sono dell’opinione di Ryland e, se permettete, ne ripeterò tutte le argomentazioni; vedremo fino a che punto sarete da esse indotto a mutare il modello monarchico con quello patriottico».
«La ripetizione sarebbe inutile», disse Raymond. «Le ricordo bene, e ne ho molte altre che io stesso posso suggerire, e che parlano con incontestabile persuasione».
Non si spiegò, e io non feci alcun commento alla sua risposta. Proseguimmo in silenzio per molte miglia, mentre la campagna coi suoi campi aperti, i boschi ombreggiati e i parchi, si offriva piacevolmente al nostro sguardo. Dopo alcune osservazioni sullo scenario e le costruzioni, Raymond disse: «I filosofi hanno definito l’uomo un microcosmo della natura, e ritrovano un riflesso di tutto questo macchinario, visibilmente all’opera intorno a noi, nell’intimo della sua mente. Questa teoria è stata spesso fonte di divertimento per me, e ho passato più di un’ora oziosa esercitando il mio ingegno nella ricerca delle somiglianze. Non dice forse Bacone che “il passare da una dissonanza a una assonanza, che produce grande soavità in musica, presenta una concordanza con gli affetti, che sono reintegrati nel modo migliore dopo aver provato avversione?”75 Che mare è il flusso della passione, le cui fonti sono nella nostra stessa natura! Le nostre virtù sono delle sabbie mobili, che si mostrano con l’acqua bassa e calma; basta però che le onde si alzino sospinte dal vento e il povero diavolo, la cui speranza era riposta nella loro durevolezza, si accorge che esse cedono sotto di lui. Le mode del mondo, le sue necessità, gli insegnamenti e gli svaghi, sono venti che spingono la nostra volontà, come delle nuvole, tutte in un’unica direzione; ma se solo si leva un temporale sotto forma di amore, odio o ambizione, i nembi retrocedono, procedendo trionfalmente contro l’aria che si oppone».
«Tuttavia», replicai io, «la natura si presenta sempre ai nostri occhi sotto l’aspetto di un paziente: mentre c’è una virtù fattiva nell’uomo che è in grado di guidare il destino, e almeno di virare di fronte alla burrasca, finché in qualche modo la conquista».
«C’è più dello specioso che del véro nella vostra distinzione», disse il mio compagno. «Ci siamo forse formati da soli, scegliendo le nostre inclinazioni e i nostri poteri? Io mi considero come uno strumento con le sue corde e coi suoi tasti di registro… ma non ho alcun potere di girare i piroli o di intonare i miei pensieri a una chiave più alta o più bassa».
«Altri uomini», osservai, «potrebbero essere dei musicisti migliori».
«Non parlo degli altri, ma di me stesso», rispose Raymond, «e sono un esempio che può valere quanto un altro. Non riesco ad accordare il mio cuore a una particolare melodia, o a indurre volontariamente dei cambiamenti nella volontà. Veniamo al mondo, ma non scegliamo né i nostri genitori né la nostra posizione sociale; siamo educati da altri, o dalle circostanze del mondo, e questa educazione, mescolandosi alla nostra disposizione innata, è il terreno sul quale crescono i nostri desideri, le nostre passioni e i nostri stimoli».
«C’è molta verità in quello che dite», osservai, «e tuttavia nessun uomo agisce mai in base a questa teoria. Chi, quando fa una scelta, dice: faccio così perché vi sono costretto? Non avverte invece in sé una libertà di arbitrio che, se pure tale sensazione si può definire ingannevole, agisce da stimolo nel momento in cui decide?»
«Esattamente così», rispose Raymond, «un altro anello dell’indistruttibile catena. Se io commettessi ora un atto che distruggesse le mie speranze, strappasse dalle mie membra mortali gli indumenti regali, per vestirle di normali gramaglie, sarebbe questo, credete, un atto di libero arbitrio da parte mia?»
Mentre così discorrevamo, mi accorsi che non stavamo andando a Windsor per la strada normale ma attraverso Englefield Green, verso Bishopgate Heath. Cominciai a intuire che non era Idris lo scopo del nostro viaggio, ma che venivo condotto ad assistere alla scena che doveva decidere il destino di Raymond… e di Perdita. Durante il viaggio Raymond era stato evidentemente preso da esitazioni e, mentre entravamo nella dimora di Perdita, in ogni suo gesto era visibile l’irresolutezza. Lo guardai con curiosità decidendo che, se questa esitazione si fosse protratta, avrei aiutato Perdita a superare se stessa e le avrei insegnato a disprezzare l’amore titubante di colui che oscillava tra il possesso di una corona e quello di lei, la cui eccellenza e il cui affetto superavano il valore di un regno.
La trovammo sotto la sua pergola adornata di fiori; stava leggendo il resoconto del giornale sul dibattito in parlamento, cosa che evidentemente la condannava alla disperazione. Quel sentimento che le faceva mancare il cuore era dipinto negli occhi infossati e nell’atteggiamento abbattuto; una nube era posta sulla sua bellezza, e dei sospiri frequenti erano il segno della sua angoscia. Questa vista ebbe un effetto immediato su Raymond; i suoi occhi irradiarono tenerezza, e il rimorso vestì i suoi modi di serietà e sincerità. Sedette al suo fianco e, prendendole il giornale dalle mani, disse: «Non una parola di più dovrà leggere la mia dolce Perdita di questa disputa di pazzi e sciocchi. Non devo permetterti di conoscere l’entità della mia illusione, altrimenti mi disprezzerai; anche se, credimi, il desiderio di apparire di fronte a te, non sconfitto, ma conquistatore, è stato per me fonte di ispirazione durante la mia guerra di parole».
Perdita lo guardò stupefatta; il suo volto espressivo risplendette per un attimo di tenerezza; anche solo vederlo significava felicità. Ma un pensiero amaro offuscò veloce la sua gioia; volse gli occhi a terra, sforzandosi di padroneggiare l’accesso di lacrime che minacciava di sopraffarla. Raymond proseguì: «Non reciterò con te, cara fanciulla, né cercherò di apparire diverso da quello che sono, debole e indegno, più adatto a suscitare il tuo disprezzo che il tuo amore. Eppure tu mi ami; sento e so che mi ami, e da questo traggo le mie più care speranze. Se ti guidasse l’orgoglio, o addirittura il raziocinio, potresti a ragione rifiutarmi. Fallo, se il tuo cuore elevato, inadatto ai miei deboli propositi, rifiuta di chinarsi alla pochezza del mio. Volgimi pure le spalle, se vuoi… se puoi. Se non è tutta la tua anima che ti esorta a perdonarmi, se non è tutto il tuo cuore che spalanca la sua porta per accogliermi proprio nel suo intimo, abbandonami, non parlarmi mai più. Io, se pure ho peccato contro di te fin quasi a perdere la possibilità del perdono, io sono anche orgoglioso; non ci dev’essere riserva nel tuo perdono… nessuna manchevolezza nel dono del tuo affetto».
Perdita guardò in basso, confusa, eppure compiaciuta. La mia presenza l’imbarazzava tanto che non osava voltarsi a incontrare gli occhi del suo innamorato, né affidarsi alla sua voce per rassicurarlo del suo affetto; intanto un rossore le ammantava le guance, e la sua aria sconsolata si tramutava in un’espressione di gioia profonda. Raymond le circondò la vita col braccio, e continuò: «Non nego di aver oscillato fra te e la speranza più elevata che un mortale può nutrire; ma ora non è più così. Prendimi… plasmami secondo la tua volontà, prendi possesso del mio cuore e della mia anima per tutta l’eternità. Se rifiuti di contribuire alla mia felicità, lascerò l’Inghilterra stanotte, e non vi metterò mai più piede».
«Lionel», proseguì, «tu hai sentito:76 sii dunque mio testimone. Persuadi tua sorella a perdonare l’offesa che le ho arrecato, persuadila a essere mia».
«Non c’è bisogno che nessuno mi persuada», disse arrossendo Perdita, «bastano le tue care promesse e il mio cuore pronto, che mi sussurra che sono sincere».
Quello stesso pomeriggio andammo tutti e tre insieme a passeggiare nella foresta, e, con la loquacità che la contentezza ispira, mi narrarono nei particolari la storia del loro amore. Era piacevole vedere l’altezzoso Raymond e la riservata Perdita che, grazie alla pienezza del reciproco appagamento, avevano entrambi perso il loro atteggiamento riservato, trasformati dall’amore corrisposto in fanciulli giocosi e ciarlieri. Una o due notti prima Lord Raymond, con la fronte corrugata dalla preoccupazione e il cuore oppresso dai pensieri, aveva impiegato tutte le sue energie per ridurre al silenzio o persuadere i legislatori d’Inghilterra che uno scettro non era troppo pesante per la sua mano, e visioni di dominio, di guerra e di trionfo gli fluttuavano davanti. Ora era allegro come un bambino vivace che gioca sotto lo sguardo di approvazione della madre, e le speranze della sua ambizione erano soddisfatte quando premeva la bella mano minuta di Perdita alle labbra; lei, radiosa per la gioia, guardava nell’acqua immobile, non certamente ammirando se stessa, quanto bevendo, rapita il riflesso delle loro immagini, sua e del suo innamorato, mostrate per la prima volta nella diletta unione.
Mi allontanai dai due. Se a loro apparteneva l’estasi della sicura comunione di sentimenti, io godevo di quella della speranza restituita. Guardai le torri reali di Windsor. Alte sono le mura e resistenti le barriere che mi separano dalla mia Stella della Bellezza. Ma non insormontabili. Idris non sarà sua. Abita ancora qualche anno nel tuo giardino natio, caro dolce fiore, fino a che io, col tempo e il duro lavoro, non abbia conquistato il diritto di coglierti. Non disperare, e non indurre me alla disperazione! Cosa devo fare ora? Innanzitutto devo cercare Adrian e ricondurlo sano a lei. Pazienza, gentilezza e instancabile affetto lo ricondurranno alla ragione, se è vero, come dice Raymond, che egli è pazzo; l’energia e il coraggio lo salveranno, se egli è ingiustamente tenuto prigioniero.
Gli innamorati mi raggiunsero di nuovo, e cenammo insieme sotto la pergola. Fu davvero una cena magica: anche se l’aria profumava dell’odore della frutta e del vino, nessuno di noi mangiò o bevve. Persino la bellezza della sera passò inosservata; il loro rapimento non poteva essere accresciuto da oggetti esterni, mentre io ero avvolto nelle fantasticherie. Verso mezzanotte, io e Raymond ci accomiatammo da mia sorella per tornare in città. Era pienamente felice; canticchiava delle canzoni e ogni pensiero che gli attraversava la mente, ogni oggetto intorno a noi risplendeva al sole della sua allegria. Mi accusò di essere malinconico, di cattivo umore e un po’invidioso.
«Non è così», dissi, «anche se ti confesso che i miei pensieri non sono così piacevoli come i tuoi. Hai promesso di aiutarmi a far visita ad Adrian; ti scongiuro di adempiere alla tua promessa. Non posso attardarmi qui, desidero ardentemente lenire, forse curare la malattia del mio primo e migliore amico. Partirò immediatamente per Dunkeld».
«Oh, uccello della notte», rispose Raymond, «che eclissi i miei pensieri luminosi e mi costringi a richiamare alla mente quella rovina malinconica che si innalza nella devastazione della mente, più irreparabile del frammento di una colonna scolpita posta in un campo invaso dalle erbacce. Sogni di poterlo ricondurre alla ragione? Dedalo non avvolse il Minotauro in un labirinto così intricato come quello che la pazzia ha intessuto intorno alla sua ragione imprigionata. Né tu né alcun altro Teseo potete farvi strada attraverso il labirinto, del quale forse qualche crudele Arianna possiede la chiave».
«Tu alludi a Evadne Zaimi: non è in Inghilterra».
«E anche se fosse qui», disse Raymond, «non le consiglierei di andarlo a trovare. Meglio sprofondare nel delirio assoluto che essere vittima della disfatta metodica della ragione provocata dall’amore mal riposto. La lunga durata della sua malattia ha probabilmente cancellato dalla sua mente ogni traccia di lei; e sarebbe bene che non ne ricevesse mai più alcuna nuova impronta. Lo troverai a Dunkeld; gentile e arrendevole, va in giro per le colline e attraverso i boschi, oppure si siede in ascolto vicino alla cascata. Lo vedrai: fiori selvatici infilati tra i capelli, gli occhi carichi di significati di cui è impossibile ripercorrere le tracce, la voce rotta, la persona consunta e ridotta a un’ombra. Coglie fiori ed erbacce e li intreccia in ghirlande, oppure fa navigare sulla corrente foglie gialle e pezzi di corteccia, rallegrandosi se veleggiano in salvo, o piangendo se naufragano. Il solo ricordo mi prostra. In nome del Cielo! Le prime lacrime che ho versato dopo l’adolescenza mi sono salite agli occhi quando l’ho visto».
Non c’era bisogno di quest’ultimo racconto per spronarmi ad andarlo a trovare. Ero solo in dubbio se tentare o meno di vedere ancora Idris, prima di partire. Questo dubbio fu risolto il giorno seguente. Raymond venne da me al mattino presto. Era giunta notizia che Adrian fosse malato e in pericolo, e sembrava impossibile che le sue forze, sempre più deboli, superassero la malattia. «Domani», disse Raymond, «sua madre e la sorella partiranno per la Scozia per vederlo ancora una volta».
«E io parto oggi!», esclamai. «Noleggerò subito un pallone volante;77 sarò là al più in quarantott’ore, forse in meno, se il vento è favorevole. Addio, Raymond; sii felice per aver scelto la parte migliore della vita. Questo mutamento di fortuna mi rianima. Temevo la pazzia, non la malattia; ho il presentimento che Adrian non morirà; forse questo malessere è una crisi da cui egli potrebbe riprendersi».
Tutto favorì il mio viaggio. Il pallone si sollevò circa mezzo miglio da terra, e scivolò nell’aria col vento a favore, mentre le sue ali piumate fendevano l’atmosfera che non opponeva resistenza alcuna. Nonostante lo scopo malinconico del mio viaggio, il mio umore era rallegrato dalla speranza rinascente, dal movimento veloce della scialuppa aerea e dalla fragranza dell’aria piena di sole. Il pilota muoveva appena il timone pennuto, e l’agile meccanismo delle ali, completamente spiegate, emetteva un rumore, quasi un mormorio, che placava i sensi. Sotto si distendevano pianure e colline, torrenti e campi di grano, mentre il nostro volo, senza incontrare impedimenti, correva veloce e sicuro, come quello di un cigno selvaggio negli anni verdi della gioventù. La macchina rispondeva al più lieve movimento della barra, e poiché il vento soffiava regolarmente, niente ostacolava la nostra rotta. Tale era il potere che gli uomini avevano conquistato sugli elementi: un potere a lungo cercato, e già previsto, nel tempo antico, dal principe dei poeti. Citai alcuni versi al pilota, che si stupì moltissimo quando gli dissi quante centinaia di anni or sono fossero stati scritti:
Oh! ingegno umano, molte malvagità tu puoi inventare,
E strane arti ricerchi: chi penserebbe che con l’abilità,
Un uomo pesante come un lieve uccello vaghi,
E una sua via, per la vuota volta dei cieli, trovi?78
Scesi a Perth e, seb ne molto affaticato dalla continua esposizione all’arìa, non volli riposare; cambiai semplicemente mezzo di trasporto e andai a Dunkeld per via di terra, invece che attraverso l’aria. Il sole stava sorgendo quando arrivai alle pendici delle colline. Dopo uno sconvolgimento di secoli,79 la collina di Birnam era di nuovo coperta da una giovane foresta, mentre i pini più vecchi, piantati proprio all’inizio del diciannovesimo secolo dall’allora duca di Athol, conferivano solennità e bellezza alla scena. Il sole che sorgeva tinse dapprima le cime dei pini, e il mio animo, reso estremamente sensibile alle grazie della natura dalla montagna dove avevo ricevuto la mia educazione, ora, poco prima di poter rivedere il mio amato amico, forse moribondo, fu stranamente influenzato dalla vista di quei raggi lontani: sicuramente erano un presagio, e come tali io li consideravo, un buon auspicio per Adrian, dalla cui vita dipendeva la mia felicità.
Povero Adrian! Giaceva disteso nel suo letto di malattia, le guance infiammate dalla febbre, gli occhi semichiusi, il respiro irregolare e affannoso. Tuttavia era meno penoso vederlo così che trovarlo sempre intento a soddisfare le funzioni animali, con la mente malata. Mi sistemai al suo capezzale e non lo abbandonai mai, né di giorno né di notte. Era davvero un compito amaro osservare il suo spirito ondeggiare tra la vita e la morte: guardare le sue calde guance, e sapere che quello stesso fuoco che lì bruciava troppo intensamente, stava consumando la sua linfa vitale; sentire i lamenti della sua voce, che avrebbe potuto non articolare mai più parole di amore e saggezza; osservare i movimenti inconsulti delle sue membra, che presto sarebbero state avvolte nel loro sudario mortale. La morte, per tre giorni e tre notti, apparve la conclusione decretata dal destino per le mie fatiche, e io mi feci smunto e spettrale per l’ansia e la veglia. Finalmente aprì gli occhi a fatica; sembrava che stesse per tornarvi la vita, era pallido e debole, ma la rigidità dei lineamenti era addolcita dal sopraggiungere della convalescenza. Mi riconobbe. Fu una coppa traboccante di emozione potente e gioiosa il momento in cui il suo volto si illuminò per la prima volta di uno sguardo di consapevolezza… E quando mi premette la mano, la mia ormai più febbricitante della sua, e quando pronunciò il mio nome! Non rimaneva traccia alcuna della passata follia, niente che potesse intaccare la mia gioia col dolore.
Quella stessa sera arrivarono sua madre e sua sorella. La contessa di Windsor era una donna dotata per natura di grande energia; e solo raramente, nella sua vita, aveva lasciato che le emozioni concentrate nel suo cuore si rispecchiassero nei lineamenti. La studiata immobilità del viso, i modi lenti, tranquilli, e la voce dolce ma priva di melodia, erano una maschera che nascondeva le ardenti passioni e l’impazienza del suo carattere. Non somigliava affatto a nessuno dei suoi figli; gli occhi neri e scintillanti, accesi dall’orgoglio, erano del tutto diversi dalla lucentezza del blu, dall’espressione franca e benigna propria di quelli di Adrian e di Idris. C’era qualcosa di imponente e maestoso nei suoi movimenti, ma nulla di suadente, nulla di affabile. Alta, sottile e diritta, il volto ancora notevole, i capelli corvini appena spruzzati di grigio, la fronte arcuata e bella, sebbene le sopracciglia non fossero folte: era impossibile non esserne colpiti, quasi non temerla. Nonostante l’estrema mitezza del suo carattere, Idris sembrava l’unica in grado di resistere alla madre. C’era, tutt’intorno a lei, una temerarietà e una franchezza che assicuravano che non avrebbe violato la libertà altrui, ma avrebbe conservato e difeso la propria come sacra e inattaccabile.
La contessa non gettò un solo sguardo benevolo al mio aspetto consunto, anche se poi mi ringraziò con freddezza per le mie attenzioni. Non così Idris; il suo primo sguardo fu per il fratello; gli prese la mano, gli baciò le palpebre, e gli rimase vicino con sguardi pieni di compassione e amore. I suoi occhi brillavano di lacrime quando mi ringraziò, e la grazia della sua espressione era accresciuta, non diminuita, dal fervore che la faceva quasi balbettare mentre parlava. Sua madre, tutta occhi e orecchi, si affrettò a interromperci; mi accorsi che desiderava congedarmi con discrezione, come uno i cui servigi, ora che i parenti erano arrivati, non erano più di alcuna utilità al figlio. Tormentato e malato, e deciso a non abbandonare il mio posto, ero tuttavia incerto sul modo in cui dovessi difenderlo. Adrian mi chiamò, e afferrandomi la mano, mi supplicò di non lasciarlo. Sua madre, che sembrava distratta, comprese all’istante cosa ciò significasse e, vedendo chela tenevamo in scacco, decise di cedere a noi su questo punto.
- giorni che seguirono furono ricolmi di sofferenza per me, tanto che rimpiansi di non aver ceduto subito alla dama altezzosa. Quest’ultima osservava tutti i miei movimenti e tramutava l’amato compito di accudire il mio amico in un lavoro penoso e irritante. Mai donna alcuna mi apparve fatta di sola mente come la contessa di Windsor. Le passioni avevano soggiogato i suoi appetiti, persino i bisogni naturali. Dormiva poco, mangiava appena; era evidente che considerava il suo corpo semplicemente come una macchina, la cui salute era necessaria alla realizzazione dei suoi piani, ma i cui sensi non entravano a far parte del suo piacere. C’è qualcosa che fa paura in chi riesce a vincere così la parte animale della propria natura, se la vittoria non è il risultato di una virtù consumata. Era con questa mescolanza di sentimenti che osservavo la figura della contessa che vegliava mentre gli altri dormivano, digiunava quando io, naturalmente frugale, e reso tale dalla febbre che mi devastava, ero costretto a recuperare le forze attraverso il cibo. La contessa era decisa a ostacolare o almeno a ridurre al minimo le occasioni che avevo per acquisire influenza sui suoi figli; aggirava i miei piani con una determinazione inflessibile, calma e testarda, che non sembrava appartenere alla carne e al sangue. Infine, tra di noi, venne tacitamente dichiarata guerra. Ci furono diversi scontri diretti, durante i quali non si proferiva parola, e a malapena ci si scambiava uno sguardo, ma ognuno era deciso a non sottomettersi all’altro. La contessa aveva il vantaggio della posizione e così, sebbene non cedessi, fui sconfitto.
Ero amareggiato. Sul viso recavo dipinti i colori della salute malandata e dell’afflizione. Adrian e Idris se ne accorsero e lo attribuirono alle mie lunghe veglie e all’ansia; mi esortarono dunque a riposare e a prendermi cura di me stesso, mentre io li rassicuravo nel modo più sincero che la mia migliore medicina erano i loro auguri affettuosi: questi, e la convalescenza del mio amico, di giorno in giorno sempre più evidente. Un lieve colore rosaceo fiorì di nuovo sulle sue guance, la fronte e le labbra persero il pallore cinereo della minacciata dissoluzione: questa era la cara ricompensa per la mia assidua attenzione, e il cielo munifico aggiunse una ricompensa sovrabbondante, quando mi concesse anche i ringraziamenti e i sorrisi di Idris.
Dopo alcune settimane lasciammo Dunkeld. Idris e sua madre tornarono immediatamente a Windsor, mentre io e Adrian, a causa della sua persistente debolezza, le seguimmo più lentamente e facendo delle soste frequenti. Attraversavamo le diverse contee della fertile Inghilterra, e tutto aveva un aspetto stimolante per il mio compagno, che era stato così a lungo escluso, per la malattia, dalla possibilità di godere delle gioie del tempo e del paesaggio. Passammo attraverso città industriose e pianure coltivate. Gli uomini mietevano le loro messi abbondanti; le donne e i bambini, impegnati nei lavori di campagna più leggeri, formavano dei gruppi di persone sane e felici, la cui sola vista portava gioia al cuore. Una sera, lasciando la nostra locanda, girovagammo giù per un pendio ombreggiato, poi su per un sentiero erboso, finché giungemmo a un’altura che dominava un vasto panorama di valli e colline, fiumi serpeggianti, boschi oscuri e splendidi villaggi. Il sole stava per tramontare, e le nuvole, disperdendosi nei vasti campi del cielo come un gregge appena tosato, ricevevano il colore dorato dei raggi morenti; gli altopiani lontani risplendevano e, reso armonioso dalla distanza, ci giungeva all’orecchio il brusio affaccendato della sera. Adrian, sentendo tutta la nuova vitalità infusagli dalla salute che di nuovo rifluiva in lui, si strinse le mani per la gioia ed esclamò con trasporto:
«O terra felice, e felici abitanti della terra! O uomo, Dio ha costruito un grandioso palazzo per te! E tu sei degno della tua dimora! Guarda il tappeto verdeggiante disteso ai tuoi piedi, e l’azzurra canopia al di sopra; i campi della terra che generano e nutrono tutte le cose, e il sentiero della volta celeste, che tutto racchiude e abbraccia. Adesso, a quest’ora della sera, nel momento del riposo e del ristoro, mi sembra che tutti i cuori sussurrino un solo inno di amore e ringraziamento, e noi, come sacerdoti di tempi antichi sulla cima delle montagne, diamo voce ai loro sentimenti.
Fu certo un potere assolutamente benigno quello che costruì la dimora maestosa in cui abitiamo, e formulò le leggi attraverso le quali essa vive. Se lo scopo finale del nostro essere fosse la semplice esistenza, e non la felicità, che bisogno ci sarebbe della profusione di sfarzo di cui godiamo? Perché la nostra dimora dovrebbe essere così attraente, e perché gli istinti della natura dovrebbero somministrare delle sensazioni piacevoli? Anche il sostentamento stesso della nostra macchina animale è reso delizioso; e il nostro nutrimento, i frutti del campo, è dipinto di colori straordinari, dotato di odori gradevoli, e gustoso al palato. Perché dovrebbe essere così, se Lui non fosse buono? Abbiamo bisogno di case per proteggerci dalle stagioni, e guarda i materiali di cui siamo provvisti; irrigoglio degli alberi col loro ornamento di foglie; mentre masse di pietre ammucchiate sulle pianure movimentano, con la loro piacevole irregolarità, la prospettiva.
E non solo gli oggetti esteriori sono i ricettacoli dello Spirito della Bontà. Esamina la mente dell’uomo, dove la saggezza regna sovrana; dove l’immaginazione siede, come un pittore, col suo pennello intinto in colori più incantevoli di quelli del tramonto, e abbellisce la vita consueta con tonalità brillanti. Che nobile benedizione, degna di chi l’ha data in dono, è l’immaginazione! toglie alla realtà il suo colore plumbeo, avvolge tutti i pensieri e le sensazioni in un velo sfolgorante, e con una mano ricolma di bellezza ci invita ad abbandonare il monotono mare della vita per i suoi giardini, e pergolati, e radure di beatitudine immensa. E non è l’amore un dono della divinità? L’amore, e sua figlia, la Speranza, che possono concedere ricchezze ai poveri, forza ai deboli e felicità ai sofferenti.
Il mio destino non è stato felice. A lungo ho convissuto col dolore, sono entrato nel tetro labirinto della follia, ne sono emerso, ma vivo solo a metà. Tuttavia ringrazio Dio di essere ancora vivo! Ringrazio Dio per aver potuto contemplare il suo trono, i cieli e la terra, il suo sgabello. Sono lieto di aver visto i cambiamenti del suo giorno; di guardare il sole, fonte di luce, e la gentile luna pellegrina; di aver visto i fiori di fuoco del cielo, e le stelle fiorite della terra; di essere stato testimone della semina e della mietitura. Sono lieto di aver amato, e di aver provato la comunanza di gioia e dolore con i miei simili. Sono lieto ora di sentire il fiume dei pensieri fluire nella mente, come il sangue scorre nelle articolazioni del mio corpo; il semplice esistere è piacere, e io ringrazio Dio di vivere!
E tutti voi, beniamini felici della madre terra, non echeggiate voi tutti le mie parole? Voi, che siete legati da vincoli affettuosi alla natura; compagni, amici, innamorati! Padri, che faticano con gioia per la propria progenie; donne, che dimenticano le pene della maternità quando contemplano i corpi vivaci dei loro figli; bambini, che non si dedicano ai lavori faticosi né filano la lana, ma amano e sono amati!
Se la morte e la malattia fossero banditi dalla nostra dimora terrena! Se l’odio, la tirannia e la paura non fossero più in grado di costruire il loro covo nel cuore dell’uomo! Se ogni essere potesse incontrare un fratello nel suo simile, e un nido di pace nelle vaste pianure che sono sua eredità! Se la fonte delle lacrime si prosciugasse, e le labbra non potessero più formulare espressioni di dolore! Così dormendo sotto l’occhio caritatevole del cielo, potrà il male visitarti, O Terra, o il dolore aver cura dei tuoi figli infelici fino alle loro tombe? No, non dirlo, neppure in un sussurro, o i demoni sentiranno e si rallegreranno! La scelta sta a noi; dobbiamo solo volerlo, e la nostra dimora diventerà un paradiso. Perché la volontà dell’uomo è onnipotente, in grado di spuntare le frecce della morte, di alleviare il letto delle malattie, e asciugare le lacrime dell’angoscia. E a cosa vale un essere umano, se non impiega tutte le sue forze per aiutare i suoi simili? La mia anima è una scintilla che si sta spegnendo, la mia natura fragile come un’onda già passata; ma io dedicherò tutta l’intelligenza e le forze che mi rimangono a quel solo lavoro, e assumerò su di me il compito, per quanto è nelle mie possibilità, di concedere i doni del cielo agli uomini, miei fratelli!».
La sua voce tremò, volse gli occhi in alto, si strinse le mani, e l’esile persona si piegò, quasi per un eccesso di emozione. Lo spirito della vita sembrava indugiare nel suo corpo, come la fiamma morente che, su un altare, guizza sulle ceneri ardenti di un sacrificio accetto.
CAPITOLO VI
Quando arrivammo a Windsor, Raymond e Perdita erano partiti per il continente. Mi stabilii nella casa di mia sorella, e mi considerai beato perché vivevo in vista del castello di Windsor. Era curioso, ma, in questo periodo, pur essendo imparentato, grazie al matrimonio di Perdita, con uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra, e legato dalla più intima amicizia al primo tra i suoi nobili, sperimentai la povertà più grande che avessi mai provato. Conoscendo infatti i principi cui Lord Raymond si atteneva, non avrei mai potuto rivolgermi a lui, per quanto grave avesse potuto essere la mia indigenza. E invano mi ripetevo, riguardo ad Adrian, che la sua borsa era aperta per me, e che, essendo noi un’anima sola, anche le nostre fortune dovevano essere in comune. Mai potevo, quando ero con lui, pensare alla sua generosità come a un rimedio alla mia indigenza; così mi affrettai ad accantonare le sue offerte di sostegno e, mentendo, gli assicurai che non ne avevo bisogno. Come potevo dire a questo essere generoso: «Mantienimi nell’ozio. Tu che hai dedicato le facoltà della tua mente e la tua fortuna al beneficio della tua specie, proprio tu indirizzerai i tuoi sforzi così male da sostenere nell’inutilità chi è forte, sano e capace?».
Non ebbi nemmeno l’ardire di chiedergli di usare la sua influenza per farmi avere una rendita onorevole, altrimenti sarei stato costretto ad abbandonare Windsor. Gironzolavo sempre intorno alle mura del castello, sotto i boschetti ombrosi, miei unici compagni i libri e i pensieri d’amore. Studiavo la saggezza degli antichi, e fissavo le mura felici che proteggevano colei che la mia anima adorava. E tuttavia la mia mente non era oziosa. Meditavo sulle poesie dei tempi andati; studiavo la metafisica di Platone e di Berkeley.80 Leggevo la storia della Grecia, di Roma, del passato dell’Inghilterra, e osservavo i movimenti della dama del mio cuore. Di notte potevo scorgerne l’ombra sui
muri del suo appartamento; di giorno la vedevo nel suo giardino di fiori, o a cavallo nel parco, coi suoi compagni abituali. Mi sembrava che l’incantesimo si sarebbe spezzato se fossi stato scorto, ma sentivo il suono armonioso della sua voce ed ero felice. Davo a ogni eroina di cui leggevo la sua bellezza e i suoi incomparabili pregi. Tale era Antigone, quando condusse il cieco Edipo nel bosco di Eumenide e adempì ai riti funebri di Polinice; tale era Miranda nella caverna non visitata di Prospero; tale Haidée, sulle spiagge dell’isola ionica.81 Ero pazzo per l’eccesso di devozione passionale; ma l’orgoglio, indomabile come il fuoco, avvolgeva la mia natura e m’impediva di tradirmi con parole o sguardi.
Mentre mi deliziavo così con abbondanti pasti dell’anima, un contadino avrebbe rifiutato lo scarso cibo che talvolta rubavo agli scoiattoli della foresta. Ero spesso tentato, lo ammetto, di ricorrere ai banchetti illegali della mia adolescenza, di abbattere i fagiani quasi addomesticati che se ne stavano appollaiati sugli alberi e chinavano su di me i loro occhi brillanti. Ma erano proprietà di Adrian, i beniamini di Idris; così, anche se nella mia immaginazione resa voluttuosa dall’astinenza pensavo che avebbero preferito diventare uno spiedo nella mia cucina, piuttosto che delle verdi foglie della foresta:
Ciononostante,
Frenai la mia potente volontà, e non mangiai,
ma facevo cena coi sentimenti, e sognavo invano «quei dolci bocconi»,82 che durante la veglia non potevo avere.
A questo punto, però, tutto il quadro della mia esistenza stava per cambiare. L’orfano e figlio negletto di Verney era alla vigilia di un evento che lo avrebbe legato al meccanismo della società con una catena dorata, stava per assumersi tutti i doveri e le emozioni della vita. Miracoli stavano per essere operati in mio favore, e l’apparato della vita sociale veniva spinto indietro con grande sforzo. Fa’ attenzione, lettore, mentre ti narro questa storia di meraviglie!
Un giorno, mentre Adrian e Idris stavano cavalcando nella foresta con la madre e i soliti compagni, Idris, tirando in disparte il fratello, gli chiese all’improvviso cosa ne era stato del suo amico, Lionel Verney.
«Proprio da qui», rispose Adrian indicando la casetta di mia sorella, «puoi vederne l’abitazione».
«Davvero!» esclamò Idris. «E perché, se si trova così vicino, non viene a farci visita e non si unisce alla nostra compagnia?»
«Io vado a trovarlo spesso», rispose Adrian; «e si possono facilmente indovinare i motivi che lo trattengono dal venire dove la sua presenza potrebbe infastidire anche uno solo tra di noi».
«Li indovino certamente», disse Idris, «e poiché sono quelli che sono, non oserei combatterli. Dimmi, comunque, come trascorre il suo tempo; cosa fa e cosa pensa nel rifugio della sua casa?»
«In verità, mia dolce sorellina», rispose Adrian, «mi chiedi più di quanto io sia, a ragione, in grado di dire; ma se hai dell’interesse per lui, perché non vai a trovarlo? Egli ne sarà altamente onorato, e così potrai ripagare una parte del debito di riconoscenza che gli devo e ricompensarlo per le offese che la sorte gli ha riservato».
«Sono prontissima ad accompagnarti alla sua dimora», disse Idris; «non che io speri che uno di noi si liberi del nostro debito che, essendo nulla di meno che la tua vita, è destinato a rimanere per sempre impagabile. Tuttavia andiamo; domani usciremo insieme a cavallo, e avanzando in quella parte della foresta, lo andremo a trovare».
La sera seguente dunque, anche se il mutato tempo d’autunno aveva portato freddo e pioggia, Adrian e Idris entrarono in casa mia. Mi trovarono, come Curio,83 a banchettare con della misera frutta per cena; ma loro portarono doni più ricchi di quelli delle eccellenti spose dei Sabini, né io potei rifiutare l’inestimabile carico di amicizia e gioia che offrivano. Sicuramente i gloriosi gemelli di Latona,84 quando, nell’infanzia del mondo, furono partoriti per dare bellezza e luce allo «sterile promontorio»,85 non ricevettero un’accoglienza più calorosa di quella riservata nella mia umile dimora e nel mio cuore riconoscente a questa coppia di angeli. Sedemmo come una famiglia intorno al mio focolare. I nostri discorsi toccavano argomenti che non erano legati alle emozioni che, evidentemente, ci possedevano; ma ciascuno di noi intuiva i pensieri dell’altro, e mentre le voci parlavano di questioni indifferenti, gli occhi, in
un muto linguaggio, dicevano le mille cose che nessuna lingua avrebbe potuto pronunciare.
Mi lasciarono dopo un’ora. Mi lasciarono felice… così indicibilmente felice. Non c’era bisogno dei suoni misurati del linguaggio umano per scandire la storia della mia estasi. Idris era venuta a trovarmi; Idris, l’avrei rivista più e più volte. La mia immaginazione si appagava in una tale consapevolezza. Toccavo il cielo con un dito; né dubbi né paure, e neppure speranze turbavano la mia quiete; abbracciavo con la mia anima la pienezza dell’appagamento, soddisfatto, pago, beato.
Adrian e Idris continuarono a venirmi a trovare per molti giorni. In questo periodo a me così caro, l’amore, sotto le sembianze di un’amicizia entusiasta, infuse sempre più il suo spirito onnipotente. Idris lo sentiva. Sì, divinità del mondo, io lessi le tue cifre sul suo volto e nei suoi gesti; sentii la tua voce melodiosa riecheggiata dalla sua. Stavi preparando per noi un sentiero dolce e fiorito, e delicati pensieri d’ogni sorta lo adornavano. Il tuo nome, Amore, non venne pronunciato, ma tu eri là, il Genio dell’Ora, coperto da un velo, e solo il tempo, non mano mortale, avrebbe potuto sollevare il drappeggio. Gli organi preposti all’articolazione dei suoni non proclamarono l’unione dei nostri cuori, perché circostanze avverse non diedero l’opportunità di esprimere quanto era sospeso sulle nostre labbra.
Oh penna! Sii veloce a scrivere quello che fu, prima che il pensiero di quello che è arresti la mano che ti guida. Se alzo gli occhi e osservo la terra deserta, e sento che quei cari occhi hanno estinto la loro lucentezza mortale, che quelle belle labbra sono silenti, i loro «petali cremisi»86 avvizziti, io sarò per sempre muto!
Ma tu sei viva, mia Idris, e ora, anche ora ti muovi davanti a me! C’era una radura, lettore, uno spiazzo erboso nel bosco; gli alberi, ritraendosi da lì, rendevano la distesa vellutata simile a un tempio dell’amore; l’argenteo Tamigi la cingeva da un lato, e un salice piangente, chinandosi, immergeva nell’acqua i suoi capelli di naiade, scompigliati dalla mano invisibile del vento. Le querce all’intorno erano la dimora di una famiglia di usignoli… Ecco, in questo momento io sono lì; Idris, nel fiore della sua bella giovinezza è al mio fianco… Ricordo, io ho solo ven- tidue anni, mentre per l’amata del mio cuore sono appena passate diciassette primavere. Il fiume, gonfiato dalle piogge autunnali, inondava le rive basse e Adrian, con la sua barca preferita, è impegnato nel pericoloso passatempo di strappare il
ramo più alto da una quercia sommersa. Sei stanco della vita, Oh Adrian, che giochi così col pericolo?
Ha ottenuto il suo premio, e guida la sua barca sul fiume; i nostri occhi erano fissi su di lui per la paura; a questo punto però la corrente lo trascinò lontano da noi; fu costretto ad approdare molto più in basso, e a fare un lungo giro prima di poterci raggiungere. «E salvo!», disse Idris, appena Adrian saltò sulla riva e agitò il ramo sopra la testa in segno di successo. «Lo aspetteremo qui».
Eravamo insieme, noi soli: il sole era tramontato; gli usignoli iniziavano il loro canto; la stella della sera brillava distintamente nel profluvio di luce che a occidente non era ancora svanita. Gli occhi blu della mia angelica fanciulla guardavano fissi la stella, questo dolce emblema di se stessa: «Come palpita la luce», disse, «e la vita di quella stella. Il suo fulgore vacillante sembra dire che la sua condizione, proprio come la nostra sulla terra, è oscillante e mutevole; essa ha paura, sembra quasi, e ama».
«Non guardare la stella, mia cara, generosa amica», esclamai, «non leggere l’amore nei suoi raggi tremanti; non guardare mondi lontani; non parlare della pura fantasia di un sentimento. Ho taciuto a lungo; a lungo, fin quasi a star male, ho desiderato parlarti, e sottomettere la mia anima, la mia vita, il mio intero essere a te. Non guardare la stella, caro amore, o, se vuoi farlo, lascia che quella scintilla eterna interceda per me; che essa sia la mia testimone e la mia sostenitrice, mentre brilla silenziosa… L’amore è per me quello che la luce è per la stella; e fino a che essa non verrà eclissata dall’annientamento, per tutto questo stesso tempo, io ti amerò».
Nascosto per sempre allo sguardo insensibile del mondo dovrà restare il trasporto di quel momento. Sento ancora il suo corpo leggiadro premere contro il mio cuore così pieno da traboccare… Ancora la vista, il polso e il respiro vacillano e vengono meno, al ricordo di quel primo bacio. Lentamente e in silenzio ci avviammo incontro a Adrian, che avevamo sentito avvicinarsi.
Pregai Adrian di tornare da me dopo aver ricondotto a casa sua sorella. E quella sera stessa, passeggiando per i sentieri della foresta illuminati dalla luna, aprii completamente il mio cuore, coi suoi slanci e la sua speranza, al mio amico. Per un momento sembrò turbato… «Avrei potuto prevederlo!», disse, «che lotta ne seguirà ora! Perdonami, Lionel, e non stupirti se le prospettive di una disputa con mia madre mi indispongono, quando altrimenti ti confesserei con gioia che, affidando mia sorella alla tua protezione, si realizzano le mie migliori speranze. Se non lo conosci già, imparerai presto l’odio profondo che mia madre prova per il nome di Verney. Parlerò con Idris; poi, tutto quello che un amico può fare lo farò; a lei deve spettare il ruolo dell’innamorata, se avrà la possibilità di recitarlo».
Mentre fratello e sorella erano ancora incerti sul modo migliore in cui potevano tentare di far mutare parere alla madre, costei, che guardava con sospetto ai nostri incontri, cominciò ad accusare i figli; incolpava la bella figlia di ingannarla, e di provare un attaccamento sconveniente per uno il cui unico merito era l’essere il figlio di quell’essere dissoluto, favorito del suo imprudente padre; costui era senza dubbio indegno quanto colui dal quale vantava la discendenza. A quest’accusa gli occhi di Idris lampeggiarono: «Non nego di amare Verney; dimostratemi che egli è un essere indegno, e io non lo vedrò più», rispose.
«Cara Signora», disse Adrian, «lasciate che vi supplichi di vederlo, di coltivare la sua amicizia. Vi stupirete allora, come faccio io, di fronte alla vastità delle sue doti, e all’eccezionaiità dei suoi talenti». (Perdonami, gentile lettore, ma questa non è futile vanità: non è futile, poiché sapere che questo è quello che Adrian provava rallegra il mio cuore solitario persino ora).
«Sciocco e pazzo che sei!», esclamò la dama adirata, «tu hai scelto con i tuoi sogni e le tue teorie di rovesciare i piani che io avevo formulato per accrescere la tua grandezza; ma non farai lo stesso con quelli che ho studiato per tua sorella. Capisco fin troppo bene il fascino dal quale voi due, entrambi, siete soggiogati: ho combattuto già la stessa battaglia con vostro padre affinché si liberasse del genitore di questo giovane, che nascondeva le sue inclinazioni diaboliche con la soavità e la furberia di una vipera. Quante volte, in quei giorni, ho sentito parlare delle sue attrattive, delle sue vaste conquiste ovunque diffuse, della sua arguzia, dei suoi modi raffinati. Vada pure che le mosche vengano catturate da simili tele di ragno; ma che anche i potenti e blasonati chinino il capo sotto il giogo inconsistente di questa vacua arroganza? Se tua sorella fosse in effetti l’insignificante persona che meriterebbe di essere, l’abbandonerei volentieri al destino, miserabile destino, di moglie di un uomo la cui persona stessa, rassomigliante com’è a quella del suo sciagurato padre, dovrebbe riportarti alla mente la follia e il vizio che rappresentano: ma ricorda, Lady Idris, non è solo il sangue d’Inghilterra, un tempo regale, che colora le tue vene; tu sei una principessa d’Austria, e ogni goccia della tua linfa vitale porta legami con imperatori e re. Sei dunque tu una compagna adeguata per un pastore incolto, la cui unica eredità è il nome disonorato di suo padre?»
«Posso sostenere un’unica difesa», rispose Idris, «la stessa proposta da mio fratello: incontrate Lionel, parlate col mio pastore».
La contessa l’interruppe indignata. «Il tuo!», esclamò; poi, addolcendo i suoi lineamenti infiammati in un sorriso sprezzante, proseguì: «Parleremo di ciò un’altra volta. Tutto quello che ora chiedo, tutto quello di cui tua madre, Idris, ti prega, è che tu non veda questo villano, venuto su dal nulla, per un periodo di un mese».
«Non oso accondiscendere», disse Idris, «gli arrecherebbe troppa sofferenza. Non ho il diritto di giocare con i suoi sentimenti, di accettare le sue profferte d’amore, per poi ferirlo abbandonandolo».
«Questo è troppo», rispose sua madre, con le labbra tremanti e gli occhi di nuovo carichi di rabbia.
«Ebbene, mia Signora», disse Adrian, «a meno che mia sorella acconsenta a non rivederlo mai più, è senz’altro un inutile tormento separarli per un mese».
«Certamente», rispose l’ex regina con amaro ludibrio, «l’amore di lui e l’amore di lei, e i turbamenti infantili di entrambi possono certo essere messi debitamente a confronto con i miei anni di ansie e speranze, con i doveri della progenie di re, con la condotta dignitosa e specchiata che una della sua discendenza dovrebbe seguire. Ma non è degno di me discutere e lamentarmi. Forse avrai quantomeno la bontà di farmi la promessa di non sposarlo in quel periodo?».
La richiesta era ironica solo in parte, e Idris si domandò perché sua madre dovesse estorcerle il voto solenne di non fare quanto lei stessa non aveva mai sognato di fare. Ma la promessa fu ottenuta.
Ora tutto procedeva a meraviglia; ci incontravamo come al solito, e parlavamo senza timori dei nostri piani futuri. La contessa era così gentile, e persino così affabile con i figli, ben oltre la sua consuetudine, che questi cominciarono a nutrire delle speranze sul suo consenso finale. La madre era troppo diversa da loro, troppo radicalmente lontana dalle loro inclinazioni perché trovassero diletto nella sua compagnia o alla prospettiva di una sua frequentazione, nondimeno erano felici di vederla conciliante e benevola. Una volta, addirittura, Adrian si azzardò a proporle di ricevermi. Rifiutò con un sorriso, ricordandogli che sua sorella aveva per il momento promesso di essere paziente.