Libro II
CAPITOLO XII
Durante il viaggio, quando nelle calme serate conversavamo sul ponte osservando il bagliore delle onde e il volto mutevole del cielo, scoprii la radicale rivoluzione che le disgrazie di Raymond avevano provocato nell’animo di mia sorella. Erano, quelle, le stesse acque dell’amore che, poco prima fredde e taglienti come il ghiaccio, e come quello repellenti, liberate ora dalle loro catene ghiacciate, fluivano esuberanti, zampillando piacevolmente, attraverso le regioni della sua anima? Perdita non credeva che lui fosse morto, ma sapeva che era in pericolo, e la speranza di essere d’aiuto nella sua liberazione, l’idea di addolcire con la tenerezza i mali che poteva aver sopportato, elevavano e rendevano armonioso l’elemento di dissonanza che negli ultimi tempi si era manifestato in lei. Io non ero altrettanto ottimista sull’esito del nostro viaggio. Lei non era ottimista, era sicura; e la speranza di vedere l’amato da lei scacciato, il marito, l’amico, il compagno del suo cuore dal quale si era per lungo tempo allontanata, avvolgeva i suoi sensi nella gioia, il suo animo nella serenità. Era come iniziare di nuovo la vita, come lasciare le sabbie aride per una dimora di rigogliosa bellezza; era un porto dopo una tempesta, un narcotico dopo notti insonni, un risveglio felice da un sogno terribile.
La piccola Clara venne con noi; la povera bambina non capiva bene cosa stesse accadendo. Aveva sentito che eravamo diretti in Grecia, che avrebbe visto il padre, e ora, per la prima volta, chiacchierava allegramente di lui con la madre.
Al nostro approdo ad Atene, le difficoltà ci crescevano intorno: e, finché il destino di Raymond era in pericolo, quella terra leggendaria e l’atmosfera fragrante non potevano suscitare in noi entusiasmo o piacere. Nessun uomo aveva mai suscitato un interesse così forte nell’opinione pubblica, e ciò era evidente persino tra i flemmatici inglesi, dai quali era stato a lungo lontano. Gli ateniesi avevano sperato che il loro eroe tornasse in trionfo; le donne avevano insegnato ai figli a balbettare il suo nome insieme alla preghiera di ringraziamento; la sua bellezza virile, il suo coraggio, la sua devozione alla causa lo facevano apparire ai loro occhi quasi come una delle antiche divinità della loro terra, scesa dal nativo Olimpo in loro difesa. Quando parlavano della sua morte probabile e della sua sicura prigionia, le lacrime sgorgavano dagli occhi; e proprio come le donne della Siria si dolsero per Adone, così le mogli e le madri della Grecia si rammaricavano per Raymond, il nostro amico inglese: Atene era una città in lutto.
Queste manifestazioni di disperazione colpirono Perdita e la spaventarono. Con quella speranza ottimistica ma confusa che il desiderio aveva generato in lei quando era lontana dalla realtà, nella sua mente si era creata l’immagine di un cambiamento improvviso non appena avesse messo piede sulle rive greche. Si figurava che Raymond sarebbe stato già libero, che le sue tenere cure sarebbero sopraggiunte per cancellare completamente persino il ricordo della sua disavventura. Ma il suo destino era ancora incerto; cominciò a temere il peggio, a sentire che le speranze della sua anima erano affidate a una possibilità che avrebbe potuto rivelarsi nulla. La moglie e l’adorabile figlia di Lord Raymond divennero oggetto di un forte interesse ad Atene. I cancelli della loro casa erano assediati, si poteva sentire il mormorio delle preghiere pronunciate per la salvezza di lui: tutte queste circostanze aumentarono lo sgomento e i timori di Perdita.
Mi diedi da fare senza tregua: dopo un certo tempo lasciai Atene, e mi unii all’esercito di stanza a Kishan in Tracia. Corruzione, minacce e intrighi fecero presto trapelare la notizia che Raymond era vivo, un prigioniero sottoposto al più rigoroso isolamento e alle crudeltà più gratuite. Per sottrarlo alle loro mani mettemmo in moto ogni pressione possibile, che si trattasse di piani d’azione o di denaro.
L’irrequietezza dell’indole di mia sorella, risvegliata dal pentimento e acuita dal rimorso, si impossessò di nuovo di lei. La bellezza stessa del paesaggio della Grecia, in primavera, aggiungeva una tortura alle sue sensazioni. L’impareggiabile leggiadria della terra ammantata di fiori, la luce gioconda del sole e l’ombra gradevole, le melodie degli uccelli, la maestà dei boschi, lo splendore delle rovine di marmo, il fulgore limpido delle stelle nel cielo notturno, quanto vi è di eccitante e di sensuale in questa terra straordinaria: tutto ciò, suscitando un’energia vitale più forte e aggiungendo sensibilità a ogni articolazione del suo corpo, aveva soltanto l’effetto di acuire l’intensità del suo dolore. Contava ogni lunga ora; «sta soffrendo» era il tema dominante di tutti i suoi pensieri. Rifiutava il cibo, si sdraiava sulla terra nuda e, mimando i tormenti a lui imposti, si sforzava di raggiungere un’intima unione col dolore lontano di Raymond. Ricordai che in uno dei momenti per lei più duri una mia frase aveva suscitato la sua rabbia e il suo disprezzo. «Perdita», le avevo detto, «un giorno scoprirai di aver sbagliato a gettare di nuovo Raymond tra le spine della vita. Quando la delusione avrà sporcato la sua bellezza, quando gli stenti del soldato avranno piegato il suo corpo virile, e la solitudine gli avrà reso amaro anche il trionfo, allora ti pentirai; e il rammarico per l’irreparabile cambiamento
muoverà
In cuori tutti di roccia ormai, il tardo rimorso dell’amore».118
Il pungente «rimorso dell’amore» straziava ora il suo cuore. Si riteneva responsabile del viaggio di Raymond in Grecia, dei pericoli, della sua prigionia. Si dipinse l’angoscia della sua solitudine; ricordò con quale gioia ardente egli, nei giorni andati, la rendeva partecipe delle sue liete speranze, con quanto grato affetto accoglieva la sua partecipazione alle sue varie preoccupazioni. Richiamò alla mente tutte quelle volte, ed era accaduto spesso, in cui egli aveva dichiarato che la solitudine rappresentava per lui il peggiore di tutti i mali, e che la morte stessa era per lui ancor più carica di paura e dolore quando immaginava una tomba solitaria. «La mia amata», aveva detto, «mi soccorre da queste fantasie. Insieme a lei, teneramente accudito nel suo caro cuore, non conoscerò più il tormento di trovarmi solo. Anche se morissi prima di te, mia Perdita, custodisci come un tesoro le mie ceneri fino a che le tue si potranno mescolare alle mie. È un sentimento sciocco per chi non è un materialista, e tuttavia, a me pare, è come se anche in quella cella oscura potessi sentire che la mia cenere inanimata si mescola con la tua, e ha così una compagna mentre si decompone». Nei momenti di risentimento aveva ricordato queste parole con acrimonia e sdegno; nell’ora della dolcezza la visitavano togliendo agli occhi il sonno e qualsiasi speranza di riposare al suo spirito inquieto.
Due mesi trascorsero così, quando finalmente ottenemmo la promessa del rilascio di Raymond. La prigionia e gli stenti avevano minato la sua salute e i turchi temevano l’avverarsi delle minacce del governo inglese, se egli fosse morto mentre era nelle loro mani; ritenevano impossibile che potesse ristabilirsi, così lo liberarono come fosse un moribondo, cedendo volentieri a noi le incombenze dei riti di sepoltura.
Giunse per mare da Costantinopoli ad Atene. Il vento, a lui favorevole, soffiava con tale violenza sulla riva che non ci fu possibile andargli incontro per via d’acqua, come avevamo progettato in un primo momento. Le postazioni di guardia di Atene erano assediate dalla gente che chiedeva informazioni, e ogni vela veniva scrutata con ansia. Infine, il primo di maggio, la valorosa fregata apparve alla vista, carica di un tesoro ben più inestimabile delle ricchezze portate dal Messico e ingoiate dal Pacifico agitato, o di quelle trasportate sul suo grembo tranquillo per arricchire la corona di Spagna. Alle prime luci dell’alba la nave fu vista dirigersi verso la costa; si pensò che avrebbe gettato l’ancora a circa cinque miglia da terra. La notizia si diffuse per tutta Atene, e l’intera città si riversò alle porte del Pireo, giù per le strade, attraverso i vigneti, gli oliveti e gli alberi di fichi, verso il porto. La gioia chiassosa della popolazione, i colori sgargianti delle loro vesti, il trambusto delle carrozze e dei cavalli, la marcia dei soldati si mescolavano l’un con l’altro; lo sventolio degli stendardi e il suono della musica marziale aumentavano l’intensa eccitazione della scena; intanto, intorno a noi, riposavano in solenne maestà i resti del tempo antico. Sulla nostra destra si ergeva imponente l’Acropoli, spettatrice di migliaia di cambiamenti: dell’antica gloria, della schiavitù turca e del ristabilimento della libertà, comprata a caro prezzo; tombe e cenotafi erano sparsi numerosi intorno, ornati dalla vegetazione sempre nuova; i potenti defunti indugiavano tra i loro monumenti, e rivedevano nel nostro entusiasmo e nella moltitudine raccoltasi intorno il rinnovarsi delle scene nelle quali erano stati attori. Perdita e Clara viaggiavano in una carrozza chiusa; io le scortavo a cavallo. Arrivammo al porto; c’era agitazione per il mare grosso che si gonfiava riversandosi in avanti; la spiaggia, fin dove si poteva scorgere, era piena di una moltitudine di gente in movimento che, spinta verso il mare da quelli che stavano dietro, si precipitava di nuovo indietro quando le onde pesanti, con un cupo fragore, si frangevano vicino a loro. Avvicinai il cannocchiale, e potei distìnguere la fregata che aveva già gettato l’ancora, temendo il rischio che avrebbe corso avvicinandosi di più a una riva sottovento: venne calata una scialuppa; provai una fitta di dolore quando vidi che Raymond non era in grado di scendere lungo il fianco del vascello; venne portato giù con una sedia e disteso sul fondo della scialuppa.
Scesi da cavallo, e gridai ad alcuni marinai che stavano remando vicino al porto di fermarsi e di prendermi sul loro scafo; nello stesso momento Perdita scese dalla carrozza; mi prese il braccio: «Portami con te!», gridò; era tremante e pallida; Clara era aggrappata a lei. «Non devi», dissi io, «il mare è mosso… Presto egli sarà qui… Non vedi la sua barca?». La piccola imbarcazione cui avevo fatto cenno di avvicinarsi si era ora fermata; prima che potessi impedirglielo, Perdita, aiutata dai marinai, fu dentro; Clara seguì sua madre. Un forte urlo riecheggiò tra la folla quando uscimmo dalla parte interna del porto, mentre mia sorella, a prua, si era afferrata a uno degli uomini che stava usando un cannocchiale, facendogli migliaia di domande, incurante degli spruzzi che le ricadevano addosso, sorda, cieca a tutto meno che a quella piccola macchia che, appena visibile in cima alle onde, si avvicinava sempre di più. Avanzammo con tutta la velocità che sei rematori potevano consentirci. Le divise colorate dei soldati sulla spiaggia, i suoni della musica esultante, la brezza vivace e le bandiere al vento, le esclamazioni incontrollate della folla in ansia, con gli occhi scuri e gli abiti dalla foggia orientale; la vista della roccia coronata dal tempio, il marmo bianco dei palazzi che scintillavano al sole e si innalzavano creando un contrasto vivace contro la scura dorsale delle alte montagne che si stendevano oltre; il vicino fragore del mare, gli schizzi dei remi, e lo scroscio degli spruzzi: tutto ciò fece sprofondare la mia anima in un delirio mai provato, mai immaginato nel corso di una vita normale. Tremavo, ed ero incapace di continuare a guardare attraverso il cannocchiale col quale avevo osservato la manovra dell’equipaggio, quando la scialuppa della fregata era stata messa in acqua. Ci avvicinammo con rapidità, e finalmente si poteva distinguere il numero e le sagome di quelli che c’erano dentro; i fianchi scuri della nave si fecero grandi, si udiva il tonfo dei remi: potei scorgere la languida figura del mio amico, il quale, mentre ci avvicinavamo, si tirò un po’ su.
Perdita aveva smesso di fare domande; si appoggiò al mio braccio, respirando con affanno sotto la spinta di emozioni troppo intense per le lacrime. I nostri uomini si misero sottobordo all’altra imbarcazione. Con un ultimo sforzo, mia sorella chiamò a raccolta le sue forze e la sua fermezza; passò da una barca all’altra, poi con un grido si precipitò con impeto verso Raymond, gli si inginocchiò a fianco, e con le labbra premute appassionatamente sulla sua mano e il volto nascosto dai lunghi capelli, si abbandonò alle lacrime.
Raymond si era alzato appena mentre ci stavamo avvicinando, ma anche questo piccolo sforzo gli costava fatica. Le guance scavate e gli occhi infossati, pallido e macilento, come potevo riconoscere l’amato di Perdita? Rimasi terrorizzato e ammutolito… Egli guardò con un sorriso la povera fanciulla: quello era il suo sorriso. Un giorno di sole che cala su una valle scura, ne mostra le caratteristiche prima nascoste; e ora questo sorriso, lo stesso col quale egli all’inizio parlò d’amore a Perdita, col quale aveva dato il benvenuto al Protettorato, aleggiando sul suo volto profondamente cambiato, mi fece sentire nel profondo del cuore che quello era Raymond.
Tese verso di me l’altra mano, e sul polso nudo potei scorgere i segni delle manette. Sentii i singhiozzi di mia sorella e pensai: felici le donne, che possono piangere e con una carezza appassionata alleggerirsi del carico opprimente delle emozioni! Vergogna e ritegno di solito trattengono un uomo. Avrei dato qualunque cosa per riuscire a comportarmi come nei giorni d’infanzia, stringerlo al petto, premere la sua mano alle labbra, e versare lacrime per lui; il mio cuore straripante mi soffocava; il flusso naturale non si lasciava fermare; grosse lacrime ribelli si raccolsero nei miei occhi; mi girai da una parte, e caddero in mare… Le lacrime salivano sempre più veloci… ma non mi vergognai, perché vidi che anche i rudi marinai non erano rimasti impassibili, e che, fra il nostro equipaggio, solo gli occhi di Raymond erano asciutti. Egli si trovava in quello stato di calma celestiale che accompagna sempre la convalescenza, e gioiva tranquillamente della sua libertà e di essersi ricongiunto a colei che adorava. Finalmente Perdita dominò il suo accesso di passione e si alzò; si guardò intorno in cerca di Clara. La bambina, spaventata, non riconoscendo il padre e ignorata da tutti noi, si era nascosta dall’altra parte della barca: al richiamo della madre si avvicinò. Perdita la mostrò a Raymond; e le prime parole che pronunciò furono: «Mio amato, abbraccia tua figlia». «Vieni qui, tesoro», disse il padre, «non mi riconosci?». Clara riconobbe la sua voce; un po’ intimidita ma con forte commozione gli si gettò tra le braccia.
Rendendomi conto della debolezza di Raymond, mi preoccupavo delle conseguenze negative della pressione della folla, al momento dello sbarco. Ma tutti furono come atterriti, al pari di me, dal cambiamento del suo aspetto. La musica si spense, le grida cessarono di colpo; i soldati avevano sgombrato uno spazio in cui fu portata una carrozza. Qui fu collocato Raymond; Perdita e Clara salirono con lui, e la scorta gli si chiuse intorno. Un mormorio sordo, simile al fragore delle vicine onde, attraversò la moltitudine; via via che la carrozza avanzava tutti si facevano indietro, e nel timore che testimonianze di gioia troppo rumorose potessero nuocere a colui al quale erano venuti a porgere il benvenuto, al passaggio della carrozza, si contentarono di chinarsi in un profondo inchino, alla maniera orientale. La carrozza si avviò lentamente lungo la strada del Pireo, passò vicino agli antichi templi e alle tombe degli eroi, sotto le rocce scoscese della cittadella. Ci lasciammo alle spalle il rumore delle onde, mentre a intervalli continuava ad accompagnarci il brusio attutito della folla. In città, le case, le chiese e gli edifìci pubblici erano stati decorati con stendardi e bandiere, i soldati erano allineati lungo la strada e gli abitanti si erano raccolti a migliaia per salutarlo: tuttavia dominava un solenne silenzio; i soldati presentarono le armi, gli stendardi vennero abbassati, e più di una mano bianca agitò una bandiera al vento e cercò invano di scorgere l’eroe dentro quel veicolo che, chiuso e circondato dalle guardie cittadine, lo conduceva al palazzo destinato a ospitarlo.
Raymond era debole ed esausto; tuttavia percepiva l’interesse che egli stesso suscitava, e ciò lo riempiva di orgoglio e piacere. Fu quasi ucciso dall’affetto. La popolazione, è vero, cercava di trattenersi; ma il mormorio e il trambusto della folla intorno al palazzo, insieme al rumore dei fuochi d’artificio, ai frequenti colpi delle armi, all’andirivieni di carrozze e cavalieri, tutta quell’effervescenza di cui egli era il fulcro, ritardavano il suo ristabilimento. Così, per un po’ di tempo, ci ritirammo a Eieusi, dove il riposo e le cure premurose accrebbero ogni giorno la forze del nostro malato. L’attenzione zelante di Perdita fu la prima causa della sua rapida guarigione; ma la seconda fu senza dubbio la gioia che egli provava per l’affetto e la benevolenza da parte dei greci. Si dice che noi amiamo molto coloro per i quali ci prodighiamo generosamente. Raymond aveva combattuto e ottenuto conquiste per gli ateniesi; aveva sopportato per loro pericoli, prigionia e stenti: la loro gratitudine lo commosse profondamente, e giurò in cuor suo di unire per sempre il suo destino a quello di un popolo che gli si dedicava con tale entusiasmo.
Affabilità e simpatia costituivano un segno distintivo del mio carattere. Nella prima gioventù, il dramma vivente che si svolgeva intorno a me, mi attirava, anima e cuore, nel suo vortice. Ora ero consapevole di un cambiamento. Amavo, speravo, gioivo: ma c’era qualcosa di più, accanto a questo. Ero profondamente interessato alle ragioni interne delle azioni di coloro che erano intorno a me: ero ansioso di leggere correttamente i loro pensieri e sempre impegnato a divinare le loro più riposte intenzioni.
Qualsiasi evento, nel momento stesso in cui mi interessava profondamente, mi si componeva dinanzi in immagini. Davo il giusto posto a ogni personaggio del gruppo, il giusto equilibrio a ogni sentimento. Questa corrente sotterranea di pensiero spesso mi procurava sollievo nell’afflizione e perfino nell’angoscia. Donava idealità a quello da cui, considerato nella sua nuda verità, l’anima si sarebbe ritratta con orrore: donava i colori della pittura alla miseria e alla malattìa, e non di rado mi soccorreva dalla disperazione nel caso di cambiamenti deplorevoli. Questa facoltà, o istinto, venne ora risvegliata. Osservai la devozione ridestata di mia sorella, l’ammirazione tìmida e intensa di Clara per suo padre, e la brama di celebrità di Raymond, così come la sua sensibilità per le dimostrazioni d’affetto degli ateniesi. Studiando attentamente questo libro vivente, fui dunque meno sorpreso al racconto che lessi sulla pagina appena voltata.
L’esercito turco stava in questo momento assediando Rodosto; e i greci, accelerando i preparativi e inviando ogni giorno rinforzi, stavano per costringere il nemico alla battaglia. Tutti consideravano la lotta imminente come quella che in larga misura sarebbe stata decisiva; poiché, in caso di vittoria, il passo successivo sarebbe stato l’assedio di Costantinopoli da parte dei greci. Raymond, che si era alquanto rimesso, si preparava a riprendere il suo ruolo di comando nell’esercito.
Perdita non si oppose a questa decisione, ma chiese come unica condizione che le fosse permesso di accompagnarlo. Non aveva stabilito alcuna regola di condotta per sé; nemmeno a costo della sua stessa vita avrebbe potuto opporsi al suo più piccolo desiderio, o fare altro che acconsentire volentieri a tutti i suoi progetti. Una parola, in realtà, l’aveva allarmata più delle battaglie e degli assedi nel corso dei quali confidava pienamente che l’alto comando di Raymond lo avrebbe salvato dal pericolo. Quella parola, perché fino a quel momento per lei non era niente di più, era PESTE.119 Questo nemico della razza umana aveva iniziato a sollevare la sua testa di serpente sulle rive del Nilo all’inizio di giugno; alcune regioni dell’Asia, di solito non colpite da questo male, erano state infettate. Adesso era a Costantinopoli; ma poiché quella città era colpita ogni anno da tale calamità, fu prestata ben poca attenzione a quei racconti che dichiaravano fossero già morte più persone di quante ne costituissero la preda consueta di tutti i mesi più caldi. Comunque stessero le cose, né la peste né la guerra impedirono a Perdita di seguire il suo signore, o la indussero a opporre una sola obiezione ai piani che egli proponeva. Essergli vicina, essere amata da lui, sentirlo di nuovo suo, era il limite estremo cui tendevano i suoi desideri. Scopo della sua vita era renderlo felice: anche prima era stato così, ma con una differenza. Nei tempi passati lo aveva reso felice senza pensarci o rifletterci, perché lei stessa lo era, e in ogni scelta teneva conto dei propri desideri, che erano tutt’uno con quelli di lui. Ora si metteva diligentemente da parte, sacrificando persino le sue preoccupazioni per la salute e il benessere di Raymond alla decisione di non opporsi ad alcuno dei suoi desideri. L’amore per il popolo greco, la brama di gloria, e l’odio per il barbaro governo sotto il quale egli aveva sofferto fin quasi alla morte, spronavano Raymond. Egli desiderava ripagare la simpatia degli ateniesi, tener vive le splendide leggende legate al suo nome, sradicare dall’Europa un potere che restava immobile, un monumento di antica barbarie, mentre ogni altra nazione progrediva nella civilizzazione. Ora che Raymond e Perdita si erano riconciliati, desideravo ardentemente tornare in Inghilterra; ma la richiesta incalzante di Raymond, la curiosità che nel frattempo si stava svegliando, e un’indefinibile bramosia di assistere alla catastrofe finale, apparentemente vicinissima, nella storia della guerra tra greci e turchi, mi indussero a prolungare la mia permanenza in Grecia fino all’autunno.
Non appena la salute di Raymond fu sufficientemente ristabilita, egli si preparò a raggiungere l’accampamento greco vicino a Kishan, una città di una certa importanza situata a est dell’Ebro, dove Perdita e Clara dovevano rimanere fino al momento dell’attesa battaglia. Lasciammo Atene il 2 di giugno. Raymond aveva perso l’aspetto pallido e macilento della febbre. Se, sul volto ormai maturo, non scorgevo più il fresco colore della gioventù, se le preoccupazioni avevano assediato la sua fronte
E scavato profonde trincee nel campo della sua bellezza,120
se i capelli leggermente striati di grigio, e lo sguardo, pur così ardente, recavano il segno degli anni che si erano aggiunti e delle sofferenze trascorse, tuttavia c’era qualcosa di irresistibilmente toccante nel vederlo riprendere il suo posto, strappato appena alla tomba, non domato dalla malattia o dalle calamità. Gli ateniesi non vedevano più in lui il giovane eroico o l’uomo disperato che era pronto a morire per loro; ma il comandante accorto, il quale, nel loro interesse, aveva cura della propria vita, ed era in grado di subordinare le proprie attitudini guerriere a un piano di condotta che la prudenza avrebbe potuto suggerire.
Tutta Atene ci accompagnò per diverse miglia. Un mese prima, quando era sbarcato, la folla in festa era stata ammutolita dal dolore e dalla paura; ma questo era per tutti un giorno di festa. L’aria risuonava delle loro grida; i costumi pittoreschi dai colori sgargianti facevano bella mostra di sé alla luce del sole; il vivace gesticolare e il parlare veloce ben si intonavano al loro aspetto selvaggio. Raymond era il soggetto di ogni discorso, la speranza di ogni moglie, madre o sposa promessa il cui marito, figlio o amante, facendo parte dell’esercito greco, doveva da lui esser condotto alla vittoria.
Nonostante i rischi e i pericoli del viaggio, attraversare le valli e salire le colline di questo paese divino fu pieno di interesse romantico. Raymond era animato dalle forti sensazioni della salute ritrovata; sentiva che, essendo il generale degli ateniesi, occupava una posizione degna della sua ambizione; e, nella speranza di conquistare Costantinopoli, contava su un evento che sarebbe stato come una pietra miliare nella distesa dei secoli, un’impresa ineguagliata negli annali dell’umanità, allorché una città dalle memorie storiche così grandiose, posta in un luogo la cui bellezza era la meraviglia del mondo intero e che per centinaia e centinaia di anni era stata la roccaforte dei musulmani, fosse stata salvata dalla schiavitù e dalla barbarie e restituita a un popolo insigne per genialità, civiltà e spirito di libertà. Perdita si abbandonava alla sua compagnia e al suo amore restituiti, alle sue speranze e alla sua fama, proprio come una sibarita in una lussuosa carrozza; ogni pensiero era un’estasi, ogni emozione immersa in un elemento piacevole e balsamico.
Arrivammo a Kishan il 7 luglio. Il tempo durante il nostro viaggio era stato sereno. Ogni giorno, prima dell’alba, lasciavamo l’accampamento notturno, e osservavamo le ombre che si ritiravano dalle colline e dalle valli, lo splendore dorato del sole che avanzava. I soldati che ci scortavano provavano, con la vivacità propria di quella nazione, un piacere entusiastico alla vista delle bellezze della natura. Il sorgere della stella del mattino era salutata da melodie trionfali, mentre gli uccelli, che si udivano per brevi momenti, riempivano gli intervalli della musica. A mezzogiorno piantavamo le tende in qualche valle ombrosa o in qualche bosco frondoso tra le montagne, mentre il chiacchiericcio di un ruscello sui ciottoli induceva a un piacevole sonno. La marcia pomeridiana, più calma, era tuttavia più gradevole dello spirito irrequieto del mattino. Se la banda suonava, sceglieva quasi senza volerlo arie moderatamente appassionate; l’addio all’amore o il lamento per l’assenza erano seguiti, a mo’ di conclusione, da qualche inno solenne, che si accordava alla tranquilla dolcezza della sera, elevando l’anima alla solennità del pensiero religioso. Spesso sospendevamo qualsiasi suono per poter ascoltare il canto dell’usignolo, mentre le lucciole danzavano con movimenti luminosi, e il dolce tubare dell’assiolo121 parlava di bel tempo ai viaggiatori. Attraversavamo una valle? Ci circondavano ombre tenui, e rocce tinteggiate di sfumature delicate. Se salivamo su una montagna, la Grecia, come una mappa vivente, ci si spiegava al di sotto, con le sue vette famose protese a fendere l’etere e i fiumi che trapuntavano di fili argentati la terra fertile. Quasi timorosi di respirare, noi viaggiatori inglesi contemplavamo estatici questo splendido paesaggio, così diverso dalle tinte sobrie e dalle grazie malinconiche del nostro scenario natale. Lasciata la Macedonia, le pianure fertili e monotone della Tracia offrirono minori bellezze, e tuttavia il viaggio continuò a essere interessante. Un distaccamento avanzato della scorta preannuncio il nostro avvicinamento, e la gente della regione si diede subito da fare per rendere onore a Lord Raymond. I villaggi furono decorati con archi trionfali fatti di fronde, di giorno, e con lampade di notte; alle finestre sventolavano stendardi, la terra era cosparsa di fiori, e il nome di Raymond, unito a quello della Grecia, riecheggiava negli «Evviva» della folla di contadini.
Quando arrivammo a Kishan apprendemmo che l’esercito turco, venuto a conoscenza dell’avanzata di Lord Raymond e del suo distaccamento, si era ritirato da Rodosto; ma in seguito, avendo ricevuto dei rinforzi, era tornato sui propri passi. Nel frattempo Argiropulo, il comandante in capo dei greci, era avanzato fino a trovarsi tra i turchi e Rodosto: una battaglia, si diceva, era inevitabile. Perdita e la bambina dovevano rimanere a Kishan. Raymond mi chiese se non volessi proseguire con loro. «Ormai, in nome di tutti i monti di Cumberland», esclamai, «in nome del vagabondo e del cacciatore di frodo che è parte di me, resterò al tuo fianco, sguainerò la mia spada per la causa greca, e sarò acclamato vincitore insieme a te!».
Tutta la pianura, da Kishan a Rodosto, per un’estensione di sedici leghe, era animata dalle truppe, o da quanti erano al seguito dell’accampamento, tutti in movimento per l’avvicinarsi della battaglia. Dalle città e dalle fortezze furono richiamate le guarnigioni minori, che andarono a ingrossare il corpo principale dell’esercito. Incontrammo vagoni carichi di bagagli, e molte donne di alto e basso rango che tornavano a Fairy o Kishan, per attendere là l’esito del giorno atteso. Quando arrivammo a Rodosto, trovammo il campo già occupato e lo schema della battaglia predisposto. Il mattino seguente, sul presto, il rumore degli spari ci segnalò che le postazioni avanzate degli eserciti erano già impegnate. I reggimenti avanzarano uno dopo l’altro, con le insegne al vento e la banda che suonava. Fissarono i cannoni su dei tumuli, uniche elevazioni in quel paesaggio pianeggiante, e si disposero a formare colonne e quadrati vuoti, mentre gli artieri innalzavano dei piccoli terrapieni per proteggersi.
Questi dunque erano i preparativi per una battaglia, anzi, la battaglia stessa, ben diversa da qualsiasi cosa la fantasia si fosse dipinta. Leggiamo di centro e di ali nella storia greca e romana; immaginiamo un luogo piatto come una tavola, e soldati piccoli come pezzi di scacchi, spinti in avanti in modo tale che anche il più ignorante delle regole del gioco può scoprire un ordine e una tecnica nella disposizione delle forze. Quando mi trovai di fronte alla realtà, e vidi i reggimenti sfilare lontano sulla sinistra fino a perderli di vista, i campi interporsi tra i battaglioni, e soltanto poche truppe abbastanza vicine a me perché ne osservassi i movimenti, abbandonai qualsiasi pretesa di capire, persino di vedere una battaglia; ma rimanendo attaccato a Raymond, seguii con estremo interesse le sue azioni. Egli si dimostrava padrone di sé, valoroso e regale; i suoi ordini erano immediati e, ai miei occhi, miracolosa la sua capacità di intuire gli eventi della giornata. Nel frattempo il cannone tuonava; la musica innalzava a intervalli la sua voce ravvivante; e noi, sul più alto di quei terrapieni di cui ho detto, troppo distanti per osservare i covoni abbattuti che la morte raccoglieva nel suo magazzino, guardavamo i reggimenti, ora persi nel fumo, ora distinguibili soltanto grazie agli stendardi e alle aste delle bandiere che spuntavano al di sopra della nube, mentre le urla e il clamore soffocavano ogni suono.
All’inizio della giornata Argiropulo fu gravemente ferito, e Raymond assunse il comando dell’intero esercito. Diede poche istruzioni, fino a che, seguendo col suo cannocchiale il risultato di un ordine che aveva impartito, il suo volto, oscurato per un po’ dal dubbio, divenne radioso. «La giornata è nostra», esclamò, «i turchi fuggono davanti alle baionette». E poi velocemente incaricò gli aiutanti di campo di ordinare alla cavalleria di gettarsi sul nemico ormai sbaragliato. La sconfitta fu totale; i cannoni cessarono di tuonare, la fanteria si radunò, e la cavalleria inseguì i turchi in fuga per la pianura desolata; lo stato maggiore di Raymond si disperse in varie direzioni per dare istruzioni e portare ordini. Io stesso venni inviato in una lontana parte del campo.
Il terreno sul quale era stata combattuta la battaglia, era una superficie così pianeggiante che dai tumuli si poteva scorgere il profilo mosso delle montagne contro il vasto orizzonte, mentre lo spazio intermedio non appariva movimentato dalla minima irregolarità, eccetto alcune ondulazioni che somigliavano alle onde del mare. Tutta questa parte della Tracia era stata teatro di contesa per così tanto tempo che era rimasta incolta, e aveva un aspetto desolato e brullo. L’ordine che avevo ricevuto era di osservare, da uno dei tumuli settentrionali, la direzione presa da un distaccamento nemico. Tutto l’esercito turco, inseguito dai greci, si era riversato a oriente; nessuno, se non i morti, restavano sul mio versante. Dalla cima del terrapieno spinsi lo sguardo tutt’intorno: c’era solo silenzio e abbandono.
Gli ultimi raggi del sole, ormai quasi tramontato si proiettavano in alto, da dietro la cima lontana del monte Athos; il Mar della Marmora luccicava ancora sotto i suoi raggi, mentre, al di là, la costa asiatica era seminascosta da una foschia di basse nubi. Molti elmi, baionette, spade, cadute da braccia senza più nervi, riflettevano i raggi morenti: erano sparpagliate ovunque, vicino e lontano. Da oriente, uno stormo di corvi, gli antichi abitanti dei cimiteri turchi, venivano librandosi verso il loro raccolto; il sole scomparve. Quest’ora, malinconica eppure dolce, mi è sempre apparsa come il momento in cui siamo indotti in modo più naturale alla comunione con i poteri superiori; svanisce la nostra risolutezza di mortali, e una dolce condiscendenza pervade l’anima. Ma ora, tra i moribondi e i morti, come poteva anche un solo pensiero celeste o la sensazione di tranquillità impossessarsi di uno degli assassini? Durante la giornata frenetica il mio spirito aveva ceduto, schiavo volontario, allo stato di cose presentategli dai suoi simili: ricordi storici, odio per il nemico ed entusiasmo militare mi avevano dominato. Ora guardai la stella della sera, mentre dolce e calma se ne stava sospesa oscillando nelle tinte d’arancio del tramonto. Mi volsi alla terra cosparsa di cadaveri, e provai vergogna per la mia specie. Altrettanto fecero forse anche i cieli placidi, che si velarono rapidi di nebbia, con un cambiamento al quale contribuì la scomparsa repentina della luce crepuscolare, come accade nel Sud; pesanti masse di nuvole vennero trasportate da sud-est, e dai loro bordi scuri esplosero improvvisi lampi rossi e foschi; il vento impetuoso scompigliò le vesti dei morti, e venne raggelato mentre passava sopra quelle forme di ghiaccio. L’oscurità crebbe tutt’intorno; gli oggetti vicini a me divennero indistinti; scesi dalla mia postazione e guidai con difficoltà il cavallo, per evitare i corpi massacrati.
Improvvisamente udii un grido straziante; una sagoma sembrò levarsi da terra; volò rapida verso di me, sprofondando di nuovo al suolo mentre si faceva più vicina. Tutto questo avvenne in maniera così improvvisa che solo a fatica riuscii a tirare le redini del cavallo e a frenarlo, affinché non calpestasse quell’essere prostrato. Le sue vesti erano quelle di un soldato, ma le braccia e il collo nudi, e le grida continue rivelavano che era una donna che si era camuffata. Scesi da cavallo per aiutarla, mentre lei, con dei gemiti profondi, la mano su un fianco, resisteva al mio tentativo di tirarla su. Nella concitazione del momento dimenticai di essere in Grecia e mi sforzai di confortare la sofferente nella mia lingua natale. Con esclamazioni folli e terrificanti Evadne (perché di lei si trattava), smarrita e morente, riconobbe la lingua del suo amante; la sofferenza e la febbre causate dalla ferita avevano portato lo scompiglio nella sua mente, mentre le sue urla pietose e i suoi deboli tentativi di scappare mi riempirono di compassione. In un folle delirio invocò il nome di Raymond; esclamò che io lo stavo tenendo lontano da lei, mentre i turchi con terribili strumenti di tortura stavano per togliergli la vita. Poi di nuovo si lamentò tristemente del suo duro destino: che una donna, col cuore e la sensibilità di una donna, fosse indotta da un amore disperato e da vuote speranze ad abbracciare il commercio delle armi, e a sopportare, oltre le possibilità di resistenza dell’uomo, privazioni, fatica e sofferenza; intanto, la sua mano infuocata e asciutta stringeva la mia, e la fronte e le labbra erano arse da un fuoco divorante.
Quando le sue forze diminuirono, la sollevai da terra; il suo corpo emaciato era abbandonato tra le mie braccia, le guance scavate riposavano sul mio petto; con voce sepolcrale mormorò: «Questa è la fine dell’amore! Eppure non la fine!», e la frenesia le donò la forza, e con il braccio alzato al cielo esclamò: «Là è la fine! là ci incontreremo di nuovo. Molte volte ho sperimentato la morte per te, pur vivendo, oh Raymond, e ora spiro, una tua vittima! Con la mia morte io ti conquisto… Ecco! gli strumenti della guerra, il fuoco e la peste sono miei servitori. Io osai, li conquistai tutti, fino a ora! Mi sono venduta alla morte, con l’unica condizione che tu mi seguissi… Fuoco, e guerra, e peste uniti per la tua distruzione… Oh, mio Raymond, non c’è salvezza per te!».
Col cuore greve ascoltai l’altalena del suo delirio; le feci un letto di mantelli; la sua furia diminuì e una rugiada vischiosa le si posò sulla fronte quando il pallore della morte subentrò al fuoco della febbre: la posai sui mantelli. Continuò a farneticare dicendo che avrebbe presto incontrato l’amato nella tomba, che la sua morte era ormai vicinissima; talora dichiarava solennemente che egli era ormai stato chiamato, talora ne piangeva il duro destino. La sua voce divenne sempre più fioca, le parole si interruppero; pochi movimenti convulsi, e i muscoli si rilassarono, le membra caddero abbandonate per non risollevarsi mai più: un sospiro profondo, e la vita se n’era andata.
La trasportai lontano dalla vicina compagnia dei morti: avvolta nei mantelli, la posai sotto un albero. Guardai di nuovo il suo viso alterato; l’ultima volta che l’avevo vista aveva diciotto anni, bella come la visione di un poeta, splendida come una sultana d’oriente… Dodici anni erano passati; dodici anni di mutamenti, dolore e stenti; la sua carnagione radiosa era diventata vizza e opaca, le sue membra avevano perso la rotondità della giovinezza e della femminilità; i suoi occhi si erano infossati profondamente,
Spenti e logori,
Le ore le avevano risucchiato il sangue, e riempito la fronte Di linee e rughe.122
Fremendo d’orrore, stesi un velo su questo monumento della passione umana e dell’umana miseria; accatastai su di lei tutte le bandiere e tutti gli equipaggiamenti pesanti che potei trovare, in modo da proteggerla dagli uccelli e dagli animali da preda, fino a che fossi stato in grado di offrirle una tomba adeguata. Tristemente e lentamente mi feci strada tra i mucchi di corpi martoriati e, guidato dalle luci sfavillanti della città, raggiunsi infine Rodosto.
CAPITOLO XIII
Al mio arrivo vidi che erano già stati impartiti ordini affinché l’esercito procedesse immediatamente alla volta di Costantinopoli, e le truppe che avevano risentito meno della battaglia erano già in cammino. La città era in gran fermento. La ferita, e la conseguente inabilità di Argiropulo, fecero sì che Raymond fosse il comandante in capo. Attraversava la città a cavallo, visitava i feriti, e impartiva gli ordini necessari per l’assedio che aveva progettato. Di primo mattino tutto l’esercito era in movimento. Nella concitazione, trovai a malapena il modo di offrire a Evadne gli estremi uffici. Accompagnato soltanto dal mio servitore, scavai per lei una profonda fossa ai piedi dell’albero; senza scomporre il suo sudario di guerriero, ve la deposi e poi ammucchiai alcune pietre sulla tomba. Il sole accecante e il bagliore della luce diurna privarono la scena di qualsiasi solennità; dall’umile tomba di Evadne raggiunsi Raymond e il suo stato maggiore, già diretti verso la Città Dorata.123
Costantinopoli fu circondata, si scavarono le trincee, si fecero delle avanzate. L’intera flotta greca la bloccava dal mare; sulla terraferma, le trincee dell’assedio furono tracciate dal fiume Kyat Kbanah, vicino alle Acque Dolci, fino alla Torre di Marinara, sulle rive della Propontide, lungo tutta la linea di demarcazione delle antiche mura. Eravamo già in possesso di Pera; il Corno d’Oro, la città, munita di bastioni dalla parte del mare, e le mura ammantate d’edera degli imperatori greci era tutto quello che i maomettani potevano considerare loro dell’Europa. Il nostro esercito la riteneva una preda sicura. I turchi contavano gli uomini della guarnigione; era impossibile che ricevessero dei soccorsi; ogni sortita era una vittoria perché, anche quando i turchi avevano la meglio, la perdita di uomini che subivano era un danno irreparabile.
Una mattina mi recai a cavallo con Raymond sull’alto terrapieno non lontano da Topkapi, sul quale Mahmoud piantò la sua insegna e contemplò la città per la prima volta. Le stesse alte cupole e gli stessi minareti torreggiavano ancora al di sopra delle mura verdeggianti, sulle quali era morto Costantino, e da dove i turchi erano entrati nella città. La pianura intorno era inframmezzata da cimiteri turchi, greci e armeni, con i loro cipressi; mentre altri alberi dall’aspetto più dolce variavano il paesaggio. L’esercito greco era accampato là in mezzo, e i suoi squadroni si muovevano avanti e indietro, ora in marcia regolare, ora di gran carriera.
Gli occhi di Raymond erano fissi sulla città. «Ho contato le sue ore di vita», disse; «un mese, e cadrà. Resta con me fino alla fine; aspetta fino a che vedrai la croce su Santa Sofia; e poi torna alla serenità dei tuoi boschi».
«Tu dunque», chiesi, «resti ancora in Grecia?»
«Senza alcun dubbio», replicò Raymond. «Eppure Lionel, mentre dico questo, credimi, io volgo lo sguardo indietro con rimpianto alla nostra tranquilla vita a Windsor. Solo in parte sono un soldato; amo la celebrità, ma non il commercio della guerra. Prima della battaglia di Rodosto ero pieno di speranze e di coraggio; vincere, e poi prendere Costantinopoli era la speranza, l’obiettivo, il compimento della mia ambizione. Ora questo entusiasmo si è spento, non so perché; mi sembra di essere sul punto di entrare in un cupo abisso; lo spirito ardente della vita militare mi irrita, l’estasi del trionfo non ha per me alcun significato».
Fece una pausa, e si perse nei suoi pensieri. Il suo aspetto serio mi riportò alla mente, per qualche associazione, Evadne, che avevo ormai quasi dimenticata, e colsi quest’opportunità per avere informazioni da lui sullo strano destino della donna. Gli chiesi se avesse mai visto tra le truppe qualcuno che le somigliasse; se, da quando era tornato in Grecia, avesse mai avuto sue notizie.
A quel nome sobbalzò: mi guardò come a disagio. «Proprio cosi», esclamò, «sapevo che avresti parlato di lei. Da tanto, tanto tempo l’avevo dimenticata. Ma da quando siamo accampati qui, ogni giorno, ogni ora viene a visitare i miei pensieri. Quando qualcuno mi si fa incontro per parlarmi, mi aspetto di sentire il suo nome; ogni messaggio, immagino che riguardi lei. Finalmente tu hai rotto l’incantesimo; dimmi quello che sai di lei».
Gli riferii del nostro incontro; raccontai più volte la storia della sua morte. Con dolorosa gravità mi interrogò sulle profezie che la donna aveva pronunciato sul suo conto. Io le consideravo come le farneticazioni di un folle. «No, no», disse lui, «non ingannarti… e certo non puoi ingannare me. Ella ha detto soltanto quello che conoscevo già, anche se questa ne è la conferma. Il fuoco, la spada, e la peste! E tutto ciò potrebbe trovarsi in quella città; possano ricadere sul mio capo soltanto!».
Da questo giorno la malinconia di Raymond aumentò. Nei limiti in cui i doveri della sua posizione glielo permettevano cercava la solitudine e l’isolamento. Quando era in compagnia, la tristezza, nonostante tutti i suoi sforzi, si faceva furtivamente strada e si posava sui suoi lineamenti; sedeva assente e muto tra la gente affaccendata che gli si accalcava intorno. Se Perdita lo raggiungeva, di fronte a lei si sforzava di apparire allegro, perché ella, proprio come uno specchio, cambiava quando egli cambiava, e se egli era silenzioso e inquieto, lo interrogava con ansia sui motivi della sua serietà, cercando in ogni modo di allontanarne la causa. Perdita risiedeva nel Palazzo di Acque Dolci, un serraglio estivo del sultano; la bellezza dello scenario circostante, non contaminato dalla guerra, e la freschezza del fiume rendevano questo posto doppiamente delizioso. Ma Raymond non provava sollievo, né ricavava piacere da nessuno degli spettacoli del cielo e della terra. Spesso lasciava Perdita per vagabondare da solo nel parco; oppure si lasciava trasportare pigramente sulle acque limpide, su una leggera scialuppa, profondamente assorto nelle sue meditazioni. Talvolta mi univo a lui; e in tali circostanze l’espressione del suo viso era invariabilmente solenne, l’aria depressa. Sembrava sollevato quando mi vedeva, e in genere parlava con un certo interesse degli affari della giornata. C’era evidentemente qualcosa dietro tutto ciò; e tuttavia, quando pareva sul punto di parlare di ciò che più gli stava a cuore, si interrompeva bruscamente, e con un sospiro tentava di consegnare ai venti il pensiero doloroso.
Era capitato spesso che, quando Raymond, come ho detto, abbandonava il salotto di Perdita, Clara venisse da me e, tirandomi con delicatezza, in disparte, dicesse: «Papà se n’è andato; andiamo da lui? Può darsi che sia felice di vederti». E, a seconda dei casi, acconsentivo o mi sottraevo alla sua richiesta. Una sera si raccolse nel palazzo un’affollata assemblea di condottieri greci. L’intrigante Palli, l’abile Karazza e il bellicoso Ypsilanti erano tra i più importanti. Parlarono degli eventi della giornata: della schermaglia di mezzogiorno, delle continue perdite degli infedeli, della loro sconfitta e della fuga. Prevedevano, in breve tempo, la presa della Città Dorata. Tentavano di immaginare ciò che sarebbe accaduto in seguito, e parlavano in termini arroganti della prosperità della Grecia, quando Costantinopoli sarebbe diventata la sua capitale. La conversazione tornò poi sulle notizie provenienti dall’Asia, e sulla devastazione che la peste aveva compiuto nelle principali città; si azzardarono delle ipotesi sul progresso che la malattia avrebbe potuto fare nella città assediata.
Raymond si era unito alla prima parte della discussione. Con parole efficaci illustrò le condizioni estreme in cui Costantinopoli era ridotta; ricordò l’aria sfinita e disfatta, anche se feroce, delle truppe; la carestia e la pestilenza erano al servizio dei greci, osservò, e presto gli infedeli sarebbero stati costretti a cercare rifugio nella loro unica speranza: la sottomissione. Improvvisamente, nel mezzo della sua arringa si interruppe, come colto da qualche pensiero doloroso; si alzò, come fosse a disagio, e lo vidi abbandonare la sala; poi, attraversato il lungo corridoio, cercò l’aria aperta. Non ritornò; e presto Clara scivolò furtiva fino a me, facendomi il consueto invito. Acconsentii alla sua richiesta, presi la sua piccola mano e seguii Raymond. Lo trovammo proprio mentre stava per salpare con la sua barca, e ci accettò prontamente come compagni. Dopo la calura del giorno, una refrigerante brezza di terra increspava il fiume e gonfiava la nostra piccola vela. La città appariva scura verso sud; le numerose luci sparse lungo le coste vicine e il bell’aspetto delle rive che riposavano nella notte placida, mentre le acque riflettevano intensamente le luci della volta celeste, regalavano a questo fiume meraviglioso la bellezza naturale di un rifugio paradisiaco. Il nostro unico barcaiolo si occupava della vela; Raymond era al timone; Clara sedeva ai suoi piedi, le braccia strette intorno alle ginocchia e il capo appoggiato sopra. Raymond cominciò la conversazione in maniera piuttosto brusca.
«Questa, amico mio, è forse l’ultima volta che avremo l’opportunità di parlare liberamente; i miei progetti sono in pieno svolgimento, e il mio tempo sarà sempre più occupato. Desidero inoltre dirti i miei desideri e le mie aspettative, e non tornare mai più su un argomento così doloroso. Innanzitutto, devo ringraziarti, Lionel, per essere rimasto qui dietro mia richiesta. Fu la vanità che mi spinse in principio a chiedertelo; vanità, la chiamo, eppure anche in questo scorgo la mano del destino… La tua presenza sarà presto necessaria; diventerai l’ultima risorsa di Perdita, chi la proteggerà e la consolerà. La ricondurrai a Windsor».
«Non senza di te», dissi. «Non intenderai separarti da tutti di nuovo?»
«Non ingannare te stesso», replicò Raymond, «sulla separazione ormai imminente io non ho alcun controllo; è vicinissima; i giorni sono già contati. Posso fidarmi di te? Per molti giorni ho provato l’ardente desiderio di svelare i presentimenti misteriosi che mi opprimono, anche se temo che li schernirai. Ma ti prego di non farlo, mio gentile amico; perché, per quanto infantili e insensati essi siano, sono diventati parte di me, e non oso credere di potermene liberare.
E tuttavia come posso aspettarmi che tu provi comprensione per me? Tu sei di questo mondo, io no. Tu porgi la tua mano, ed essa è proprio come una parte di te stesso; e non separi ancora il sentimento della tua identità dal corpo mortale che dà forma a Lionel. Come puoi dunque capirmi? La terra è per me una tomba e il firmamento una volta che racchiude solo corruzione. Il tempo non esiste più, perché ho varcato la soglia dell’eternità; ogni uomo che incontro mi sembra un cadavere che sarà presto abbandonato dalla sua scintilla vitale, alla vigilia della decadenza e della corruzione.
Cada piedra una piramide levanta,
Y cada fior costruye un monumento,
Cada edificio es un sepulcro altivo,
Cada soldado un esqueleto vivo».124
Il tono era afflitto e sospirava profondamente. «Alcuni mesi fa», proseguì, «si pensò che stessi per morire; ma la vita in me era forte. I miei affetti erano umani; la speranza e l’amore erano le stelle diurne della mia vita. Ora… tutti sognano che la fronte del conquistatore degli infedeli sia presto circondata dall’alloro del trionfo; parlano di ricompensa onorevole, di titoli, potere e ricchezze… Tutto quello che io chiedo alla Grecia è una tomba. Fa’ loro innalzare un tumulo, sopra il mio corpo senza vita, che sia in grado di resistere anche quando il duomo di Santa Sofia sarà caduto.
Per quale ragione ho questi presentimenti? A Rodosto ero pieno di speranza; ma quando ho visto per la prima volta Costantinopoli quella sensazione, come qualsiasi altra piena di gioia, è scomparsa. Le ultime parole di Evadne sono state il sigillo sul mio mandato di morte. Non pretendo certo di spiegare il mio umore con un evento particolare. Tutto ciò che posso dire, è che è così. Mi dicono che la peste è a Costantinopoli, forse mi sono imbevuto dei suoi effluvi, forse la malattia è la vera causa delle mie premonizioni. Ha poca importanza per quale motivo o ragione io ne sia attaccato, non c’è potere che possa far volgere altrove il colpo, e l’ombra della mano del Fato, ormai alzata, già mi oscura.
A te, Lionel, affido tua sorella e sua figlia. Non menzionare mai a Perdita il nome fatale di Evadne. Si addolorerebbe doppiamente per lo strano legame che mi incatena a lei, inducendo la mia anima a obbedire alla sua voce morente, e a seguirla, come sta per fare, nel territorio sconosciuto».
Lo ascoltai con stupore; e se il suo aspetto triste e le parole pronunciate con profonda solennità non mi avessero assicurato della verità e dell’intensità dei suoi sentimenti, avrei tentato di dissipare le sue paure prendendolo spensieratamente in giro. Quale che potesse essere la mia risposta, fui interrotto dal forte turbamento di Clara. Raymond aveva parlato senza curarsi della sua presenza, e la povera bimba aveva ascoltato con terrore e fiducia la profezia della sua morte. Suo padre fu commosso dal suo violento dolore; la prese tra le braccia e la tranquillizzò, ma il modo stesso di tranquillizzarla era così solenne da incutere paura. «Non piangere, mia diletta bambina», disse, «la morte imminente di chi quasi non hai conosciuto. Posso morire, ma nella morte non potrò mai dimenticare o abbandonare la mia Clara. In quello che verrà, sia esso gioia o dolore, devi sempre credere che l’anima di tuo padre ti è vicina, per salvarti o compatirti. Sii orgogliosa di me, e custodisci teneramente il ricordo infantile che hai di me. In questo modo, mio dilettissimo tesoro, non sembrerà che io muoia. Una cosa devi promettermi, di non parlare con altri se non con tuo zio, della conversazione che oggi hai ascoltato per caso. Quando me ne sarò andato, consolerai tua madre e le dirai che la morte fu amara solo perché mi separò da lei, che i miei ultimi pensieri furono per lei. Ma finché io vivo, prometti di non tradirmi; promettilo, bambina mia».
Ancora aggrappata al padre in preda al suo impeto di dolore, Clara pronunciò balbettando la promessa richiestale. Tornammo subito a riva, e io mi sforzai di attenuare le impressioni prodotte sull’animo della bambina, riferendomi con spensieratezza alle paure di Raymond. Non ne sentimmo più parlare perché, come egli aveva detto, l’assedio, che volgeva ormai verso una conclusione, divenne l’interesse supremo, assorbendo tutto il suo tempo e la sua attenzione.
L’impero dei maomettani in Europa era alla fine. La flotta greca, che bloccava tutti i porti di Istanbul, impediva l’arrivo di soccorsi dall’Asia; ogni via d’uscita verso terra era diventata impraticabile, se si eccettuano quelle sortite disperate che riducevano il numero del nemico senza fare alcuna impressione alle nostre forze. Le guarnigioni erano ormai talmente diminuite che con ogni evidenza la città avrebbe potuto essere facilmente conquistata con un assalto; prudenza e umanità imponevano però una strategia più cauta. Non potevamo aver dubbi sul fatto che, se avessimo cercato di perseguire l’obiettivo fino all’estremo, i suoi palazzi, i suoi templi e l’enorme quantità di ricchezze sarebbero stati distrutti nella furia della lotta tra il trionfo e la sconfitta. I cittadini inermi avevano già sofferto a causa della barbarie dei giannizzeri; e, in tempi di subbugli, tumulti e massacri, la bellezza, l’infanzia e la vecchiaia venivano parimenti sacrificate alla brutale ferocia dei soldati. La carestia e l’assedio erano mezzi di conquista sicuri, e su di essi si fondavano le nostre speranze di vittoria.
I soldati della guarnigione assalivano ogni giorno le nostre postazioni più avanzate, e ostacolavano la realizzazione dei nostri lavori. Da vari porti venivano lanciate delle barche incendiate, e le nostre truppe talvolta indietreggiavano di fronte al coraggio devoto di uomini come questi che non cercavano di sopravvivere, bensì di vendere la loro vita a caro prezzo. Questi combattimenti erano resi più duri dalla stagione; eravamo in estate, e il vento dell’Asia meridionale arrivava gravido di un calore intollerabile, i corsi d’acqua erano prosciugati nei loro bassi letti, e il vasto bacino del mare sembrava farsi di fuoco sotto i raggi impietosi del sole del solstizio. La notte non portava alcun refrigerio alla terra. Non veniva concessa rugiada; non c’erano erba né fiori, persino gli alberi si accasciavano, e l’estate assumeva l’aspetto arido e sterile dell’inverno mentre, silenziosa e fiammeggiante, continuava a ridurre i mezzi di sussistenza degli uomini. Invano lo sguardo si sforzava di scorgere nell’empireo immacolato i resti di qualche nuvola settentrionale che potesse portare la speranza di un cambiamento e di un po’ di umidità in quell’atmosfera opprimente e stagnante. Tutto era sereno, ardente, prossimo all’annientamento. In confronto, noi, gli assedianti, eravamo colpiti poco da queste avversità.
I boschi circostanti ci fornivano l’ombra, il fiume ci assicurava una costante riserva d’acqua; anzi, alcuni distaccamenti erano incaricati di rifornire l’esercito del ghiaccio accumulato sul monte Haemus, sul monte Athos e sui monti della Macedonia; frutta rinfrescante e cibo sano rinvigorivano le forze di tutti quelli che erano impegnati nei vari lavori, e ci permettevano di sopportare con minor insofferenza l’oppressione dell’aria incapace di portare refrigerio. Ma in città le cose avevano un volto diverso. I raggi del sole erano riflessi dal lastricato e dai palazzi; le fontane pubbliche erano state bloccate; la cattiva qualità del cibo, e anzi la sua scarsità, generavano una condizione di sofferenza, aggravata dal flagello della malattia. La guarnigione si impossessava di tutto quello che era in eccesso, accrescendo con sprechi e tumulti i mali inevitabili del tempo. Eppure non capitolavano.
Improvvisamente la strategia di guerra cambiò. Non subimmo più assalti; notte e giorno continuavamo le nostre fatiche senza incontrare ostacoli. Cosa ancor più strana, quando le truppe si avvicinarono alla città, le mura erano deserte, né c’erano cannoni puntati verso gli intrusi. Non appena questi fatti vennero riferiti a Raymond, egli ordinò di osservare attentamente quello che stava accadendo dentro le mura, e quando i suoi esploratori tornarono, riferendo soltanto del persistente silenzio e della desolazione della città, ordinò che l’esercito si schierasse davanti alle porte della città stessa. Nessuno comparve sulle mura; le porte, anche se serrate e sprangate, sembravano incustodite; in alto, le molte cupole e le mezzelune scintillanti trafiggevano la volta celeste, mentre le vecchie mura, sopravvissute al trascorrere dei secoli, con le torri coronate dall’edera e i contrafforti avvolti da grovigli di erbacce, si ergevano come rocce in un deserto disabitato. Dall’interno della città non giungeva né un grido né un’invocazione; nulla, tranne di tanto in tanto il guaito di un cane, rompeva la quiete immobile del mezzogiorno. Persino i nostri soldati furono colti da un timore reverenziale che li indusse al silenzio; la musica cessò; il fragore delle armi tacque. Ognuno chiese sussurrando al compagno il significato di quella pace improvvisa; da un’altura, Raymond, col suo cannocchiale, cercava di scoprire lo stratagemma del nemico. Non si riusciva a individuare una sola forma umana sulle terrazze delle case; e nelle zone più elevate della città neppure il movimento di un’ombra rivelava la presenza di un essere vivente qualsiasi: nemmeno gli alberi ondeggiavano, e sembravano quasi farsi beffa dell’immobilità delle opere architettoniche.
A un certo punto, nel grande silenzio, si udì distintamente l’andatura dei cavalli. Era una truppa mandata da Karazza, l’ammiraglio; portava un messaggio per il generale, Lord Raymond.
Il contenuto di questi fogli era importante. La notte precedente la sentinella, a bordo di uno dei più piccoli vascelli ancorati vicino al serraglio, era stata allertata da un leggero tonfo, quasi un rumore soffocato di remi. Fu dato l’allarme: vennero avvistate dodici piccole imbarcazioni, ognuna con tre giannizzeri, che cercavano di farsi strada tra la flotta per raggiungere la costa opposta di Scutari. Quando si resero conto di essere stati scoperti scaricarono i loro moschetti, mentre alcune imbarcazioni si fecero avanti per coprire le altre, e gli equipaggi, impiegando tutte le loro forze, cercavano di scappare con le loro barche leggere tra gli scafi scuri che li circondavano. Furono affondate tutte; gli uomini degli equipaggi, tranne due o tre fatti prigionieri, erano annegati. Si poté ottenere ben poco dai sopravvissuti; ma le loro risposte guardinghe facevano supporre che diverse spedizioni avessero preceduto quest’ultima, e che diversi turchi importanti e di rango elevato fossero stati condotti in Asia. Gli uomini respinsero sdegnati l’idea di essersi sottratti alla difesa della loro città; uno, il più giovane, in risposta agli scherni di un marinaio esclamò: «Prendetela, cani cristiani! prendete pure i palazzi, i giardini, le moschee, le dimore dei nostri padri… e prendete insieme anche la peste; la pestilenza è il nemico che noi fuggiamo; se è vostra amica, stringetevela al petto. La maledizione di Allah è su Istanbul, condividetene dunque il destino».
Questo fu il resoconto inviato a Raymond da Karazza: ma una storia piena di mostruose esagerazioni, anche se basata su questa, fu invece diffusa dalle truppe di scorta tra i nostri soldati. Si levò un mormorio: la città era preda della pestilenza, un potere straordinario aveva già assoggettato gli abitanti, la Morte era diventata signora di Costantinopoli.125
Ho sentito descrivere un quadro in cui tutti gli abitanti della terra erano dipinti in preda alla paura di affrontare l’incontro con la Morte. I deboli e i decrepiti fuggivano; i guerrieri si ritiravano, pur continuando a lanciare minacce persino nella fuga. Lupi e leoni, e vari mostri del deserto le ruggivano contro, mentre la tetra Irrealtà indugiava agitando il suo dardo spettrale, un assalitore solitario ma invincibile.126 E proprio questo accadde all’esercito della Grecia. Sono sicuro che se dall’altra parte della
Propontide fossero sopraggiunte le miriadi di truppe dell’Asia, e si fossero poste a difesa della Città Dorata, tutti i greci, senza eccezione alcuna, avrebbero marciato contro quella moltitudine sovrastante, e si sarebbero immolati con ardore patriottico per il loro paese. Ma qui non c’erano barriere di baionette da fronteggiare né l’artiglieria dispensatrice di morte, né terribili schieramenti di soldati coraggiosi: le mura indifese offrivano un facile accesso, i palazzi vuoti alloggi lussuosi, ma sopra la cupola di Santa Sofia i greci superstiziosi vedevano la Pestilenza, e indietreggiavano con trepidazione di fronte al suo potere.
Raymond era animato da ben altri sentimenti. Discese la collina col volto splendente di trionfo e, indicando con la spada le porte diede il comando alle truppe: giù quelle barricate, gli unici ostacoli ormai alla vittoria più completa. I soldati risposero alle sue parole incoraggianti con sguardi attoniti e terrorizzati; si tirarono istintivamente indietro, e Raymond cavalcò fino a mettersi davanti alle sue forze: «Sulla mia spada io giuro», gridò, «che nessun agguato o stratagemma vi fa correre pericoli. Il nemico è già sparito; i luoghi piacevoli, le nobili dimore e il bottino della città sono già vostri; forzate la porta; entrate a prendere possesso delle residenze dei vostri antenati, la vostra eredità!».
Un fremito generale e un mormorio di terrore percorsero le file: non un solo soldato si mosse. «Vigliacchi!», esclamò il loro generale, esasperato. «Datemi un’accetta! Entrerò io solo! Pianterò il vostro stendardo; e quando lo vedrete sventolare dal minareto più alto, forse riacquisterete il coraggio e vi radunerete là intorno!».
A questo punto si fece avanti uno degli ufficiali: «Generale», disse, «noi non temiamo il coraggio, o le armi, né un attacco scoperto o un’imboscata segreta dei musulmani. Siamo pronti a offrire il petto, offerto già mille e mille volte in passato, ai proiettili e alle scimitarre degli infedeli, e a cadere gloriosa- mente per la Grecia. Ma non vogliamo morire a mucchi, come cani avvelenati in estate, per colpa dell’atmosfera pestilenziale di quella città: noi non avremo l’ardire di sfidare la Peste!».
Una moltitudine di uomini è debole e inerme, senza una voce, senza un capo: dateglieli, e riacquisterà la forza che appartiene al suo numero. Migliaia di grida e di voci riempirono ora l’aria, in segno di acclamazione e di consenso generali. Raymond si accorse del pericolo; voleva salvare le sue truppe dal crimine della disubbidienza, perché sapeva che una volta iniziato un conflitto tra il comandante e il suo esercito, ogni azione e ogni parola aumentavano la debolezza del primo, e davano potere al secondo. Impartì il comando di suonare la ritirata, e i reggimenti rientrarono in bell’ordine all’accampamento.
Mi affrettai a riferire la notizia di questi strani avvenimenti a Perdita, e presto venimmo raggiunti da Raymond. Appariva cupo e turbato. Mia sorella fu impressionata dal mio racconto: «I decreti celesti», esclamò, «inesplicabili e portentosi, vanno davvero ben al di là dell’immaginazione umana!».
«Sciocca fanciulla», esclamò Raymond rabbioso, «anche tu dunque, come i miei valorosi soldati, sei accecata dal panico? Cosa c’è d’inesplicabile, ti prego dimmelo, in un fato così naturale? Forse che la peste non infuria ogni anno a Istanbul? Perché stupirsi, allora, quando ci è stato detto che la sua virulenza in Asia è senza eguali, che quest’anno provochi una devastazione ancora maggiore in quella città? Perché stupirsi che in tempi di assedio, di bisogno, di estrema calura e siccità, causi danni inauditi? E ancor meno stupore suscita il fatto che la guarnigione, disperando di poter resistere più a lungo, approfitti della negligenza della nostra flotta per sfuggire all’assedio e alla cattura. Non è la pestilenza, per il Dio vivente! Non è la peste né il pericolo imminente che, come uccelli terrorizzati da uno spaventapasseri nel periodo del raccolto, ci fa rinunciare a gettarci sulla facile preda: è meschina superstizione… E così il proposito dell’uomo valoroso diventa oggetto di contesa tra gli sciocchi e l’ambizione meritevole di un’anima elevata, il trastullo di queste lepri addomesticate! Tuttavia Istanbul sarà nostra! Sulle mie fatiche passate, sulle torture e sulla prigionia che per esse ho patito, sulle mie vittorie, sulla mia spada io giuro… Sulle mie speranze di celebrità, sui miei meriti antichi, che ora attendono la loro ricompensa, giuro solennemente di piantare con queste mani la croce su quella moschea!».
«Mio amatissimo Raymond!», l’interruppe Perdita, con tono supplicante.
Nel frattempo egli non aveva smesso di camminare avanti e indietro per il salone marmoreo del serraglio; le sue labbra erano pallide d’ira mentre, tremando, pronunciavano le parole rabbiose… gli occhi fiammeggiavano… i gesti sembravano trattenuti in forza della loro stessa veemenza. «Perdita», proseguì impaziente, «so cosa vorresti dire; so che mi ami, che sei gentile e cara; ma questo non è affare di donna… e un cuore di donna non può indovinare quale uragano mi stia lacerando!».
Quasi spaventato dalla sua stessa violenza, abbandonò improvvisamente la sala: uno sguardo di Perdita mi rivelò la sua angoscia, e lo seguii. Misurava a grandi passi il giardino: le sue emozioni erano in uno stato di incredibile agitazione. «Per sempre dunque», esclamò, «dovrò essere lo zimbello della sorte! L’uomo, che sa scalare i cieli, deve essere eternamente succube dei rettili striscianti che appartengono alla sua specie! Fossi come te, Lionel, lo sguardo rivolto in avanti ai lunghi anni di vita, a un susseguirsi di giorni illuminati dall’amore, a piaceri raffinati e a speranze che rinascono sempre nuove, allora potrei cedere, e disciolto lo stato maggiore del mio generale, cercare la quiete nei boschi di Windsor. Ma io sto per morire! No, non mi interrompere… Presto morirò. La terra così popolata, la comprensione degli uomini, gli amati ritrovi della mia gioventù, la bontà dei miei amici, l’affetto della mia unica diletta Perdita, tutto questo sta per essermi sottratto. Questo è il volere del destino! Questo il decreto dell’Alto Sovrano di fronte al quale non c’è appello: al quale io mi sottometto. Ma perdere tutto… perdere con la vita e l’amore anche la gloria! Non sarà così!
Io, e nel breve giro di qualche anno tutti voi… questo esercito accecato dal panico e tutta la popolazione della bella Grecia non esisteremo più. Ma altre generazioni nasceranno, e sempre e per sempre continueranno a essere più felici per le nostre azioni di oggi, a essere onorate dal nostro valore. La preghiera della mia gioventù era di poter essere uno di quelli che rendono magnifiche le pagine della storia della terra; che elevano la razza dell’uomo, e fanno di questo piccolo globo una dimora di potenti. Ahimè! per Raymond la preghiera della gioventù è andata perduta, le speranze dell’età adulta sono ridotte al nulla!
Dalla mia prigione sotterranea in quella città io gridai, presto sarò il tuo signore! Quando Evadne decretò la mia morte, pensai che sulla mia tomba sarebbe stato scritto il titolo di Vincitore di Costantinopoli, e così dominai la paura mortale. Ora sto davanti alle sue mura sconfitte, e non ardisco chiamarmi conquistatore. Ma non sarà così! Non scavalcò forse Alessandro le mura della città degli Ossidraci, per mostrare alle proprie truppe codarde la strada verso la vittoria, affrontando da solo le spade dei suoi difensori? Così io sfiderò la peste… e se neanche un solo uomo mi seguirà, pianterò lo stendardo della Grecia sulla sommità di Santa Sofia».
La ragione era impotente di fronte a sentimenti di una simile forza. Invano gli feci notare che, giunto l’inverno, il freddo avrebbe disperso l’atmosfera pestilenziale, e restituito il coraggio ai greci. «Non parlare di stagioni diverse da questa!», esclamò. «Ho vissuto il mio ultimo inverno, e la data di quest’anno, 2092, verrà incisa sulla mia tomba. Già scorgo», proseguì sollevando dolente lo sguardo, «il limitare e il bordo precipitoso della mia esistenza dal quale mi tuffo nell’oscuro mistero della vita che verrà. Sono pronto, e lascerò dietro di me una scia di luce così radiosa che i miei peggiori nemici non potranno offuscarla. Lo devo alla Grecia, a te, alla mia Perdita, che sopravviverà, e a me stesso, la vittima dell’ambizione».
Fummo interrotti da un attendente, che annunciò che lo stato maggiore di Raymond si era raccolto in assemblea nella camera del consiglio. Egli mi chiese di fare nel frattempo un giro a cavallo per l’accampamento, per osservare e riferirgli lo stato d’animo dei soldati; poi mi lasciò. Ero stato agitato fino all’estremo dagli avvenimenti della giornata, e ora lo ero più che mai dal linguaggio appassionato di Raymond. Ahimè, la ragione umana! Egli accusava i greci di superstizione: ma quale nome dava alla fede che prestava alle profezie di Evadne? Passai dal Palazzo delle Acque Dolci alla pianura in cui era accampato l’esercito, e trovai un grande fermento. Con la flotta erano arrivate diverse persone con nuove storie di meraviglie; le esagerazioni di quanto già si sapeva, i racconti di vecchie profezie, di intere regioni devastate dalla pestilenza nel corso dell’ultimo anno, creavano allarme e preoccupazione tra le truppe. La disciplina andò persa; l’esercito si sbandò. Ciascun individuo, che fino a quel momento faceva parte di un grande insieme e si muoveva solo all’unisono con gli altri, si trasformò ora nell’unità che la natura aveva creato, e pensò solamente a se stesso. Alcuni cominciarono ad andarsene, alla spicciolata, dapprima uno o due alla volta, poi in gruppi sempre più grandi finché, dato che gli ufficiali non si opponevano, interi battaglioni si misero in marcia verso la Macedonia.
Tornai al palazzo verso mezzanotte e cercai Raymond; era solo, e apparentemente composto; o, almeno, aveva la compostezza dettata dalla decisione di attenersi a una precisa linea di condotta. Ascoltò con calma il mio racconto sull’esercito che si stava sciogliendo da solo, poi disse: «Tu conosci, Verney, la mia ferma determinazione a non abbandonare questo posto fino a che Istanbul non sarà nostra, alla luce del giorno. Se gli uomini che ho intorno a me indietreggiano e si rifiutano di seguirmi, bisogna trovarne altri più coraggiosi. Va’ tu, prima che nasca il giorno, porta questi ordini a Karazza, aggiungi le tue stesse suppliche affinché mi mandi i suoi fanti di marina e la sua forza navale; se riesco a ottenere che anche un solo reggimento assecondi i miei propositi, il resto seguirà da sé. Fa’ in modo che mi mandi questo reggimento. Attenderò il tuo ritorno entro domani a mezzogiorno».
Mi sembrò che fosse solo un misero espediente, ma gli assicurai la mia obbedienza e il mio zelo. Lo lasciai per riposare alcune ore. Allo spuntare del mattino ero equipaggiato per la cavalcata. Indugiai un po’ perché desideravo prendere congedo da Perdita, e dalla mia finestra osservai il sole mentre si faceva via via più vicino. Lo splendore dorato si levò, e la natura stanca si risvegliò per sopportare ancora un altro giorno di calore e di arsura putrescente. Non un solo fiore sollevò il proprio calice ricolmo di rugiada per accogliere l’alba; nelle pianure l’erba secca era appassita; le ardenti distese dell’aria erano prive di uccelli: solamente le cicale, figlie del sole, iniziarono il loro canto acuto e assordante tra i cipressi e gli olivi. Vidi condurre alla porta del palazzo il destriero di Raymond, nero come il carbone; subito dopo arrivò un piccolo drappello di ufficiali; la preoccupazione e la paura erano dipinte su ogni volto e in ogni sguardo, non rinfrancato dal sonno. Trovai Raymond e Perdita insieme. Egli stava guardando il sole che sorgeva, e con un braccio circondava la vita della sua amata; lei era rivolta verso di lui, il sole della sua vita, e lo fissava con uno sguardo ardente, fatto di ansietà e tenerezza insieme. Raymond ebbe un sussulto di rabbia quando mi vide. «Ancora qui?», esclamò. «È questo dunque il tuo promesso zelo?»
«Perdonami», dissi, «ma prima ancora che tu finisca di parlare sarò partito».
«No, anzi, perdonami tu», rispose; «non ho alcun diritto, né di comandare né di rimproverare; ma la mia vita è appesa alla tua partenza e al tuo rapido ritorno. Addio!».
La sua voce aveva recuperato un tono pacato, ma una nuvola scura indugiava ancora sui suoi lineamenti. Avrei voluto attardarmi, desideravo raccomandare a Perdita di essere vigile, ma la presenza di Raymond mi trattenne. Non avevo scuse per la mia esitazione; e quando egli mi ripeté il suo saluto, io strinsi la sua mano tesa: era ghiaccia e cosparsa di un sudore freddo. «Abbi cura di te stesso, mio caro signore», dissi.
«No», disse Perdita, «questo sarà il mio compito. Torna presto, Lionel».
Quando si chinò su di lui, egli stava giocherellando con aria distratta con le sue ciocche dorate; due volte mi voltai indietro, solo per guardare ancora una volta questa coppia impareggiabile. Infine, con passi lenti e pesanti, uscii dal salone e salii in groppa al mio cavallo. In quel momento Clara mi corse incontro precipitosamente, e afferrandomi le ginocchia gridò: «Ritorna in fretta, zio! Caro zio, faccio dei sogni così terribili; non oso dirlo a mia madre. Non stare via molto tempo!». Le assicurai che ero impaziente di tornare, e poi, con una piccola scorta, cavalcai giù per la pianura verso la torre di Marmora.
Eseguii il mio compito; vidi Karazza. Era un po’ sorpreso; avrebbe visto, disse, cosa si poteva fare; ma ci voleva tempo; e Raymond mi aveva ordinato di tornare entro mezzogiorno. Non era possibile fare nulla in un tempo così breve. Dovevo restare fino al giorno seguente, o tornare, dopo aver riferito al generale lo stato attuale delle cose. La mia scelta fu facile. Una certa inquietudine, la paura di quello che stava per accadere, un dubbio sui propositi di Raymond mi spinsero a tornare senza indugi ai suoi quartieri. Abbandonando la zona delle Sette Torri, cavalcai verso est in direzione delle Acque Dolci. Presi un tortuoso sentiero secondario, soprattutto allo scopo di salire in cima a quel terrapieno di cui ho parlato in precedenza, che offriva un panorama della città. Avevo con me il cannocchiale. La città si crogiolava al sole di mezzogiorno, circondata dalle sue venerabili mura che ne formavano il confine. Proprio di fronte a me c’era Topkapi, la porta vicino alla quale Maometto127 aveva aperto la breccia attraverso cui era entrato nella città. Vicino crescevano alberi annosi e giganteschi; davanti alla porta riuscii a distinguere una moltitudine di gente in movimento; con viva curiosità portai il cannocchiale agli occhi. Vidi Lord Raymond sul suo destriero; un piccolo drappello di ufficiali gli si era raccolto intorno, e dietro di loro c’era un assembramento promiscuo di soldati e ufficiali subalterni, senza disciplina ormai, le armi gettate a terra: non c’era suono di musica, né sventolava alcuno stendardo. L’unica bandiera era quella che portava Raymond: e con questa indicava la porta della città. Il cerchio intorno a lui indietreggiò. Con gesti rabbiosi scese da cavallo e, afferrando un’accetta che pendeva dal suo arcione, si avviò con l’evidente intenzione di abbattere la porta. Pochi uomini vennero in suo aiuto; il loro numero aumentò; sotto i colpi congiunti l’ostacolo fu abbattuto: porta, saracinesca e inferriata vennero demolite, l’ampia strada illuminata dal sole, che conduceva al cuore della città, si stendeva ora libera davanti a loro. Gli uomini si ritrassero; sembravano aver paura di quello che avevano già fatto, e si arrestarono come se si aspettassero che qualche Potente Fantasma avanzasse solenne e altezzoso, nella sua maestà offesa, attraverso l’apertura. Raymond balzò agilmente a cavallo, afferrò lo stendardo, e con parole che non potevo udire (ma i gestì che le accompagnavano erano contrassegnati da un’appassionata energia), sembrava scongiurare il loro aiuto e pregarli di seguirlo; ma addirittura, mentre parlava, la folla indietreggiava davanti a lui. L’indignazione si impossessò allora di Raymond; supposi che le sue parole fossero cariche di disprezzo, poi, lasciandosi alle spalle i suoi codardi seguaci e raccogliendo tutte le sue energie, decise di entrare da solo nella città. Persino il cavallo sembrava arretrare davanti all’ingresso fatale; il suo fedele cane gli si mise davanti lamentoso e supplichevole… solo un momento ancora, ed egli aveva affondato gli speroni nei fianchi dell’animale che, spronato, balzò in avanti, e lui, oltrepassata la porta, stava già risalendo al galoppo la strada ampia e deserta.
Fino a questo momento tutta la mia anima si era riversata solo negli occhi. Ero stato a osservare, lo sguardo fisso pieno di uno stupore misto a paura ed entusiasmo. Ora predominava quest’ultima sensazione. Dimenticai la distanza tra di noi: «Verrò con te, Raymond!», esclamai; ma, distolti gli occhi dal cannocchiale, potei a malapena distinguere le figure della folla che circondavano la porta, che, lontane circa un miglio da me, mi apparivano piccole come quelle di pigmei; la figura di Raymond era sparita. Punto dall’impazienza, incitai il cavallo dandogli di sprone e lasciandolo andare a briglia sciolta giù per il declivio, affinché, prima che sopraggiungesse il pericolo, potessi essere al fianco del mio nobile e divino amico. Quando raggiunsi la pianura, susseguirono alberi e palazzi che mi nascosero la vista della città. In quel momento si udì uno schianto. Riecheggiò nel cielo come un tuono, mentre l’aria si oscurava. Un momento ancora e di nuovo le vecchie mura mi si fecero incontro, offrendosi allo sguardo; in alto aleggiava una nube tenebrosa, frammenti di palazzi, che si intravedevano nel fumo, piroettavano verso l’alto, al di sotto le fiamme scoppiavano improvvise, e le continue esplosioni riempivano l’aria di tuoni terrificanti. Fuggendo da questa massa di rovine cadenti che si levavano al di sopra delle alte mura e scuotevano le torri avvolte d’edera, una folla di soldati si lanciava lungo la strada dalla quale io provenivo; venni accerchiato e non potevo più proseguire. La mia impazienza raggiunse il culmine; allungai il braccio verso gli uomini, e ordinai loro di tornare indietro e di salvare il generale, il conquistatore di Istanbul, il liberatore della Grecia; oh sì, calde lacrime mi sgorgarono dagli occhi… Non volevo credere alla sua rovina; e tuttavia ogni massa che oscurava l’aria sembrava recare con sé una parte di Raymond, il mio amico martirizzato. Nella torbida nube che aleggiava sulla città, visioni orribili prendevano forma davanti ai miei occhi, e l’unico sollievo mi veniva dagli sforzi enormi che facevo per avvicinarmi alla porta. Quando finalmente riuscii nel mio intento, tutto ciò che fui in grado di distinguere dentro i recinti delle mura imponenti fu una città di fuoco: la strada aperta che Raymond aveva attraversato col suo cavallo era avvolta da fumo e fiamme. Dopo un po’ le esplosioni cessarono, ma le fiamme continuavano a crescere rapide in diversi quartieri: la cupola di Santa Sofia era scomparsa. Strano a dirsi (forse il risultato del violento spostamento d’aria provocato dall’esplosione nella città), bianche nubi temporalesche si levarono dalla linea meridionale dell’orizzonte e si raccolsero in alto: erano le prime macchie che vedevo nella distesa azzurra, da mesi ormai, e in mezzo a questa devastazione e a questa disperazione infondevano gioia. La volta del cielo si oscurò, i lampi balenarono dalle masse pesanti, seguiti all’istante da tuoni fragorosi, poi cadde la pioggia abbondante. Sotto di essa le fiamme della città si chinarono, e il fumo e la polvere che si alzavano dalle rovine furono dispersi.
Non appena vidi che le fiamme si arrestavano, spinto da un impulso irresistibile tentai di addentrarmi nella città. Potevo procedere solamente a piedi, poiché l’ammasso di rovine la rendeva impraticabile a cavallo. Non vi ero mai entrato prima, e le sue vie mi erano sconosciute. Le strade erano ostruite, le rovine fumanti; mi arrampicai su uno dei cumuli, solo per vederne altri in successione; e nulla mi diceva dove potesse essere il centro della città, o verso quale punto Raymond poteva aver diretto il suo cammino. La pioggia cessò; le nuvole sprofondarono dietro l’orizzonte. Era sera ormai, e il sole scese rapidamente nel cielo, a occidente. Continuai a inerpicarmi, fino a che raggiunsi una strada, le cui case di legno, mezze bruciate, erano state raffreddate dalla pioggia, ed erano scampate alla polvere da sparo. Mi affrettai dunque in questa direzione, finora non avevo scorto vestigia umane. E tuttavia nessuna di quelle sfigurate forme umane che riuscii a distinguere poteva essere Raymond; così volsi gli occhi altrove, mentre il cuore mi sprofondava in petto. Giunsi in uno spazio aperto; una montagna di rovine nel mezzo diceva che quello spazio doveva essere stato occupato da qualche grossa moschea… e qui, sparpagliati all’intorno, vidi diversi oggetti che denotavano lusso e ricchezza, bruciacchiati, distrutti, che tuttavia facevano intuire, anche nella loro rovina, quello che erano stati: gioielli, collane di perle, stoffe ricamate, ricche pellicce, arazzi splendenti e ornamenti orientali, sembrava fossero stati raccolti in un mucchio che doveva essere poi distrutto; ma la pioggia aveva fermato a metà la devastazione.
Le ore passavano mentre in questo scenario di rovina cercavo Raymond. Talora mi si paravano davanti dei cumuli insormontabili; il fuoco ancora ardente mi bruciava. Il sole tramontò: la luce divenne fioca, e la stella della sera non brillò più solitaria. Il bagliore delle fiamme attestava il progredire della distruzione; nella confusione di luce e oscurità, le pile di rovine intorno a me assumevano proporzioni gigantesche e forme bizzarre. Per un momento riuscii a cedere al potere creativo dell’immaginazione, e per un momento venni consolato dalle sublimi finzioni che mi presentò. I battiti del mio cuore di uomo mi riportarono indietro alla desolante realtà. Dove sei, oh Raymond, in questo deserto di morte… tu, gloria dell’Inghilterra, salvatore della Grecia, «eroe di una storia non scritta»,128 dove sono disperse, in questo caos di fuoco, le tue care spoglie mortali? Lo chiamai ad alta voce; attraverso l’oscurità della notte, al di sopra delle brucianti rovine della caduta Costantinopoli si udì il suo nome; nessuna voce rispose, persino l’eco era muta.
Ero sopraffatto dalla stanchezza; la solitudine mi rattristava l’animo. L’aria umida e soffocante era impregnata di polvere, la calura e il fumo dei palazzi in fiamme mi paralizzavano le membra. D’improvviso la fame si fece acutamente sentire. L’eccitazione che mi aveva sostenuto fino a quel momento era svanita; come un palazzo, i cui sostegni cedono e le cui fonda- menta tremano, vacilla e cade, così anche le mie forze cedettero, quando l’entusiasmo e la speranza mi abbandonarono. Sedetti sull’unico gradino rimasto di un edificio, che persino nella sua rovina era imponente e magnifico; poche mura diroccate, che non erano state rimosse dalla polvere da sparo, si ergevano formando dei gruppi fantastici; una debole fiamma luccicava, a intervalli, sulla cima della catasta. Per un po’ la fame e il sonno lottarono tra di loro, fino a che le costellazioni mi ondeggiarono davanti agli occhi e poi scomparvero. Lottai per alzarmi, le palpebre pesanti mi si chiusero, le membra stanchissime chiesero di riposare; appoggiai il capo sulla pietra, cedetti alla gradevole sensazione dell’oblio totale, e in quello scenario desolante, in quella notte di disperazione, mi addormentai.
CAPITOLO XIV
Quando mi svegliai le stelle brillavano ancora luminose, e la costellazione del Toro, alta nel cielo meridionale, indicava che era mezzanotte. Mi svegliai da sogni agitati. Mi era parso di essere stato invitato all’ultimo banchetto di Timone;129 arrivai con un forte appetito, i coperchi erano stati tolti, l’acqua bollente faceva salire i suoi vapori nauseanti, mentre io fuggivo davanti alla rabbia dell’ospite che assumeva l’aspetto di Raymond; nella mia fantasia malata, i vascelli che egli mi lanciava contro erano sovraccarichi di fetide esalazioni, e la forma del mio amico, alterata da una miriade di distorsioni, si allargava fino a diventare un fantasma gigantesco che recava sulla fronte il segno della peste. L’ombra continuava a crescere e a salire finché giunse a riempire la volta adamantina che si chinava dall’alto, sorreggendo e racchiudendo il mondo, poi sembrò tentare di irrompere al di là. L’incubo divenne tortura; con un violento sforzo mi liberai del sonno, e richiamai la ragione alle sue consuete funzioni. Il mio primo pensiero fu Perdita; dovevo tornare da lei; dovevo sostenerla, traendo dalla disperazione il nutrimento che avrebbe potuto sostenere nel modo migliore il suo cuore ferito, richiamandola dai folli eccessi del dolore con le leggi austere del dovere e la dolce tenerezza del rimpianto.
La posizione delle stelle era la mia unica guida. Volsi le spalle alle orrende rovine della Città Dorata e, dopo enormi sforzi, riuscii a districarmi e a uscire dai suoi recinti. Fuori dalle mura incontrai un gruppo di soldati; presi in prestito un cavallo da uno di loro, e corsi veloce da mia sorella. L’aspetto della pianura era cambiato durante questo breve intervallo di tempo: gli accampamenti erano distrutti; si incontravano qua e là, in piccoli gruppi, i resti dell’esercito ormai allo sbando; ogni volto era rabbuiato; ogni gesto parlava di stupore e sgomento.
Col cuore greve entrai nel palazzo, e rimasi in piedi con la paura di avanzare, di parlare, di guardare. Perdita era nel mezzo del salone; sedeva sul pavimento di marmo, il capo abbandonato sul petto, i capelli scompigliati, e si torceva ansiosamente le dita; era pallida come il marmo, ogni lineamento era contratto dall’angoscia. Si accorse della mia presenza, e alzò interrogativamente gli occhi verso di me; il suo mezzo sguardo di speranza fu un supplizio; le parole morirono prima che potessi articolarle; sentii che un sorriso spettrale mi increspava le labbra. Comprese il mio gesto; e di nuovo abbandonò il capo; e di nuovo le dita ripresero inquiete il loro movimento affannoso. Infine recuperai la parola, ma la mia voce la terrorizzò; la sventurata fanciulla aveva compreso il mio sguardo e per nulla al mondo avrebbe voluto che la storia della sua terribile disgrazia prendesse forma e ricevesse conferma dalle dure, irrevocabili parole. Anzi, sembrava voler distogliere i miei pensieri dall’argomento; si alzò da terra: «Piano!», disse bisbigliando, «dopo aver tanto pianto, Clara dorme; non dobbiamo disturbarla». Si sedette poi sulla stessa ottomana su cui l’avevo lasciata al mattino, mentre riposava sul cuore palpitante del suo Raymond; non osai avvicinarmi, mi sedetti in un angolo lontano, osservando i suoi gesti bruschi e nervosi. Infine, con fare aspro chiese: «Dov’è lui?»
«Oh, non temere», proseguì, «non temere che io abbia ancora delle speranze! Eppure dimmi, l’hai trovato? Tenerlo ancora una volta tra le mie braccia, vederlo, per quanto cambiato, è tutto quello che desidero. Se anche tutta Costantinopoli fosse ammassata su di lui come un sepolcro, io devo trovarlo… Poi ricoprici pure col peso dell’intera città, ammucchia sopra di noi una montagna… non mi importa, purché una sola tomba accolga Raymond e la sua Perdita». Piangendo, si aggrappò a me: «Portami da lui», esclamò, «crudele Lionel, perché mi tieni qui? Da sola non potrò trovarlo… ma tu sai dove giace, portami là».
In un primo momento questo lamento straziante mi riempì di una compassione insostenibile. Ma presto cercai di indurla a trarre motivi di sopportazione dalle idee che ella suggeriva. Le riferii le mie avventure della notte, gli sforzi per trovare colui che avevamo perduto, e la mia delusione. Così indirizzando il corso dei suoi pensieri, diedi loro un oggetto che li distoglieva dalla follia. Con calma apparente discusse con me del luogo più probabile in cui poteva essere ritrovato, e studiò nei particolari i mezzi che avremmo usato a questo scopo. Poi, sentendo della mia stanchezza e del mio digiuno, mi portò del cibo. Colsi allora l’occasione propizia, e tentai di risvegliare in lei qualche altro sentimento oltre alla mortale apatia del dolore. Mentre parlavo, mi lasciai infervorare dall’oggetto del mio discorso; l’ammirazione profonda, il dolore, frutto dell’affetto più sincero che traboccava da un cuore colmo di partecipazione per tutto quello che era stato grande e sublime nella carriera del mio amico, mi ispirarono mentre tessevo le lodi di Raymond.
«Ah, miseri noi», esclamai, «che l’abbiamo perduto, lui, l’ultimo vanto del mondo! Oh, diletto Raymond! Egli è andato nelle nazioni dei morti; è diventato uno di coloro che, in virtù della loro presenza, danno lustro alla cupa dimora dell’oscura tomba. Ha viaggiato sulla strada che conduce fin là e si è unito ai forti d’animo che prima di lui vi andarono. Quando il mondo era nella sua infanzia, la morte deve essere stata terribile e l’uomo lasciava gli amici e i parenti per abitare, straniero solitario, in un paese sconosciuto. Ma ora chi muore trova molti compagni che lo hanno preceduto per preparargli l’accoglienza. I grandi delle epoche passate ne popolano le regioni, l’eminente eroe dei nostri giorni si può annoverare tra i suoi abitanti, mentre la vita si fa doppiamente “deserto e solitudine”.130
Che nobile creatura era Raymond, il primo fra gli uomini del nostro tempo. Grazie alla grandiosità delle sue idee e all’ardire leggiadro delle sue azioni, grazie al suo ingegno e alla sua bellezza, conquistò e guidò gli animi di tutti. Di un’unica colpa avrebbe potuto essere accusato, ma la sua morte l’ha cancellata. Ho sentito che è stato definito incostante nei propositi… Quando abbandonò, per amore, la speranza della sovranità, e quando abdicò al protettorato d’Inghilterra, gli uomini biasimarono la mancanza di fermezza dei suoi propositi. Ora la morte ha coronato la sua vita, e fino alla fine del tempo verrà ricordato come colui che consacrò se stesso, vittima volontaria, alla gloria della Grecia. Tale fu la sua scelta: egli prevedeva di morire. Sentiva in cuor suo che avrebbe lasciato questa lieta terra, il cielo luminoso e il tuo amore, Perdita: pure non esitò mai né si volse indietro, proseguendo diritto, in avanti, verso l’obiettivo della fama. Finché la terra vivrà, le sue azioni saranno ricordate con encomio. Fanciulle greche devotamente spargeranno fiori sulla sua tomba, e faranno risuonare l’aria all’intorno di inni patriottici, e gloriosa sarà in essi la memoria del suo nome».
Vidi che i lineamenti di Perdita si addolcivano; la durezza del dolore cedette alla tenerezza; continuai: «Rendergli dunque onore è il sacro dovere di coloro che gli sopravvivono. Rendere il suo nome come un luogo di terreno consacrato, e circondarlo per difenderlo con le nostre lodi da tutti gli attacchi ostili, spargere su di esso i fiori dell’amore e del rimpianto, proteggerlo dal declino e lasciarlo puro in eredità ai posteri: questo è il dovere degli amici. E un dovere ancor più caro spetta a te, Perdita, madre della sua bambina. Ricordi, durante la sua infanzia, con quale trasporto osservavi Clara, perché riconoscevi in lei i tratti congiunti tuoi e di Raymond, ti rallegravi nel vedere in questo tempio vivente una manifestazione del vostro eterno amore? E lei è ancora tutto questo. Tu dici di aver perduto Raymond. Oh, no! In lei egli vive ancora con te e in te. Da lui fu generata, carne della sua carne, ossa delle sue ossa…131 e non devi più contentarti, come è stato finora, di tracciare sulle sue guance morbide e sulle sue membra delicate un’affinità con Raymond, perché nel suo affetto entusiastico, nelle dolci qualità della sua mente, puoi ancora ritrovarlo in vita, lui, il giusto, l’insigne, l’adorato. Che sia dunque tua cura nutrire questa somiglianza, che sia tua cura rendere Clara degna di lui, così che quando si glorierà della sua origine non debba provare vergogna per quello che lei è».
Mi resi conto conto che, quando richiamavo mia sorella ai suoi doveri, non mi ascoltava con la stessa pazienza di prima. Sembrava sospettare ch’io avessi intenti consolatori, cosa alla quale, carezzando il suo dolore appena nato, si ribellava con tutte le sue forze. «Parli del futuro», disse, «mentre per me il presente è tutto. Fammi trovare la dimora terrena del mio amato; salviamolo da quella polvere anonima, così che nei tempi a venire gli uomini possano indicare la sacra tomba, e dire che gli appartiene… e, solo più tardi volgiamoci ad altri pensieri, a un nuovo corso di vita, o a quant’altro la sorte, nella sua crudeltà, può aver tracciato per me».
Dopo un breve riposo mi preparai a lasciarla, in modo da poter realizzare il suo desiderio. Nel frattempo fummo raggiunti da Clara; le guance pallide e lo sguardo spaurito testimoniavano la profonda impressione che il dolore aveva provocato sul suo giovane animo. Sembrava colma di qualcosa a cui non riusciva dar forma di parole; poi, approfittando dall’assenza di Perdita, mi rivolse un’ardente preghiera: che la conducessi in vista della porta che suo padre aveva attraversato per entrare a Costantinopoli. Promise che non avrebbe commesso imprudenze, che sarebbe stata docile e che poi sarebbe tornata immediatamente indietro. Non potei rifiutare, perché Clara non era una bambina comune; la sua sensibilità e la sua intelligenza sembravano averla già dotata della ragionevolezza di una donna. Con lei, dunque, davanti a me sul cavallo, scortati solo dal domestico che doveva riaccompagnarla a casa, cavalcammo fino a Top Kapi. Raccolto lì intorno trovammo un gruppo di soldati. Erano in ascolto. «Sono grida umane», disse uno. «Sembrano più ululati di un cane», replicò un altro; e di nuovo si volsero per cogliere il suono dei lamenti regolari, distanti, che provenivano dall’interno dei recinti della città distrutta. «Quella, Clara», dissi, «è la porta, e quella la strada che ieri mattina tuo padre ha percorso a cavallo». Qualunque fosse stata l’intenzione di Clara quando mi aveva chiesto di essere condotta fin lì, trovò un ostacolo nella presenza dei soldati. Con sguardo ardente osservò quale labirinto di macerie fumanti che era stato una città e poi dichiarò di essere pronta a tornare a casa. In quel momento un ululato melanconico ci giunse alle orecchie; si ripeté ancora; «Ascolta!», esclamò Clara, «è qui; è Florio, il cane di mio padre». A me sembrava impossibile che potesse riconoscerne la voce, ma la bimba insistette nella sua affermazione finché non riuscì a conquistarsi la fiducia della folla circostante. Sarebbe stata senz’altro un’azione caritatevole salvare il sofferente, uomo o bruto che fosse, dalla desolazione della città; così, rimandata a casa Clara, entrai di nuovo a Costantinopoli. Incoraggiati dall’impunità che aveva accompagnato la mia precedente visita, mi seguirono diversi soldati del corpo di guardia di Raymond, che lo avevano amato e ora ne piangevano sinceramente la perdita.
È impossibile fare congetture sulla strana concatenazione di eventi che restituì alle nostre mani il corpo senza vita del mio amico. In quella parte della città in cui la notte precedente il fuoco aveva infuriato maggiormente, mentre ora si era placato, lasciando tutto freddo e nero, il cane moribondo di Raymond se ne stava accucciato di fianco al corpo mutilato del suo padrone. In tali momenti il dolore non ha voce; l’afflizione, domata dalla sua stessa veemenza, è muta. La povera bestia mi riconobbe, mi leccò la mano, strisciò vicino al padrone e morì. Raymond era stato evidentemente sbalzato da cavallo dalla caduta di qualche rovina che gli aveva schiacciato la testa e sfigurato l’intera persona. Mi chinai su quel corpo, e presi in mano l’orlo del suo mantello, che appariva meno alterato della figura urna- na che ricopriva. Lo portai alle labbra, mentre i rudi soldati si raccoglievano intorno dolendosi della perdita di quest’uomo, il bottino più prezioso della morte, come se il rimpianto e il lamento incessante potessero riaccendere la scintilla ormai estinta, o richiamare nella casa-prigione di quelle carni lacerate lo spirito liberato. Ieri quelle membra valevano un intero universo; allora custodivano, come una reliquia, un potere trascendente, i cui intenti, le cui parole e le cui azioni erano degne di essere scritte con lettere d’oro; ora, soltanto la superstizione dell’affetto avrebbe potuto restituire valore al meccanismo distrutto che, inetto e simile a una zolla di terra, non rassomigliava a Raymond più di quanto la pioggia caduta assomigli alla sua dimora precedente, alla nuvola, in cui scalava i cieli più alti e, indorata dal sole, attirava gli sguardi di tutti, saziando i sensi con l’eccesso della sua bellezza.
Così com’era diventato, nel suo abito terreno sfigurato e devastato, lo avvolgemmo nei nostri mantelli e, sollevando il fardello sulle braccia, lo portammo via da quella città di morti. Si pose il problema di dove deporlo. Andando verso il palazzo passammo attraverso il cimitero greco; ordinai allora di distenderlo lì, su una tavola di marmo nero. I cipressi ondeggiavano in alto; la loro lugubre cupezza ben si accordava al suo stato di non-esistenza. Tagliammo alcuni rami di questi alberi funerei, glieli mettemmo sopra, e su di essi deponemmo la sua spada. Lasciai una sentinella a guardia di questo tesoro di polvere e ordinai che tutt’intorno ardessero incessantemente delle torce.
Quando tornai da Perdita, era già stata informata del successo della mia impresa: il suo amato, l’unico ed eterno oggetto della sua tenerezza appassionata, le era stato restituito. Di questo tenore era il folle linguaggio del suo entusiasmo. Che importava se quelle membra non si muovevano più e se quelle labbra non potevano più dare forma ai diversi toni della saggezza e dell’amore! Che importava se, come un’alga rigettata dallo sterile mare, egli giaceva preda della corruzione! Quello era pur sempre il corpo che aveva accarezzato, quelle le labbra che, incontrando le sue, avevano bevuto lo spirito dell’amore nel confondersi dei respiri; quello era il meccanismo terreno di argilla dissolubile che aveva potuto chiamare suo. È vero, ella desiderava ardentemente un’altra vita e lo spirito veemente dell’amore le sembrava inestinguibile per l’eternità. Tuttavia, in questo momento, si aggrappò teneramente a tutto quello che la sua umana sensibilità le permetteva di considerare e sentire come una parte di Raymond.
Pallida come il marmo, e come quello chiara e splendente, ascoltò il mio racconto e si informò sul luogo in cui era stato deposto. I suoi lineamenti avevano perso l’alterazione provocata dalla sofferenza, gli occhi erano ravvivati, la sua stessa persona era come dilatata. Il biancore eccessivo, e addirittura la trasparenza della sua pelle, una nota sorda nella voce testimoniavano che, non la tranquillità, bensì l’eccesso di eccitazione provocavano la calma minacciosa che si posava sul suo volto. Le chiesi dove dovesse essere sepolto. Rispose: «Ad Atene; proprio in quella Atene che egli amava. Fuori della città, sul pendio di Imetto, c’è una nicchia rocciosa ch’egli mi indicò come il luogo in cui avrebbe desiderato riposare».
Il mio desiderio era senza dubbio ch’egli non venisse rimosso dal luogo in cui ora giaceva. Ma si doveva naturalmente accondiscendere al volere di mia sorella, così la pregai di prepararsi senza indugi alla partenza.
Ecco ora il malinconico corteo che attraversa le piatte distese della Tracia, si snoda dentro gli stretti passi e, su per le montagne della Macedonia, costeggia le chiare acque del Peneo, attraversa la pianura di Larissa, oltrepassa le gole delle Termopili e, risalendo in successione Erta e Parnaso, discende verso la fertile pianura di Atene. Le donne sopportano con rassegnazione queste avversità che si trascinano a lungo; ma per lo spirito impaziente di un uomo, l’andatura lenta del corteo, la pausa malinconica che facevamo a mezzogiorno, l’eterna presenza del drappo funebre, per quanto sontuoso, che avvolgeva lo scrigno depredato che aveva contenuto Raymond, il monotono susseguirsi del giorno e della notte, non movimentato da speranze o cambiamenti, tutte le circostanze della nostra marcia erano intollerabili. Perdita si ritirò in se stessa, e parlò poco. La sua carrozza era chiusa e, quando ci riposavamo, sedeva appoggiando la guancia pallida sulla mano fredda e bianca, gli occhi fissi a terra, indulgendo in pensieri che rifiutavano di essere comunicati o condivisi.
Scendemmo dal monte Parnaso, emergendo dai suoi molteplici recessi, e sulla nostra strada per l’Attica passammo attraverso Livadia. Perdita non volle entrare ad Atene. Dopo essersi riposata a Maratona la notte del nostro arrivo, il giorno seguente mi condusse nel luogo da lei scelto per conservare il tesoro dei cari resti di Raymond. Si trovava in una nicchia vicina all’imbocco della gola a sud di Imetto. Quest’antica fenditura, nera e profonda, si estendeva dalla sommità alla base; nelle fessure della roccia cresceva un sottobosco di mirto e di timo selvaggio, cibo di molte popolazioni di api; enormi spuntoni di roccia sporgevano sul crepaccio, alcuni minacciosamente incombenti, altri perpendicolari a esso. Ai piedi di questa sublime fenditura, una valle fertile e ridente andava da mare a mare; oltre, si distendeva l’azzurro Egeo, spruzzato di isole, con le onde leggere che balenavano al sole. Vicino al luogo in cui ci trovavamo c’era una roccia solitaria, abbastanza alta, di forma conica che, separata da ogni lato dalla montagna, sembrava una piramide modellata dalla natura; con poca fatica questo blocco fu trasformato in una forma perfetta; al di sotto venne scavata la stretta tomba in cui fu sistemato Raymond, e una breve iscrizione, scolpita sulla viva pietra, ricordò il nome di colui che l’abitava, il motivo e l’epoca della sua morte.
Tutto venne compiuto velocemente sotto la mia direzione. Fui d’accordo nell’affidare il completamento e la custodia della tomba al capo dell’istituzione religiosa di Atene e a partire dalla fine di ottobre feci i preparativi per il ritorno in Inghilterra. Ne feci cenno a Perdita. Era doloroso volerla apparentemente strappare all’ultimo scenario che le parlava di colui che aveva perduto, ma indugiare lì era ormai inutile, e la mia anima era malata tanto ardente era il desiderio di ricongiungersi alla mia Idris e ai suoi piccoli. Come risposta, mia sorella mi chiese di accompagnarla la sera seguente alla tomba di Raymond. Erano passati alcuni giorni da quando avevo visitato il luogo l’ultima volta. Il sentiero per raggiungerlo era stato allargato e alcuni scalini scavati nella roccia ci condussero fin lì per una via meno tortuosa di prima; la piattaforma sulla quale si ergeva la piramide era stata allargata e, guardando verso sud, vidi che in una nicchia ombreggiata dai rami sparsi di un fico selvaggio, venivano scavate delle fondamenta e fissati sostegni e travetti che evidentemente costituivano l’inizio di un’abitazione. Guardando dalla soglia incompiuta, la tomba si trovava sulla nostra destra, mentre la gola e la pianura e l’azzurro mare erano esattamente di fronte a noi; le rocce scure ricevevano il riverbero abbagliante del sole che calava balenando sulle valli coltivate e tingendo di porpora e di arancio le placide onde; ci sedemmo su uno spuntone roccioso, e io fissai rapito quel bel panorama di colori vivi e cangianti che variavano e accrescevano le grazie della terra e dell’oceano.
«Non ho forse avuto ragione», disse Perdita, «a far trasportare qui il mio amato? D’ora in avanti questo sarà il cuore della Grecia. In un luogo come questo la morte perde gran parte del suo orrore e persino la polvere inanimata sembra partecipare dello spirito di bellezza che consacra questa regione. Lionel, egli riposa là; questa è la tomba di Raymond, colui che nella mia gioventù ho per primo amato, che il mio cuore accompagnò nei giorni della separazione e della rabbia, e al quale io sono ora unita per sempre. Mai, ascoltami bene, mai lascerò questo luogo. Mi sembra che il suo spirito si fermi qui come quella polvere che, per quanto muta, è più preziosa, nella sua inconsistenza, di quant’altro la terra vedova si stringa al petto afflitto. I cespugli di mirto, il timo, i piccoli ciclamini che fanno capolino dalle fessure della roccia, tutto ciò che cresce e nasce in questo posto reca un’affinità con lui; la luce che investe le colline partecipa della sua essenza, e il cielo e le montagne, il mare e la valle, tutto è imbevuto della presenza del suo spirito. Io vivrò e morirò qui!
Va’ tu in Inghilterra, Lionel, torna dalla dolce Idris e dal carissimo Adrian; torna, e lascia che la mia piccola orfanella sia come una figlia per te nella tua casa. Considerami morta; e in verità, se la morte è solo un cambiamento di stato, io sono morta. Questo è un mondo diverso da quello in cui ho abitato finora, da quello che è ora la tua casa. Soltanto qui io sono in comunione con quello che è stato e che sarà. Va’ tu in Inghilterra e lasciami nell’unico luogo dove possa accettare di trascinare faticosamente i giorni miserabili che devo ancora vivere».
Una pioggia di lacrime seguì alle sue tristi parole. Mi aspettavo qualche discorso bizzarro e per un po’ restai in silenzio, raccogliendo i pensieri per meglio combattere il suo fantasioso progetto. «Accarezzi dei pensieri foschi, mia cara Perdita», dissi, «né mi stupisce che, per qualche tempo, il tuo buon senso sia influenzato dal dolore straziante e dalla tua immaginazione turbata. Anch’io sono innamorato di questo luogo, l’ultima dimora di Raymond; ciononostante dobbiamo abbandonarla».
«Me lo aspettavo», esclamò Perdita; «immaginavo che mi avresti trattata come una pazza, una sciocca. Ma non ingannarti; questa casa viene costruita su mio ordine; io rimarrò qui finché arriverà l’ora in cui io potrò condividere la sua ben più felice dimora».
«Mia diletta fanciulla!».
«E cosa c’è di così strano nel mio progetto? Avrei potuto ingannarti; avrei potuto dirti di voler restare qui solo alcuni mesi; nella tua ansia di raggiungere Windsor mi avresti lasciata, e io, senza rimproveri o dispute, avrei potuto portare a termine il mio piano. Ma ho rigettato l’inganno; o piuttosto, nella mia infelicità, la mia unica consolazione era aprire il mio cuore a te, mio fratello, il mio unico amico. Non discuterai con me, vero? Tu sai bene quanto sia caparbia la tua povera sorella, così toccata dalla sofferenza. Prendi con te mia figlia; distoglila dalla vista e dal pensiero del dolore; fa’ in modo che la spensieratezza dell’infanzia torni a visitare il suo cuore e a ravvivare il suo sguardo; non potrebbe mai essere così, se rimanesse al mio fianco; è meglio, molto meglio per tutti voi che non mi dobbiate mai più vedere. Quanto a me non ricercherò volontariamente la morte, e cioè, non lo farò fino a che potrò avere il dominio di me stessa: e qui lo posso. Ma trascinami via da questo paese e il mio potere di autocontrollo svanirà, né potrò più rispondere delle violenze che gli spasimi dell’angoscia potrebbero indurmi a commettere».
«Rivesti il tuo intento, Perdita, di parole imponenti», risposi, «e tuttavia quell’intento è egoistico e indegno di te. Sei stata spesso d’accordo con me nel ritenere che non c’è che una soluzione per l’intricato enigma della vita: migliorare noi stessi e contribuire alla felicità degli altri; e ora, nel pieno rigoglio della tua vita, vieni meno ai tuoi principi e ti chiudi in un’inutile solitudine. Penserai forse meno a Raymond a Windsor, la scena della tua prima felicità? Sarai meno in comunione col suo spirito dileguato, mentre custodisci e coltivi gli eccezionali pregi di sua figlia? Sei stata tristemente colpita; né mi stupisce che un sentimento simile alla follia ti induca a immaginazioni amare e irragionevoli. Ma in Inghilterra, là dove sei nata, ti aspetta una casa piena di amore. La mia tenerezza e il mio affetto devono tranquillizzarti; la compagnia degli amici di Raymond ti conforterà più di queste fosche speculazioni. Per noi tutti contribuire alla tua felicità sarà la principale preoccupazione e il compito più caro».
Perdita scosse il capo: «Se davvero potesse essere così», replicò, «commetterei un grossissimo errore nel rifiutare le tue offerte. Ma non è una questione di scelta: io posso vivere soltanto qui. Sono parte di questo scenario; ogni sua singola caratteristica è una parte di me. Ma non è una fantasia improvvisa: io vivo grazie a essa. La consapevolezza di essere qui si sveglia con me al mattino e mi permette di sopportare la luce; si mescola al mio cibo, che altrimenti sarebbe veleno; cammina, dorme con me e mi accompagna sempre. Qui potrei persino cessare di affliggermi, e aggiungere il mio tardivo consenso al decreto che me lo ha portato via. Egli avrebbe preferito morire di una tale morte, che verrà ricordata negli annali della storia nel tempo infinito, piuttosto che essere sopravvissuto fino alla vecchiaia ma sconosciuto e senza onori. Né posso io, che sono stata la donna prescelta e amata dal suo cuore, desiderare qualcosa di meglio che restare qui e, nel rigoglio della gioventù, prima che il peso degli anni offuschi i sentimenti migliori della mia natura, custodire la sua tomba e ricongiungermi rapidamente a lui nel suo sacro riposo.
Tutto questo, mio carissimo Lionel, l’ho detto nella speranza di persuaderti che faccio bene. Se non sei convinto, non posso aggiungere nessun altro argomento, ma solo dichiarare la mia determinazione irremovibile. Io resto qui: solo la forza potrà spostarmi. Che sia pure così; trascinami via, tornerò; rinchiudimi, imprigionami, e di nuovo scapperò, e verrò qui. Preferirà forse mio fratello votare l’affranta Perdita al pagliericcio e alle catene del folle piuttosto che permetterle di riposare in pace all’ombra della Sua compagnia, in questa amata nicchia, che io stessa ho prescelto?».
Tutto ciò mi sembrò, lo ammetto, la pazzia di un metodista. Ritenni che fosse mio imperioso dovere condurla via dai luoghi che le ricordavano così vividamente la perdita che aveva subito. Né dubitai che nella tranquillità della nostra cerchia familiare, a Windsor, avrebbe recuperato un certo grado di tranquillità e, infine, di felicità. Anche il mio affetto per Clara mi indusse a contrastare questi sogni appassionati di un dolore custodito teneramente; la sensibilità della bambina era già stata fin troppo eccitata, la sua spensieratezza infantile troppo presto scambiata con pensieri profondi e inquietanti. Il progetto bizzarro e romantico della madre avrebbe potuto confermare e perpetuare quella dolorosa concezione di vita che così precocemente si era insinuata nelle sue meditazioni.
Tornando a casa, il capitano del vaporetto col quale mi ero accordato per la navigazione venne a dirmi che alcune circostanze fortuite affrettavano la sua partenza e che, se volevo andare con lui, dovevo trovarmi a bordo alle cinque del mattino seguente. Diedi frettolosamente il mio assenso a queste disposizioni e altrettanto frettolosamente escogitai un piano grazie al quale Perdita sarebbe stata obbligata a diventare mia compagna di viaggio. Credo che molte persone nella mia situazione avrebbero agito nello stesso modo. Eppure questa considerazione non diminuisce, o piuttosto non diminuì nel tempo a venire, i rimproveri della mia coscienza. Al momento, ero convinto di agire per il meglio e che tutto quello che facevo era giusto e addirittura necessario.
Sedetti con Perdita e la tranquillizzai, dando apparentemente la mia approvazione al suo progetto. Accolse con piacere il mio assenso, e mille e mille volte ringraziò suo fratello, ingannevole e ingannatore. Quando sopraggiunse la notte, il suo umore, rallegrato dalla mia inaspettata concessione, riacquistò una vivacità quasi dimenticata. Finsi di essere preoccupato dal rossore febbrile delle sue guance; la supplicai di prendere una pozione calmante e le versai la medicina che docilmente prese da me. La guardai mentre la beveva. La falsità e gli espedienti sono in se stessi così odiosi che, sebbene io pensassi ancora di far bene, una sensazione di vergogna e di colpevolezza mi piombò sgradevolmente addosso. La lasciai, e presto sentii che dormiva profondamente sotto l’influsso dell’oppiaceo che le avevo somministrato. In questo stato di incoscienza fu trasportata a bordo; l’ancora fu levata e, poiché il vento era favorevole, dirigemmo la prua al largo, verso il mare aperto; con tutte le vele spiegate e la potenza del motore che ci assisteva scivolammo via veloci e sicuri fendendo la superficie dell’elemento liquido.
Era giorno inoltrato già prima che Perdita si svegliasse, e un tempo ancor più lungo trascorse prima che, riavutasi dal torpore provocato dal laudano, si rendesse conto del cambiamento della sua situazione. Balzò giù come un folle dal suo giaciglio e si precipitò alla finestra della cabina. Il mare blu e agitato correva velocissimo davanti al vascello, poi si spandeva sconfinato tut- t’intorno: il cielo era cosparso di nembi che col loro movimento rapido rivelavano la velocità con cui veniva trascinata via. Lo scricchiolio degli alberi, il clangore dei macchinari, tutto la convinceva di essere già molto lontana dalle coste della Grecia. «Dove siamo?», gridò, «Dove stiamo andando?».
Il servitore che avevo fatto appostare lì per sorvegliarla rispose: «In Inghilterra».
«E mio fratello?»
«È sul ponte, Signora».
«Crudele! Crudele!», esclamò la povera vittima, mentre con un profondo sospiro guardava la desolata distesa delle acque. Poi, senza altri commenti, si gettò sul suo giaciglio; chiuse gli occhi e rimase immobile al punto che, se non fosse stato per i profondi sospiri che le scoppiavano in petto, poteva sembrare che stesse dormendo.
Non appena seppi che aveva parlato, le mandai Clara affinché la vista di quella graziosa innocente potesse ispirarle pensieri di gentilezza e di affetto. Ma né la presenza della sua bambina né una mia visita successiva riuscirono a scuoterla. Rivolse a Clara uno sguardo carico di dolente significato, ma non parlò. Quando apparvi io, si voltò dall’altra parte e, in risposta alle mie domande, disse soltanto: «Tu sai quello che hai fatto!». Credetti che questa scontrosità fosse semplicemente il segno della lotta tra la delusione e l’affetto naturale, e che nel breve giro di pochi giorni si sarebbe riconciliata col suo destino.
Quando sopraggiunse la notte, chiese supplichevole che Clara potesse dormire in una cabina separata. La sua domestica, comunque, rimase con lei. Intorno a mezzanotte la chiamò, dicendole che aveva fatto un brutto sogno; poi le ordinò di andare da sua figlia e di farle sapere se questa riposava tranquillamente. La donna obbedì.
La brezza, che dopo il tramonto si era affievolita, ora si levò di nuovo. Io ero sul ponte, e mi rallegravo per la velocità con cui avanzavamo. La quiete era disturbata soltanto dall’impeto delle acque che si dividevano davanti alla chiglia stabile, dal mormorio delle vele spiegate e immobili, dal vento che fischiava attraverso le sartie e dal movimento regolare del motore. Il mare, leggermente mosso, ora mostrava una bianca cresta, ora riassumeva un colore uniforme; le nuvole erano scomparse; l’etere oscuro abbrancava il vasto oceano nel quale le costellazioni cercavano invano il loro consueto specchio. La nostra velocità non poteva essere inferiore agli otto nodi.
Improvvisamente udii un tonfo in mare. I marinai di guardia si lanciarono verso il fianco del vascello, gridando: qualcuno è precipitato in mare. «Non è dal ponte», disse l’uomo al timone, «qualcosa è stato gettato dalla cabina a poppa». Dal ponte riecheggiò un ordine, affinché fosse calata la scialuppa. Mi precipitai nella cabina di mia sorella: era vuota.
Con le vele a poppa, il motore spento, il vascello rimase fermo con riluttanza, finché, dopo un’ora di ricerche, la mia povera Perdita fu riportata a bordo. Ma nessuna cura la poté rianimare, nessuna medicina poté indurre i suoi occhi a riaprirsi, e il sangue a fluire di nuovo dal suo cuore senza più vita. Una mano serrata saldamente teneva una striscia di carta sulla quale era scritto: «Ad Atene». Per essere certa che sarebbe stata ricondotta là, e per impedire che il suo corpo si perdesse irrimediabilmente nel vasto mare, aveva avuto la precauzione di cingere un lungo scialle intorno alla sua vita, che poi aveva assicurato alle sbarre della finestra della cabina. La corrente l’aveva trasportata un po’ sotto la chiglia del vascello, e il fatto che non fosse visibile ne aveva ritardato il ritrovamento. Così la fanciulla nata sotto una cattiva stella morì vittima della mia insensata avventatezza. Così, al mattino, ci lasciò per la compagnia del defunto, preferendo dividere la tomba rocciosa di Raymond, alla scena vitale che questa terra allegra offriva e alla compagnia dei suoi devoti amici. Così, nel suo ventinovesimo anno, morì, dopo aver goduto per poco tempo della felicità del paradiso e dopo aver subito un rovescio di fortuna al quale il suo animo impaziente e il suo carattere amorevole non erano capaci di sottomettersi. Quando osservai l’espressione placida che nella morte si era fissata sul suo volto, sentii, nonostante le fitte dolorose del rimorso, nonostante il rammarico che straziava il cuore, che era meglio morire così, piuttosto che trascinarsi per lunghi e miserabili anni di dolore accorato e inconsolabile.
La violenza del tempo ci spinse verso il golfo adriatico e, poiché il nostro vascello non era certo adatto a superare una tempesta, ci rifugiammo nel porto di Ancona. Qui incontrai Georgio Palli, il vice ammiraglio della flotta greca, un vecchio amico e un caloroso sostenitore di Raymond. Affidai i resti della mia scomparsa Perdita alle sue cure, per farli trasportare a Imetto e metterli nella cella che già il suo Raymond occupava sotto la piramide. Tutto ciò fu compiuto esattamente secondo i miei desideri. Ella riposò accanto al suo amato e sulla pietra sepolcrale posta sopra la tomba vennero iscritti i nomi congiunti di Raymond e Perdita.
Presi poi la decisione di proseguire per via di terra il nostro viaggio verso l’Inghilterra. Il mio cuore era tormentato da rimpianti e rimorsi. La consapevolezza che Raymond se ne era andato per sempre, che il suo nome, legato ormai in eterno al passato, doveva essere cancellato da qualsiasi aspettativa del futuro, era penetrata lentamente in me. Avevo sempre ammirato le sue capacità, le sue nobili aspirazioni, la sua concezione grandiosa della gloria e la maestà della sua ambizione, la radicale mancanza in lui di passioni meschine, il suo coraggio morale e l’audacia. In Grecia avevo imparato ad amarlo; la sua stessa ostinazione e il suo abbandonarsi agli impulsi della superstizione mi avevano fatto attaccare a lui doppiamente; poteva forse essere debolezza, ma in ogni caso era agli antipodi dell’abiezione e dell’egoismo. A questo dolore pungente si aggiunse la scomparsa di Perdita, che avevo perso a causa della mia maledetta presunzione e caparbietà. La cara fanciulla, il mio unico parente, i cui progressi avevo seguito fin dalla tenera infanzia attraverso il variegato sentiero della vita, che avevo visto sempre, in ogni momento, spiccare per integrità, devozione e sincerità d’affetti e per tutto quello che compone le grazie particolari del carattere femminile che avevo osservato infine diventare vittima del troppo amore, dell’attaccamento costante a ciò che era transitorio, e oramai perduto, ella, nel rigoglio della bellezza e della vita, aveva gettato via la piacevole percezione del mondo visibile per l’irrealtà della tomba, lasciando la povera Clara completamente orfana. Nascosi alla cara bambina che la morte di sua madre era volontaria e cercai in tutti i modi di risvegliare l’allegria nel suo animo straziato dal dolore.
Una delle prime cose che feci per recuperare la mia stessa tranquillità fu dire addio al mare. Il suo odioso sciabordio mi riportava in continuazione alla coscienza la morte di mia sorella; il suo mugghio era un lamento funebre; in ogni oscuro scafo che veniva sballottato sul suo seno incostante vedevo un feretro che avrebbe condotto alla morte tutti quelli che credevano al suo sorriso traditore. Addio, mare! Vieni, mia piccola Clara, siediti vicino a me in questa nave che solca l’aria; veloce e gentile essa fende l’azzurra serenità, e con dolci ondulazioni scivola silenziosa sulle correnti dell’aria; e, se la tempesta scuotesse il suo fragile meccanismo, c’è la verde terra sotto di noi: possiamo scendere e trovare riparo sul saldo continente. Qui in alto, in compagnia degli uccelli dalle ali veloci, sfioriamo agili e impavidi l’aria che non oppone resistenza alcuna. La lieve barca non vira, né incontra l’opposizione delle onde apportatrici di morte; l’etere si apre dinanzi alla prua, e l’ombra della sfera che la sostiene ci protegge dal sole di mezzogiorno. Sotto si distendono le pianure dell’Italia, o le ampie ondulazioni degli Appennini, che tanto ricordano le onde: la fertilità abbonda nei loro mille recessi e i boschi ne coronano le sommità. Il contadino libero e felice, affrancato dal dominio austriaco, trasporta nel granaio il suo raccolto raddoppiato; e i raffinati cittadini coltivano senza timore, in questo giardino del mondo, l’albero della conoscenza che così a lungo è stato fatto intristire. Ci librammo al di sopra delle vette alpine; poi, lasciando le loro gole profonde e rumoreggiami, entrammo nelle pianure della bella Francia. Dopo un viaggio aereo di sei giorni atterrammo a Dieppe, e qui ripiegammo le ali piumate e chiudemmo la sfera di seta della nostra piccola scialuppa. Una fitta pioggia aveva reso questo mezzo disagevole; così ci imbarcammo su un vaporetto, e dopo una breve traversata sbarcammo a Portsmouth.
Qui si era diffuso uno strano racconto. Pochi giorni prima, era comparso al largo della città un vascello devastato da una tempesta: lo scafo sembrava bruciato e spaccato, le vele lacerate e assicurate in modo avventato, e certamente non da gente di mare, le sartie aggrovigliate e spezzate. La barca era andata alla deriva verso il porto, e si era arenata sulla secca al suo imbocco. Al mattino gli ufficiali della dogana, insieme a un gruppo di sfaccendati, andarono a ispezionarla. Un solo membro dell’equipaggio era, a quanto pareva, arrivato fin lì. Era sceso a riva e aveva mosso pochi passi verso la città, poi, vinto dalla malattia e dalla morte che si avvicinava, era caduto sulla spiaggia inospitale. Fu ritrovato rigido, le mani saldamente serrate e strette al petto. La pelle, quasi nera, i capelli arruffati e la barba ispida, erano segni di una sofferenza che si era protratta a lungo. Si sussurrava che fosse morto di peste. Nessuno si avventurò a bordo del vascello, e si diceva che di notte si fossero vedute strane apparizioni che vagavano sul ponte e penzolavano dagli alberi e dalle sartie. Presto la barca andò in pezzi; mi fu mostrato dove era situata, e vidi le assi sconnesse sballottate dalle onde. Il corpo dell’uomo che era arrivato a terra era stato seppellito in profondità, nella secca, e nessuno era in grado di dire qualcosa di più, se non che il vascello era stato costruito in America e che diversi mesi prima il Fortunatus era salpato da Filadelfia senza che alcuno in seguito ne avesse più avuto notizie.
CAPITOLO XV
Tornai nella mia tenuta di famiglia nell’autunno dell’anno 2092. Il mio cuore era già da tempo con loro e stavo quasi male per la speranza e per la gioia di rivederli. La regione in cui vivevano sembrava la dimora prescelta da tutti gli spiriti benigni. Felicità, amore e pace attraversavano i sentieri della foresta e addolcivano l’atmosfera. Dopo tutti i turbamenti e il dolore patiti in Grecia, ricercai Windsor come un uccello trascinato dalla tempesta ricerca il nido nella cui tranquillità può infine ripiegare le ali.
Come erano stati sventati quei girovaghi che avevano abbandonato il loro riparo e si erano lasciati intrappolare nella ragnatela della società per prendere parte a quello che gli uomini del mondo chiamano ‘Vita”, quel labirinto di malvagità, quella congiura per la tortura reciproca. Per vivere, secondo questa accezione della parola, non dobbiamo solo osservare e imparare, dobbiamo anche sentire con l’animo e i sensi; non dobbiamo essere puri spettatori delle azioni, dobbiamo agire; non dobbiamo descrivere, ma essere soggetto delle descrizioni. Una profonda sofferenza deve aver abitato nel nostro petto, la frode deve averci atteso pronta all’agguato, l’astuzia deve averci ingannato, dubbi sgradevoli e false speranze devono aver movimentato le nostre giornate, l’ilarità e la gioia, che cullano l’anima fino a condurla all’estasi, devono a volte averci posseduto. Chi, tra coloro che sanno cos’è la “vita”, si struggerebbe di desiderio per questo febbrile tipo di esistenza? Io ho vissuto. Ho trascorso giorni e notti di festeggiamenti; ho partecipato a speranze ambiziose e ho esultato nella vittoria: ma ora, chiudete la porta al mondo, e costruite alto il muro che deve separarmi dall’inquieta scena recitata dentro i suoi confini. Viviamo piuttosto l’uno per l’altro e per la felicità; ricerchiamo la pace nella nostra cara casa, vicino al mormorio dei ruscelli dell’entroterra e al grazioso ondeggiare degli alberi, alla bella vegetazione della terra e allo sfarzo sublime dei cieli. Lasciamo dunque la “vita”, affinché possiamo vivere.
Idris era molto soddisfatta di questa mia risoluzione. La sua naturale gaiezza non aveva bisogno di un eccitamento smodato, e il suo cuore placido si acquietava appagato nel mio amore, nel benessere dei suoi bambini e nella bellezza della natura circostante. Il suo orgoglio e la sua innocente ambizione erano di suscitare il sorriso tutt’intorno a lei e di infondere la quiete nella delicata esistenza di suo fratello. Nonostante le sue tenere cure, la salute di Adrian peggiorava visibilmente. Passeggiare, andare a cavallo, le comuni occupazioni della vita, lo provavano: non sentiva dolore, ma sembrava oscillare in eterno sull’orlo dell’annientamento. Tuttavia, poiché aveva vissuto per mesi quasi nelle stesse condizioni, non suscitava in noi alcun timore immediato; e sebbene parlasse della morte come di un evento familiarissimo ai suoi pensieri, non cessava di fare il possibile per rendere gli altri felici o di coltivare le proprie straordinarie capacità intellettuali.
L’inverno passò; e la primavera, guidata dai mesi, risvegliò la vita in tutta la natura. La foresta si rivestì di verde, i giovani vitelli saltellavano sull’erba appena spuntata, le ombre delle nuvole leggere correvano, spinte dalle ali del vento, sui verdi campi di grano, il cuculo solitario ripeteva il suo monotono canto di benvenuto alla stagione, l’usignolo, l’uccello dell’amore e il favorito della stella della sera, riempiva i boschi con la sua canzone, mentre Venere indugiava nel tiepido tramonto e il giovane verde degli alberi si stagliava in un delicato rilievo contro il limpido orizzonte.
La gioia si risvegliò in ogni cuore, la gioia e l’esultanza, perché la pace regnava in tutto il mondo; il tempio di Giano universale era chiuso e l’uomo non moriva quell’anno per mano dell’uomo.132
«Se solo tutto ciò durasse dodici mesi», disse Adrian, «la terra diventerebbe un paradiso. Prima le energie dell’uomo erano dirette alla distruzione della sua specie: ora invece sono rivolte alla sua liberazione e alla sua conservazione. Egli non può aver pace, ma ora le sue aspirazioni irrequiete saranno al servizio del bene, non del male. I prediletti paesi del Sud si libereranno dal giogo ferreo della schiavitù; la povertà ci abbandonerà e, con essa, la malattia. Cosa non saranno in grado di ottenere in questa dimora dell’uomo le forze, mai prima d’ora unitesi, della libertà e della pace?».
«Sogni, sempre sogni Windsor!», disse Ryland, il vecchio avversario di Raymond, candidato per il Protettorato alle imminenti elezioni. «Siate certo che la terra non è né mai potrà essere un paradiso, poiché i semi dell’inferno hanno origine dal suo suolo. Quando le stagioni saranno diventate uguali, quando l’aria non sarà più fonte di malanni, quando la terra non sarà più soggetta a devastazioni e siccità, allora cesserà la malattia; quando le passioni dell’uomo saranno morte, la povertà sparirà. Quando l’amore non sarà più affine all’odio, allora esisterà la fraternità: siamo molto lontani da questo stato di cose al momento».
«Non così lontano come voi potreste supporre», osservò un piccolo vecchio astronomo di nome Merrival, «i poli avanzano con lentezza, ma avanzano, tra centomila anni…»
«Saremo tutti sotto terra», disse Ryland.
«L’asse della terra coinciderà con l’asse dell’eclittica», proseguì l’astronomo, «si genererà una primavera universale e la terra diventerà un paradiso».
«E noi naturalmente godremo dei benefici del cambiamento», disse Ryland con fare sprezzante.
«Ci sono delle strane notizie, qui», osservai. Avevo il giornale in mano e, come al solito, mi ero interessato alle notizie provenienti dalla Grecia. «Sembra che la totale distruzione di Costantinopoli, unita alla supposizione che l’inverno avesse purificato l’aria della città conquistata, avesse dato ai greci il coraggio di visitarla, e di iniziare a ricostruirla. Ma ci dicono che la maledizione di Dio è su quel luogo, perché chiunque si sia avventurato all’interno delle sue mura è stato contagiato dalla peste; la malattia si è diffusa in Tracia e in Macedonia e ora, temendo la virulenza dell’infezione nei periodi caldi in arrivo, è stato creato un cordone protettivo alle frontiere della Tessaglia e imposta una rigida quarantena».
Questa notizia ci ricondusse, dalla prospettiva del paradiso che si profilava dopo un lasso di centomila anni, alla pena e alla sofferenza esistenti al momento sulla terra. Parlammo delle devastazioni compiute dalla pestilenza l’anno precedente in ogni angolo del mondo, e delle terribili conseguenze di una seconda incursione. Discutemmo dei mezzi migliori per prevenire l’infezione, per conservare la salute e le attività in una grande città che ne fosse afflitta… Londra, per esempio. Merrival non si unì a questa conversazione; si avvicinò a Idris e continuò i suoi ragionamenti dicendo che la gioiosa prospettiva di un paradiso terrestre dopo circa centomila anni veniva ai suoi occhi offuscata dalla consapevolezza che in seguito, in un certo periodo del tempo a venire, quando l’eclittica e l’equatore si fossero trovati ad angolo retto,133 si sarebbero creati un inferno o un purgatorio terrestre. Alla fine la compagnia si sciolse. «Sogniamo tutti questa mattina», disse Ryland; «discutere della probabilità di un’incursione della peste nella nostra metropoli ben amministrata è saggio quanto calcolare i secoli che devono passare prima che qui possiamo coltivare ananas all’aria aperta».
Tuttavia, anche se sembrava assurdo fare congetture sull’arrivo della peste a Londra, non potevo pensare alla desolazione che il male avrebbe provocato in Grecia se non con una pena estrema. La maggior parte degli inglesi parlavano della Tracia e della Macedonia come avrebbero parlato di un territorio lunare che, in quanto sconosciuto, non suscitava nell’animo idee o interessi precisi. Io avevo calpestato quel suolo. I volti di molti dei suoi abitanti mi erano familiari; nelle città, nelle pianure, sulle colline, nelle gole di queste regioni, avevo goduto di una gioia inesprimibile, l’anno precedente, durante il mio viaggio. Talvolta mi si presentava davanti agli occhi della mente qualche villaggio romantico, qualche casupola o qualche elegante dimora abitata da gente buona e amabile, e allora mi perseguitava la domanda: la peste è anche lì? Quello stesso mostro invincibile che si librò su Costantinopoli e la divorò, quel demone più crudele della tempesta e meno docile del fuoco, si aggira, ahimè, libero da catene in quel bel paese… Questi pensieri non mi facevano dormire.
La situazione politica dell’Inghilterra divenne sempre più agitata via via che si avvicinava il momento in cui doveva essere eletto il nuovo Protettore. Questa circostanza suscitava un interesse tanto maggiore in quanto era opinione generale che, se fosse stato scelto il candidato popolare (Ryland), sarebbe stata sottoposta all’attenzione del Parlamento la questione dell’abolizione dell’ereditarietà del ceto sociale e di altri retaggi feudali. Non una sola parola era stata pronunciata, durante la seduta del giorno, su uno qualsiasi di questi argomenti. Tutto sarebbe dipeso dalla scelta del Protettore e dalle elezioni dell’anno seguente. Tuttavia, proprio questo silenzio era terribile, perché dimostrava il peso enorme di cui veniva caricata la questione, il timore di entrambi i partiti di azzardare un attacco al momento sbagliato e la previsione di una disputa furiosa, una volta che questa fosse cominciata.
Ma, anche se a St Stephan non c’era eco della voce che riempiva ogni cuore, i giornali non parlavano d’altro; e in privato, tra amici, la conversazione, magari partita da un argomento lontanissimo, presto convergeva su questo punto centrale, mentre le voci si abbassavano e le sedie venivano accostate. I nobili non esitavano a esprimere le loro paure; l’altro partito si sforzava di trattare la questione con leggerezza. «Il paese dovrebbe vergognarsi», disse Ryland, «di mettere un accento così forte su parole e cose di poca importanza; è una questione da nulla, come la nuova verniciatura dei pannelli delle carrozze e i ricami della giacca del lacchè».
E tuttavia, poteva davvero l’Inghilterra deporre i suoi ornamenti signorili e adattarsi allo stile democratico dell’America? Erano destinati a essere cancellati, tra di noi, l’orgoglio del lignaggio, lo spirito patrizio, le cortesi gentilezze e gli svaghi raffinati, attributi magnifici del ceto sociale? Ci fu detto che non sarebbe stato così; che noi eravamo per natura un popolo poetico, una nazione facilmente tratta in inganno dalle parole, pronta ad adornare le nuvole di gloria e a offrire onori alla polvere. Questo spirito non avremmo mai potuto perderlo; ed era proprio per diffondere questo ristretto spirito di nascita che veniva presentata la nuova legge. Ci fu assicurato che, allorché il nome e il titolo di inglese fossero stati l’unica patente di nobiltà, tutti saremmo stati nobili; e che quando nessun uomo nato sotto il dominio inglese avesse sentito che un altro uomo gli era superiore per ceto sociale, la cortesia e la raffinatezza sarebbero divenuti il diritto di nascita di tutti i nostri concittadini. Non disonorate a tal punto l’Inghilterra da immaginare che possa restare senza i nobili (la vera nobiltà della natura), che recano impresso il loro privilegio nell’aspetto, che vengono innalzati fin dalla culla al di sopra del resto della loro specie, perché sono migliori del resto. Tra gli appartenenti a una razza di uomini indipendenti, e generosi, e ben educad, in un paese in cui l’immaginazione impera sovrana sugli animi degli uomini, non bisogna avere alcun timore che ci venga a mancare una perenne successione di uomini d’alto lignaggio, degni dei lords. In ogni modo quel partito che esaltava il fregio della colonna, «il capitello corinzio della raffinata società»,134 difficilmente poteva ancora essere considerato una minoranza nel regno; fecero appello a un numero infinito di pregiudizi, a vecchie fedeltà e a giovani speranze, alle aspettative di quanti, a migliaia, avrebbero potuto un giorno diventare pari; agitarono, come uno spaventapasseri, lo spettro di tutto quello che, nelle repubbliche commerciali, era sordido, meccanico e vile.
La peste era arrivata ad Atene. Centinaia di inglesi che risiedevano là tornarono in patria. Gli adorati ateniesi di Raymond, le nobili, libere genti della città più divina della Grecia, cadevano come grano maturo davanti al falcetto impietoso dell’avversario. I suoi luoghi ameni erano abbandonati; i templi e i palazzi trasformati in tombe; tutte le sue energie, prima volte verso gli obiettivi più elevati dell’ambizione umana, erano ora costrette a convergere verso un unico punto: stare in guardia contro le innumerevoli frecce della peste.
In qualsiasi altro momento il disastro avrebbe suscitato un’enorme compassione tra di noi; ora invece passò sotto silenzio, perché gli animi di tutti erano concentrati sul prossimo dibattito. Ma per me non fu così; quando immaginavo la scena di Atene sofferente, il problema del ceto e del suo diritto diminuiva ai miei occhi fino a diventare insignificante. Ebbi notizia della morte di figli unici, e di mogli e mariti affezionatissimi; di legami intrecciati con le fibre del cuore che erano stati lacerati, di amici che perdevano amici, e di giovani madri che piangevano il loro primo figlio; queste disgrazie commoventi mi si affollavano e si dipingevano nella mente perché conoscevo le persone e provavo stima e affetto per i sofferenti. Erano gli ammiratori, gli amici, i soldati e i compagni di Raymond, le famiglie che avevano dato il benvenuto a Perdita in Grecia, che avevano pianto con lei la perdita del suo signore: ora venivano spazzati via, e andavano ad abitare con loro nella tomba che non fa più distinzioni.
Ad Atene la peste era stata preceduta e provocata dal contagio proveniente dall’Est, dove la scena di distruzione e morte continuava a essere recitata su una scala di proporzioni terrificanti. La speranza che la calamità dell’anno in corso fosse l’ultima teneva alto l’animo dei mercanti che avevano dei legami in questi paesi; ma gli abitanti erano indotti alla disperazione, o a una rassegnazione che, nascendo dal fanatismo, assumeva la stessa fosca tinta. Anche l’America era stata toccata dall’infezione; e, fosse essa febbre gialla o peste, l’epidemia era dotata di una virulenza mai sperimentata prima. La devastazione non rimase confinata nelle città, ma si sparse per tutto il paese; il cacciatore moriva nei boschi, il contadino nei campi di grano, e il pescatore nelle sue acque native.
Una strana storia proveniente dall’Est giunse fino a noi, una storia alla quale si sarebbe dato ben poco credito se l’evento non fosse stato confermato da una moltitudine di testimoni in varie parti del mondo. Si diceva che il ventuno di giugno, un’ora prima di mezzogiorno, si fosse levato un sole nero:135 un orbe delle dimensioni di quell’astro, ma scuro, ben definito, i cui raggi erano delle ombre, si era levato da occidente; nel giro di circa un’ora aveva raggiunto il meridiano ed eclissato il luminoso genitore del giorno. La notte era caduta su ogni paese, la notte improvvisa, oscura, totale. Erano spuntate le stelle, che sparsero il loro vano scintillio sulla terra vedova della luce. Ma presto l’orbe oscuro era passato oltre il sole e aveva indugiato in basso, a est, nella volta celeste. Mentre discendeva, i suoi foschi raggi avevano incrociato quelli brillanti del sole e li avevano affievoliti o distorti. Le ombre delle cose avevano assunto forme strane e spettrali. Gli animali selvaggi nei boschi si erano spaventati di fronte alle ombre sconosciute che si proiettavano a terra. Erano fuggiti senza sapere dove, e gli abitanti delle città erano stati presi dal più profondo terrore, dallo sconvolgimento che «spinse i leoni nelle strade civili».136 Uccelli e aquile dalle ali potenti, improvvisamente accecati, erano caduti sulle piazze dei mercati, civette e pipistrelli erano usciti fuori a dare il benvenuto alla notte precoce. A poco a poco il corpo pauroso sprofondò dietro l’orizzonte, e fino all’ultimo proiettò i suoi raggi di tenebra nell’aria altrimenti radiosa. Questa era dunque la storia giuntaci dall’Asia, dall’estremità orientale dell’Europa e, da quelle regioni dell’Africa occidentale, che si spingevano a ovest fino alla Costa d’Oro.
Che questa storia fosse vera o no, i suoi effetti furono sicuri. Per tutta l’Asia, dalle rive del Nilo alle spiagge del Mar Caspio, dall’Ellesponto fino addirittura al mare di Oman, si scatenò un panico improvviso. Gli uomini affollavano le moschee, le donne, velate, si affrettavano alle tombe, e portavano offerte ai morti per poter così preservare i vivi. A causa di questa nuova paura che il sole nero aveva diffuso, la peste venne dimenticata; e anche se i morti si moltiplicavano e le strade di Ispahan, di Pechino e di Delhi erano cosparse di cadaveri colpiti dalla pestilenza, gli uomini passavano oltre, fissando il cielo sinistro, incuranti dei morti sotto i loro piedi. I cristiani cercavano le loro chiese: vergini cristiane, nel pieno della giovinezza, vestite di bianco, con veli scintillanti, andavano in lunghe processioni nei luoghi consacrati alla loro religione, riempiendo l’aria dei loro inni; mentre, ogni tanto, dalle labbra di qualcuno dei poveri devoti tra la folla, si levava improvviso un grido di lamento, e tutti gli altri guardavano in alto, immaginando di poter distinguere il movimento delle ampie ali degli angeli che passavano sopra la terra, e si rammaricavano per i disastri che sarebbero presto toccati in sorte all’uomo.
Queste scene si svolgevano nel clima soleggiato della Persia, nelle affollate città della Cina, tra i boschetti aromatici del Cashmere, e lungo le rive meridionali del Mediterraneo. Persino in Grecia la storia del sole di tenebre accrebbe i timori e la disperazione della moltitudine dei moribondi. Noi, nella nostra isola nuvolosa, eravamo molto lontani dal pericolo, e l’unica circostanza che ci facesse in qualche misura sentire la realtà di questi disastri, era l’arrivo quotidiano di vascelli provenienti dall’Est, affollati di emigranti, per la maggior parte inglesi. I musulmani infatti, anche se la paura della morte era penetrata profondamente tra di loro, si stringevano ancora l’uno all’altro; perché, se dovevano morire (e se doveva accadere, la morte sarebbe andata loro incontro con eguale prontezza nel mare senza dimore, o nella lontana Inghilterra, oppure in Persia), se dovevano morire, le loro ossa avrebbero potuto riposare nella terra resa sacra dalle spoglie mortali dei veri credenti. Mai prima di allora la Mecca era stata così affollata di pellegrini; anche gli arabi abbandonarono il saccheggio delle carovane e, umili e disarmati, si unirono alla processione, pregando Maometto di allontanare la peste dalle loro tende e dai loro deserti.
Non posso descrivere la gioia estatica con la quale, dalle risse politiche in patria, e dai mali fisici dei paesi lontani, mi volsi alla mia diletta casa, la scelta dimora della bontà e dell’amore, alla pace e alla sacra comunione di ogni sentimento. Se non avessi mai lasciato Windsor queste emozioni non sarebbero state così intense; ma in Grecia ero stato la vittima della paura e di un cambiamento doloroso; in Grecia, dopo un periodo di inquietudine e di afflizione, avevo visto scomparire due persone, i cui nomi erano simbolo di grandezza e virtù. Ma tali disgrazie non poterono mai penetrare nella cerchia domestica che mi era rimasta, mentre, isolati nella nostra adorata foresta, trascorrevamo la nostra vita nella tranquillità. In verità il passare degli anni portò qui alcuni piccoli cambiamenti; e il tempo, com’è inevitabile, impresse i segni della mortalità sui nostri piaceri e sulle nostre aspettative.
Idris, la più affettuosa moglie, sorella e amica, era una madre tenera e amorosa. I sentimenti non erano per lei, come per molti, un passatempo: erano una passione. Avevamo avuto tre bambini; uno, il secondo, era morto mentre ero in Grecia. Questo evento aveva mescolato alle emozioni grandiose ed esaltanti della maternità il dolore e la paura. Prima, le piccole creature da lei generate, i giovani eredi della sua vita fugace, sembravano avere una prospettiva sicura di esistenza; ora, temeva che la distruttrice impietosa potesse strapparle quei due diletti figli che le erano rimasti, così come le aveva strappato il loro fratello. La malattia più innocua le provocava spasimi di terrore; si disperava se mai doveva allontanarsi da loro; il tesoro della sua felicità era racchiuso nel loro fragile essere, ed era eternamente in guardia, temendo che il ladro insidioso le rubasse come in precedenza queste gemme preziose. Fortunatamente aveva pochi motivi per aver paura. Alfred, di nove anni, era un piccolo, onesto ometto dalla fronte luminosa e gli occhi miti, e dal carattere gentile, anche se indipendente. Il più piccolo era ancora nel pieno dell’infanzia; ma le sue guance soffici erano cosparse del rosa della salute, e la sua instancabile vivacità riempiva le nostre stanze di risate innocenti.
Clara aveva superato l’età che, per la sua silenziosa impenetrabilità, era l’origine dei timori di Idris. Clara le era cara, a lei come a tutti. In questa fanciulla c’era tanta intelligenza unita all’innocenza, tanta sensibilità e tolleranza, tanta serietà e buon carattere, e una bellezza così spirituale insieme a una tale dolce semplicità che indugiava come una perla nel tempio dei nostri averi, un tesoro meraviglioso ed eccezionale.
All’inizio dell’inverno il nostro Alfred, che aveva ormai nove anni, cominciò ad andare a scuola a Eton. Gli sembrò il primo passo verso la virilità e ne fu conseguentemente felice. Lo studio e il divertimento insieme svilupparono i lati migliori del suo carattere: perseveranza, generosità, e una fermezza ben controllata. Che emozioni profonde e sacre vengono suscitate nel petto di un padre, quando per la prima volta si convince che il suo amore per il figlio non è un puro istinto, ma viene concesso meritatamente, e che altri, meno vicini al figlio, condividono la sua approvazione! Scoprire che la franchezza di cui la fronte aperta di Alfred era indice, l’intelligenza dei suoi occhi, la sensibilità misurata del suo carattere non erano illusioni, ma segni di qualità e virtù che «sarebbero cresciuti con la sua crescita, e si sarebbero rafforzati con la sua forza»137 fu, per me e per Idris, fonte di estrema felicità. In questo momento finisce l’amore animale per la propria discendenza e inizia il vero affetto umano del genitore. Non consideriamo più questa dilettissima parte di noi stessi come una pianta delicata che bisogna curare teneramente, o come il trastullo di un’ora oziosa. Ora ci basiamo sulle facoltà intellettuali del figlio e fondiamo le speranze sulle sue propensioni morali. Le sue debolezze conferiscono ancora una certa ansia a questo sentimento, la sua ignoranza impedisce una totale intimità; ma iniziamo a rispettare il futuro uomo, e ci sforziamo di guadagnarci la sua stima proprio come se fosse un nostro pari. Cosa può avere più a cuore un genitore della buona opinione di suo figlio? In ogni situazione che ci coinvolge con lui, il nostro onore deve restare inviolato, l’integrità dei nostri rapporti incontaminata: quando egli raggiungerà la maturità, il destino e i casi della vita potrebbero separarlo per sempre da noi, ma che il giovane ardente porti sempre con sé, come scudo contro il pericolo e consolazione nelle difficoltà lungo il duro sentiero della vita, l’amore e il rispetto per i suoi genitori.
Avevamo vissuto così a lungo nelle vicinanze di Eton che conoscevamo bene tutta la giovane popolazione del luogo. Molti di loro, prima di diventare compagni di scuola di Alfred, erano stati suoi compagni di gioco. Ora osservavamo con raddoppiato interesse questa comunità di giovani. Notavamo la differenza di carattere tra i ragazzi, e ci sforzavamo di leggere nel giovinetto il futuro uomo. Niente è più adorabile, a niente il cuore anela di più che a un ragazzo schietto d’animo, gentile, coraggioso e generoso. Numerosi abitanti di Eton avevano queste qualità; tutti si distinguevano per senso dell’onore e spirito d’avventura; in taluni, via via che si avvicinavano alla virilità, questo spirito degenerava in presunzione; ma i più piccoli, giovinetti un po’ più grandi del nostro, si distinguevano per il temperamento coraggioso e gentile.
Qui erano i futuri governatori dell’Inghilterra: quando il nostro ardore si fosse raffreddato e i nostri progetti compiuti o distrutti per sempre; quando, recitato il nostro dramma, ci fossimo spogliati dei costumi dell’ora e avessimo indossato l’uniforme dell’epoca, o quella della morte che rende tutti uguali, questi erano gli uomini che avrebbero dovuto far progredire l’immensa macchina della società. Qui erano gli amanti, i mariti, i padri; il proprietario terriero, il politico, il soldato; alcuni immaginavano di essere già pronti a comparire sul palcoscenico, bramosi di impersonare una delle dramatis personae della vita attiva. Non era poi passato molto tempo da quando ero uno di questi imberbi aspiranti; quando il mio ragazzo avrà conquistato il posto che ora è mio, io sarò diventato un vecchio grigio e rugoso dal passo malfermo. Strano sistema! Un enigma della Sfinge che riempie di sgomento: l’uomo resta tale, mentre noi, singoli individui, scompariamo. Prendendo in prestito le parole di uno scrittore eloquente e filosofico, questo è «il tipo di esistenza decretato per un corpo permanente, composto di parti transitorie; nel quale, grazie alla disposizione di una meravigliosa saggezza che plasma in un insieme la grande misteriosa incorporazione della razza umana, il tutto non è mai, in una sola volta, né vecchio, né di mezz’età, né giovane, ma, in una condizione di regolarità immutabile, continua a muoversi attraverso il corso variato di un perpetuo deteriorarsi, cadere, rinnovarsi, e progredire».138
Ben volentieri io ti cedo il posto, caro Alfred! Va’ avanti, figlio delle nostre speranze, frutto del tenero amore; va’ avanti come un soldato sulla via che mi ha visto pioniere! Ti farò strada. Mi sono già liberato della negligenza della fanciullezza, della fronte liscia, e del passo baldanzoso degli anni della gioventù: che possano ora adornare te. Va’ avanti, e io mi spoglierò ancor di più, a tuo vantaggio. Il tempo mi deruberà le grazie della maturità, toglierà l’ardore dai miei occhi e l’agilità dalle mie membra, sottrarrà la parte migliore della vita, le aspettative ardenti e l’amore appassionato, e le riverserà come pioggia, con duplice abbondanza sul tuo diletto capo. Va’ avanti! Trai giovamento da questo dono, tu e i tuoi compagni; e nel dramma che stai per recitare, non disonorare coloro che ti insegnarono a salire sul palcoscenico, e a pronunciare con grazia le parti a te assegnate! Che tu possa procedere sicuro e senza interruzioni; nato nella primavera delle speranze dell’uomo, possa tu condurre innanzi l’estate, cui possa non seguire alcun inverno!
CAPITOLO XVI
Un certo disordine si era sicuramente insinuato nel corso degli elementi distruggendo la loro influenza benigna. Il vento, principe dell’aria, infuriava nel suo regno, facendo montare la rabbia del mare e imponendo alla terra ribelle una sorta di obbedienza.
Dio manda dall’alto i suoi adirati flagelli,
Carestia e pestilenza, e a mucchi ne muoiono.
E ancora per vendicare la sua collera egli si abbatte
Sulle loro grandi schiere, e distrugge le loro vacillanti mura,
Ferma le loro flotte sulle distese dell’oceano,
E spunta la loro forza con montagne di alto mare.139
Il loro potere mortale scuoteva i fiorenti paesi del Sud e, durante l’inverno, persino noi, nel nostro rifugio settentrionale, cominciammo a vacillare sotto i loro effetti maligni.
Quella favola che vuole il sole superiore al vento è ingiusta.140 Chi non ha visto la terra spensierata, l’atmosfera fragrante, e la natura che si crogiolava beata al sole diventare oscure, fredde e inclementi, quando a oriente si è risvegliato il vento che poco prima dormiva? Oppure, quando le nuvole grigie velano fitte il cielo, e inesauribili riserve di acqua vengono riversate giù finché la terra, ormai zuppa, si rifiuta di assorbire il liquido sovrabbondante che ristagna nelle pozze sulla superficie; quando la fiaccola del giorno sembra essersi spenta come una meteora, chi non ha visto levarsi la tramontana che increspa le nuvole, e comparire il blu striato, e subito dopo, sul filo del vento, aprirsi uno squarcio tra i vapori, attraverso i quali risplende l’azzurro luminoso? Le nuvole si assottigliano; si forma un arco che sale, sale verso l’alto, finché, scomparso totalmente il velo che copriva la volta celeste, il sole diffonde i suoi raggi, ravvivati e nutriti dalla brezza.
Potente sei dunque tu, o vento, degno, tra tutti i vicari delle forze della natura, di essere posto sul trono più alto. Che tu venga distruttore da levante, o gravido di vita elementare da occidente, le nuvole ti obbediscono, il sole ti è sottomesso, l’oceano sconfinato è tuo schiavo! Tu travolgi la terra, e querce vecchie di secoli si sottomettono alla tua ascia invisibile; le raffiche di neve sui pinnacoli delle Alpi, la valanga tuona giù per le valli. Tu possiedi le chiavi del gelo, puoi prima incatenare e poi liberare i torrenti; foglie e gemme nascono sotto il tuo grazioso regno, e fioriscono con le tue cure.
Perché urli così, o vento? Giorno e notte, per quattro lunghi mesi, non hai mai cessato di mugghiare: le rive del mare sono cosparse di relitti, e la sua superfìcie, che un tempo accoglieva benevola le navi, è diventata insormontabile; la terra, obbediente al tuo comando, si è spogliata della propria bellezza; la fragile mongolfiera non osa più veleggiare nell’aria turbolenta; i tuoi ministri, le nuvole, inondano la terra di pioggia; i fiumi abbandonano le loro sponde; il torrente impetuoso distrugge il sentiero di montagna; la pianura, il bosco e la vailetta verdeggiante sono spodestati dei loro incanti; le nostre stesse città sono soggette alla tua devastazione. Ahimè, che ne sarà di noi? Sembra quasi che le onde giganti dell’oceano, e vaste braccia di mare, stiano per strappare dal proprio centro la nostra isola, abbarbicata in profondità, per poi scaraventarla, come un rudere e un relitto, sulle distese dell’Atlantico.
Cosa siamo noi, abitanti di questo globo, il più piccolo tra i molti che popolano lo spazio infinito? La nostra mente abbraccia l’infinito, ma il meccanismo visibile del nostro essere è in balia del più piccolo accidente. Giorno dopo giorno siamo forzati a prestar fede a questo. Chi è stato distrutto da un graffio, chi scompare dalla vita visibile sotto l’influenza delle forze ostili che si muovono intorno a noi, aveva le mie stesse facoltà: anch’io sono soggetto alle stesse leggi. A dispetto di tutto questo, noi ci chiamiamo signori della creazione, dominatori degli elementi, padroni della vita e della morte, e adduciamo a scusa di questa arroganza l’argomento che, se pure l’individuo viene distrutto, l’uomo continua per sempre.
Così, perdendo la nostra identità, che è quello di cui siamo maggiormente coscienti, ci gloriamo della continuità della specie, e impariamo a guardare alla morte senza terrore. Ma quando un’intera nazione, qualunque essa sia, diventa la vittima delle forze distruttrici degli agenti esterni, allora l’uomo si fa davvero piccolo fino a diventare insignificante; sente che la sua permanenza in vita è incerta, il suo diritto all’eredità della terra negato.
Ricordo che, dopo essere stato testimone degli effetti distruttivi di un incendio, non potevo neppure guardare un fuocherello in una stufa senza provare una sensazione di paura. Salendo, le fiamme si erano arricciate intorno al palazzo, che cadeva ed era completamente distrutto; si insinuavano tra i materiali vicini e al loro tocco gli ostacoli che si frapponevano al loro avanzamento cedevano. E noi, potremmo forse essere parti integranti di questo potere e non essere esposti alla sua azione? Potremmo addomesticare un cucciolo di questa bestia selvaggia e non temerne la crescita e la maturità?
Questa è dunque la sensazione che cominciammo a provare nei confronti della morte dai mille volti che si aggirava libera nei distretti più scelti della nostra bella dimora e, soprattutto, nei confronti della peste. Avevamo paura dell’estate che stava per arrivare. Le nazioni confinanti con i paesi già infetti, cominciarono a studiare seri progetti per allontanare meglio il nemico. Noi, un popolo di commercianti, fummo obbligati a prendere in considerazione tali piani; e il problema del contagio divenne argomento di urgente discussione.
Che la peste non fosse quella che comunemente viene definita una malattia infettiva, come la scarlattina o l’ormai estinto vaiolo,141 era accertato. Si diceva che fosse un’epidemia. Ma la questione principale, di come questa epidemia si fosse prodotta e sviluppata, era ancora aperta. Se l’infezione dipendeva dall’aria, l’aria era soggetta all’infezione. Prendiamo il caso, per esempio, della febbre tifoide portata da alcune navi in una città portuale: ebbene, le stesse persone non potevano trasmetterla a una città situata in una posizione più fortunata. Ma come facciamo a giudicare le diverse atmosfere, e affermare che in una data città la peste morrà senza rigenerarsi, mentre in un’altra la natura le ha preparato un raccolto abbondante? Allo stesso modo, gli individui potrebbero sfuggire novantanove volte, e ricevere il colpo mortale alla centesima; perché i corpi talvolta sono in condizione di respingere il contagio della malattia, e talaltra bramosi di assorbirlo. Queste considerazioni spinsero i nostri legislatori a fare una pausa prima di decidere quali leggi dovessero far entrare in vigore. Il male stava diventando così diffuso, ed era così violento e incurabile, che nessuna cura, nessuna prevenzione che aggiungesse anche soltanto una possibilità di salvezza poteva essere ritenuta superflua.
Si trattava di questioni di prudenza; non c’era la necessità immediata di prendere serie misure di cautela. L’Inghilterra era ancora sicura. Tra noi e la peste si frapponevano, mura senza breccia, la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna. I nostri vascelli, in verità, erano il trastullo dei venti e delle onde, proprio come Gulliver era il giocattolo degli abitanti di Brobdignac;142 tuttavia, al riparo delle nostre difese, queste eruzioni della natura non potevano ferirci nel corpo o nell’anima. Non potevamo aver paura e non ne avevamo. Nondimeno, un sentimento di soggezione, un senso di stupore che toglieva il fiato, una dolorosa sensazione della degradazione dell’umanità penetrò in ogni cuore. La natura, nostra madre e nostra amica, ci guardava con aspetto minaccioso. Ci dimostrava chiaramente che, per quanto ci permettesse di assegnarle delle leggi e di sottomettere i suoi poteri visibili, tuttavia, bastava che alzasse anche soltanto un dito e dovevamo tremare. Poteva prendere il nostro globo orlato di montagne, cinto dall’atmosfera, contenente le condizioni del nostro esistere insieme a tutto quello che la mente dell’uomo poteva inventare o conquistare con la sua forza; poteva prendere la palla in mano e scagliarla nello spazio, dove in un attimo la vita sarebbe stata risucchiata, l’uomo e tutti i suoi sforzi annientati per sempre.
Queste meditazioni erano comuni tra di noi; ma, cionondimeno, continuavamo a occuparci delle nostre faccende quotidiane e di quei progetti la cui realizzazione avrebbe richiesto molti anni. Non si udì una sola voce che ci dicesse di fermarci! Quando, attraverso i canali di commercio giunsero a farsi avvertire anche tra di noi le sofferenze che affliggevano i popoli stranieri, ci apprestammo a porvi rimedio. Vennero fatte sottoscrizioni per gli emigranti e per i mercanti che avevano dichiarato bancarotta in seguito al fallimento dell’attività commerciale. Lo spirito inglese si risvegliò fino a mettersi in piena attività e, come aveva sempre fatto, si preparò a resistere al male, e ad arginare la breccia che la natura malata aveva permesso al caos e alla morte di aprire entro i confini e le sponde che fino ad allora li avevano tenuti lontano.
All’inizio dell’estate cominciammo a renderci conto che i danni che avevano colpito quei paesi lontani erano più gravi di quanto avessimo sospettato in un primo momento. Quito fu distrutta da un terremoto. Il Messico fu devastato dagli effetti congiunti di tempeste, peste e carestia. Folle di emigranti inondarono l’Europa occidentale, e la nostra isola era diventata il rifugio di migliaia di persone. Nel frattempo Ryland era stato scelto come Protettore. Aveva aspirato a questa carica con bramosia, con l’idea di impiegare tutte le sue forze per eliminare le classi privilegiate della nostra società. Ma il nuovo stato di cose ostacolò le sue misure e bloccò i suoi progetti. Molti degli stranieri erano privi di tutto; e il loro numero sempre crescente impedì alla lunga di far ricorso ai normali mezzi di soccorso. Il commercio fu bloccato dal fallimento dei consueti scambi di carichi tra noi e l’America, l’india, l’Egitto e la Grecia. Il normale ritmo di vita subì un’interruzione improvvisa. Il Protettore e i suoi sostenitori cercarono invano di nascondere questa verità; invano, giorno dopo giorno, Ryland fissava un’ora per discutere le nuove leggi sul ceto sociale e sui privilegi ereditari; invano si sforzava di dipingere il male come parziale e temporaneo. Questi disastri colpirono nel vivo così tanti cuori e, attraverso i vari canali di commercio, si diffusero in maniera così completa in ogni classe e in ogni strato della società che divennero, per forza di cose, il problema primario del paese, l’argomento principale cui tutti dovevamo rivolgere l’attenzione.
Possibile, ognuno chiedeva all’altro con stupore e sgomento, che a causa di questi disordini della natura interi paesi vengano devastati, intere nazioni annientate? Le immense città dell’America, le fertili pianure dell’Indostan, le popolate dimore dei cinesi, sono minacciate dalla distruzione totale. Dove, fino a poco fa, moltitudini industriose si riunivano alla ricerca del piacere o del profitto, ora si ode solo il suono del gemito e della sofferenza. L’aria è avvelenata, ogni essere umano inala morte, persino se è giovane e sano e le speranze sono nel pieno del loro rigoglio. Ci tornò alla mente la peste del 1348, quando si calcolò che un terzo dell’umanità fosse stato annientato. Fino a ora l’Europa occidentale non era stata contagiata: sarebbe stato sempre così?
Oh, sì, certo: compatrioti, non temete! Perché stupirsi che nelle distese ancora incolte dell’America, tra gli altri giganteschi distruttori si annoverasse anche la Peste! Fin dal tempo dei tempi essa è originaria dell’Est, sorella del tornado, del terremoto e del simun. Figlia del sole e beniamina dei tropici, morirebbe in questo clima. Essa beve il sangue scuro degli abitanti del Sud, ma non banchetta mai con i pallidi volti dei Celti.143 Se per caso qualche asiatico colpito dal contagio venisse tra di noi, la peste morirebbe innocua con lui, senza essere stata trasmessa. Piangiamo dunque per i nostri fratelli, anche se non potremo mai sperimentare il loro stesso rovescio di fortuna. Compiangiamo e aiutiamo i figli del giardino della terra. Fino a poco fa invidiavamo le loro dimore, i loro boschi fragranti, le fertili pianure e le copiose bellezze. Ma in questa vita mortale gli estremi si eguagliano sempre: la spina cresce con la rosa, l’albero velenoso e la cannella intrecciano i loro rami. La Persia, con i suoi tappeti d’oro, i saloni di marmo e la sua infinita ricchezza, ora è una tomba. La tenda dell’arabo è caduta nella sabbia, e il suo cavallo scalcia il terreno senza più briglie né sella. La voce dei lamenti riempie le valli del Cashmere; le sue nicchie e i boschi, le fresche fontane e i giardini di rose sono contaminati dalla morte; in Circassia e in Georgia lo spirito della bellezza piange sulle rovine del suo tempio favorito: il corpo femminile.
I nostri tormenti, sebbene fossero provocati dalla fittizia reciprocità del commercio, aumentarono in debita proporzione. Banchieri, mercanti e manifatturieri, il cui mestiere dipendeva dalle esportazioni e dallo scambio di beni, fecero bancarotta. Simili eventi, quando capitano in maniera isolata, colpiscono solo le parti immediatamente coinvolte; ma ormai la prosperità dell’intera nazione era scossa da perdite frequenti ed estese. Famiglie cresciute nell’opulenza e nel lusso erano ridotte alla miseria. La stessa condizione di pace di cui ci gloriavamo era nociva; non c’erano mezzi per impiegare i disoccupati o far espatriare la popolazione in eccesso. Persino la risorsa delle colonie si era prosciugata, perché la peste infuriava nei territori della Nuova Olanda, della Terra di Van Diemen e del Capo di Buona Speranza.144 Oh, se solo fosse esistita qualche fiala medicinale per purificare la natura infetta e riportare la terra alla sua abituale salute!
Ryland era uomo dall’intelletto pronto e, in tempi normali, capace di decisioni rapide e fondate: ma di fronte alla moltitudine di mali che ci si addensarono intorno rimase attonito. Doveva tassare i proprietari terrieri per soccorrere i commercianti? Per fare questo, doveva guadagnarsi il favore dei maggiori tra loro, la nobiltà del paese, e questi erano suoi nemici giurati… Doveva accattivarseli, abbandonando il suo prediletto piano di livellamento; doveva confermare i loro diritti feudali e sacrificare quei piani che gli stavano così a cuore per il bene durevole del paese, in favore di un rimedio temporaneo. Non doveva mirare più all’obiettivo preferito della sua ambizione; gettate le armi, doveva rinunciare, per scopi contingenti, all’oggetto ultimo dei suoi sforzi. Venne a Windsor per consultarsi con noi. Ogni giorno aggiungeva nuove difficoltà; l’arrivo recente di navi cariche di emigranti, la cessazione totale dei commerci, la moltitudine affamata che si affollava intorno al palazzo del Protettorato erano circostanze che non potevano essere camuffate. Il colpo fu sferrato: l’aristocrazia ottenne tutto quello che desiderava e aderì a un disegno di legge, della durata di dodici mesi, che tassava del venti per cento tutte le rendite terriere del paese.
Nella metropoli e nelle popolose città, prima indotte alla disperazione, fu riportata la calma; tornammo a riflettere sulle calamità lontane, chiedendoci se il futuro avrebbe portato qualche sollievo ai loro eccessi. Era agosto, e dunque ci poteva essere ben poca speranza di ristoro durante il caldo. Al contrario, la malattia guadagnò virulenza, mentre l’inedia compiva il suo lavoro consueto. A migliaia morirono senza essere compianti, perché accanto al cadavere ancora caldo giaceva disteso, reso muto dalla morte, chi quel morto piangeva.
Il diciotto di questo mese giunse a Londra la voce che la peste era arrivata in Francia e in Italia. In un primo momento, in città, queste informazioni vennero soltanto sussurrate, ma nessuno osava ripetere a voce alta la notizia che sgomentava l’animo. Quando qualcuno incontrava un amico per strada, diceva semplicemente, allontanandosi in fretta: «Lo sai, vero!»; mentre l’altro, con grido improvviso di paura e di orrore, rispondeva: «Che ne sarà di noi?». Alla lunga la notizia apparve sui giornali. Il paragrafo fu inserito in una parte poco visibile: «Siamo dolenti di comunicare che non ci possono più essere dubbi sul fatto che la peste sia penetrata a Livorno, Genova e Marsiglia». Non seguiva alcuna parola di commento; ogni lettore, spaventato, faceva il proprio. Eravamo come un uomo che senta dire che la sua casa sta bruciando, e tuttavia corre per le strade spinto dalla latente speranza che si tratti di un errore, finché volta l’angolo e vede il tetto che lo proteggeva avvolto dalle fiamme. Prima era solo una voce; ma ora la notizia era stata pubblicata con parole che non potevano essere più cancellate, stampata con caratteri netti e innegabili. L’angolo nascosto in cui era stata relegata, la rendeva ancor più vistosa: all’occhio sconcertato dalla paura i caratteri minuscoli diventavano giganteschi, sembravano incisi da una penna di ferro, suggellati dal fuoco, intessuti nelle nuvole, impressi sulla faccia stessa dell’universo.
Gli inglesi, sia viaggiatori sia residenti all’estero, con una reazione improvvisa si riversarono indietro, in un unico grande flusso, verso la patria; e con loro arrivarono anche folle di italiani e di spagnoli. La nostra piccola isola si riempì fin quasi a scoppiare. In un primo momento, insieme con gli emigranti, fece la comparsa un’insolita quantità di moneta; ma queste genti non avevano modo di riavere in mano ciò che spendevano tra noi. Con l’avanzare dell’estate e il crescere del male, le rendite non furono pagate, e a loro venne a mancare la rimessa di denaro. Queste creature, fino a poco prima le predilette del lusso, erano ora disgraziate e morenti: era impossibile guardarle e non tendere una mano per aiutarle. Come alla fine del diciottesimo secolo gli inglesi aprirono i loro ospitali magazzini per soccorrere quanti erano stati cacciati dalle proprie case dalla rivoluzione politica, così ora non esitarono a offrire aiuto alle vittime di una calamità ancor più vasta. Noi avevamo molti amici stranieri che ricercammo con ansia e salvammo da una terribile povertà. Il nostro castello divenne un asilo per gli infelici. Un piccolo popolo occupava i suoi saloni. La rendita del suo proprietario, che aveva sempre trovato una forma di spesa congeniale alla sua natura generosa, veniva ora amministrata con maggiore oculatezza, affinché potesse servire al benessere di molti. Non fu comunque il denaro, se non in parte, che cominciò a scarseggiare, quanto il necessario per vivere. Era difficile trovare un rimedio immediato. Il consueto canale dell’importazione era compieta- mente escluso. In questa situazione di emergenza, per dar da mangiare alle stesse persone cui avevamo offerto rifugio, fummo obbligati a cedere all’aratro e alla zappa i giardini e i parchi. A causa della grande richiesta sul mercato il bestiame diminuì sensibilmente. Persino i nostri poveri cervi, i nostri protetti dalle lunghe corna ramificate, furono costretti a morire per il bene di ospiti di maggior pregio. Il lavoro necessario a piegare le terre a questo genere di colture diede impiego e cibo a coloro che erano stati espulsi dal numero diminuito delle manifatture.
Ma Adrian non si accontentò solo del modo in cui poteva utilizzare le sue proprietà. Si rivolse ai benestanti proprietari terrieri; fece proposte in Parlamento che avevano poca speranza di risultare gradite ai ricchi; ma le sue ardenti arringhe e la sua eloquenza, impiegata per il bene di tutti, erano irresistibili. Cedere i loro giardini di ricreazione agli agricoltori, diminuire di molto in tutto il paese il numero di cavalli allevati solo per lusso erano espedienti ovvi, ma spiacevoli. E tuttavia, sia ricordato a onore degli inglesi che, se pure una naturale riluttanza per qualche tempo li fece ritardare, dal momento in cui la sofferenza dei loro simili divenne lampante, una generosità entusiastica ispirò i loro decreti. Quelli che più vivevano nel lusso furono spesso i primi a rinunciare ai loro privilegi. Come accade nelle società, si creò una moda. Le dame d’alto rango si sarebbero ritenute disonorate se avessero continuato a godere di quello che prima consideravano una necessità: l’agio di una carrozza. Furono introdotte le portantine, come ai vecchi tempi, e i palanchini indiani per gli infermi; del resto non era affatto raro vedere donne d’alto rango andare a piedi nei locali di ritrovo alla moda. Ed era ancor più comune, per tutti coloro che possedevano delle proprietà terriere, separarsi dalle proprie tenute e, assistiti da intere schiere di indigenti, abbattere i loro boschi per costruire dimore temporanee, e poi dividere i parchi, i parterre e i giardini di fiori tra famiglie bisognose. Molte di queste, di rango elevato nei loro paesi, ora, zappa in mano, rivoltavano la terra. Alla fine fu necessario frenare lo spirito di sacrificio, e ricordare a coloro la cui munificenza diventava uno spreco di prodigalità che, fino al momento in cui l’attuale stato di cose non fosse divenuto permanente, evenienza per la quale non esisteva probabilità alcuna, era un errore apportare cambiamenti così vasti da rendere poi difficile poter tornare indietro. L’esperienza dimostrava che entro un anno o due la pestilenza sarebbe cessata; era dunque opportuno che nel frattempo non avessimo distrutto i nostri pregiati allevamenti di cavalli, o mutato completamente il volto della parte ornamentale del paese.
Ci si può immaginare come le cose andassero male, prima che questo spirito filantropico potesse aver gettato radici così profonde. L’infezione si era ormai diffusa nelle province meridionali della Francia. Ma quella nazione aveva così tante risorse nell’ambito dell’agricoltura che l’afflusso improvviso di gente da una regione all’altra del paese, e l’aumento della popolazione per via dell’emigrazione straniera si sentirono in misura inferiore rispetto a noi. Sembrava provocare più danni il panico che la malattia e quanto le era naturalmente connesso.
Salutammo con gioia l’inverno, medico universale e infallibile. L’imbrunire dei boschi e il gonfiarsi dei fiumi, le nebbie serali e il gelo mattutino vennero accolti con gratitudine. Gli effetti del freddo purificatore si fecero subito sentire, e le liste relative alla mortalità all’estero diminuivano ogni settimana. Molti dei nostri visitatori ci lasciarono: quelli che avevano dimora nel lontano Sud fuggirono felici dal nostro inverno settentrionale, e ricercarono la loro terra natale, certi dell’abbondanza anche dopo la terribile calamità. E noi respirammo di nuovo. Cosa avrebbe portato l’estate successiva non lo sapevamo; ma i mesi seguenti ci appartenevano, e le nostre speranze che la pestilenza cessasse erano forti.
CAPITOLO XVII
Ho indugiato a lungo sulla riva più lontana mentre la secca devastante, che si allungava insinuandosi nella corrente della vita si trastullava con l’ombra della morte. Così a lungo ho cullato il mio cuore con la visione retrospettiva della felicità passata, quando c’era la speranza. Perché non può essere così in eterno? Non sono immortale; e il filo della mia storia potrebbe essere prolungato fino ai limiti della mia esistenza. Ma lo stesso sentimento che mi indusse all’inizio a ritrarre scene colme di teneri ricordi, ora mi ordina di affrettarmi. Lo stesso desiderio ardente di questo cuore caldo, palpitante, che mi ha indotto a ricordare con parole scritte la mia gioventù vagabonda, la mia maturità serena e le passioni della mia anima, mi fa ora rifuggire da ogni ulteriore ritardo. Devo completare la mia opera.
Sono qui dunque, come ho detto, accanto alle acque veloci degli anni che scorrono, e ora, via! Le vele spiegate, serrati con forza i remi, passando rapido accanto a rocce oscure e incombenti, giù per rapide scoscese, eccomi giunto proprio nel mare della desolazione. Ma un momento, ancora un breve intervallo prima che abbandoni la riva… Una volta, ancora lasciate ch’io mi riveda com’ero in quell’anno 2094, nella mia dimora a Windsor, lasciate ch’io chiuda gli occhi e immagini che gli immensi rami delle sue querce mi coprano ancora con la loro ombra, accanto alle mura del castello lì vicino. Lasciate che la fantasia ritragga la scena gioiosa del 20 giugno, così come il mio cuore dolorante la ricorda ancora adesso.
Alcune circostanze mi avevano chiamato a Londra, dove sentii dire che negli ospedali della città si erano presentati i sintomi della peste. Tornai a Windsor, la fronte adombrata, il cuore triste; avvicinandomi al castello entrai nel Little Park, come era mia abitudine, dal cancello di Frogmore. Gran parte di questi terreni erano stati destinati alla coltivazione, e qua e là si stendevano campi con piante di grano o di patate. I corvi gracchiavano a piena voce sugli alberi; insieme alle loro grida roche sentii una vivace melodia. Era il compleanno di Alfred. I giovani, gli abitanti di Eton e i figli della piccola nobiltà dei dintorni, tenevano per gioco una fiera cui era invitata tutta la gente della regione. Il parco era punteggiato di tende che, coi loro colori sfarzosi e i loro vistosi stendardi ondeggianti al sole, accrescevano la gaiezza della scena. Su una piattaforma eretta sotto una terrazza, alcuni degli invitati più giovani stavano ballando. Mi appoggiai a un albero per osservarli. L’orchestrina suonava la scatenata aria orientale di Weber diventata famosa con Abun Hassan;145 le sue note capricciose mettevano le ali ai piedi dei ballerini, mentre quelli che stavano a guardare battevano inconsciamente il tempo. All’inizio il ritmo agile e saltellante trascinò con sé il mio spirito, e per un attimo i miei occhi seguirono lieti i labirinti della danza. Un improvviso mutamento nel corso dei pensieri mi trapassò il cuore come un pugnale acuminato. Voi tutti state per morire, pensai; intorno a voi è già stata eretta la tomba. Ancora per un po’, poiché siete dotati di agilità e di forza, credete di vivere: ma è ben fragile la «piccola dimora della carne»146 che avvolge la vita; dissolubile lo spago d’argento147 che vi lega a essa. L’anima gioiosa, trasportata come in un cocchio di piacere in piacere dai meccanismi aggraziati di membra ben formate, sentirà improvvisamente cedere l’asse centrale, e molle e ruote si ridurranno in polvere. Non uno solo di voi, oh! folla già condannata, può sfuggire… Non uno solo! Neppure i miei cari! Non la mia Idris né i suoi bambini! Orrore e infelicità! Ecco che già l’allegra danza svaniva, il tappeto verde era cosparso di cadaveri, l’aria blu diventava fetida per le esalazioni mortali. Squillate, chiarine! e voi, forti trombe, ululate! Date il via ai canti funebri, risvegliate le corde funeree; che l’aria risuoni di lamenti terribili, che la paurosa dissonanza corra veloce sulle ali del vento! Posso già sentirla, mentre gli angeli custodi, che si occupano dell’umanità, eseguito il loro compito corrono via, e la loro partenza viene annunciata da malinconiche melodie musicali; volti resi indecorosi dal pianto mi costringevano a tenere le palpebre aperte; sempre più velocemente questi volti afflitti mi si affollavano intorno, a gruppi, facendo mostra di ogni possibile miseria, visi ben noti si mescolavano con le creazioni distorte della fantasia. Cinerei, Raymond e Perdita sedevano appartati, osservandoci con tristi sorrisi. Il volto di Adrian si interponeva volteggiando, corrotto dalla morte… Idris, con gli occhi languidamente chiusi e le labbra livide, stava per scivolare nell’ampia tomba. La confusione cresceva… Gli sguardi di dolore si fecero beffardi; muovevano il capo al ritmo della musica il cui strepito faceva quasi impazzire.
Resomi conto che questa era follia, balzai in avanti per liberarmene; mi precipitai nel mezzo della folla. Idris mi vide: avanzò con passo lieve. Mentre la stringevo tra le braccia, sentivo di racchiudere quello che per me rappresentava il mondo intero, eppure fragile come la goccia di pioggia che il sole di mezzogiorno berrà dal calice della ninfea; le lacrime mi riempirono gli occhi non avvezzi a essere così bagnati. Il benvenuto gioioso dei miei ragazzi, il tenero saluto di Clara, la pressione della mano di Adrian mi prostrarono ancor di più. Mi rendevo conto che erano vicini, che erano salvi, e tuttavia mi sembrava che fosse tutto un inganno; la terra girò vorticosamente, gli alberi ben saldi nelle loro radici si mossero, mi colsero le vertigini e caddi a terra.
I miei adorati amici erano allarmati; anzi, manifestarono la loro paura con tale ansia che non osai pronunciare la parola peste, che era sospesa sulle mie labbra, altrimenti avrebbero ricondotto il mio aspetto turbato a un sintomo e avrebbero visto nel mio svenimento il segno dell’infezione. Mi ero appena ripreso, e con contraffatta ilarità avevo riportato il sorriso all’interno della mia piccola cerchia, quando vedemmo avvicinarsi Ryland.
Ryland aveva in qualche modo l’aspetto di un contadino; di un uomo i cui muscoli e la cui notevole statura si fossero sviluppati sotto l’influenza di un esercizio vigoroso e per l’esposizione agli elementi naturali. In gran parte era così: infatti, anche se era un grande proprietario terriero, tuttavia, essendo un progettista appassionato e industrioso, nelle sue tenute si era dedicato personalmente ai faticosi lavori agricoli. Quando visitò in qualità di ambasciatore gli Stati settentrionali dell’America, per qualche tempo progettò di trasferirsi definitivamente laggiù; e fece anche diversi viaggi, inoltrandosi sempre più a ovest dell’immenso continente, proprio per scegliere il luogo della sua nuova dimora. L’ambizione distolse i suoi pensieri da questi piani: quell’ambizione che, avanzando a fatica tra vari ostacoli, lo aveva ora condotto all’apice delle sue speranze facendolo Lord Protettore d’Inghilterra.
Il suo viso era rozzo ma intelligente; la fronte ampia e i vivaci occhi grigi sembravano essere sempre all’erta, attenti ai propri piani e all’opposizione dei nemici. La voce era stentorea, e la mano, fornita di una poderosa struttura muscolare, che durante i dibattiti teneva protesa, sembrava ammonire i suoi ascoltatori che le parole non erano le sue uniche armi. Poche persone avevano scoperto vigliaccheria e una notevole indecisione di propositi sotto questo imponente aspetto esteriore. Nessuno poteva schiacciare «una farfalla sulla ruota»148 con un effetto migliore; nessuno sapeva dissimulare meglio una rapida ritirata di fronte a un avversario forte. Questo era stato il segreto del suo abbandono al tempo dell’elezione di Lord Raymond. Queste caratteristiche potevano essere vagamente rintracciate nel balenio mutevole dei suoi occhi, nel desiderio estremo di conoscere le opinioni di ciascuno, nella sua grafia incerta, ma non erano note a tutti. Ora egli era il nostro Lord Protettore. E si era dato molto da fare per ottenere questa carica. Il suo protettorato avrebbe dovuto segnalarsi per innovazioni di ogni genere riguardo all’aristocrazia. Il compito che si era prescelto venne però sostituito da quello ben diverso di dover far fronte ai disastri provocati dagli sconvolgimenti della natura. Era incapace di fronteggiare questi mali con un progetto esauriente; aveva fatto ricorso a un espediente dietro l’altro, e non poté mai essere indotto a promulgare un provvedimento se non quando era ormai troppo tardi perché fosse di una qualsiasi utilità.
Certamente il Ryland che ora stava venendo verso di noi somigliava ben poco all’abile procacciatore di voti per la posizione più importante tra gli inglesi, così vigoroso, ironico, apparentemente impavido. La nostra quercia nativa, come lo chiamavano i suoi sostenitori, era stata davvero colpita da un inverno tagliente. Sembrava appena la metà della sua altezza normale, le giunture erano indebolite, gli arti non lo sostenevano; il volto era contratto, lo sguardo vagante, ogni suo gesto esprimeva debolezza di propositi e una paura da vile.
In risposta alle nostre impazienti domande, dalle sue labbra convulse uscì, quasi involontariamente una sola parola: La Peste. «Dove?» «Ovunque… dobbiamo fuggire, fuggire tutti… ma dove? Nessuno può dirlo; non c’è rifugio sulla terra, ci viene addosso come mille branchi di lupi. Dobbiamo fuggire tutti… Dove andrete voi? Dove possiamo andare tutti noi?».
Queste parole furono sillabate tremando dall’uomo di ferro. Adrian replicò: «E dove vorresti fuggire? Dobbiamo restare tutti, e fare del nostro meglio per aiutare il nostro prossimo sofferente».
«Aiutare!», esclamò Ryland, «Non c’è modo di aiutare… Buon Dio, chi parla di aiuto! Tutto il mondo ha la peste!».
«E allora per evitarla dobbiamo abbandonare il mondo», osservò Adrian con un sorriso gentile.
Ryland emise un gemito; fredde gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Era inutile opporsi al suo parossismo di terrore: tuttavia lo tranquillizzammo, e così, dopo un po’, fu in grado di spiegarci meglio il motivo del suo allarme. Lo aveva colpito abbastanza da vicino. Uno dei suoi domestici, mentre lo stava servendo, all’improvviso era caduto a terra morto. Il medico aveva dichiarato che era morto di peste. Cercammo di calmarlo: ma i nostri stessi cuori non erano calmi. Vidi lo sguardo di Idris vagare da me ai suoi figli, con l’ansiosa supplica del mio giudizio. Adrian era assorto in meditazione. Quanto a me, le parole di Ryland mi riecheggiavano nelle orecchie; tutto il mondo era contagiato; in quale rifugio incontaminato potevo condurre in salvo i miei tesori finché l’ombra della morte non fosse passata e scivolata via dalla terra? Sprofondammo nel silenzio; un silenzio che si imbevve dei racconti dolenti e dei presagi dei nostri ospiti.
Ci eravamo allontanati dalla folla; salendo i gradini del terrazzo cercammo il castello. Il nostro cambiamento di umore colpì coloro che ci erano più vicini; presto, grazie ai servitori di Ryland, si sparse la notizia che egli era fuggito dalla peste rifugiandosi a Londra. I crocchi allegri si sciolsero, si raccolsero in gruppi percorsi da un mormorio continuo. Lo spirito d’allegria era scomparso; la musica cessò, i giovani lasciarono le loro attività e si riunirono. La leggerezza d’animo che li aveva fatti vestire con abiti in maschera, che aveva addobbato le loro tende e li aveva raccolti in gruppi stravaganti, sembrava un peccato e una provocazione nei confronti del terribile destino che aveva posto la sua mano paralizzante sulla vita e sulla speranza. Il divertimento del momento era una beffa sacrilega delle sventure dell’umanità. Gli stranieri che erano tra di noi, fuggiti dalla peste nei loro paesi, vedevano ora invaso il loro ultimo rifugio e, resi loquaci dalla paura, descrivevano ad avidi ascoltatori le sofferenze di cui erano stati testimoni nelle città colpite dal flagello e facevano dei resoconti paurosi sulla natura insidiosa e irrimediabile della malattia.
Eravamo entrati nel castello. Idris si affacciò a una finestra che dava sul parco; i suoi occhi di madre cercavano i figli nella folla dei ragazzi. Un ragazzo italiano aveva raccolto un piccolo pubblico intorno a sé e con gesti vivaci stava descrivendo qualche scena di orrore. Alfred gli stava dinanzi immobile, la sua attenzione completamente assorbita. Il piccolo Evelyn aveva cercato di trascinare via Clara per giocare con lei; ma il racconto del ragazzo italiano bloccò la fanciulla, che si avvicinò con passo lento, gli occhi lustri fissi su colui che parlava. Che stessimo guardando la folla nel parco o fossimo presi da dolorose riflessioni, eravamo tutti in silenzio; Ryland se ne stava da solo nella strombatura di una finestra; Adrian misurava a grandi passi il salone, rimuginando su qualche nuova idea che lo sopraffaceva; a un tratto si fermò e disse: «Da tempo ormai me lo aspettavo; potevamo ragionevolmente aspettarci che quest’isola restasse immune dal castigo universale? Il male ci colpisce nel vivo, e non dobbiamo indietreggiare davanti al nostro destino. Quali sono i vostri piani, mio Lord Protettore, a favore del nostro paese?»
«Per l’amor del cielo! Windsor», esclamò Ryland, «non fatevi beffe di me con quel titolo. La morte e la malattia rendono tutti gli uomini uguali. Non aspiro a proteggere o a governare un ospedale, cosa che presto l’Inghilterra diventerà».
«Intendete dunque ora, nel momento del pericolo, sottrarvi ai vostri doveri?»
«Doveri! Parlate razionalmente, mio Lord! Quando sarò un cadavere cosparso dalle macchie della peste, dove saranno i miei doveri? Ognuno per sé! E allora io dico: che il diavolo si porti il protettorato, se mi deve esporre a dei pericoli!».
«Vigliacco!», esclamò Adrian indignato. «I vostri concittadini hanno riposto fiducia in voi, e voi li tradite!».
«Io tradisco loro!» disse Ryland. «È la peste che tradisce me. Pusillanime! È facile per voi, asserragliato nel vostro castello, lontano da ogni pericolo, vantarvi di non aver paura. Che prenda pure il Protettorato chi vuole: davanti a Dio, io vi rinuncio!»
«E davanti a Dio», replicò fervente il suo antagonista, «io lo ricevo! Nessuno si batterà per avere quest’onore ora, nessuno invidierà i miei rischi o le mie fatiche. Riponete i vostri poteri nelle mie mani. Ho combattuto a lungo con la morte, e molto», e protese la sua mano sottile, «molto ho sofferto in questa battaglia. Non è scappando, ma affrontando il nemico che possiamo vincere. Se pure io sto per combattere la mia ultima battaglia e per avere la peggio, che così sia!
Ma via, Ryland, tornate in voi! Gli uomini hanno finora creduto che voi siete magnanimo e saggio: getterete al vento questi appellativi? Pensate al panico che la vostra partenza potrebbe provocare. Tornate a Londra. Io verrò con voi. Date coraggio al vostro popolo con la vostra presenza. Correrò io tutti i rischi. Oh, vergogna! Vergogna!, se il primo magistrato d’Inghilterra è il primo a disconoscere i suoi doveri».
Nel frattempo, tra i nostri ospiti nel parco era svanito qualsiasi pensiero di festa. Come le mosche d’estate vengono disperse dalla pioggia, così questa congregazione, fino a poco prima rumorosa e felice, si sciolse in fretta tra mormorii tristi e malinconici. Col calar del sole e l’intensificarsi del crepuscolo, il parco divenne quasi vuoto. Adrian e Ryland erano ancora assorti in una seria discussione. Avevamo preparato un banchetto per i nostri ospiti nella sala del piano inferiore del castello, e là io e Idris ci recammo per ricevere e intrattenere i pochi rimasti. Non c’è nulla di più malinconico di una lieta assemblea che passa di colpo all’afflizione: i vestiti di gala e gli addobbi, che in altre circostanze sarebbero allegri, assumono un aspetto solenne e funereo. Se tale cambiamento è sempre doloroso anche per motivi ben più lievi, ora risultava intollerabile per la coscienza che il devastatore della terra, proprio come un arcidiavolo, aveva oltrepassato agilmente149 i confini costruiti dalle nostre precauzioni e si era subito insediato esattamente nel cuore palpitante del nostro paese. Idris sedette all’estremità della sala semivuota. Pallida e in lacrime, quasi dimenticò i suoi doveri di padrona di casa; i suoi occhi erano fissi sui figli. L’aria seria di Alfred mostrava che stava ancora rimuginando la tragica storia raccontata dal ragazzo italiano. Evelyn, tra i presenti, era la sola creatura allegra: sedette in grembo a Clara e, traendo motivi di gaiezza dalle sue stesse fantasie, rideva forte. Le volte del soffitto riecheggiavano della sua voce infantile. La povera madre, che era rimasta a lungo triste in meditazione e aveva represso la sua angoscia, scoppiò ora in lacrime e, stringendosi il suo bimbo tra le braccia, fuggì via dalla sala. Clara e Alfred la seguirono.
Il resto della compagnia, in un mormorio confuso che si faceva sempre più forte, dava intanto voce alle sue molte paure.
I più giovani mi si raccolsero intorno per chiedermi consiglio; coloro che avevano amici a Londra erano ansiosi più degli altri di accertare l’effettiva diffusione della malattia nella metropoli. Cercai di incoraggiarli con quei pensieri di conforto che mi vennero in mente. Dissi che la pestilenza aveva finora provocato pochissime vittime e diedi loro la speranza che, essendo noi stati gli ultimi a essere colpiti, il flagello, prima di raggiungerci, poteva aver perso il suo potere più venefico. La pulizia, l’abitudine all’ordine e il modo in cui le nostre città erano costruite giocavano tutti a nostro favore. Poiché si trattava di un’epidemia, la sua forza principale scaturiva dalle qualità esiziali dell’aria, e probabilmente avrebbe provocato pochi danni dove questa era naturalmente salubre. All’inizio mi ero rivolto soltanto a quelli che si trovavano più vicino a me; ma poi tutti gli altri mi si raccolsero intorno e mi accorsi che tutti i presenti mi stavano ascoltando. «Amici miei», dissi, «il rischio è comune: anche le precauzioni e gli sforzi saranno dunque comuni. Se il coraggio virile e la resistenza ci possono salvare, verremo salvati. Combatteremo il nemico fino alla fine. La peste non troverà in noi una facile preda; le contenderemo ogni metro di terreno; con leggi sistematiche e inflessibili innalzeremo, una sopra l’altra, barriere invisibili contro l’avanzata della nostra nemica. Forse in nessuna parte del mondo ha incontrato un’opposizione così metodica e determinata. Forse nessun paese è, per natura, tanto ben protetto contro l’invasore, né altrove la natura è stata così ben assistita dalla mano dell’uomo. Non dispereremo. Non siamo né codardi né fatalisti; ma, poiché crediamo che Dio ha messo nelle nostre stesse mani i mezzi per la nostra conservazione, li useremo nel modo migliore. Ricordate che la pulizia, la sobrietà, e persino il buonumore e la magnanimità sono le nostre migliori medicine».
C’era ben poco da aggiungere a queste esortazioni generali, dato che la peste, anche se era già a Londra, non era ancora tra di noi. Congedai pertanto gli ospiti; ed essi se ne andarono pensierosi, più che tristi, ad attendere gli eventi che erano in serbo per loro.
Cercai allora Adrian, ansioso di conoscere il risultato della sua discussione con Ryland. Egli aveva in parte avuto la meglio; il Lord Protettore acconsentiva a tornare a Londra per alcune settimane, e durante questo periodo le cose sarebbero state organizzate in modo tale da suscitare minor costernazione possibile alla sua partenza. Adrian e Idris erano insieme. La tristezza con la quale all’inizio il primo aveva ascoltato la notizia che la peste era giunta a Londra era svanita; l’energia che scaturiva dal suo proposito infondeva al suo corpo gran forza; la gioia solenne dell’entusiasmo e dell’abnegazione illuminavano il suo volto sembrava quasi che la debolezza della sua costituzione fisica si fosse allontanata da lui come, nell’antico mito, la sembianza umana dal divino amante di Semele.150 Stava cercando di infondere coraggio alla sorella e di indurla a guardare alla propria intenzione sotto una luce meno tragica di quella che lei era propensa a fare, e con eloquenza appassionata le rivelò i suoi progetti.
«Prima di tutto», disse, «lascia ch’io sollevi il tuo animo da ogni paura riguardo alla mia sorte. Non mi graverò di un compito superiore alle mie forze, né mi esporrò inutilmente al pericolo. Sento di sapere quello che deve essere fatto, e poiché la mia presenza è necessaria per la realizzazione dei miei progetti, porrò una cura particolare nel preservare la mia vita.