Introduzione
La revisione dell’utopia romantica: Mary Shelley e la sua prospettiva apocalittica

PERCHÉ NON «L’ULTIMA DONNA»?

Il 23 gennaio 1826 usciva a Londra un’opera pubblicizzata come «un nuovo romanzo fantastico o, piuttosto, una storia profetica», firmata «dall’autore di Frankenstein». Era L’ultimo uomo, il terzo romanzo di Mary Shelley, l’inquieta e geniale figlia della femminista Mary Wollstonecraft e del filosofo radicale William Godwin, nonché moglie del poeta Percy Bysshe Shelley. Dopo aver pubblicato anonimamente la prima edizione di Frankenstein nel 1818 (secondo una prassi consueta in quel tempo per una donna) aveva associato il suo nome alla seconda edizione di quella fortunatissima opera nel 1823, conquistandosi così una notevole fama di romanziera: la storia della sua mostruosa creatura, scritta quando l’autrice era appena diciottenne, aveva entusiasmato pubblico e critica e trionfava ancora, dopo otto anni, sulle scene londinesi in un adattamento teatrale.1 E tuttavia, malgrado questo successo, l’accoglienza riservata alla nuova opera, a cui Mary Shelley si era dedicata dal febbraio 1824 al novembre 1825 e che considerò sempre una delle sue preferite, non fu affatto positiva.

Quando il testo dell’Ultimo uomo fu dato alle stampe uscirono recensioni particolarmente velenose, molte delle quali ironizzavano sul genere dell’autrice: «The Literary Gazette» si chiedeva: «Perché non L’ultima donna?» e proseguiva: «avrebbe saputo rendere meglio la sua disperazione di non avere più nessuno con cui parlare»; «The Wasp» annunciava l’opera direttamente con il titolo satirico L’ultima donna, «Blackwood» la considerava «un aborto», mentre «The Monthly Review» la definiva «il prodotto di un’immaginazione malata e di un gusto assolutamente corrotto» e «The London Magatine» ne parlava come di «un elaborato pezzo di cupa follia».2 Accompagnato da una simile campagna denigratoria, il libro, malgrado venisse pubblicato nello stesso anno a Parigi dall’editore Galignani,3 e uscisse nel 1833 presso una casa editrice di Filadelfia,4 rimase praticamente invenduto, tanto che l’autrice scrivendo nel 1829 all’editore Colburn per sollecitare la pubblicazione di una sua nuova opera, il romanzo storico alla Walter Scott intitolato Perkin Warbeck, lo rassicurava: «questo mio nuovo lavoro promette di essere più popolare dell’ultimo», e ancora: «per mille ragioni Perkin Warbeck ha migliori possibilità di successo dell’Ultimo uomo».5

Fino al 1965, e dunque per più di un secolo, nessuna nuova edizione dell’ Ultimo uomo venne data alle stampe,6 ma poi si è avverato quanto aveva profeticamente affermato il critico Richard Garnett alla fine del secolo scorso: «quando L’ultimo uomo verrà ripubblicato apparirà al mondo come un’opera nuova».7 La critica recente ha infatti letteralmente riscoperto questo romanzo e lo considera oggi un’opera straordinariamente moderna, nata dalla percezione lucida e impietosa delle contraddizioni culturali e politiche del primo Ottocento, un testo sovversivo che mette in scena la fine di una civiltà che su quei presupposti si era fondata. L’idea di famiglia, di Stato, di religione propria dell’episteme romantica viene attaccata nella visione apocalittica di una donna che appare oggi non certo una sopravvissuta, come lei stessa ebbe a definirsi, e neppure «l’ultima donna» di cui la critica del tempo si era beffata, ma al contrario un’anticipatrice.

Con questa opera Mary Shelley ha infatti contribuito a fondare quel filone di scrittura fantastica al femminile che rappresenta metaforicamente sulla pagina la fine della civiltà e che sarebbe arrivata fino ai nostri giorni e agli esiti narrativi di Angela Carter e Ursula Le Guin. Potremmo definirla una narrativa gotica più avanzata rispetto a quella delle scrittrici di romanzi neri di fine ‘700, perché non si limita a esprimere i fantasmi del rimosso e la paura che li accompagna, ma dà corpo a questi fantasmi e li trasforma in figure reali, se pure metaforiche, che sul reale agiscono provocando tangibili e spesso catastrofiche conseguenze; pur utilizzando le strategie narrative del fantastico, l’autrice dell’Ultimo uomo non si allontana molto dal presente, anzi lo rappresenta esasperandone i tratti più negativi e, con una critica che nasce da un’oscura e inconsapevole ribellione dietro cui sentiamo la voce della grande rivoluzionaria Mary Wollstonecraft, ne decostruisce i modelli culturali, certo anche per questo suscitando una particolare avversione nella critica ufficiale del suo tempo.8

OLTRE IL ROMAN À CLEF

«L’ultimo uomo! Sì, posso ben descrivere i sentimenti di quell’essere solitario, dato che io stessa mi sento come l’ultima sopravvissuta di una amata specie, tutti i miei compagni essendo morti prima di me».9 Così scriveva Mary Shelley nel suo diario il 14 maggio 1824, implicitamente fornendo al lettore una chiave di lettura del romanzo che stava scrivendo. Ma l’identificazione dell’autrice con il protagonista del suo romanzo, l’ultimo uomo che sopravvive a tutta la specie umana progressivamente decimata da una apocalittica epidemia di peste, come vedremo è solo una, la più facile e immediata, delle molte chiavi di lettura di questo complesso testo narrativo; e se dal livello delle corrispondenze letterali tra pagina letteraria ed esperienza vissuta si può partire prima di inoltrarci nei complessi meandri della scrittura shelleyana, diremo subito che L’ultimo uomo è molto di più di un roman à clef, ed esprime la percezione di una tragedia che dal piano personale si allarga fino ad abbracciare la sorte dell’umanità intera.

Iniziato due anni dopo la tragica morte del marito, il poeta Percy B. Shelley, annegato al largo della costa livornese il 18 luglio 1822, L’ultimo uomo rispecchia senza dubbio la condizione interiore dell’autrice che a soli venticinque anni si era ritrovata vedova, con un figlio da allevare (l’unico sopravvissuto dei quattro che le erano nati), con gravi problemi economici e soprattutto molto sola;10 era ritornata in Inghilterra senza entusiasmo, sperando di ottenere una rendita dal suocero, il ricco e ostile Sir Timothy Shelley, dopo aver lasciato l’Italia, quel «Paradiso degli esuli» dove aveva trascorso i momenti più belli della sua breve e difficile esistenza. Si era poi pentita di quella decisione e si era sentita ancora più isolata, sopraffatta dal dolore e dal senso di colpa per aver ritenuto il marito responsabile della morte dei figli Clara e William e averlo tenuto lontano proprio nei mesi precedenti alla sua morte improvvisa; l’unica salvezza le era apparso il lavoro, non solo la cura dell’edizione completa di The Posthumous Poems of Percy Bysshe Shelley apparsa nel 1824, un risarcimento morale e affettivo che non aveva tuttavia placato il suo senso di colpa, ma soprattutto il suo lavoro di scrittrice, una terapia che definiva «più necessaria dell’aria che respiro».11 Il primo accenno a quello che sarebbe divenuto il suo terzo romanzo si trova in una lettera datata 25 ottobre 1823 all’amico Leigh Hunt, nella quale Mary Shelley annunciava che dopo il romanzo storico Valperga, ambientato nell’Italia del xv secolo, era ritornata a un tema «più libero e immaginifico, e, credo, più nel mio stile».12 Alternando momenti di sfiducia nella propria capacità creativa a riprese di grande attività, la stesura del romanzo procedeva in modo lento e irregolare finché la notizia dell’improvvisa morte dell’amico Byron a Missolungi, in Grecia, parve scuoterla dall’apatia e rimuovere definitivamente l’intermittente paralisi creativa.13

Questa è la spinta emotiva e psicologica da cui prendeva forma la scrittura di un romanzo denso di echi autobiografici nel quale l’autrice proietta molto del suo vissuto e rievoca in fedeli rappresentazioni le persone che le erano care. Mossa da sentimenti contraddittori, ricostruisce gli “Eletti”, come si autodefiniva il gruppo di intellettuali e artisti espatriati in Italia di cui facevano parte gli stessi Shelley. Tra questi spicca Adrian, conte di Windsor, descritto come un giovane alto, magro, incline alla malinconia, molto colto e moralmente irreprensibile, che presenta i tratti somatici e caratteriali dello stesso Shelley, o per lo meno, dell’immagine che la scrittrice aveva di lui.14 Adrian, che come Shelley, è un repubblicano con principi democratici, rifiuta di usare il privilegio della nascita per ottenere una carica politica, e accetta la nomina di Lord Protettore solo quando l’Inghilterra viene contaminata dall’epidemia, sacrificandosi per il bene comune. È evidente l’idealizzazione della figura di Shelley a cui vengono attribuite doti quasi divine, e tuttavia, come già era avvenuto con il personaggio del dottor Frankenstein nell’omonimo romanzo, il testo lascia intravedere i sentimenti ambivalenti provati dall’autrice nei confronti del marito, tanto che sotto l’esaltazione senza riserve ostentata nel testo si intravedono non poche critiche e riserve. Su Adrian, il perfetto campione di intelligenza e virtù, pesa la stessa critica già mossa dall’autrice all’egoismo narcisistico del marito e alla sua insensibilità nei confronti dei bisogni suoi e dei figli.

In contrapposizione ad Adrian campeggia nel romanzo la figura di Raymond, l’uomo d’azione in cui è ritratto Lord Byron: «Non potevano esservi due persone più diverse di lui e Adrian […] Adrian disdegnava le ristrette vedute del politico, e Raymond considerava con sommo disprezzo le visioni ben intenzionate del filantropo» (pp. 44-45). Ambizioso, orgoglioso, preda di intense passioni, il personaggio di Raymond tradisce la contrastata opinione che Mary Shelly aveva di Byron,15 e appare da un lato una personalità affascinante, ma dall’altro una creatura distruttiva, dai tratti satanici. La peste sembra essere la risposta ai sogni di conquista dell’uomo, e proprio dall’azione di questo grande condottiero si sprigionerà la scintilla che finirà per distruggere l’umanità intera, a indicare che dove ci sono l’ambizione, la vanità, l’irresponsabilità non può sopravvivere la vita.

Personaggio il cui modello è altrettanto facilmente individuabile è Lionel, l’ultimo uomo, nella cui storia come si è detto si riflettono non poche esperienze interiori della stessa autrice: orfani esclusi dalla società, entrambi hanno avuto un’infanzia da emarginati, tutti e due possiedono una grande immaginazione e un grande amore per la vita degli affetti familiari, che pongono al di sopra di tutte le cose; infine Lionel (come Mary pensava fosse accaduto a lei) viene sottratto a una condizione di ignoranza intellettuale e povertà spirituale da Adrian/Shelley, e il suo legame con l’amico riflette per molti aspetti il rapporto che esisteva tra Mary e il marito, la cui perdita sembra ancora una volta lamentata nelle parole di Lionel alla morte di Adrian: «Gli anni migliori della mia vita erano trascorsi con lui. Tutto quello ch’io avevo posseduto, ricchezze, questo mondo che felicità, conoscenza, virtù lo dovevo a lui. Con la sua persona, il suo intelletto e le sue qualità eccezionali, aveva dato alla mia vita uno splendore che senza di lui non avrebbe mai conosciuto» (p. 447). Infine, la condizione di isolamento in cui si trova Lionel è la stessa che la scrittrice vive negli anni in cui compone il romanzo, e proprio nel tentativo di superare un intollerabile presente Lionel, come Mary, comincia a scrivere quello che diventerà il testo del romanzo. Del resto, questo personaggio occupa un posto speciale all’interno dell’intreccio, in quanto è l’unico uomo che, pur contagiato dalla peste, riesce a guarire, attraversando un processo di autentica rinascita,16 e divenendo così il profeta a cui è affidato il racconto di una catastrofe universale.

Come è evidente anche a una prima lettura, i personaggi femminili in questo romanzo ricoprono un ruolo assolutamente secondario, ma proprio su questa marginalità occorrerà soffermarsi, perché l’assenza, il silenzio, l’impotenza che accompagnano queste figure di donna acquistano nel testo una valenza densa di significati. Sul piano dei richiami biografici, Perdita, il personaggio femminile più vivo e complesso il cui nome richiama la shakespeariana protagonista del Racconto d’inverno, presenta tratti sia di Mary Shelley che della sorellastra Claire Clairmont che aveva vissuto con gli Shelley durante il loro soggiorno in Italia. Come Mary rimane orfana di madre poco dopo la nascita e possiede lo stesso volto pallido, la stessa riservatezza, l’intensità delle passioni e una febbrile immaginazione; come Claire è innamorata di un eroe byroniano e da lui ha una figlia. La scoperta del tradimento di Raymond distrugge la fiducia di Perdita, che esprime una concezione dell’amore nella quale riecheggia la voce dell’autrice che parla del «tesoro indivisibile dell’amore. Prendi la somma nella sua interezza, e nessuna aritmetica potrà calcolarne il valore; togli anche la più piccola parte, dai un nome alle singole parti, separale per gradi e sezioni e, come la moneta del mago, l’inestimabile oro della miniera si trasforma nella sostanza più vile» (p. 127). E una dichiarazione che introduce un sotterraneo elemento di polemica, perché richiama contraddice alla lettera la teoria espressa da Shelley in Epipsychidion: «Mai feci parte di quella grande setta/ la cui regola è che ciascuno debba scegliere/ tra le molte una sola amante o amica,/ e tutte le altre, benché belle e sagge, condannare al freddo oblio/ […]. Il vero amore si differenzia dall’oro e dall’argento,/ perché dividerlo non significa diminuirlo […]» (vv. 149-53 e 160-61). Il suicidio di Perdita dopo la morte dell’amato sembra da un lato realizzare simbolicamente il desiderio di Mary Shelley di riunirsi al marito, ma dall’altro denunciare l’estremo disagio di una donna che non riesce a vedere se stessa come persona autonoma e che per il compagno ha sacrificato la vita intera. Del resto si noterà che in questo romanzo, malgrado il tempo della storia sia collocato in un secolo futuro (l’azione si svolge dal 2073 al 2100), la condizione della donna è esattamente quella degli inizi del secolo scorso, quando la possibilità di espressione e di autorealizzazione era confinata all’ambito domestico. Significative le parole di questo personaggio, interiormente diviso tra le proprie aspirazioni e i limiti che il ruolo sociale le impone, sulla disuguaglianza tra i sessi: «Egli, pensava, può essere grande e felice senza di me. Se anch’io avessi una carriera! Se potessi caricare su un veliero che non sia stato ancora messo alla prova tutte le mie speranze, le mie energie e i miei desideri, e lanciarlo con impeto sull’oceano della vita […]. Ma venti avversi mi trattengono a riva [… ] le mie mani deboli non possono abbattere alberi, né levigare assi» (p. 159).

Mentre Perdita riflette l’esperienza lacerata e sofferta della stessa Shelley, il personaggio di Idris incarna un femminile che si identifica totalmente nell’ideale ottocentesco di donna chiusa all’interno di quella sfera separata che è la famiglia e si realizza solo nel ruolo di madre. E un personaggio fortemente idealizzato nella bellezza e nelle doti morali, e sul piano della realizzazione artistica risulta una figura astratta e poco credibile. Non può sfuggire inoltre che proprio la sua perfetta adesione allo stereotipo dell’angelo del focolare contiene in sé un principio distruttivo, e risulta la causa prima della sua morte. Idris infatti viene aggredita dalla peste perché è indebolita dall’angoscia legata alla sorte dei figli, che invece sopravviveranno all’epidemia e moriranno in seguito per altre cause. E tuttavia in lei si riflette anche l’esperienza della maternità della scrittrice stessa, per Mary Shelley così tragicamente collegata al dolore e alla morte, come già il testo di Frankenstein e della novella Mathilda avevano mostrato. La nascita e la morte sono così indissolubilmente legate per lei che, come scrive Nadia Fusini, «la fantasia di Mary continua a ricamare l’evento mortuario che ha segnato il suo inizio».17 Ma anche in questo nella scrittura dell’Ultimo uomo ritroviamo non solo il vissuto personale, bensì i conflitti e le contraddizioni della donna artista di inizio Ottocento che, mentre ripropone nelle pagine dei suoi romanzi un femminile convenzionale, debole e sottomesso, denuncia anche il prezzo altissimo che la donna deve pagare nell’aderire a questa convenzione. Lo sapeva bene la stessa Shelley che se da un lato rimane prigioniera del ruolo convenzionale di moglie e di madre, come dimostra la scrittura privata delle lettere e del diario, e sembra volersi scusare per il suo colpevole desiderio di autorealizzazione, dall’altro, con la sua stessa attività letteraria, nega di fatto il ruolo subalterno e limitato che la società del tempo le aveva assegnato.18

PROFEZIA DI UN COMMIATO

Se Frankenstein può essere considerato un’anticipazione del moderno romanzo fantascientifico,19 anche L’ultimo uomo si presenta come un testo innovativo, e non solo perché, pur inserendosi nell’antica tradizione della scrittura apocalittica, è tra i primi a non richiamarsi esplicitamente alla convenzione escatologica cristiana, come ha rilevato la critica più recente che si è occupata di questo argomento.20 L’originalità del testo non sta certo nell’antichissimo spunto tematico della distruzione dell’umanità, qui metaforicamente rappresentata come la conseguenza di un inarrestabile contagio di peste. E del resto non sono estranee alla creazione dell’opera shelleyana anche suggestioni più recenti derivate da un testo distopico come Joumey to the World Underground (1742) del Barone Holberg, da trattati come Essay on the Principle of Population (1798) di Malthus e Ruins of Empire di Volney (1791), per non parlare di altri romanzi di fine Settecento come Vathek (1786) di William Beckford, The Mysteries of Udolpho (1794) di Ann Radcliffe e The Monk (1798) di Matthew G. Lewis.

Si può dire, anzi, che la caratteristica di questo romanzo profetico sta nell’avere una sua specificità pur condividendo la fascinazione apocalittica che aveva contagiato l’anima romantica e pur nascendo in anni in cui un numero sorprendente di opere ponevano al centro il mitico tema della fine del mondo, facendo ipotizzare a chi si sarebbe interrogato in seguito su questo fenomeno un collegamento tra la fine improvvisa e violenta del vecchio regime travolto dalla rivoluzione scoppiata in Francia qualche anno prima e la visione di un futuro dell’umanità drammaticamente interrotto. Nel secondo decennio del XIX secolo si assiste infatti in Inghilterra a una ripresa dell’antico mito della profezia apocalittica,21 una ripresa alla quale non doveva essere estraneo il senso di alienazione emblematicamente rappresentato dalla tragica figura del vecchio marinaio dell’omonima ballata di Coleridge e più pacatamente espresso in un’opera come The Spirit of the Age (1825) di William Hazlitt. Era l’espressione di un dramma esistenziale condiviso da una intera generazione di artisti che vedeva tramontata la fase dell’idealismo romantico dominante negli anni ‘90 con le grandi personalità di William Godwin, Samuel Taylor Coleridge, Robert Southey, e scorgeva il progressivo affermarsi di una ideologia basata sull’utile e sul pratico, ultima e inevitabile conseguenza del processo avviato con la Rivoluzione industriale.22 Ha ragione Fiona Stafford quando afferma, in un saggio recente, che il mito dell’ultimo uomo in questi testi sta a indicare la coscienza diffusa da parte degli artisti di essere loro stessi dei sopravvissuti rispetto a una cultura idealista che in Inghilterra stava rapidamente tramontando,23 e tuttavia va precisato che il romanzo di Mary Shelley rifugge dal rimpianto e dal pessimismo espressi in opere coeve che portano quasi alla lettera lo stesso titolo, e si propone come romanzo apocalittico assolutamente sui generis.

Il progenitore del racconto Un elemento comune che contraddistingue la serie di testi escatologici che fioriscono nell’Inghilterra degli anni ‘20 e che appare estraneo al testo di Cousin de Granville è un pessimismo globale che non a caso priva queste opere della fase, essenziale per il discorso cristiano, della resurrezione. Anche sull’onda di suggestioni derivate dalle nuove teorie scientifiche tendenti a provare la reale esistenza del diluvio universale,24 l’apocalisse diviene nell’immaginario del tempo non la premessa per una rinascita, ma piuttosto una catastrofe naturale che mette fine alla realtà presente. Testo emblematico di questo atteggiamento è la celebre poesia di Byron intitolata Darkness, composta nel 1816, proprio quando Mary Shelley stava lavorando a Frankenstein. In seguito al progressivo spegnersi del sole, l’umanità viene spazzata via e sulla terra sterile e desolata rimangono solo le tenebre, che si dilatano fino ad avvolgere l’intero universo. Nessuna possibilità di salvezza è offerta all’uomo, né si possono intuire le cause di una distruzione che appare un fenomeno immotivato quanto definitivo.

Questa stessa atmosfera di vuoto e desolazione viene visivamente rappresentata in vari quadri dell’epoca raffiguranti catastrofi naturali: temporali, eruzioni vulcaniche e terremoti abbondano nei dipinti del tempo, tra i quali in particolare un’opera di John Martin acquista valore ai fini del nostro discorso. Intitolata appunto The Last Man, viene dipinta in una prima versione poi andata perduta nel 1826, ed è seguita da un acquarello sullo stesso soggetto nel quale una figura isolata si erge su un promontorio tenendo le braccia aperte: l’ultimo uomo appare circondato da scheletri di soldati, mentre sullo sfondo compaiono due città flebilmente illuminate dalla fredda luce di un sole che si sta spegnendo.25 Il quadro era stato ispirato da un verso della poesia di Thomas Campbell, intitolata appunto The Last Man, del 1823, nella quale la fine del mondo era la conseguenza della morte del sole. La distruzione della terra sembra qui essere addotta a riprova dell’onnipotenza divina, anche se il testo non offre immagini di vita futura e tradisce la mancanza di una reale fiducia nell’esistenza di una vita eterna, tanto che il lettore ha la sensazione che Campbell si rivolga alla religione come ultimo, disperato baluardo contro il dubbio e l’angoscia che lo circondano.26

romantico della storia dell’ultimo uomo è un romanzo pubblicato in Francia e subito tradotto in inglese; si tratta di Le demier homme del prete cattolico Jean Baptiste Cousin de Granville (1746-1805), edito a Parigi nel 1805 e in Inghilterra l’anno seguente con il titolo Omegarus and Syderia, or The Last Man: a Romance in Futurity. Molte, ma superficiali, le somiglianze con il romanzo di Mary Shelley: il narratore racconta di una misteriosa «Grotta della Morte», situata vicino alla città di Paimira, e dell’incontro con il suo spirito tutelare, nei cui specchi magici gli è possibile vedere il futuro. Riflesso in questi specchi, al lettore appare un mondo ormai sterile e spopolato dove l’ultimo uomo sopravvissuto, dopo molte ricerche, incontra l’ultima donna, ma il matrimonio gli è proibito da Dio perché ogni nuova generazione della razza umana non potrà che essere malvagia. La scelta che si pone all’ultimo uomo è dunque ancora quella iniziale tra l’obbedienza a Dio e l’amore per la donna, e a differenza del suo antico progenitore, la creatura di Cousin de Granville, non senza sofferenza, finisce per obbedire a Dio, finalmente riscattando la’ caduta di Adamo ed Eva. Il testo, pur solcato dai dubbi e dalle lacerazioni dell’autore, rientra dunque nella trattazione del tema fatta dal canone cristiano.

Ancora The Last Man viene intitolato un testo teatrale incompiuto scritto da Thomas Lovell Beddoes tra il 1823 e il 182 5, dove prevale un più esplicito terrore per l’impotenza dell’essere umano e l’assenza di una divinità benevola. Il dramma di Beddoes è teso a esprimere un’angoscia nata dal senso di vuoto di una «terra desolata» e testimonia, con la sua stessa frammentarietà, l’inutilità di rappresentare compiutamente l’esperienza dell’ultimo uomo senza la compensazione di una rinascita o la speranza di un mondo migliore.

Infine, nel 1826, lo stesso anno in cui veniva pubblicato l’omonimo romanzo di Mary Shelley, usciva una ballata composta da Thomas Hood, ancora intitolata The Last Man. Anche qui la storia della fine dell’umanità viene narrata in prima persona dall’ultimo uomo sopravvissuto a un’epidemia di peste. Ma la cifra della scrittura di

Hood è una satira feroce e grottesca contro il genere umano, che porterà gli ultimi due uomini sulla terra a fronteggiarsi l’uno contro l’altro e a distruggersi: un boia crede di essere l’ultimo sopravvissuto ed è così disturbato dalla vista di un altro uomo che lo uccide. Solo allora si pente di quello che ha fatto, ma non può essere a sua volta giustiziato perché non è rimasto nessuno ad amministrare la giustizia e l’unica possibilità rimane per lui il suicidio. Niente e nessuno si salva, in un clima che ancora una volta ripropone, pur nella variazione del registro che da lirico si è fatto satirico, la desolata visione di Byron, che rimane l’immagine emblematica della disillusione di questa generazione di artisti romantici. Una sorta di fatalismo pervade questi testi in cui l’essere umano, trascurabile presenza in un universo indifferente, assiste impotente alla distruzione della specie.

Rispetto a queste opere, la visione di distruzione, che pure il romanzo di Mary Shelley riprende quasi alla lettera utilizzando una serie di motivi propri dell’immaginario apocalittico del tempo, nasce da presupposti diversi, che non hanno a che fare con l’angoscia legata alla caduta dell’utopia romantica ma semmai con la denuncia di quell’utopia e apre dunque prospettive insolite su una visione del mondo e della società che si pone come alternativa a quella sottesa all’episteme romantica.27

L’UTOPIA ROVESCIATA

Il mezzo attraverso cui nel romanzo si propaga la distruzione della specie umana è la peste. Ancora una volta l’autrice si serve dunque di un topos antico e ricorrente che dal De rerum natura di Lucrezio percorre la tradizione letteraria occidentale fino a The Journal of the Plague Year (1665) di Daniel Defoe, che la scrittrice ben conosceva, e a The Revolt of Islam (1817) in cui Percy B. Shelley identifica la peste con la barbarie politica del dispotismo reazionario.28 Nel romanzo, il morbo si presenta dapprima nell’area orientale del mondo, si trasmette quindi all’Occidente e arriva fino in Inghilterra, che si considera all’inizio inattaccabile non solo per il suo isolamento geografico, ma per un altero e vano senso di superiorità culturale, tanto che c’è chi, come Audrey Fish, ha oggi visto un parallelo tra questa rappresentazione del contagio e l’attuale atteggiamento nei confronti della diffusione della «peste del secolo», come non a caso è stato chiamato I’aids.29

Ma che cosa è la peste nella profezia di Mary Shelley, e in che cosa si differenzia da quella descritta dagli artisti a lei contemporanei? Non è una punizione divina (il piano trascendente risulta alieno alla visione shelleyana), né un’accidentale calamità naturale, ma una presenza reale, alla quale viene attribuito, oltre a un appellativo che sembra un nome proprio e un genere sessuale – quello femminile – anche una volontà agente; persino quando l’epidemia si arresta nelle valli delle Alpi, persino allora la peste appare come una regina delle nevi che «abdicò al suo trono, si spogliò del suo scettro imperiale tra le rocce di ghiaccio […]. Lasciò il silenzio e la solitudine eredi paritari del suo regno» (p. 422). La sua funzione nel testo risulta centrale perché agisce da elemento catalizzatore dei vari temi affrontati; diviene infatti lo strumento attraverso cui l’autrice nega le presunte verità assolute proclamate dalla scienza e dalla cultura, definendo i limiti di ogni pretesa di ordine e razionalità (come aveva già fatto in Frankenstein), e attraverso cui rovescia le concezioni utopiche del suo tempo, dimostrando l’infondatezza delle grandi illusioni espresse così chiaramente nel pensiero di Godwin e dello stesso Shelley, gli uomini che, per esserne rispettivamente il padre e il marito, furono i più vicini alla scrittrice e con i quali si poneva per lei un inevitabile e sofferto confronto.30

Nel suo romanzo, che di recente è stato definito «un tributo ironico a Shelley, un monumento colossale all’idealismo frustrato»,31 il personaggio di Adrian è il portavoce di molte delle idee utopiche sul progresso dell’umanità che Godwin aveva espresso in Politicai Justice (1793) e che Shelley aveva riproposto nel suo Pro- metheus Unbound (1820), in particolare la fiducia che lo sviluppo delle facoltà della mente avrebbe portato la felicità al genere umano sconfiggendo la malattia e persino la morte. Gli eventi del romanzo mostrano quanto queste teorizzazioni siano astratte e negate dalla realtà: la peste sancirà la sconfìtta dell’idealismo sognante di Adrian, e il suo paradiso si rivela un inferno in cui si scatenano solo egoismi e rivalità.

Proprio la sorte dell’uomo di scienza, Merrival, testimonia nel testo la falsità delle teorie sulla perfettibilità dell’uomo: Merrival, le cui teorie sembrano un compendio ironico delle concezioni di Godwin e di Shelley, all’arrivo del contagio si preoccupa esclusiva- mente dei suoi studi sui fenomeni astrali che potranno portare benefici all’umanità solo tra migliaia di anni, e diviene il caricaturale portavoce di una cultura che non vede il presente che sta sotto i suoi occhi per inseguire lontanissime chimere. Solo dopo che la sua intera famiglia, da lui sempre trascurata, è stata annientata, lo studioso diviene cosciente della realtà e impazzisce.

Quando la critica dell’autrice si rivolge alle concezioni più squisitamente politiche del suo tempo, si fa ancora più puntuale. Attraverso il personaggio di Ryland, il capo del partito del popolo, il testo mette in dubbio la convinzione condivisa da Godwin e da Shelley secondo cui l’umanità avrebbe raggiunto la perfezione sotto un governo democratico.32 L’arrivo della peste mostra tutti i lati deboli dell’utopia democratica, la quale, se aveva funzionato quando una florida situazione economica aveva distribuito equamente le ricchezze, fallisce quando deve distribuire il peso del disastro. La peste diventa qui lo strumento che ironicamente completa quel processo di livellamento sociale auspicato dall’ideologia democratica, ma solo perché tutti devono soffrire e morire nello stesso modo. Quando Ryland deve confrontarsi con questa realtà mostra tutta la sua inadeguatezza e l’autrice impietosamente ritrae la caduta di un’ideologia attraverso la progressiva demistificazione del suo portavoce, che per paura ed egoismo fugge dalle sue responsabilità nel tentativo di mettersi in salvo. La repubblica vagheggiata dai grandi romantici è diventata qui una concezione astratta deludente e mistificante.

Ma la particolarità di un testo come L’ultimo uomo è che la critica dell’autrice si estende ad altre teorizzazioni politiche, arrivando a dimostrare come ogni ideologia elaborata dagli uomini non sia altro che finzione e mistificazione.33 Questo vale per esempio per l’ideologia conservatrice, anche se apparentemente l’autrice sembra condividere l’idea della superiorità morale e fisica dell’aristocrazia sostenuta dal filosofo Burke nel suo Reflections on the Revolution in France (1790). Raymond e Lionel Verney si fanno portavoce delle teorie burkiane della superiorità di una monarchia costituzionale, e lo stesso Adrian, nonostante i suoi ideali repubblicani, nella perfezione della sua persona incarna l’idea della superiorità della classe aristocratica.

Ma il testo riprende il concetto burkiano di società come organismo vivente34 solo per smascherare la falsità delle teorie del filosofo, dimostrando come non sia vero che la società è in costante e graduale progresso; proprio come qualsiasi organismo vivente può accadere, al contrario, che si ammali e muoia. E tuttavia nel personaggio del falso profeta che si legge una feroce e ancor più globale parodia di ogni leader politico. Questo profeta autoproclamatosi tale è un fanatico religioso che riesce a conquistarsi la fiducia di una parte dei sopravvissuti, che significativamente assumono il nome di «Eletti». I suoi discepoli sono vittima di un’utopia, perché sono convinti che obbedendo ciecamente al loro capo riusciranno a salvarsi. Il profeta viene visto dall’autrice come un tiranno politico spinto dall’ambizione a commettere ogni crimine pur di conquistarsi un posto nella storia dell’umanità e le offre lo spunto per esporre un convincimento di carattere più generale su quanto è sempre avvenuto, e cioè che «il filantropo, che arde dal desiderio di fare il bene, paziente, ragionevole, gentile com’è, rifiuta tutte le altre argomentazioni se non quelle della verità; tuttavia, egli ha meno influenza sugli animi degli uomini di colui che, avido ed egoista, non disdegna di ricorrere a ogni mezzo, risvegliare ogni passione, né diffondere ogni menzogna pur di perorare il progresso della sua causa» (pp. 482-483).

Attraverso la creazione di personaggi maschili come Raymond e Adrian, la scrittrice va oltre le singole teorizzazioni politiche e muove una critica all’idea stessa di perfetto leader. Tutti e due questi grandi uomini – e il testo mostra che sono grandi davvero se giudicati con il metro dell’ideologia romantica – sono mossi dall’egocentrismo di chi insegue alti ideali a spese dei rapporti umani e con grandi sofferenze di chi vive al loro fianco.35

Il mito dell’eroico comandante viene infranto una prima volta con la storia di Raymond, il cui equilibrio interiore regge solo finché il soggetto rimane all’interno di un sistema che esclude, o rimuove, le emozioni e i sentimenti; quando in lui si accende una passione che egli non sa controllare, e tradisce la moglie, è lo stesso Raymond a non accettare di non essere più il perfetto e integro comandante di un paese che egli crede perfetto, e abbandona tutto per inseguire sogni di gloria militare in una guerra idealizzata al fianco dei Greci a Costantinopoli, sentendosi più al sicuro, come dice il testo, in una guerra vera (dove peraltro perderà la vita) che in una situazione che può provocare un conflitto interiore. Le sofferenze della moglie Perdita e della figlia non arrivano a toccare questo sistema chiuso e, come ben vede Perdita, totalmente permeato di egoismo maschile.

Più sottile la critica che viene rivolta al personaggio di Adrian, che nel romanzo appare come l’incarnazione della perfezione anche morale. Ma proprio la sua ricerca di perfezione assoluta fa sì che egli si sottragga agli impegni e alle responsabilità che la realtà intorno a lui richiede. Rifiuta di prendere il comando quando il paese avrebbe bisogno della sua guida illuminata e lo fa quindi precipitare nel caos per il timore di cedere a una criticabile tentazione di potere, e infine, chiuso nella sua algida ricerca di perfezione, in toccato dalla passione, lascia cadere l’ultima possibilità che la specie umana ha di perpetuarsi attraverso la sua unione con l’ultima donna sopravvissuta, e accelera anzi l’estinzione dell’umanità insistendo perché si compia un inutile viaggio verso la mitica Grecia che risulterà fatale per il futuro del mondo, perché vi moriranno sia lui che l’ultima donna.

È evidente che altri sono i valori in cui crede Mary Shelley. L’ultimo uomo, mettendo in scena «la fine dell’affermazione eroica del l’individuo», per usare le parole di Giovanna Franci,36 ci dice chiaramente che le decisioni che riguardano la vita di relazione devono tener conto prima di tutto degli affetti, a partire dagli affetti familiari, e dalla volontà di proteggere il benessere di ciascun membro della grande famiglia che è l’umanità. Diviene così portavoce di quella «ethic of care» (di cui Carol Gilligan avrebbe parlato un secolo e mezzo dopo)37 che si contrappone alla violenza, al sopruso e alla guerra, a qualunque guerra, si spinge a dire Mary Shelley, anche a quella ritenuta allora più giusta, la lotta di un popolo per l’indipendenza, visto che nel suo romanzo proprio una guerra di liberazione è il veicolo che porta alla diffusione del contagio in Occidente e dunque alla distruzione del genere umano. E il messaggio inquietante e autenticamente sovversivo contenuto nel testo era stato colto da alcuni contemporanei, che accusarono la scrittrice di aver tradito la memoria e gli ideali per cui si erano battuti molti intellettuali romantici, tra cui anche gli uomini a lei più vicini; a questi Mary Shelley rispose con parole disarmanti nella loro semplicità, sottraendosi a un dibattito teorico tutto interno all’ideologia politica del suo tempo: «Non sono una persona che formula opinioni».38

L’ultimo uomo dimostra che solo malattia e morte derivano dal- l’inseguire i grandi ideali su cui si fondava la società borghese di primo Ottocento, e non solo per un femminile che già molti testi avevano mostrato, e tanti ancora mostreranno, perdente e relegato agli spazi claustrofobici del privato, ma, e qui sta la novità del messaggio racchiuso in questo romanzo, per l’intero genere umano, anche per un maschile che Mary Shelley vede potente e vittorioso solo in apparenza e che sta preparando la propria autodistruzione. I limiti dell’ideologia dell’eroismo vengono dunque qui visti non solo secondo l’ottica di chi quell’ideologia subisce, ma in una prospettiva di critica globale a un sistema che si è basato sull’ordine e la razionalità e che ha ignorato la parte emozionale della natura umana. Come già in Frankenstein, sentimenti e desideri repressi nel tentativo di uniformarsi alle regole del vivere sociale, si materializzano ed erompono in tutta la loro carica distruttiva rivendicando un ruolo attivo nel mondo che li ha a lungo negati.39

«Mi sentivo come se dall’ordine sistematico del mondo fossi sprofondato nel caos, oscuro, contradditorio, inintelleggibile» (p. 54), dice l’ultimo uomo, e pare che nelle sue parole non riecheggi il lutto per la perdita di quel sistema, ma se ne registri semplice- mente la caduta finale. La fine dell’umanità che viene raccontata nel testo corrisponde al commiato finale da un sistema di valori logocentrico e razionale, e dietro la profezia di Mary Shelley si può veder affiorare in trasparenza una serie di valori nuovi e destabilizzanti che hanno a che fare con la realizzazione della parte nascosta e rimossa di sé che solo dopo la distruzione del vecchio sistema potrà affermarsi.

Il romanzo lascia dunque all’umanità una possibile via d’uscita e contiene, più che una condanna, un monito e un invito. Lo mostra chiaramente un finale che possiamo considerare aperto, non solo perché l’immagine conclusiva raffigura l’ultimo uomo che intraprende un viaggio sulla sua barca in un universo dove, a differenza di quello byroniano, brilla ancora il sole, sorge la luna e si può cogliere «un augurio nell’arcobaleno», ma perché, come il lettore sa dall’introduzione che l’autrice ha premesso, la storia narrata è solo una profezia decifrata dai frammenti sparsi nell’antro della Sibilla, e ancora nessuno, né uomo né donna, è morto per il contagio di peste, non ancora.

LE FOGLIE DELLA SIBILLA

La storia dell’ultimo uomo non è che una visione, una finestra che si è aperta sul futuro, come ci dicono i riferimenti a una cronologia che, nel corso della narrazione, ordinatamente si dipana dall’anno 2073 al 2100, e come aveva anticipato l’anonima voce narrante delle pagine introduttive. A queste pagine dovrà ritornare chi legge dopo aver seguito fino alla fine la sorte dei personaggi che uno alla volta cadono vittime del contagio, per ricollocare la storia nella prospettiva voluta dall’autrice. E certo il paradosso per cui la voce dell’ultimo sopravvissuto è ascoltata non dai contemporanei, e neanche dai posteri, ma da chi lo ha preceduto, non è solo un artificio retorico atto a stemperare il coinvolgimento emotivo indotto da una narrazione in prima persona dai toni lirici e fortemente partecipati, e a imporre il distacco dovuto ai fatti che si sanno non ancora avvenuti,40 ma fa parte del senso stesso dell’opera, che, come si è detto, assume la valenza di un avvertimento rivolto all’umanità perché ripensi il suo stare nella storia e nel mondo.

L’anonima voce narrativa dell’introduzione, di cui con grande cura il testo non lascia trapelare il genere, racconta di un’escursione fatta insieme a un non meglio definito «compagno» nella grotta della Sibilla Cumana nel dicembre 1818; il pavimento è cosparso di foglie secche e di altri frammenti su cui vi sono iscrizioni che questo compagno identifica con le profezie sibilline. Più volte i due torneranno nel luogo oscuro e sacro per raccogliere e decifrare i frammenti scritti in varie lingue antiche e moderne, e dopo la morte dell’«ineguagliabile compagno», chi scrive afferma di aver continuato il lavoro fino a ricostruire l’intera storia dell’ultimo uomo.

Molti sono gli indizi che portano a identificare la voce anonima con quella dell’autrice: proprio nell’anno 1818 Mary Shelley aveva visitato insieme al marito la mitica grotta di Cuma; anche lei aveva perduto un compagno di cui riconosceva la superiorità intellettuale, e anche lei cercava di alleviare con la scrittura le sofferenze della solitudine. Ma forse il riferimento più prezioso si trova nelle pagine del diario, dove si legge un’esortazione che la scrittrice rivolge a se stessa per ritrovare l’ispirazione che sembrava esaurita: «Prima di tutto, che io discenda senza paura nelle caverne più remote della mia mente, e porti la torcia dell’autoconoscenza nei suoi recessi più oscuri».41 Dunque, l’anonimo narratore, o meglio narratrice, è la stessa Shelley che andando alla ricerca della propria facoltà creativa si inoltra nelle profondità della coscienza. In questa metafora della creazione artistica,42 le foglie ritrovate nella grotta sono il materiale grezzo e privo di forma della visione dell’artista, il prodotto della sua parte oscura e sacra, che va rielaborato e plasmato in «una forma coerente», per usare le parole del testo. Ma perché l’ingresso nelle grotte della mente a cui la scrittrice si riferisce nel diario è diventato qui l’esplorazione dello spazio arcano e inquietante della Sibilla?

Suggestive alcune delle ipotesi avanzate, tra cui quella delle studiose americane Gilbert e Gubar che nell’immagine della visita alla grotta sibillina hanno visto la celebrazione della creatività femminile, la sacra grotta essendo il luogo dove il futuro viene concepito, un “grembo” legato indissolubilmente all’identità femminile;43 o l’interpretazione di Meena Alexander che vi legge la rappresentazione dell’incontro della donna artista non solo con la propria creatività ma con una tradizione femminile emblematicamente rappresentata dalla Sibilla, mitica generatrice di tutte le artiste.44 Qualunque sia la lettura che si voglia dare alla suggestiva immagine con cui si apre il romanzo, non c’è dubbio che il concetto di arte che la sorregge si differenzia da quello dei grandi lirici romantici che vedono nella imagination la facoltà primaria dell’artista.

Al contrario, l’immaginazione sembra essere per Mary Shelley il veicolo con cui il soggetto esce da se stesso, e si contrappone al movimento rivolto verso l’interno a cui per lei è legata la creatività. E infatti nella storia narrata l’immaginazione non offre alcuna consolazione né, al contrario di quello che aveva sostenuto Percy B. Shelley, porta a un miglioramento dell’individuo,45 ma proietta falsità e genera distruzione. Il personaggio di Idris soffre di un eccesso di capacità immaginativa e ha visioni di terrore e di devastazione che condurranno lei stessa alla morte; Lionel con l’immaginazione crede di vedere i suoi cari che in realtà sono morti e queste allucinazioni gli producono aspettative ogni volta dolorosamente deluse; Perdita, dotata di «viva fantasia» e «immaginazione creativa», rivive infinite volte la morte del marito fino ad arrivare al suicidio. Significative anche le parole pronunciate da Lionel: «Addio alle arti, addio alla poesia e alla profonda filosofia, perché l’immaginazione dell’uomo è fredda», (p. 319)

Insieme al vecchio ordine, anche una concezione di creatività e di arte sembra crollare. Le bellissime sculture classiche conservate nei Musei Vaticani che avevano affascinato Byron e Shelley, come i marmi del Partenone avevano affascinato Keats, sono le stesse a cui Lionel si rivolge per avere conforto, ma non alleviano la sua solitudine perché sono morte, originate da un ideale astratto di armonia. All’ideale classico di perfezione e di assoluto si contrappone una definizione di arte che parte dall’imperfetto e dal contingente; il materiale da cui viene ricavata la storia è detto dall’anonima narratrice «fragile», «sbiadito», «frammentario», e la capacità di colei che si accinge a decifrarlo è definita «imperfetta», tanto che nell’interpretazione le foglie possono aver subito «distorsioni» e aver perso «parte del loro interesse e dei loro pregi». L’idea dell’arte che la scrittrice propone non nasce dunque da costruzioni teoriche, ma comporta al contrario l’entrata nell’oscuro recesso dell’interiorità, dove il soggetto incontrerà l’esperienza preziosissima e sofferta del vissuto.

Quello che la scrittrice Mary Shelley incontra inoltrandosi nei recessi della propria interiorità ce lo racconta il testo di questo romanzo, e ha a che fare con la percezione dolorosa della solitudine e della perdita, con il costo dei ruoli e degli imperativi sociali, con l’apprezzamento del quotidiano contrapposto all’astrazione, con la valorizzazione degli affetti sentiti come un bene indispensabile alla continuazione della vita stessa. Su questa tesdmonianza dissidente e visionaria sarebbe sceso il silenzio imposto dalla cultura dell’Inghilterra ottocentesca e vittoriana che racconterà la caduta dei grandi ideali romantici da una prospettiva diversa, e tenterà di riproporre sulla pagina letteraria un modello di cultura coerente e razionale usando gli strumenti del realismo narrativo.

Così questo romanzo mitico e simbolico si troverà a far parte di una corrente sotterranea dell’esperienza letteraria ottocentesca – e tuttavia sua parte integrante al pari della grande tradizione realista – che riaffiorerà nelle pagine delle sorelle Brontè, di Elizabeth Gaskell, di Christina Rossetti e di tante altre scrittrici nella cui opera la sfida, più o meno consapevole, alle costruzioni della ragione viene affidata alle forme e alle strategie della narrazione fantastica.

 

ORNELLA DE ZORDO

 

 

Il materiale contenuto nelle sezioni «Profezia di un commiato» e «L’utopia rovesciata» è stato utilizzato per un intervento al convegno Soggetti immaginari. Letterature comparate al femminile, tenutosi a Firenze nel novembre 1995; gli atti sono stati pubblicati nel 1996 dall’editore Quattroventi di Urbino.