Queste sono le loro motivazioni, esse sono naturali,199
avevamo la sensazione che fossero presagi infausti, e temevamo gli eventi futuri a essi concatenati. Il gufo nottambulo che strideva al sole di mezzogiorno; il pipistrello che con le sue ali rigide volteggiava intorno al letto della bellezza; il borbottio del tuono che scuoteva l’aria sgombra di nubi all’inizio della primavera; il lampo improvviso, col suo carico di distruzione, che cadeva su alberi e arbusti: erano fenomeni naturali, anche se insoliti, e dunque meno orribili delle creazioni della mente, spaventosamente terrificanti. Alcuni vedevano cortei funebri, e volti disfatti dalle lacrime che volteggiavano per i lunghi viali dei giardini e nel cuore della notte scostavano le tendine dei dormienti. Altri sentivano risuonare nell’aria lamenti e urla, e una nenia lugubre si propagava per l’atmosfera cupa, come se degli spiriti lassù intonassero il requiem per il genere umano. Cosa significava tutto questo, se non che la paura creava degli altri sensi nel nostro corpo, e ci faceva vedere, sentire e provare quello che non esisteva? Che cos’era ciò, se non l’effetto dell’immaginazione malata e di una infantile credulità? E certo doveva essere così; ma erano realissimi l’esistenza di queste paure, gli sguardi fissi per l’orrore, i volti sbiancati fino al pallore e le voci ammutolite dal terrore straziante di quanti fra noi vedevano e sentivano queste cose. A costoro apparteneva Adrian, il quale era consapevole dell’illusione, eppure non poteva liberarsi da quel terrore avvinghiarne. Persino l’innocenza dell’infanzia, con urla spaventose e convulsioni, sembrava riconoscere la presenza di poteri invisibili. Dovevamo andare: nel cambiamento dello scenario, nelle occupazioni, nella tranquillità che ancora speravamo di trovare, avremmo scoperto una cura contro l’assembrarsi di questi orrori.
Nel chiamare a raccolta la nostra compagnia, ci rendemmo conto che era costituita da quattrocento anime tra uomini, donne e bambini. Fino a ora, dunque, il nostro numero non era diminuito, a parte la diserzione di quelli che si erano uniti al profeta-impostore ed erano rimasti a Parigi. Circa cinquanta francesi si unirono a noi. Stabilimmo senza difficoltà l’ordine di marcia; visto il cattivo esito che era seguito alla separazione precedente, Adrian decise di tenere tutti in un unico corpo. Io, accompagnato da un centinaio di uomini, sarei andato avanti in perlustrazione, prendendo la strada di Còte d’Or, attraverso Auxerre, Digione, Dole, e poi, attraverso il Giura, fino a Ginevra.200 Ogni dieci miglia dovevo stabilire un piano per sistemare quanti, fra i membri del nostro gruppo, potevano essere accolti nelle città o nei villaggi via via raggiunti; lasciavo poi indietro un messaggero con un ordine scritto, sul quale si specificava quelli che avrebbero dovuto acquartierarsi lì. Il resto della nostra gente venne diviso in gruppi di cinquanta persone, di cui diciotto erano uomini, e il resto donne e bambini. Ogni divisione era guidata da un ufficiale, che aveva la lista dei nominativi in base alla quale doveva ogni giorno radunarli. Se durante la notte i gruppi si dividevano, al mattino quelli più avanti aspettavano gli altri rimasti indietro. In ognuna delle grandi città sopra menzionate ci saremmo dovuti riunire tutti, e gli ufficiali più importanti avrebbero tenuto un consiglio per il bene pubblico. Come ho detto, io dovevo andare avanti per primo, Adrian per ultimo. Anche sua madre, che aveva Clara ed Evelyn sotto la sua protezione, rimase con lui. Stabilito così il nostro ordine di marcia, partii. Il mio piano in un primo momento era di non superare Fontainebleau dove, nel giro di pochi giorni, sarei stato raggiunto da Adrian; da lì, avrei poi ripreso l’esodo che ci avrebbe condotto ancora più avanti, verso est.
Il mio amico mi accompagnò per alcune miglia fuori Versailles. Era triste e, con un tono insolitamente abbattuto, mormorò una preghiera affinché potessimo raggiungere presto le Alpi, e l’accompagnò con un’espressione di vano rammarico per il fatto che non fossimo già là. «Ma in questo caso», osservai, «possiamo affrettare la marcia; perché aderire a un piano di cui disapprovi fin d’ora la lentezza?»
«Mah!», rispose. «E comunque è troppo tardi ormai. Un mese soltanto… e saremmo stati padroni del nostro destino, ma ora…». Si girò dall’altra parte e anche se l’addensarsi del crepuscolo aveva già gettato un’ombra sul suo volto, si voltò ancora di più, aggiungendo: «Un uomo è morto di peste la notte scorsa!».
Parlò con voce soffocata, poi, serrando all’improvviso le mani l’una contro l’altra in modo convulso, esclamò: «La nostra ultima ora avanza veloce, velocissima: come le stelle scompaiono davanti al sole, così il suo avvicinarsi sempre più rapido ci distruggerà. Ho fatto del mio meglio; con le mie mani tenaci e con le mie esigue forze ho afferrato saldamente la ruota del carro della peste, ma essa mi trascina con sé; come Jagannath,201 procede distruggendo l’esistenza di tutti coloro che ricoprono la strada maestra della vita. Vorrei che fosse tutto finito… vorrei che, raggiunta la sua processione, noi tutti, insieme, fossimo entrati nella tomba».
Le lacrime gli scendevano abbondanti dagli occhi. «Questa tragedia», proseguì, «verrà recitata ancora mille volte; ancora dovrò sentire i gemiti dei moribondi e i lamenti dei superstiti; ancora dovrò essere testimone dei tormenti che, a coronamento di tutto, avvolgono un’eternità nella loro esistenza evanescente. Perché sono destinato a questo? Perché, montone castrato del gregge,202 già contaminato, non vengo abbattuto tra i primi? È duro, molto duro, per chi è nato da un grembo di donna sopportare quello che io sopporto!».
Fino a questo momento Adrian aveva assolto i compiti che egli stesso si era imposto, con animo intrepido e con un senso del dovere e della dignità elevatissimi. E io lo avevo contemplato pieno di venerazione, e con uno sterile desiderio di poterlo imitare. Gli rivolsi ora alcune parole di incoraggiamento e di profonda comprensione. Egli si nascose il volto tra le mani cercando di calmarsi, poi esclamò all’improvviso: «Solo per qualche mese, ancora per qualche mese, o Dio, non lasciare che mi manchi il cuore, o che il coraggio mi abbandoni; non lasciare che la vista delle sofferenze intollerabili che ci aspettano porti alla follia il mio cervello quasi impazzito, o induca questo fragile cuore a battere contro le pareti della sua prigione, fino a farlo scoppiare. Ho ritenuto che fosse mio destino quello di guidare gli ultimi appartenenti alla razza dell’uomo, fino a che la morte non estinguesse il mio comando, e a questo destino mi sottometto.
Perdonami, Verney, ti sto addolorando, lo so, ma non mi lamenterò più. Sento di essere di nuovo me stesso, o meglio, ancora più forte di prima. Tu sai come, fin dall’infanzia, pensieri ambiziosi e desideri elevati abbiano lottato in me contro un male nato con me e una sensibilità eccessiva, fino a che questi ultimi divennero vincitori. Tu sai come io abbia posto questa mano debole e gracile sul timone abbandonato del governo degli uomini. Sono stato colto, di tanto in tanto, da momenti di incertezza, e tuttavia, fino a ora, avevo la sensazione che uno spirito superiore e infaticabile avesse stabilito la sua dimora dentro di me, o piuttosto fosse divenuto un tutt’uno col mio debolissimo essere. Questo santo visitatore per un po’ ha dormito, forse per dimostrarmi quanto io sia impotente senza la sua ispirazione. Resta ancora un po’, o Potere della bontà e della forza; non sdegnare, non ancora, questo tempio straziato fatto di carne mortale, o Facoltà immortale! Fino a che resterà una sola creatura cui possa essere offerto aiuto, rimani al mio fianco e sostieni questo meccanismo distrutto che va oramai in pezzi!».
La sua veemenza, e la voce rotta da singhiozzi che non riusciva a reprimere mi trafissero il cuore; i suoi occhi brillavano nell’oscurità della notte come due stelle della terra, e la sua figura sembrò dilatarsi, il suo volto irraggiare luminoso, quasi che, davvero, davanti al suo appello eloquente uno spirito più che mortale fosse penetrato nel suo corpo, sollevandolo al di sopra dell’umanità.
Si voltò rapido verso di me e mi tese la mano. «Addio, Verney», esclamò, «fratello del mio amore, addio; non un’altra espressione di debolezza deve uscire da queste labbra, sono di nuovo vivo: ai nostri compiti, alle nostre battaglie contro l’indomabile nemica, perché lotterò contro di lei fino alla fine».
Mi afferrò la mano, e mi rivolse uno sguardo più caloroso e acceso di qualunque sorriso; poi, facendo girare il cavallo, toccò l’animale con gli speroni, e in un momento lo persi di vista.
La notte precedente un uomo era morto di peste. La faretra non era vuota, né l’arco senza corda. Eravamo come bersagli, mentre la Pestilenza dei Parti203 mirava e colpiva, mai saziata dalle sue conquiste, mai ostacolata dalle pile dei cadaveri. Un senso di disgusto dell’anima, contagioso persino per il mio meccanismo mortale, s’impossessò di me. Mi tremavano le ginocchia, mi battevano i denti, il flusso del sangue, raggelato da un freddo improvviso, cercava dolorosamente di aprirsi un varco nel mio cuore desolato. Non avevo paura per me stesso, ma dava sofferenza pensare che non potevamo salvare neppure le poche persone rimaste; che coloro che amavo avrebbero potuto essere, nel giro di alcuni giorni, fredde come il marmo al pari della mia Idris nella sua tomba antica, e che né la forza del corpo né l’energia dell’animo avrebbero potuto respingere il colpo. Un senso di avvilimento s’impossessò di me. Dunque Dio creò l’uomo solo perché diventasse, alla fine, terra morta in mezzo alla natura robusta e rigogliosa? E per il suo Creatore, egli non contava più di un campo di grano appassito nelle sue spighe? E tutti i nostri sogni orgogliosi erano destinati a svanire così? Il nostro nome era stato scritto «un po’ più in basso di quello degli angeli»204 e, guardate, non eravamo più di un’effimera. Ci eravamo definiti «il paragone degli animali», ed ecco!, eravamo la «quintessenza della polvere».205 Ci lagnavamo che le piramidi erano sopravvissute al corpo imbalsamato di chi le aveva innalzate. Ahimè!, anche la capanna di paglia del semplice pastore che incontravamo lungo la strada conteneva nella sua struttura il principio di una longevità ben maggiore di quella di tutta la razza umana. Come fare a riconciliare questo triste cambiamento con le nostre aspirazioni passate, con i nostri poteri apparenti!
All’improvviso una voce interiore, chiara e distinta, sembrò dire: così fu decretato dall’eternità, i destrieri che fanno avanzare il Tempo avevano incatenato a loro quest’ora e l’adempimento di questo compito fin dal momento in cui il vuoto generò il suo fardello. Vorreste voi dunque rivedere le leggi immutabili della Necessità?206
Madre del mondo! Serva dell’Onnipotente! Eterna, immutabile Necessità, che con mani affaccendate siedi intrecciando eternamente la catena indissolubile degli eventi! Non protesterò per le tue decisioni. Se la mia mente di uomo non è in grado di riconoscere che tutto quello che è, è giusto, e tuttavia quello che è, deve essere, sederò tra le rovine e sorriderò. Non fummo generati, in verità, per la gioia, ma per essere sottomessi, e sperare.
Non si stancherebbe il lettore se descrivessi minutamente il nostro lungo e lento viaggio da Parigi a Ginevra? E se registrassi, giorno per giorno, sotto forma di diario, le sventure che si addensavano sulla nostra compagnia, sarebbe la mia mano in grado di scrivere, o il linguaggio di fornirmi le parole per esprimere la varietà del nostro dolore, lo spingersi e l’accalcarsi l’uno sull’altro di eventi lacrimevoli? Porta pazienza, lettore! Chiunque tu sia, dovunque tu abiti, che tu sia di stirpe spirituale o generato da una coppia sopravvissuta, la tua natura sarà umana, la tua dimora la terra; qui leggerai le gesta della stirpe estinta, e ti chiederai con stupore se coloro che sopportarono quello che trovi trascritto, erano come te di fragile carne con organismo delicato. Sì, proprio così… Piangi, dunque; perché sicuramente, essere solitario, avrai un animo gentile; versa lacrime compassionevoli, ma intanto presta attenzione al racconto in cui apprenderai le imprese e le sofferenze di chi ti ha preceduto.
Gli ultimi eventi che segnarono la nostra marcia attraverso la Francia furono talmente carichi di strani orrori e di cupe disgrazie che non oso soffermarmi troppo a lungo nella loro narrazione. Se dovessi sezionare ciascun evento, ogni piccolo frammento di un secondo conterrebbe un racconto straziante, e la parola più insignificante gelerebbe il sangue delle tue giovani vene. È giusto che io eriga, a tuo ammaestramento, questo monumento della razza antecedente, ma non che ti trascini per le corsie di un ospedale, né per le stanze segrete dell’ossario. Questa parte del racconto, perciò, procederà rapidamente. Immagini di distruzione, quadri di disperazione, la processione del trionfo finale della morte ti sfileranno davanti, veloci come i nembi sospinti dal vento settentrionale attraverso lo splendore maculato del cielo.
Campi ricoperti di erbacce, città desolate, cavalli senza cavaliere che ci si avvicinavano selvaggi erano ormai diventati abituali ai miei occhi; anzi, visioni molto peggiori, di morti che non erano stati seppelliti, e di corpi umani sparpagliati ai bordi delle strade, e sui gradini di case un tempo abitate, dove
Attraverso la carne che si deteriora Sotto il sole ardente, le ossa biancheggianti Balzano fuori, e si consumano nella polvere fosca.207
Visioni come queste erano diventate così familiari che avevamo smesso di tremare, di spronare i cavalli per farli accelerare di colpo mentre passavamo davanti. La Francia, nei suoi giorni migliori, per lo meno quella parte della Francia che stavamo attraversando, era stata un deserto coltivato, e la mancanza di recinzioni, di villette, e persino di contadini, metteva tristezza a un viaggiatore proveniente dall’Italia soleggiata o dalla laboriosa Inghilterra. Tuttavia le città erano numerose e vivaci, e la cordialità, l’educazione e il pronto sorriso dei contadini con le loro scarpe di legno ridavano il buon umore al malinconico. Ma ora le vecchine non sedevano più davanti alle porte con le loro conocchie; il mendicante macilento non chiedeva più la carità con le sue frasi quasi da cortigiano, e nei giorni di festa i contadini non intrecciavano con la loro lenta grazia i ghirigori della danza. Il silenzio, sposo malinconico della morte,208 andava con lei in processione di città in città attraverso la regione spaziosa.
Arrivammo a Fontainebleau e, rapidamente, disponemmo tutto quanto era necessario per accogliere i nostri amici. Nel chiamare a raccolta il nostro gruppo per la notte, ci si accorse che mancavano tre persone. Quando chiesi di loro, l’uomo cui parlai mormorò la parola «peste», e cadde ai miei piedi in preda a convulsioni: anch’egli era contagiato. C’erano facce dure intorno a me, perché tra gli uomini della mia truppa c’erano marinai che avevano attraversato il confine innumerevoli volte; soldati che avevano sofferto la fame e il freddo e corso mille pericoli, in Russia e nella lontana America; uomini dai lineamenti ancora più arcigni, un tempo predoni notturni nella nostra metropoli, diventata presto troppo grande; uomini allevati fin dalla culla a ritenere che l’intera macchina della società tendesse alla loro distruzione. Mi guardai intorno, e vidi sul volto di ciascuno di loro, scritto a caratteri accecanti, l’orrore e la disperazione.
Passammo quattro giorni a Fontainebleau. Diversi si ammalarono e morirono, e nel frattempo non comparve né Adrian né qualcun altro dei nostri amici. Il mio gruppo era in agitazione; raggiungere la Svizzera per gettarsi nei fiumi di neve, abitare in caverne di ghiaccio divenne il folle desiderio di tutti. Tuttavia avevamo promesso di aspettare il conte, ed egli non arrivava. La mia gente voleva essere condotta oltre… La ribellione, se così si può chiamare quello che era solo il liberarsi di ceppi fatti di paglia, comparve in maniera manifesta tra di loro. Se ne sarebbero andati via, immediatamente, senza un capo. L’unica possibilità di salvezza, l’unica speranza di evitare sofferenze indescrivibili, era quella di restare insieme. Questo dissi loro, mentre i più determinati replicavano con astio che erano in grado di prendersi cura di loro stessi, e rispondevano alle mie suppliche con scherni e minacce.
Finalmente, il quinto giorno, arrivò un messaggero da parte di Adrian; portava delle lettere con le quali ci dava ordine di proseguire fino ad Auxerre e di attendere là il suo arrivo, che sarebbe stato differito solo di alcuni giorni. Questo era il tenore delle direttive pubbliche. Le lettere indirizzate a me, privatamente, narravano in modo dettagliato le difficoltà della sua situazione, e lasciavano alla mia discrezione l’approntamento dei piani futuri.
Il suo racconto dello stato delle cose a Versailles era breve, ma le informazioni che mi dette a voce il messaggero colmarono le omissioni, e mi fecero capire che gli si stavano addensando intorno pericoli della natura più terrificante. All’inizio la recrudescenza della peste era stata tenuta nascosta, ma poiché il numero dei morti aumentava, il segreto si divulgò, e lo sterminio già operato dalla malattia venne amplificato dalle paure dei sopravvissuti. Alcuni emissari del nemico dell’umanità, gli esecrandi impostori, si trovavano nelle loro file pronti a inculcare la loro dottrina, in virtù della quale la salvezza e la vita potevano essere assicurati solo dalla sottomissione al loro capo. Riuscirono così bene nel loro intento che presto, invece di voler procedere verso la Svizzera, la maggior parte della folla, donne dall’animo debole, e uomini codardi, desiderava tornare a Parigi per schierarsi sotto le bandiere del cosiddetto profeta e adorare vigliaccamente il principe del male, sperando così di ottenere un rinvio della morte incombente. La discordia e lo scompiglio provocato da queste paure e passioni contrastanti trattennero Adrian. Ci volle tutto l’ardore di cui era capace quando perseguiva uno scopo, tutta la sua pazienza nelle difficoltà, per placare gli animi e incoraggiare, tra i suoi seguaci, coloro che potessero controbilanciare il panico degli altri e ricondurli ai soli mezzi che potevano garantire la salvezza. Aveva sperato di potermi seguire subito, ma, essendo stato sconfitto in questo suo proposito, aveva mandato il messaggero per spingermi a mettere al sicuro le mie truppe, a una distanza tale da Versailles da impedire al contagio della ribellione di raggiungerli; prometteva anche di raggiungermi non appena si fosse presentata l’occasione favorevole per sottrarre il corpo principale degli emigranti dell’influenza malvagia che, al momento, veniva esercitata su di loro.
Queste comunicazioni mi fecero piombare in un penosissimo stato di indecisione. Il mio primo impulso fu quello di tornare con tutto il mio gruppo a Versailles, per aiutare il nostro capo a districarsi dai pericoli. Riunii dunque la mia truppa, e proposi di tornare indietro anziché proseguire verso Auxerre. Tutti, all’unanimità, rifiutarono di obbedire. La notizia che circolava tra di loro era che soltanto le devastazioni della peste trattenevano il Protettore; essi contrapposero il suo ordine alla mia richiesta e giunsero alla risoluzione di proseguire senza di me, se mi fossi rifiutato di accompagnarli. Non c’erano argomentazioni o promesse solenni che potessero convincere questi codardi. La continua diminuzione del loro numero a causa della pestilenza aggiungeva un pungolo alla loro avversione nei confronti di qualsiasi rinvio, e la mia opposizione serviva solo a portare la loro risoluzione a un punto di crisi. Quella sera stessa partirono per Auxerre. Erano stati loro richiesti dei giuramenti, come quelli dei soldati al generale, ed essi li ruppero. Anch’io mi ero impegnato a non abbandonarli, e mi sembrava crudele ritirare la mia parola a motivo della loro infrazione. Lo stesso spirito che li induceva a ribellarsi contro di me, li avrebbe spinti ad abbandonare chiunque altro, e le conseguenze del loro viaggio, considerato lo schieramento attuale, privo di qualsiasi ordine o di un comandante, sarebbero state le sofferenze più spaventose. Questi sentimenti per un po’ mi sovrastarono e, obbedendo al loro impulso, accompagnai chi restava ad Auxerre.
Arrivammo quella notte stessa a Villeneuve-la-Guiard, una città che distava quattro poste da Fointainebleau. Dopo che i miei compagni si furono ritirati per riposare, ed ero rimasto solo a rimuginare e a meditare sulle notizie che avevo ricevuto riguardo ad Adrian, la situazione mi si presentò sotto un altro punto di vista. Cosa stavo facendo, e quale era lo scopo dei miei spostamenti attuali? Apparentemente dovevo guidare questo gruppo di uomini egoisti e senza legge verso la Svizzera, e lasciare indietro la mia famiglia e il mio nobile amico che, esposti ora dopo ora alla minaccia della morte, avrei anche potuto non rivedere mai più. Il mio primo dovere non era forse quello di assistere il Protettore, dando un esempio di attaccamento e di devozione? In un momento di crisi, come quello che stavo vivendo, è molto difficile bilanciare interessi che si contrappongono perfettamente, e quello verso cui la nostra inclinazione ci guiderebbe assume l’aspetto dell’egoismo, anche quando stiamo meditando un sacrificio. In circostanze simili siamo facilmente indotti a raggiungere un compromesso, e questa fu la mia soluzione. Decisi di andare quella notte stessa a Versailles; se avessi ritenuto la questione meno disperata di quanto mi appariva al momento, avrei raggiunto senza indugi la mia truppa; avevo una vaga idea che il mio arrivo in quella città avrebbe provocato un’impressione più o meno forte, dalla quale avremmo potuto trarre profitto, per far procedere la moltitudine indecisa… e comunque non c’era da perdere tempo. Andai nelle stalle, sellai il mio cavallo favorito e, balzato in sella, senza concedermi il tempo per riflessioni o esitazioni ulteriori, abbandonai Villeneuve-la-Guiard per tornare a Versailles.
Ero contento di fuggire dalla mia truppa ribelle, e di perdere di vista per un po’ di tempo la lotta tra il male e il bene, in cui il primo risultava sempre trionfante. L’incertezza sul destino di Adrian mi faceva quasi impazzire, ed ero sempre più indifferente nei confronti di qualsiasi evento che non fosse quello che avrebbe potuto portare alla rovina o alla salvezza del mio ineguagliabile amico. Col cuore oppresso, che cercava sollievo nella rapidità della corsa, cavalcai nella notte verso Versailles. Spronai il cavallo che affidava le sue membra libere alla massima velocità, e scuoteva con orgoglio il suo muso elegante. Lanciato nella corsa, le costellazioni mi turbinavano vorticosamente davanti, e alberi, sassi e pietre miliari mi fuggivano rapide di lato. Scoprii il capo al vento che sfrecciava inondandomi la fronte di una freschezza deliziosa. Via via che mi allontanavo da Villeneuve-la-Guiard, dimenticavo il triste dramma dell’infelicità umana; mi sembrava che vivere, sensibile alla bellezza della terra rivestita di verde, al cielo ornato dal luccichio delle stelle, e al vento indomito che vivificava il tutto fosse già una grande felicità. Il mio cavallo cominciò a essere stanco… Ma io, incurante della sua fatica, quando già si trascinava, gli facevo animo con la voce e l’incalzavo con gli speroni. Era un animale valoroso, e non volevo scambiarlo con una bestia qualsiasi incontrata per caso, per poi abbandonarlo e non ritrovarlo mai più. Proseguimmo per tutta la notte; al mattino anche l’animale si rese conto che ci stavamo avvicinando a Versailles, e per raggiungere la sua antica casa raccolse tutte le sue forze residue. La distanza che avevamo coperto non era inferiore a cinquanta miglia, e tuttavia si gettò per i boulevards rapido come una freccia; povero animale, quando smontai davanti al cancello del castello, sprofondò sulle ginocchia, gli occhi velati da una pellicola; cadde su un fianco, alcuni respiri affannosi gli dilatarono il nobile petto, e morì. Lo vidi spirare con un’angoscia inesplicabile persino a me stesso: lo strappo fu come la distorsione di un arto per una tortura straziante, ma fu tanto intollerabile quanto breve. Mentre mi lanciavo rapido per il portale aperto e su per le scale maestose di questo glorioso castello mi ero già dimenticato di lui… Sentii la voce di Adrian… Oh sciocco! Oh donna, essere effeminato e disprezzabile, che ci dai nutrimento… Sentii la sua voce, e risposi con delle grida convulse; mi precipitai nella Sàlle d’Hercule, dov’egli si trovava circondato da una folla; gli occhi di tutti, voltisi con stupore verso di me, mi ricordarono che sul palcoscenico del mondo un uomo deve reprimere simili impeti da donnicciola. Avrei dato non so cosa per abbracciarlo, ma non osai. In parte per lo sfinimento, in parte volontariamente, mi gettai disteso per terra… Avrò l’ardire di rivelarti la verità, o tenero frutto della solitudine? Lo feci, perché potessi baciare la terra sacra e preziosa ch’egli calpestava.
Trovai ogni cosa in uno stato di tumulto. Un emissario del capo degli eletti era stato talmente istigato dal suo capo, e dal suo credo fanatico, da attentare alla vita del Protettore e salvatore dell’umanità smarrita. La sua mano era stata fermata mentre era sul punto di pugnalare il conte; l’evento aveva provocato il clamore che avevo sentito al mio arrivo al castello, e quell’assemblea confusa di persone nella Sàlle d’Hercule. Anche se la superstizione e il furore demoniaco si erano insinuati furtivamente tra gli emigranti, tuttavia diversi tra loro erano rimasti fedeli al loro nobile capitano, e molti, la cui fede e il cui amore non erano stati sconvolti dalla paura, in seguito a questo abominevole tentativo sentirono riaccendersi tutto l’affetto nascosto che avevano racchiuso in petto. Una falange di petti leali gli si chiusero intorno; lo sventurato, anche se era ormai un prigioniero e per di più in ceppi, si gloriava del suo disegno reclamando come un folle la corona del martirio, e sarebbe stato fatto a pezzi se la vittima da costui prescelta non si fosse interposta. Adrian, balzando in avanti, gli fece scudo con la sua stessa persona, e con grande vigore ordinò obbedienza ai suoi amici furibondi: in quel momento, ero entrato io.
Alla fine si riuscì a ristabilire l’ordine e la quiete nel castello; allora Adrian andò di casa in casa, di truppa in truppa, per placare gli animi turbati dei suoi seguaci, e per richiamarli alla loro antica obbedienza. Ma la paura della morte incombente era ancora diffusa tra questi uomini, i sopravvissuti di un mondo devastato; l’orrore provocato dal tentato assassinio svanì, e gli occhi di tutti si volsero verso Parigi. Gli uomini desiderano a tal punto avere un sostegno che si appoggerebbero a una spada dalla punta avvelenata; e tale era lui, l’impostore, il quale, con la paura dell’inferno a fargli da frusta, come una volpe voracissima, assunse il ruolo del mandriano di un gregge credulone.
Ci fu un momento di sospensione che scosse persino la risoluzione dell’amico inflessibile dell’umanità. Adrian, per un attimo, fu quasi sul punto di darsi per vinto, di smettere di lottare, e lasciare, con alcuni seguaci, quella folla di illusi, abbandonandola, come miserabile preda alle proprie passioni e al tiranno malvagio che le aveva suscitate. Ma ancora una volta, dopo una breve esitazione, riprese il suo coraggio e la sua risolutezza, sostenuto dalla lealtà dei suoi propositi e dall’incontaminato spirito di benevolenza che lo animava. In questo momento, come un presagio di significato eccezionale, il suo nemico sciagurato attirò la distruzione sul proprio capo, distruggendo con le sue stesse mani il regno che aveva costruito.
La presa grandiosa ch’egli aveva sull’animo degli uomini derivava dalla dottrina da lui stesso inculcata, secondo la quale coloro che credevano in lui e lo seguivano sarebbero stati gli ultimi a essere salvati, mentre tutto il resto dell’umanità era destinato alla morte. Orbene, al tempo del diluvio universale, l’onnipotente si pentì di colui che aveva creato uomo, e come allora con l’acqua, ora con le frecce della pestilenza, stava per annientare tutti, a eccezione di quelli che obbedivano ai suoi decreti, promulgati dal sedicente profeta. È impossibile dire su quali basi quest’uomo fondasse le sue speranze di riuscire a proseguire con una simile impostura. È probabile che fosse del tutto consapevole del fatto che la natura assassina avrebbe potuto dimostrare la falsità delle sue affermazioni, e fosse convinto che dipendeva da un lancio di dadi se egli, nelle epoche future, avrebbe potuto essere venerato come un inviato ispirato del cielo, oppure sarebbe stato smascherato come impostore dalla nostra generazione morente. A ogni modo, decise di continuare a recitare il dramma fino all’ultimo atto. Quando, ai primi cenni dell’estate, il male fatale compì nuovamente le sue razzie tra i seguaci di Adrian, l’impostore proclamò esultante che la sua congregazione era immune dalla calamità universale. Gli credettero; i suoi adepti, fino ad allora barricati a Parigi, giunsero adesso a Versailles. Mescolandosi alla banda di codardi che era là raccolta, si lanciarono in oltraggi contro il loro ammirevole capo, e proclamarono la propria superiorità e immunità.
Alla lunga, la peste, con passo lento ma sicura nel suo incedere silenzioso, distrusse l’illusione, invadendo la congregazione dell’eletto, e riversando con abbondanza la morte promiscua tra di loro. Il loro capo cercò di nascondere l’evento; aveva alcuni seguaci che, ammessi agli arcani della malvagità, potevano aiutarlo nell’esecuzione di questi disegni nefandi. Gli ammalati venivano allontanati subito senza far rumore: la corda e una tomba notturna bastavano a sbarazzarsi di loro per sempre, e intanto veniva fornita qualche scusa plausibile per giustificare la loro assenza. Finalmente una donna, la cui insonnia di madre riuscì persino a vincere gli effetti dei narcotici che le erano stati somministrati, fu testimone dei disegni omicidi che riguardavano il suo unico figlio. Pazza di orrore, si sarebbe precipitata dalle altre vittime, ingannate come lei, e, urlando follemente, avrebbe destato l’orecchio ovattato della notte con il racconto di quel crimine diabolico; l’impostore, allora, con un ultimo gesto di rabbia e di disperazione, le affondò un pugnale nel petto. Ferita a morte, con le vesti grondanti del suo sangue vitale e la sua creatura strangolata tra le braccia, giovane e bella com’era, Juliet (perché proprio di lei si trattava) denunciò alla folla di quei credenti raggirati la malvagità del loro capo. Egli vide gli sguardi sbalorditi di quanti ascoltavano la donna passare dall’orrore alla furia… I nomi di coloro che erano già stati sacrificati venivano ripetuti dai loro parenti, ora certi della loro scomparsa. Lo sciagurato, con quell’energia di propositi che lo aveva condotto così avanti nella sua carriera colpevole, vide il pericolo, e decise di sottrarsi alla parte peggiore di esso: si gettò su uno di quelli che si trovava vicino, gli afferrò la pistola dalla cintura, e la sua sonora risata di scherno si mescolò allo scoppio dell’arma con cui si uccise.
Lasciarono i suoi resti miserabili proprio là dove erano caduti, misero il cadavere della povera Juliet e della sua bambina su un feretro, e tutti, col cuore gravato dal più triste rimpianto, si avviarono in una lunga processione verso Versailles. Incontrarono le truppe di coloro che avevano abbandonato l’amorevole protezione di Adrian per unirsi ai fanatici. Raccontarono loro quella storia d’orrore; tornarono tutti indietro. Così alla fine, accompagnati dal numero immutato di tutti quelli che sopravvivevano dell’intera umanità, e preceduti dall’emblema luttuoso della ragione ora recuperata, comparvero davanti ad Adrian, e giurarono di nuovo e per sempre obbedienza ai suoi ordini e fedeltà alla sua causa.
CAPITOLO XXVII
Questi eventi si protrassero così a lungo che giugno aveva contato più della metà dei suoi giorni prima che cominciassimo il nostro lungo viaggio. Il giorno dopo il mio ritorno a Versailles, sei uomini tra quelli che avevo lasciato a Villeneuve-la-Guiard arrivarono con la notizia che il resto del gruppo si era già incamminato per la Svizzera. E noi proseguimmo seguendo lo stesso itinerario.
È strano, a una certa distanza di tempo, guardare indietro a un periodo che, pur breve in se stesso, nel suo reale svolgimento sembrava trascinarsi interminabile. Alla fine di luglio entrammo a Digione; alla fine di luglio quelle ore, quei giorni e quelle settimane che nel loro trascorrere erano state gravide di episodi fatali e di dolore straziante, si erano mescolate all’oceano del tempo dimenticato. Alla fine di luglio, era passato poco più di un mese, se la vita dell’uomo si misurasse col sorgere e il tramontare del sole: ma, ahimè! in quell’intervallo di tempo la gioventù appassionata era diventata grigia, rughe profonde e incancellabili avevano segnato le guance fiorenti della giovane madre, e le membra elastiche della virilità ormai prossima, paralizzate come se fossero gravate dal carico degli anni, assunsero la decrepitezza della vecchiaia. Trascorsero notti di un’oscurità fatale, durante le quali il sole invecchiò prima di sorgere; e giornate ardenti, di un caldo funesto, e la sera balsamica, che si attardava nei lontani climi orientali, giungeva pigra e incapace di portare refrigerio; giornate in cui la meridiana, sfolgorante nella posizione di mezzogiorno, non spostava la sua ombra del piccolo spazio di una sola ora, e intanto un’intera vita di dolore avrebbe condotto il sofferente a una morte prematura.
Quando lasciammo Versailles eravamo millecinquecento anime. Partimmo il diciotto di giugno. Formavamo una lunga processione in cui era contenuto ogni possibile legame a noi caro, ogni vincolo d’amore che ancora esistesse nella società umana. I padri e i mariti, con la cura del guardiano, raccoglievano intorno a loro i cari familiari; le mogli e le madri cercavano il sostegno dei corpi virili al loro fianco, e poi con tenera ansietà chinavano gli occhi sul gruppo di bambini lì intorno. Erano tristi, ma non senza speranza. Ognuno di loro pensava che qualcuno si sarebbe salvato, ognuno di loro, con quell’ottimismo ostinato che caratterizzò fino all’ultimo la nostra natura umana, credeva che la propria adorata famiglia sarebbe stata quella che si sarebbe salvata.
Attraversammo la Francia, e la trovammo disabitata. Erano sopravvissuti solo uno o due nativi nelle città più grandi, attraverso le quali vagavano come fantasmi; la nostra schiera aumentò un po’, ma la diminuzione provocata dalla morte era tale che alla fine era sempre più facile contare l’esigua lista dei sopravvissuti. Poiché non abbandonavamo mai nessuno dei malati, finché la loro morte non ci permetteva di affidarne i resti alla protezione di una tomba, il nostro viaggio fu lungo; ogni giorno si apriva nelle nostre truppe uno squarcio spaventoso: morivano a decine, a centinaia. La morte non dimostrava alcuna pietà: allora smettemmo dunque di contarci, e ogni giorno davamo il benvenuto al sole con la sensazione che avremmo potuto non vederlo sorgere mai più.
Le inquietanti paure e le visioni terribili che ci avevano terrorizzato nel corso della primavera continuarono a visitare la nostra truppa codarda durante questo triste viaggio. Ogni sera portava la sua nuova creazione di spettri; ogni albero avvizzito rappresentava un fantasma, e ogni intricato cespuglio creava forme terrificanti. A poco a poco fummo sazi di questi miracoli comuni, e allora vennero richiamate in vita delle nuove meraviglie. Una volta qualcuno affermò confidente che il sole era sorto un’ora più tardi rispetto a quello che sarebbe stato normale considerata la stagione; poi si scoprì che diventava sempre più pallido, e che le ombre assumevano un aspetto insolito. Sarebbe stato impossibile immaginare, prima, quando gli uomini avevano un ritmo di vita solitamente calmo, gli effetti terribili prodotti da queste bizzarre illusioni: in realtà i nostri sensi valgono così poco quando non sono sostenuti da una testimonianza concomitante che solo con grandissima difficoltà io stesso riuscii a trattenermi dal credere agli eventi soprannaturali, ai quali la maggior parte della gente dava prontamente credito. Essendo il solo sano in una folla di pazzi, a malapena osavo sostenere in cuor mio che il grande astro non aveva subito alcun cambiamento; che le ombre della notte non erano più spesse per via delle innumerevoli forme di sgomento e terrore, o che il vento, quando sibilava tra gli alberi o fischiava intorno a un palazzo vuoto, non era gravido di gemiti e voci di disperazione. Talvolta la realtà assumeva forme spettrali, ed era impossibile che il sangue non si raggelasse nel percepire il miscuglio evidente tra ciò che sapevamo essere vero, e le sembianze visionarie di tutto quello che ci incuteva paura.
Una volta, al calar della sera, scorgemmo una figura tutta bianca, apparentemente più alta di quella di un uomo, che faceva ampi gesti per la strada: ora alzava le braccia, ora saltava a mezz’aria fino a un’altezza incredibile, poi girava su se stessa per diverse volte di seguito, per sollevarsi infine in tutta la sua altezza gesticolando impetuosamente. Il nostro gruppo, sempre pronto a scoprire e a credere al soprannaturale, si fermò a una certa distanza da questa forma e, via via che si faceva scuro, c’era qualcosa di terrificante persino per gli increduli in quello spettro solitario, le sue giravolte superavano le capacità umane, anche se si accordavano a fatica a una dignità spirituale. Balzava su diritto nell’aria, poi deviava dirigendosi verso un’alta siepe, e il momento successivo era di nuovo sulla strada davanti a noi. Quando arrivai, gli spettatori di questa esibizione spettrale erano così spaventati che alcuni volevano fuggire, e gli altri si stringevano insieme. Allora il nostro spiritello maligno ci vide, si avvicinò e, mentre noi pieni di riverenza ci tiravamo indietro, fece un lieve inchino. Un tale spettacolo era irresistibilmente comico anche per la nostra banda sventurata, e questo pensiero gentile fu salutato da uno scoppio di risa; poi, dopo un nuovo salto, l’ultimo sforzo, cadde a terra, e divenne quasi invisibile nell’oscurità della notte. Questa circostanza fece di nuovo calare il silenzio e la paura nelle nostre fila; alla fine i più coraggiosi si fecero avanti e, sollevando lo sventurato moribondo, trovarono la tragica spiegazione di questa scena assurda. Era un ballerino d’opera, e aveva fatto parte della truppa che ci aveva abbandonato partendo da Villeneuve-la-Guiard: dopo che si era ammalato, era stato abbandonato dai suoi compagni; in un accesso di delirio aveva creduto di essere sul palcoscenico e, pover’anima, la sua coscienza ormai morente aveva accettato avidamente l’ultimo applauso umano che mai avrebbe potuto essere tributato alla sua grazia e alla sua agilità.
Un’altra volta fummo perseguitati per diversi giorni da un’apparizione alla quale la nostra gente diede il nome di Spettro Nero. Lo vedevamo soltanto la sera, quando il suo destriero nero come il carbone, il suo vestito luttuoso, e il pennacchio di piume nere, assumevano un aspetto maestoso che incuteva un timore reverenziale; il suo volto, disse uno che lo aveva visto per un momento, era di un pallore cinereo. Quest’uomo era rimasto molto indietro rispetto al resto della truppa, e improvvisamente, a una svolta della strada, aveva visto lo Spettro Nero che gli veniva incontro; si nascose in preda al panico, e il cavallo col suo cavaliere gli passarono di fianco, mentre i raggi della luna cadevano sul volto di quest’ultimo, mostrando un colore che non era di questa terra. Talvolta, nel cuore della notte, mentre vegliavamo i malati, sentivamo il rumore di un galoppo per la città: era lo Spettro Nero, segno di morte ineluttabile. Agli occhi del volgo egli assumeva le dimensioni di un gigante, e un’atmosfera di gelo, si diceva, lo circondava: quando lo si sentiva tutti gli animali tremavano, e i moribondi sapevano che era giunta la loro ultima ora. Era la Morte stessa, dichiaravano, venuta a prendere visibilmente possesso della terra, sua suddita, e a domare al tempo stesso le nostre fila, le uniche ribelli alla sua legge, sempre più decimate. Un giorno, a mezzogiorno, vedemmo una massa scura sulla strada davanti a noi e proseguendo contemplammo lo Spettro Nero, caduto da cavallo, che si dibatteva per terra nello strazio della malattia. Non sopravvisse molte ore, e le sue ultime parole svelarono il segreto della sua condotta misteriosa. Era un francese di alta nobiltà che, in seguito agli effetti della peste, era stato lasciato solo nel suo distretto; per molti mesi aveva vagato di città in città, di provincia in provincia, cercando qualche sopravvissuto che potesse condividere la sua sorte, poiché aborriva la solitudine cui era condannato. Quando scoprì la nostra truppa, la paura del contagio ebbe la meglio sul suo amore per la compagnia. Non osava unirsi al nostro gruppo, e tuttavia non riusciva a prendere la risoluzione di perderci di vista, noi, gli unici esseri umani che esistessero, oltre a lui, in tutta la vasta e fertile Francia. E così ci accompagnò, a mo’ di spettro, come ho raccontato, finché la peste lo accolse in una congregazione più vasta, quella della Defunta Umanità.
Sarebbe stato un bene se tali terrori inesistenti avessero potuto distrarre i nostri pensieri da mali più tangibili. Ma questi erano troppi e troppo terribili per non farsi strada a viva forza in ogni pensiero, in ogni momento della nostra vita. In periodi diversi eravamo costretti a fermarci per giorni interi, finché uno, e un altro ancora, venivano consegnati come terra alla vasta terra che un tempo era stata la nostra madre vivente. E così continuammo a viaggiare durante la stagione più calda, e non fu fino al primo agosto che noi, gli emigranti – lettore, eravamo ormai solo ottanta – varcammo le porte di Digione.
Avevamo atteso questo momento con ansia: ora la parte peggiore del viaggio desolante era terminata, e la Svizzera era vicinissima. Eppure, come potevamo felicitarci con noi stessi per una prova che era stata portata a termine in modo così imperfetto? Questi esseri miserabili che, esausti e infelici, sfilavano in una processione penosa, erano dunque gli unici resti della stirpe dell’uomo che un tempo, come una marea, si era diffusa su tutta la terra e l’aveva posseduta? Era scesa limpida e senza incontrare ostacoli dalla sua primitiva fonte montana ad Ararat,209 e si era ingrossata, trasformandosi da un minuscolo ruscelletto in un fiume vasto e perenne, continuando a fluire senza sosta generazione dopo generazione. Eguale, ma diversa, crebbe e avanzò maestosamente verso l’oceano che tutto assorbe e le cui rive indistinte ora noi stavamo per raggiungere. Era stata un semplice balocco della natura quando, all’inizio, scivolò via dal vuoto che nulla crea verso la luce, ma il pensiero portava con sé potere e conoscenza e, rivestitasi di ciò, la razza dell’uomo acquistò dignità e autorevolezza. Non era dunque più, allora, solo il giardiniere della terra, o il pastore delle sue greggi, ma «aveva in sé un aspetto maestoso e imponente, aveva un albero genealogico e antenati illustri, aveva la sua galleria di ritratti, le sue iscrizioni monumentali, la sua documentazione e i suoi titoli»210
Ora che l’oceano della morte aveva risucchiato la marea decrescente, e la sua sorgente si era prosciugata, tutto questo era finito. Per prima cosa avevamo detto addio a quelle cose che sembravano eterne, essendo esistite per molte migliaia di anni; come un tipo di governo, l’obbedienza, le attività commerciali, o i rapporti all’interno della nazione che avevano plasmato il nostro cuore e informato le nostre capacità, fin da quando la memoria poteva ricordare. Poi avevamo detto addio allo zelo patriottico, alle arti, alla reputazione, alla fama eterna, al nome di patria. Vedemmo svanire ogni speranza di recuperare l’antico stato delle cose, ogni aspettativa, eccetto quella debole di salvare dai relitti del passato la nostra esistenza individuale. Ed era per conservare questa, che avevamo lasciato l’Inghilterra: l’Inghilterra ormai non c’era più, perché senza i suoi figli, quale nome poteva rivendicare quell’isola infeconda? Con presa tenace ci afferrammo alle regole e all’ordine che meglio di altro potevano salvarci, credendo che, se una piccola colonia fosse riuscita a sopravvivere, questo sarebbe stato sufficiente, in un periodo più lontano nel tempo, a reintegrare la comunità perduta della stirpe umana.
Ma non c’è più nulla da fare! Dobbiamo morire tutti, e non lasciare né superstiti né eredi per la vasta eredità della terra. Dobbiamo morire tutti! La specie dell’uomo deve estinguersi, il suo corpo di fattura eccezionale, il meccanismo meraviglioso dei sensi, la nobile proporzione delle sue membra divine, la sua mente, re di tutti loro, deve estinguersi. E la terra continuerà a mantenere il suo posto tra i pianeti, con regolarità nascosta continuerà a viaggiare intorno al sole, e le stagioni cambieranno, e gli alberi si adorneranno di foglie, e i fiori diffonderanno la loro fragranza, in solitudine? E le montagne rimarranno salde, i fiumi continueranno a volgere il loro corso in basso, giù verso il vasto abisso, le maree saliranno e scenderanno, i venti soffieranno lievi sulla natura universale, gli animali pascoleranno, gli uccelli voleranno, i pesci nuoteranno quando l’uomo, signore e padrone di tutto ciò, che osserva e registra ogni cosa, sarà scomparso come se non fosse mai esistito? Oh, che grande beffa! Sicuramente la morte non è morte, e l’umanità non è estinta, ma semplicemente passata ad altre forme che non si assoggettano alla nostra percezione. La morte è una grande porta, una strada maestra per la vita: affrettiamoci dunque a passare, cessiamo di esistere in questa condizione di morte in vita, e affrontiamo la fine per poter vivere!
Avevamo desiderato raggiungere Digione con un ardore inesprimibile, avendo stabilito che dovesse essere una specie di stazione nel nostro procedere. Ma ora vi entrammo in preda a un torpore ben più penoso di una sofferenza acuta. Lentamente ma irrevocabilmente, eravamo giunti alla conclusione che anche i nostri sforzi più grandi non avrebbero mantenuto in vita un solo essere umano. Lasciammo perciò la presa del timone al quale ci eravamo a lungo aggrappati, e il fragile vascello sul quale galleggiavamo, senza più controllo, la prua protesa in avanti, sembrò precipitare nello scuro abisso dei marosi. All’accesso del dolore, all’irrefrenabile profusione di lacrime, e ai lamenti vani, e alla tenerezza traboccante, e all’attaccamento appassionato ma infruttuoso ai pochi preziosissimi esseri che restavano, seguirono l’apatia e l’indifferenza.
Durante questo viaggio disastroso, tranne quelli della nostra famiglia, perdemmo tutti coloro ai quali ci eravamo particolarmente attaccati. Non è forse opportuno riempire queste pagine con un semplice elenco di coloro che ci lasciarono, eppure non posso trattenermi dal ricordare per l’ultima volta quelli che, più di altri, ci furono cari. La ragazzina che Adrian aveva salvato dall’abbandono durante la nostra cavalcata per Londra il venti novembre, morì ad Auxerre. La povera bambina si era affezionata tantissimo a noi, e la sua morte repentina aumentò il nostro dolore. Al mattino l’avevamo vista apparentemente in salute, e la sera, Lucy, prima che ci ritirassimo per riposare, venne nei nostri quartieri per dirci che era morta. La stessa Lucy, poverina, sopravvisse solo finché arrivammo a Digione. In tutto questo periodo si era dedicata alla cura dei malati e all’assistenza di quanti erano privi di amici. Gli sforzi eccessivi le avevano procurato una febbre bassa, culminata poi nella terribile malattia che la liberò presto dalle sofferenze. Nel frattempo ci eravamo affezionati sempre più a lei per le sue buone qualità, la prontezza e il buon umore con cui adempiva ogni dovere, e la mite remissività che mostrava davanti a ogni nuova e improvvisa avversità. Quando la consegnammo alla tomba era come se, al tempo stesso, dessimo anche un addio a quelle virtù femminili in lei così evidenti. Infatti, anche se era priva di istruzione e modesta, si distingueva per pazienza, tolleranza e dolcezza, tutte virtù che, come le qualità tipicamente inglesi, non sarebbero mai più tornate in vita per noi. Lucy, il prototipo di tutto quello che era degno della massima ammirazione nella sua classe sociale tra le donne d’Inghilterra, venne deposta sotto le zolle erbose della Francia deserta: non poterla vedere mai più fu davvero come una seconda separazione dal nostro paese.
La contessa di Windsor morì durante il nostro soggiorno a Digione. Un mattino mi venne detto che desiderava vedermi. Il suo messaggio mi fece ricordare che erano trascorsi diversi giorni da quando l’avevo vista per l’ultima volta. Era successo spesso durante il viaggio, quando rimanevo indietro per vegliare fino alla fine qualcuno dei nostri sventurati compagni, mentre il resto della truppa proseguiva. Ma qualcosa, nei modi del messaggero, mi fece venire il sospetto che fosse successa qualche disgrazia. Per un capriccio dell’immaginazione pensai a Clara o a Evelyn, piuttosto che all’anziana dama. Le nostre paure, eternamente vive, chiedevano di essere nutrite con l’orrore, e sembrava un evento troppo naturale, troppo simile a quanto accadeva nei tempi andati, che gli anziani morissero prima dei giovani.
Trovai la veneranda madre di Idris coricata su un giaciglio, la sua figura alta ed emaciata completamente distesa; il volto smagrito, nel quale il naso si profilava tagliente, e i grandi occhi scuri, incavati e profondi, brillavano con la luce che potrebbe provenire dal bordo di una nube temporalesca al tramonto. Tutto era raggrinzito e inaridito, a eccezione di quei due lumi; anche la voce era paurosamente cambiata, mentre mi parlava, facendo di tanto in tanto delle pause. «Temo», disse, «che sia egoista da parte mia averti chiesto di venire a trovare ancora una volta questa vecchia, prima che muoia: tuttavia sarebbe stato un colpo ancor più grande venire a sapere all’improvviso della mia morte, piuttosto che vedermi prima in queste condizioni».
Le strinsi la mano grinzosa: «State davvero così male?», chiesi.
«Non vedi la morte sul mio volto?», rispose. «È strano, avrei dovuto aspettarmelo, eppure confesso che mi ha colto alla sprovvista. Non mi sono mai aggrappata alla vita, né mai ne ho gioito, fino a questi ultimi mesi, in cui mi sono abbandonata in modo irragionevole al loro trascorrere, ed è duro esserne strappati di colpo. Sono lieta, comunque, di non essere una vittima della peste; probabilmente sarei morta in questo momento anche se il mondo fosse restato com’era durante la mia gioventù».
Parlava con difficoltà, e io mi rendevo conto che rimpiangeva l’ineluttabilità della morte anche più di quanto non volesse confessare. Eppure non aveva da lamentarsi per un abbreviamento indebito della sua esistenza; il suo corpo indebolito dimostrava che la vita si era consumata naturalmente. All’inizio eravamo rimasti soli; poi entrò Clara, e la contessa si volse verso di lei con un sorriso, prendendo la mano di quell’adorabile fanciulla; il palmo roseo e le dita nivee di quest’ultima contrastavano con le fibre rilassate e il colore giallastro di quelle della sua anziana amica. Clara si chinò per baciarla, toccando quella bocca avvizzita con le labbra calde e carnose della gioventù. «Verney», disse la contessa, «non ho bisogno di raccomandarvi questa cara ragazza, perché la proteggerete per il vostro stesso bene. Fosse il mondo com’era una volta, avrei avuto mille sagge precauzioni da suggerire, affinché una fanciulla così sensibile e buona e bella, fosse potuta sfuggire ai pericoli che un tempo erano in agguato per distruggere le oneste e le virtuose. Ma tutto questo è ormai inutile.
Io ti affido, mia balia gentile, alle cure di tuo zio, e alle tue consegno le vestigia più preziose della parte migliore di me. Comportati con Adrian, o dolce fanciulla, come ti sei comportata con me… Rallegra la sua tristezza con i tuoi scherzi briosi, addolcisci la sua angoscia con la tua conversazione sobria e ispirata, quando starà morendo, e insomma prenditi cura di lui come hai fatto con me».
Clara scoppiò in lacrime. «Mia cara ragazza», disse la contessa, «non piangere per me. Ti restano molti cari amici».
«Eppure», esclamò Clara, «voi parlate anche della loro morte. E questo è davvero crudele… Come potrei vivere, se loro se ne fossero andati? Se fosse possibile per il mio amato protettore morire prima di me, io non lo accudirei; potrei solo morire anch’io».
La dama venerabile sopravvisse solo ventiquattr’ore a questa scena. Era l’ultimo legame che ci congiungeva all’antico stato delle cose. Era impossibile osservarla e non richiamare alla mente, nelle loro sembianze usuali, eventi e persone estranei alla nostra situazione attuale quanto le dispute di Temistocle e Aristide, o la guerra delle due rose della nostra terra natale. La corona d’Inghilterra aveva cinto la sua fronte, la memoria di mio padre e delle sue sventure, la lotta vana dell’ultimo re, le immagini di Raymond, Evadne e Perdita, che avevano vissuto nella primavera del mondo, ci si presentavano vividamente innanzi. La consegnammo riluttanti all’oblio della tomba, e quando voltai le spalle al suo sepolcro, Giano coprì con un velo la faccia che guardava indietro; quella che fissava le generazioni future aveva da tempo perso le sue facoltà.
Rimanemmo a Digione per una settimana, finché trenta persone del nostro gruppo abbandonarono i ranghi sempre più vuoti della vita, poi proseguimmo il nostro cammino verso Ginevra. A metà del secondo giorno arrivammo ai piedi del Giura, dove, nella parte più calda della giornata, facemmo una sosta. Qui cinquanta esseri umani… cinquanta, gli unici esseri umani sopravvissuti su tutta la terra, che pure abbondava di cibo, si raccolsero per leggere l’uno negli occhi dell’altro la peste spettrale, o il dolore devastante, o la disperazione o, peggio, la noncuranza del futuro o del male presente. Ci raccogliemmo qui, ai piedi della possente parete di questa montagna, sotto le propaggini di un noce; un ruscello rumoreggiante rinfrescava coi suoi spruzzi la verde distesa d’erba, e la cavalletta affaccendata friniva tra le pianticelle di timo. Ci stringemmo l’uno all’altro, un gruppo di sofferenti sventurati. Una madre cullava tra le braccia indebolite il suo bambino, l’ultimo di molti, i cui occhi vitrei si sarebbero presto chiusi per sempre. Qui la bellezza, un tempo rifulgente nello splendore della gioventù, ora esangue e obliata, stava inginocchiata e con movimenti incerti faceva vento all’amato, che giaceva disteso e si sforzava di tratteggiare sui propri lineamenti distorti dalla malattia un sorriso di riconoscenza. Là, un veterano dai lineamenti induriti, logorato dal tempo, dopo essersi preparato il pasto, sedeva, il capo abbandonato sul petto, il coltello inutile che sfuggiva alla presa, le membra completamente rilassate, mentre il pensiero della moglie e dei figli, e dei parenti più cari, tutti andati, gli tornava alla memoria. Là sedeva un uomo che per quarant’anni si era crogiolato al sole tranquillo della fortuna: stringeva la mano della sua ultima speranza, la sua figlia adorata, che era appena arrivata a essere una donna, e la fissava coi suoi occhi ansiosi, mentre ella cercava di ravvivare il proprio fiacco spirito per confortarlo. Qui un servitore, fedele fino all’ultimo, anche se ormai moribondo, serviva un uomo che, ancora in piedi e in salute, fissava ansimando per la paura la varietà del dolore che lo circondava.
Adrian se ne stava appoggiato a un albero; aveva un libro in mano, ma gli occhi vagavano lontano dalle pagine, cercavano i miei e si scambiarono un’occhiata di comprensione. Il suo aspetto testimoniava che i pensieri avevano abbandonato quei caratteri inanimati, per inseguire pagine più gravide di significato, più avvincenti, aperte là davanti a lui. Vicino alla sponda del ruscelletto, in disparte rispetto a tutti gli altri, in un angolino tranquillo dove il torrente borbottante baciava delicatamente la verde distesa d’erba, Clara ed Evelyn stavano giocando: ora percuotevano l’acqua con dei grandi rami, ora osservavano gli insetti che ronzavano lì intorno. Oppure Evelyn si lanciava all’inseguimento di una farfalla, o raccoglieva un fiore per sua cugina, e il suo volto di cherubino ridente e la sua fronte serena rivelavano il cuore spensierato che batteva nel suo petto. Clara, anche se cercava di abbandonarsi ai divertimenti del bambino, spesso lo dimenticava se si voltava a osservare me e Adrian. La fanciulla aveva ora quattordici anni, e conservava il suo aspetto infantile, pur avendo la statura di una donna; aveva assunto il ruolo di una madre tenerissima per il mio piccolo orfano, e a vederla giocare con lui, occuparsi in silenzio e dolcemente dei nostri bisogni, si sarebbe pensato solo alla sua docilità e alla sua pazienza ammirevoli; ma nei suoi dolci occhi, e in quelle cortine venate che li velavano, nella chiarezza della fronte marmorea, e nella tenera espressione delle labbra, c’erano un’intelligenza e una bellezza che suscitavano insieme ammirazione e amore.
Dopo che il sole fu calato verso l’occidente precipitoso, e mentre le ombre della sera si allungavano sempre più, ci preparammo a salire su per la montagna. L’attenzione e il riguardo verso i malati rallentava la nostra avanzata. La strada serpeggiante, anche se ripida, ci offriva una prospettiva limitata delle distese rocciose e delle colline, poiché ognuna nascondeva l’altra, fino a che, salendo ancora, ci si offrirono alla vista in successione. Raramente l’ombra ci proteggeva dalla luce del sole calante, e i raggi inclinati erano imbevuti di un calore spossante. Ci sono dei momenti in cui anche le più piccole difficoltà diventano gigantesche, momenti in cui, secondo l’espressiva definizione del poeta ebreo, «la cicala è un fardello»;211 e così era quella sera per il nostro gruppo sventurato. Adrian, di solito, era il primo a farsi forza e a gettarsi con energia nella fatica e nelle difficoltà; ora, le membra rilassate e il capo inclinato, lasciava la scelta del sentiero all’istinto del suo cavallo, mentre le redini gli pendevano lente dalle mani; di tanto in tanto, quando la ripidità della salita gli imponeva di tenersi alla sella con maggiore attenzione, si riscuoteva penosamente. La paura e l’orrore mi avvolsero. Quella sua aria languida significa forse che anche lui è stato colpito dal contagio? Per quanto tempo ancora, osservando questo campione impareggiabile dell’umanità, potrò sentire che i suoi pensieri rispondono ai miei? Per quanto tempo ancora quelle membra obbediranno allo spirito benevolo che vive dentro di loro? Per quanto tempo la luce e la vita abiteranno negli occhi dell’unico amico che mi è rimasto? Procedevamo lentamente e ogni volta che superavamo una collina se ne presentava un’altra; ogni sporgenza aggettante non faceva che rivelarne un’altra, sorella della prima, e così all’infinito. Qualche volta la malattia di uno di noi costringeva l’intera cavalcata a fermarsi; la richiesta di acqua, il desiderio di riposarsi espresso con impazienza, il pianto di sofferenza, e il singhiozzo represso di chi era in lutto: ecco i dolenti servitori che ci scortarono durante il valico del Giura.
Adrian era andato avanti. Mentre ero fermo a sistemare una cinghia che si era allentata, lo vidi lottare col sentiero in salita, evidentemente più difficile di tutti quelli che avevamo attraversato fino a ora. Raggiunse la cima, e il profilo scuro della sua figura si stagliò in gran rilievo contro il cielo. Sembrava osservasse qualcosa d’inaspettato e meraviglioso perché, fermandosi, il capo proteso in avanti, le braccia per un momento spalancate, sembrò lanciare un salve! a qualche nuova visione. Spinto dalla curiosità, mi affrettai a raggiungerlo. Dopo aver combattuto per lunghi e tediosi minuti col precipizio, mi si presentò la stessa scena che lo aveva avvolto in uno stupore estatico.
La natura, o meglio la prediletta della natura, questa terra leggiadra, offriva le sue bellezze più incomparabili in uno spettacolo fulgido e improvviso. In basso, molto, molto in basso, quasi si trovasse proprio nell’abisso spalancato del globo ponderoso, si apriva la placida e azzurra distesa del lago Lemano; colline rivestite di viti lo proteggevano e, dietro, montagne scure di forma conica, e pareti irregolari, ciclopiche, fornivano un’ulteriore difesa. Ma oltre, in alto, al di sopra di ogni altra cosa, come se gli spiriti dell’aria avessero improvvisamente tolto il velo dalle loro radianti dimore poste a un’altezza infinita nel cielo immacolato a baciare la volta celeste, s’innalzavano le Alpi gloriose, compagne dell’etere irraggiungibile, rivestite di un abito di luce reso abbacinante dal sole che tramontava. E, come se le meraviglie del mondo non dovessero mai esaurirsi, la loro vasta immensità, le loro guglie frastagliate, dipinte di rosa, comparivano di nuovo nel lago in basso, con le loro cime orgogliose che si immergevano dentro quelle onde prive di increspature, palazzi per le Naiadi delle placide acque. Ai piedi del Giura che, con una gola oscura e dei neri promontori, diramava le sue radici nella distesa d’acqua sottostante, riposavano città e villaggi sparsi. Rapito dalla meraviglia, dimenticai la morte dell’umanità e il mio adorato amico vicino a me. Quando mi voltai vidi che le lacrime gli scendevano dagli occhi, le mani sottili si stringevano l’una all’altra, il suo volto animato risplendeva di ammirazione. «Perché», esclamò infine, «perché, cuore, mi sussurri parole costernate? Bevi della bellezza di questa scena, e impadronisciti di una gioia superiore a quella che un paradiso di fiaba potrebbe offrire».
A poco a poco tutta la nostra compagnia, valicata la china, si unì a noi; non ci fu uno solo tra loro che non manifestasse chiaramente un’ammirazione superiore a quella legata a qualunque esperienza precedente. Uno esclamò: «Dio ci svela il suo paradiso: possiamo morire beati». Altri, con esclamazioni rotte e con frasi bizzarre, si sforzavano di esprimere l’effetto inebriante di questa meraviglia della natura. Restammo così per un po’, alleggeriti del fardello pressante del fato, dimentichi della morte, nella cui notte stavamo per tuffarci, senza più riflettere sul fatto che i nostri occhi erano e sarebbero stati, ora e per sempre, gli unici che avrebbero potuto scorgere la magnificenza divina di questo spettacolo terrestre. Un trasporto entusiastico, simile alla felicità, irruppe come un improvviso raggio solare, sulla nostra vita oscurata. O qualità preziosa dell’umanità sfinita dal dolore, che può strappare un’emozione estatica perfino dal vomere e dall’erpice che dissotterra inesorabilmente ogni speranza e la rende sterile!
Questa sera fu segnata da un altro evento. Passando per Ferney, mentre ci dirigevamo a Ginevra, da una chiesetta di campagna chiusa dagli alberi e circondata dalle case ormai deserte, dalle quali non si alzava alcuna traccia di fumo, si levava una musica insolita. Il suono disteso di un organo risvegliò l’aria muta con un ricco crescendo, e si propagò nell’atmosfera, mescolandosi alla profonda bellezza che rivestiva le rocce, i boschi e le acque all’intorno.
La musica, il linguaggio degli immortali, ci si svelò come una testimonianza della loro esistenza; la musica, «chiave d’argento della fonte delle lacrime»,212 figlia dell’amore, che mitiga il dolore e ispira eroismo e pensieri radiosi. Oh musica, immersi nella nostra desolazione ti avevamo dimenticata! La sera non ci rallegrava il flauto né l’armonia della voce, e neppure il fremito di uno strumento a corda. Giungesti ora inaspettata, come chi fa intravedere altre forme di esistenza, e rapiti come eravamo dalla bellezza della natura, pensando di contemplare la dimora degli spiriti, potevamo ora a ragione immaginare di ascoltarne i messaggi melodiosi. Ci fermammo in preda a una sorta di soggezione simile a quella di una pallida sacerdotessa che, visitando un tempio sacro nell’ora della mezzanotte, contemplasse animata e sorridente l’immagine che adora. Restammo tutti muti; molti si inginocchiarono. Nel giro di pochi minuti, comunque, venimmo richiamati a uno stupore e a una commozione umani da una melodia familiare. L’aria era II mondo nuovo di Haydn,213 un inno di lode che avrebbe potuto ancora celebrare degnamente il mondo giovane e fresco come nel giorno della creazione, anche se l’umanità era ormai vecchia e avvilita. Entrai con Adrian nella chiesa: la navata era vuota, anche se dall’altare si levava del fumo d’incenso, che portava con sé la memoria di moltitudini raccolte nelle cattedrali. Andammo nella galleria. Un vecchio cieco sedeva al mantice, tutta la sua anima era riversata nell’udito; mentre sedeva in attento ascolto, la luminosità radiosa del piacere si diffondeva sul suo volto: i suoi occhi privi della luce non potevano riflettere il suo aspetto raggiante, tuttavia le labbra dischiuse, ogni tratto del viso e della fronte veneranda parlavano di diletto. Una giovane donna sedeva ai tasti, avrà avuto forse vent’anni. I capelli castani le battevano sul collo, e la fronte risplendeva nella sua bellezza; ma gli occhi abbassati lasciavano cadere lacrime che sgorgavano rapide, e le guance pallide erano infiammate dallo sforzo per reprimere i singhiozzi e il tremore; era esile, e la fiacchezza, e, ahimè!, la malattia, piegavano la sua figura.
Restammo in piedi a contemplare quelle due persone e presi come eravamo da quella scena avvincente dimenticammo ciò che stavamo ascoltando, finché, dopo l’ultimo accordo, il suono dell’organo morì lentamente in un’eco sempre più tenue. La voce imponente, inorganica si potrebbe chiamare perché non riuscivamo in alcun modo ad associarla al meccanismo delle canne o dei tasti, fece tacere la sua tonalità sonora, e la ragazza, voltandosi per prestare la sua assistenza al suo anziano compagno, si accorse finalmente di noi.
Il vecchio era suo padre, e la giovane, fin dall’infanzia, era stata la guida dei suoi passi oscurati. Erano emigrati dalla Sass solo da alcuni anni e avevano stretto nuovi legami con gli abitanti dei villaggi circostanti. All’incirca nel periodo in cui era scoppiata la pestilenza, un giovane studente tedesco si era unito a loro. La loro semplice storia era facile da indovinare. Il giovane era un nobile e amava la bella figlia del povero musicista, e li seguì fuggendo dalle persecuzioni degli amici; ma presto la possente livellatrice venne a mietere con la sua falce affilata, insieme all’erba, anche gli alti fiori del campo. Il giovane fu una delle prime vittime. La fanciulla si conservò in vita per amore del padre. La sua cecità le permise di continuare un inganno, all’inizio figlio del caso; ora che erano degli esseri solitari, gli unici sopravvissuti nella terra, egli era ancora ignaro del cambiamento, né sapeva che quando ascoltava la musica della sua bambina, le montagne mute, il lago che non ha sensi, e gli alberi privi di coscienza erano, a parte lui stesso, gli unici ascoltatori.
Proprio il giorno in cui arrivammo ella era stata colta dai sintomi della malattia. Era paralizzata dall’orrore all’idea di lasciare solo sulla terra vuota il vecchio padre cieco, ma non aveva il coraggio di rivelargli la verità, e lo stesso eccesso della sua disperazione le dava la forza di compiere sforzi senza pari. All’ora consueta del vespro, lo guidò verso la cappella; e sebbene tremasse e piangesse in cuor suo per il suo destino, suonò senza errori nel ritmo o nelle note l’inno scritto per celebrare la creazione della bella terra rivestita a nuovo, che presto sarebbe stata la sua tomba.
Giungemmo a lei come visitatori del cielo: il suo coraggio estenuato, la fermezza mantenuta con fatica, scomparvero con l’apparire del soccorso. Con un grido si lanciò verso di noi, abbracciò le ginocchia di Adrian, e mormorando soltanto «Oh, salvate mio padre!», con singhiozzi e grida isteriche, diede libero sfogo al dolore tanto a lungo trattenuto.
Povera fanciulla! Lei e suo padre giacciono ora fianco a fianco, sotto l’alto noce dove riposa l’innamorato della ragazza, in quel luogo che, in punto di morte, ci aveva indicato. Suo padre, consapevole infine del pericolo che sua figlia correva, incapace di vedere i cambiamenti di quel caro volto, le tenne ostinatamente la mano finché divenne fredda e rigida per la morte. Non si mosse né parlò fino a che, dodici ore dopo, la morte gli concesse benevolmente il riposo eterno. Dormono sotto quelle zolle erbose e l’albero è il loro monumento… Quel luogo santo è ben chiaro nella mia memoria, recintato tutt’intorno dal Giura scosceso e dalle lontane, immensurabili Alpi. La guglia della loro chiesa spunta ancora tra gli alberi che la racchiudono, e anche se la mano della fanciulla è fredda, pure mi sembra che i suoni della musica divina che entrambi amarono vaghino lì intorno, confortando i loro spiriti gentili.
CAPITOLO XXVIII
Avevamo raggiunto la Svizzera, da tempo la meta finale dei nostri sforzi. Non so per quale motivo, ma ci eravamo volti pieni di speranza e di aspettative piacevoli al suo assembramento di colline e di guglie nevose, e aprimmo il cuore con rinnovata energia al vento che persino nel solstizio d’estate scendeva gelido dai ghiacciai settentrionali. Eppure come potevamo nutrire la speranza di ottenere sollievo? Al pari della nostra madrepatria e della fertile Francia, questa terra racchiusa dai monti era priva di abitanti. Né le cime delle sue montagne spazzate dal vento, né i ruscelletti nutriti dalla neve, né il vento del Nord carico di ghiaccio, o il tuono, domatore del contagio, li avevano protetti: perché dunque avremmo potuto pretendere di essere risparmiati?
Chi c’era poi, in verità, da salvare? Avevamo forse portato una truppa in grado di resistere, con le spalle al muro, e di combattere contro il conquistatore? Eravamo pochi superstiti destinati a perdere, rassegnati ormai a sottomettersi al colpo che stava per essere inferto. Un corteo quasi morto per la paura della morte, un equipaggio senza speranza, incapace di opporre resistenza e quasi imprudente, il quale, senza più pilota sulla barca della vita sballottata dalle onde, si era rassegnato alla forza distruttiva dei venti indomiti. Eravamo come i solchi di grano non mietuti e abbandonati sul campo, quando già il resto del raccolto è deposto nel silo, che sono travolti rapidamente dalla tempesta invernale; come le rondini sbandate che sono abbattute dai primi geli di novembre, mentre le loro compagne, al primo soffio inclemente dell’autunno, sono migrate verso climi più miti; come una pecora smarrita che vaga per il fianco di una collina battuta dal nevischio, mentre il gregge è dentro l’ovile, e muore prima che venga l’alba del giorno successivo; come una nuvola, una delle tante che prima erano sparse nella trama impenetrabile del cielo e poi, quando il loro pastore, la tramontana, ha già condotto le sue compagne «a bere il mezzoggiorno degli antipodi», si assottiglia e svanisce nel limpido etere.
Lasciammo le belle rive dell’incantevole lago di Ginevra, ed entrammo tra le gole alpine; continuammo il nostro viaggio risalendo fino alla sorgente dell’Arve rumoreggiante, attraverso la valle di Servox circondata dalle rocce, di fianco alle cascate maestose e all’ombra delle inaccessibili montagne, mentre il noce lussureggiante cedeva il posto al severo pino, con i suoi rami melodiosi che oscillavano nel vento e la figura eretta che aveva sfidato migliaia di tempeste. Poi, il verde tappeto erboso, le vallette fiorite e le colline ricoperte di boschetti furono sostituite dalle rocce sterili, poco battute da piedi umani, che trafiggevano il cielo, loro, «l’ossatura del mondo, che aspettavano di essere rivestite di tutto quanto è necessario a dare vita e bellezza».214 Strano che dovessimo cercare rifugio qui! Se, in quei paesi in cui era avvezza come una tenera madre a nutrire i propri figli, la terra era stata per noi una distruttrice, ancor più lo sarebbe stata qui, dove, colpita da una profonda indigenza, sembra rabbrividire nelle sue vene di pietra. E le nostre congetture non erano sbagliate. Invano andammo in cerca del vasto ghiacciaio di Chamounix, in eterno movimento, con le sue crepe di ghiaccio, i mari di acque gelate, i boschi di pini privati di foglie dalla tempesta, le vallette soltanto sentieri per le valanghe rumorose, e la cima delle colline svago dei temporali. La peste regnava sovrana anche qui. Quando il giorno e la notte, come sorelle gemelle cresciute allo stesso modo, si divisero equamente il dominio delle ore, a uno a uno, sotto le grotte ghiacciate, di fianco alle acque che nascevano dalle nevi disciolte di migliaia di inverni, i pochi superstiti della stirpe dell’Uomo, un altro e poi un altro ancora, chiudevano per sempre gli occhi alla luce.
E tuttavia non avevamo sbagliato del tutto a cercare uno scenario come questo, dove chiudere il dramma. La natura, fedele fino alla fine, ci confortò proprio al culmine dell’afflizione. La grandiosità sublime degli oggetti esterni era come un balsamo per il cuore privo di speranza, ed era in armonia con la nostra desolazione. Nel corso variegato della sua esistenza l’uomo ha sopportato molti dispiaceri, e più di uno, dolente, profondamente afflitto, si è ritrovato unico sopravvissuto tra molti. La nostra infelicità assunse le forme e le sembianze maestose della vasta rovina che l’accompagnò e fu tutt’uno con essa. Sulla terra leggiadra, più di una gola oscura racchiude un ruscello mormoreggiante, ed è coperta dall’ombra di romantiche rocce, trapuntata di sentieri muschiosi: eppure a tutte, eccetto questa, mancava quello sfondo maestoso, le Alpi torreggianti, le loro cime nevose, e i nudi crinali che ci innalzavano dalla nostra opaca dimora mortale ai palazzi della Natura.
Questa solenne armonia di eventi e situazioni disciplinò i nostri sentimenti e diede, in un certo senso, l’abito adeguato al nostro ultimo atto. Una tristezza maestosa e una tragica pompa accompagnarono il decesso dell’umanità sventurata. I cortei funebri dei monarchi dell’antichità furono ampiamente superati dai nostri splendidi spettacoli. Vicino alle fonti dell’Arveiron celebrammo i riti in onore dell’ultimo della specie, con l’esclusione di quattro persone soltanto. Io e Adrian, lasciando Clara ed Evelyn immersi in un sonno pacifico e ignaro, trasportammo il corpo in questo luogo desolato, e lo deponemmo in una di quelle grotte di ghiaccio poste sotto il ghiacciaio, che si fendono e si spaccano al più lieve suono, portando distruzione a coloro che si trovano dentro i crepacci. Nessun uccello o animale da preda potrebbe profanare qui il corpo ghiacciato. Con passi felpati e senza parlare, deponemmo il morto su un feretro di ghiaccio; poi, prima di andarcene, ci fermammo sulla piattaforma rocciosa di fianco alle sorgenti del fiume. Anche se eravamo stati assolutamente silenziosi, l’attrito dell’aria sui nostri corpi era bastato a disturbare il riposo di questa regione di ghiacci eterni; avevamo appena lasciato la caverna, quando enormi blocchi di ghiaccio, staccandosi dal tetto, caddero e coprirono il corpo che vi era stato depositato. Avevamo scelto una bella notte di luna, ma il nostro viaggio era stato lungo, e prima di aver portato a termine il nostro compito la falce della luna era sprofondata dietro le vette occidentali. Le montagne innevate e i ghiacciai blu risplendevano nella loro luce. La gola frastagliata e scoscesa, che formava un lato del Monte Anvert, ci stava di fronte, il ghiacciaio di lato; ai nostri piedi l’Arveiron, bianco e spumeggiante, si lanciava contro le rocce appuntite e aggettanti che gli si protendevano sopra e, con spruzzi vorticosi e un rombo incessante, disturbava la notte silente. Lampi gialli giocavano intorno alla vasta cupola del Monte Bianco, silenziosi come la roccia ammantata di bianco che illuminavano; tutto era spoglio, selvaggio e sublime, mentre il canto dei pini col loro mormorio melodioso aggiungeva un tocco gentile a quella rude magnificenza. D’un tratto le rocce ghiacciate si squarciarono e caddero fendendo l’aria, il tuono della valanga ci esplose nelle orecchie. Nei paesi che hanno tratti meno grandiosi, la natura rivela i suoi poteri di vita nel fogliame degli alberi, nella crescita dell’erba, nel dolce parlottare dei ruscelli sinuosi; qui, dove è dotata di attributi giganteschi, sono invece i torrenti, i temporali, e il fluire di acque imponenti a mostrarne l’attività. Questo fu il sagrato, questo il requiem, questa la congregazione eterna che accompagnò il funerale del nostro compagno.
Non era soltanto il corpo di un uomo quello che avevamo deposto in questo sepolcro perenne, e le cui esequie stavamo celebrando. Con quest’ultima vittima scompariva dalla terra la Peste. Alla morte non erano mai mancate le armi con le quali distruggere la vita, e noi, ormai pochi e deboli, eravamo ancora esposti a qualsiasi altro dardo di cui la sua faretra abbondava. Ma la peste era assente. Per sette anni essa aveva avuto pieno dominio della terra, aveva calpestato ogni nicchia del nostro globo spazioso, si era mescolata all’atmosfera che avvolge come un mantello i nostri simili, gli abitanti della nostra Europa nativa, i fastosi asiatici, i bruni africani e i liberi abitanti del continente americano erano stati da lei sgominati e distrutti. La sua barbara tirannia giunse a conclusione qui, nella valle rocciosa di Chamounix.
Scene, fino a poco fa ricorrenti, di sofferenza e infelicità, frutto di questo malanno, non facevano più parte della nostra vita, la parola peste non ci risuonava più nelle orecchie, l’aspetto della peste incarnato sul volto dell’uomo non ci compariva più davanti agli occhi. Da questo momento non vidi più la peste. Abdicò al suo trono e si spogliò del suo scettro imperiale tra le rocce di ghiaccio che ci circondavano. Lasciò il silenzio e la solitudine eredi paritari del suo regno.
I miei sentimenti presenti sono così mescolati al passato che non sono in grado di dire se la coscienza di questo cambiamento ci attraversò mentre ci trovavamo in quel luogo sterile. Fu, mi pare, come se una nuvola sopra le nostre teste scivolasse via, come se si togliesse un peso dall’aria e se da allora potessimo respirare più liberamente e sollevare il capo con un po’ dell’antica libertà. E tuttavia non nutrivamo alcuna speranza. Avevamo la forte sensazione che la nostra razza fosse finita, ma che la peste non sarebbe stata la nostra distruttrice. Il tempo che sopraggiungeva era come un fiume portentoso sul quale avanza una barca stregata, il cui timoniere mortale sa che non è il pericolo che si vede quello da temere, ma che tuttavia il rischio è vicino; preso da soggezione, egli si lascia trascinare dalla corrente tra pareti scoscese, attraverso acque torbide e oscure, poi scorge in lontananza sagome ancor più bizzarre e informi, verso le quali viene irresistibilmente sospinto. Che ne sarebbe stato di noi? Oh, se solo un oracolo delfico o una vergine Pizia avessero svelato i segreti del futuro! Oh se solo un Edipo avesse risolto il rompicapo della Sfinge crudele! Questo Edipo dovevo essere io… ma non dovevo indovinare l’inganno di una parola: i miei tormenti strazianti e la vita segnata dal dolore dovevano essere la chiave per decifrare i segreti del destino e rivelare il significato dell’enigma la cui spiegazione poneva un termine alla storia della stirpe umana.
Mentre ce ne stavamo vicino a quella tomba silenziosa della natura, innalzata da questi monti senza vita sopra le sue vene pulsanti, soffocandone il principio vitale, ci venivano in mente delle fantasie confuse, simili a queste, che ci infondevano delle sensazioni legate a una certa gioia. «È così», disse Adrian, «restiamo noi, due malinconici alberi disseccati, là dove una volta si agitava una foresta. Restiamo noi ad affliggerci, a struggerci, a morire. Eppure persino ora abbiamo dei doveri, che dobbiamo costringerci ad adempiere: il dovere di dare gioia quando possiamo e, con la forza dell’amore, di irraggiare coi colori dell’arcobaleno la tempesta del dolore. Né mi lamenterò se in questo frangente estremo conserveremo quello che ora possediamo. Qualcosa mi dice, Verney, che non dobbiamo più temere la nostra crudele nemica, e io mi aggrappo con piacere alla voce dell’oracolo. Sebbene strano, sarà dolce osservare la crescita del tuo piccolo ometto, e l’evoluzione del giovane cuore di Clara. In mezzo a un mondo deserto, noi siamo tutto per loro; e, se vivremo, dovrà essere nostro compito rendere questo nuovo tipo di vita felice per loro. Al momento ciò è facile, perché le loro idee infantili non vagano verso il futuro, e ancora non si sono svegliati in loro il desiderio pungente di comprensione umana e tutto l’amore di cui la nostra natura è capace. Non possiamo indovinare cosa succederà poi, quando la natura farà valere i suoi poteri sacri e inoppugnabili; ma chissà, molto prima di allora, potremmo essere tutti freddi come l’uomo che giace in quella tomba di ghiaccio laggiù. Dobbiamo solo provvedere al presente, e sforzarci di riempire di immagini piacevoli la fantasia inesperta della tua nipote incantevole. Gli scenari che ora ci circondano, pur immensi e sublimi, non sono i più consoni ad aiutarci in questo compito. Qui la natura è grandiosa come il nostro destino; grandiosa, ma troppo distruttiva, spoglia e rude, per poter offrire diletto alla sua giovane immaginazione. Scendiamo dunque verso le pianure soleggiate dell’Italia. Presto arriverà l’inverno a rivestire questa regione selvaggia con una duplice desolazione, ma noi attraverseremo le brulle cime delle colline, e la condurremo verso scenari di fertilità e di bellezza, dove il suo sentiero sarà adornato di fiori, e dove l’atmosfera gioiosa infonderà piacere e speranza».
Il giorno seguente lasciammo dunque Chamounix. Non avevamo motivo di affrettare i nostri passi; non dovevamo occuparci di eventi che andassero al di là della sfera presente e che incatenassero le nostre decisioni, e così cedevamo a ogni capriccio, considerando ben speso il nostro tempo quand’era possibile contemplare il trascorrere delle ore senza sgomento. Ci attardammo nell’incantevole valle di Servox; passammo lunghe ore sul ponte che, attraversando la gola di Arve, domina la prospettiva dei suoi abissi rivestiti di pini, e delle montagne innevate che la racchiudono come pareti. Vagabondammo per la romantica Svizzera finché, spinti in avanti dalla paura dell'inverno che stava per sopraggiungere, ci trovammo, nei primi giorni di ottobre, nella valle di La Maurienne, che conduce al Cenisio. Non riesco a spiegare l’avversione che provavamo nel lasciare questa terra montuosa; forse era dovuta al fatto che consideravamo le Alpi come i confini tra la nostra precedente condizione di vita e quella futura, e dunque ci aggrappavamo amorevolmente a tutto quello che avevamo amato nel tempo ormai trascorso. Forse, ora che avevamo così pochi impulsi che ci costringevano a scegliere tra due modi di agire, eravamo lieti di conservare l’esistenza del primo, e preferivamo la prospettiva di quello che dovevamo fare al ricordo di quello che era stato fatto. Avevamo la sensazione che per quest’anno il pericolo fosse passato ritenendo che, per qualche mese, l’uno fosse assicurato all’altro. C’era un piacere elettrizzante e doloroso in questo pensiero, che ci velava gli occhi di lacrime, e ci faceva battere il cuore tumultuosamente, fin quasi a lacerarlo; eravamo tutti più fragili «della neve che cade nel fiume»,215 ma lottavamo per dar vita e individualità a quel corso di meteora delle nostre diverse esistenze e per sentire che non ci sfuggiva un solo momento senza che ne gioissimo. Così, vacillando sull’orlo della vertigine, eravamo felici. Sì!, quando ci sedevamo sotto le rocce che precipitavano, di fianco alle cascate o vicino alle
Foreste, antiche come le colline,
Che racchiudevano angoli soleggiati di verde,216
dove pascolavano i camosci, e lo scoiattolo timido ammucchiava il suo tesoro, decantando il fascino della natura e bevendone le bellezze inalienabili, noi, in un mondo deserto, eravamo felici.
Ancora, giorni di gioia, giorni in cui lo sguardo parlava all’altro sguardo, e voci, più dolci della musica dei rami oscillanti dei pini, o del gentile mormorio di piccoli ruscelli, rispondevano alla mia voce; giorni ricolmi di beatitudine, trascorsi in adorata compagnia, giorni indicibilmente cari, per me ormai sconsolato, trascorrete, trascorretemi davanti e nella memoria di voi, fatemi dimenticare quello che sono! Guardate come i miei occhi grondanti macchiano questi sciocchi fogli… Guardate come, solo a rammentarvi, i miei lineamenti sono sconvolti da fitte d’angoscia straziante, adesso che, ormai solo, le mie lacrime sgorgano, le mie labbra tremano, le mie grida riempiono l’aria senza che nessuno le veda, le noti, le oda! Ancora, dunque, ancora, voi, giorni di delizia lasciate ch’io indugi in queste vostre lunghe, lunghe ore!
Quando il freddo aumentò, oltrepassammo le Alpi e scendemmo verso l’Italia. Al levarsi del mattino, seduti davanti al nostro pasto, ingannavamo i rimpianti con battute gioconde o con dotte disquisizioni. Durante tutto il giorno ce ne andavamo a zonzo, tenendo sempre presente la meta del nostro viaggio, ma incuranti dell’ora in cui lo avremmo portato a compimento. Quando la stella della sera brillava, e il tramonto d’arancio, lontano a occidente, ci segnalava la posizione della cara terra che avevamo abbandonato per sempre, le parole, che incatenano il pensiero, facevano volare le ore… Se fossimo vissuti così in eterno! Cosa importava ai nostri quattro cuori, se essi erano le uniche fonti di vita in tutto il vasto mondo? Per quanto riguardava il solo sentimento individuale, che fossimo lasciati così, tutti uniti, piuttosto che, ognuno da solo in un deserto popolato di uomini sconosciuti, vagabondare senza veri compagni fino al momento finale dell’esistenza. Così cercavamo di consolarci l’un l’altro; così la vera filosofia ci insegnava a ragionare.
Servire Clara, che chiamavamo la piccola regina del mondo dichiarandoci i suoi più umili servitori, era la delizia mia e di Adrian. Quando arrivavamo in una città, la nostra prima preoccupazione era scegliere per lei la dimora più bella, assicurarci che non restassero atroci resti dei suoi precedenti abitanti, procurarle del cibo, e provvedere ai suoi bisogni con tenerezza premurosa. Clara partecipava al nostro piano con gaiezza infantile. Suo compito principale era occuparsi di Evelyn; ma era un suo grande divertimento abbigliarsi con splendide vesti, adornarsi di gemme luminose come il sole, e scimmiottare la gala principesca. La sua religione, pura e profonda, non le insegnava a rifiutarsi di attutire in questo modo le acute spine del rimpianto, e la sua vivacità giovanile la faceva partecipare, corpo e anima, a queste bizzarre mascherate.
Avevamo deciso di trascorrere l’inverno seguente a Milano, che, essendo una città grande e lussuosa, ci avrebbe offerto una grande scelta di case. Avevamo disceso le Alpi, e lasciato ormai molto indietro le loro vaste foreste e le loro guglie possenti. Entrammo sorridendo in Italia. Erba e grano crescevano insieme nelle pianure, i vigneti non potati gettavano i rami lussureggianti intorno agli olmi. L’uva, troppo matura, era caduta a terra, oppure pendeva, violacea o di un verde brunito, tra le foglie rosse e gialle. Le spighe diritte di grano, spulate a vuoto dai venti scialacquatori, le foglie cadute degli alberi, i ruscelli ricoperti di erbacce, gli olivi bruni, adesso chiazzati dai loro frutti anneriti, i castagni, del cui raccolto si occupava soltanto lo scoiattolo, tutta questa abbondanza, eppure, ahimè! tutta questa miseria, tingevano di tonalità straordinarie e forme fantastiche questa terra di bellezza. Nelle città ammutolite, visitavamo le chiese, ornate di quadri, di capolavori d’arte o di gallerie di statue; intanto, in questo clima benigno, gli animali che avevano ritrovato la loro libertà, vagavano per i palazzi fastosi, e difficilmente erano intimoriti dalla nostra presenza, che avevano dimenticato. I buoi color tortora volgevano su di noi i loro occhi tondi, e poi passavano lentamente oltre; una moltitudine allarmante di stupide pecore saltava fuori scalpicciando da qualche camera, prima deputata al riposo della bella, e poi, accalcandosi quando ci passava vicino, si precipitava giù per la scala di marmo fino in strada, per poi entrare di nuovo dentro la prima porta aperta e impossessarsi, senza incontrare biasimo alcuno, di un santuario consacrato, o della camera del consiglio reale. Non trasalivamo più davanti a questi episodi, né davanti a scene di mutamento ben peggiori, quando un palazzo era diventato solo una tomba, impregnata di un puzzo fetido, cosparsa di morti, e potevamo renderci conto di come la peste e la paura fossero stati dei buffoni grotteschi, che avevano ricacciato le dame di lusso nei campi umidi e nelle dimore più spoglie, e avevano riunito tra tappeti di tela indiana e letti di seta dei rozzi contadini o le sagome deformate e semiumane di miserabili mendicanti.
Giunti a Milano, ci sistemammo nel palazzo del Viceré. Qui emanammo per noi stessi delle leggi, suddividendo la nostra giornata, e fissando occupazioni diverse per ogni ora. Al mattino andavamo a cavallo per la campagna vicina, o vagavamo per i palazzi in cerca di dipinti o antichità. La sera ci riunivamo per leggere o conversare. Erano pochi libri che avevamo l’ardire di leggere, che non deturpavano crudelmente la facciata che avevamo costruito per la nostra solitudine, riportando alla mente ricordi ed emozioni di cui non avremmo mai più fatto esperienza. Disquisizioni metafisiche, narrazioni romanzesche, che si allontanavano da qualsiasi realtà e si perdevano nei loro stessi errori, poeti di epoche trascorse da così tanto tempo ormai che leggerli era come leggere di Atlantide e Utopia; libri sulla natura, o che si riferivano alle elaborazioni di una mente particolare; ma, soprattutto, era il parlare di argomenti diversi e sempre nuovi che ci permetteva di ingannare le ore.
Mentre facevamo così delle soste nel nostro avvicinamento verso la morte, il tempo manteneva il suo corso abituale. Ancora e in eterno la terra continuava a girare, posta sul trono della sua carrozza aerea, spinta velocemente dai destrieri invisibili dell’infallibile necessità. E ora, questa goccia di rugiada nel cielo, questa sfera gremita di monti e rilucente di flutti, lasciando la tirannia dei Pesci e dell’Ariete, entrava sotto il dominio radioso del Toro e dei Gemelli. Là, sotto gli aliti delle brezze primaverili, lo Spirito della Bellezza si levò dal suo freddo riposo e, con ali frullanti e incedere delicato, cinse la terra di verde, giocando tra le violette, nascondendosi tra il fogliame in germoglio degli alberi, balzando lieve giù per i ruscelli radiosi fino all’oceano assolato. «Perché, ecco! L’inverno è passato, la pioggia è finita e se ne è andata; sulla terra compaiono i fiori, è giunto il tempo in cui gli uccelli cantano, e da terra si ode la voce della tartaruga di mare; il fico fa sbocciare i suoi verdi frutti, e i vigneti, col tenero grappolo, effondono un buon odore».217 Così era al tempo dell’antico poeta regale, così era anche ora.
Eppure come potevamo, noi sventurati, salutare esultanti l’approssimarsi di questa stagione incantevole? In verità speravamo che la morte non camminasse, ora come fino a quel momento, nella sua ombra; eravamo rimasti soli e ci guardavamo in viso l’un l’altro con occhi indagatori, non osando credere fino in fondo ai nostri presentimenti, e sforzandoci di indovinare fra noi l’infelice che sarebbe sopravvissuto agli altri tre. Volevamo passare l’estate sul lago di Como e non appena la primavera giunse alla sua maturità e la neve scomparve dalle cime delle colline ci spostammo là. A dieci miglia da Como, sotto le ripide vette delle montagne orientali, ai margini del lago, c’era una villa detta La Pliniana, poiché era stata costruita di fianco a una sorgente il cui fluire e defluire periodico viene descritto da Plinio il Giovane nelle sue lettere.218 La casa era quasi compieta- mente andata in rovina quando, nel 2090, un nobile inglese l’aveva comprata e l’aveva fornita di ogni comodità. Due grandi saloni, decorati con splendidi arazzi, e pavimentati di marmo, si aprivano su ogni lato della corte; degli altri due lati, uno dominava il lago profondo e scuro, e l’altro era delimitato da una montagna, dal cui fianco roccioso zampillava, con spruzzi e fragore, la celebrata sorgente. In alto, un sottobosco di mirti e di arbusti di piante odorose incoronava la roccia, mentre i cipressi giganteschi che indicavano le stelle si innalzavano nell’aria azzurra, e le cavità delle colline erano ornate dalla crescita lussureggiante dei noci. Qui stabilimmo la nostra residenza estiva. Avevamo una deliziosa barchetta con cui navigavamo, ora procedendo contro corrente, proprio nel bel mezzo delle onde, ora costeggiando le rive a strapiombo sul lago, mentre i fitti pini tuffavano nell’acqua le loro foglie brillanti e venivano rispecchiati in molte delle piccole baie e insenature di quel lago di un’oscurità traslucida. Qui fiorivano piante d’arancio, qui gli uccelli lasciavano sgorgare inni melodiosi, e qui, durante la primavera, il serpente freddo emergeva dai crepacci, e si crogiolava sulle assolate terrazze di roccia.
Non eravamo forse felici in questo rifugio paradisiaco? Se qualche spirito gentile ci avesse infuso la dimenticanza, credo che saremmo stati felici in questo luogo, dove i monti scoscesi, quasi senza sentieri, ci chiudevano alla vista le lontane distese della terra desolata e, con un piccolo sforzo della fantasia, potevamo immaginare che le città risuonassero ancora delle voci degli uomini, che il contadino guidasse ancora il suo aratro per i solchi, e che noi, liberi cittadini del mondo, vivessimo felici in un esilio volontario, e non fossimo invece separati a causa di un’irrimediabile cesura dalla nostra specie estinta.
Nessuno di noi godette tanto della bellezza di questo scenario quanto Clara. Prima che lasciassimo Milano, era sopravvenuto un cambiamento nei suoi modi e nelle sue abitudini. Perse la sua gaiezza, mise da parte i giochi e scelse un abbigliamento di una semplicità quasi da vestale. Ci evitava, e si ritirava con
Evelyn in qualche camera distante o in un cantuccio silenzioso, non partecipava agli svaghi del bambino con lo stesso zelo di un tempo, ma si sedeva e lo guardava con sorrisi tristi e dolci e con gli occhi lucidi di lacrime, senza tuttavia una parola di rammarico. Si avvicinava a noi timidamente, evitava le nostre carezze, né si scuoteva di dosso il suo imbarazzo fino a che una discussione seria o un argomento elevato facevano sì che per un po’ si lasciasse andare. La sua bellezza crebbe come una rosa che aprendosi al vento estivo si offra alla vista, petalo dopo petalo, finché i sensi fanno male per l’eccesso di grazia. Un colore leggero e mutevole le tingeva le guance, e i suoi movimenti sembravano accordati a qualche melodia nascosta, di una dolcezza senza pari. Raddoppiammo la nostra tenerezza e le nostre sollecite attenzioni. La fanciulla le riceveva con sorrisi grati che volavano via rapidi come un raggio di sole su un’onda luccicante in un giorno di aprile.
L’unica evidente sintonia con lei si stabiliva attraverso Evelyn. Questa cara piccola creatura rappresentava, per tutti noi, un conforto e una gioia indicibili. Il suo animo esuberante e la sua innocente inconsapevolezza della nostra enorme calamità erano un balsamo per tutti noi che lasciavamo i nostri pensieri e i nostri sentimenti affannarsi e amplificarsi nell’immensità del dolore speculativo. Curarlo teneramente, accarezzarlo, distrarlo, era compito comune. Clara, che nei suoi confronti si sentiva come una giovane madre, accettava con gratitudine la nostra gentilezza verso di lui. Per me, che vedevo rinati sul suo viso gentile le chiare ciglia e i dolci occhi dell’idolo del mio cuore, la mia perduta Idris, a me eternamente cara, per me egli era prezioso fin quasi alla sofferenza; se me lo stringevo al cuore, mi sembrava di abbracciare una parte reale e vivente di Idris, che era rimasta lì nel corso di lunghi anni di felicità giovanile.
Era abitudine mia e di Adrian uscire con la nostra barchetta per rifornirci di viveri nella campagna adiacente. Durante queste spedizioni raramente Clara o il piccolo affidato alle sue cure ci accompagnavano, ma il ritorno era un momento di allegria. Evelyn rovistava fra le nostre scorte con bramosia infantile, e noi portavamo sempre qualche nuovo dono alla nostra bella compagna. Durante queste escursioni scoprivamo scenari incantevoli o palazzi ridenti, dove ci recavamo tutti insieme la sera. Le nostre spedizioni con la barca erano assolutamente magnifiche, e con il vento favorevole o seguendo rotte trasversali fendevamo le acque limpide; se, oppressi da qualche pensiero, la conversazione languiva, avevo con me il mio clarinetto, che risvegliava l’eco delle parole e imponeva un cambiamento ai nostri animi assorti. Clara, in quelle occasioni, tornava spesso a parlare liberamente e a lanciare battute gioviali come un tempo; e anche se al mondo battevano solamente i nostri quattro cuori, quei quattro cuori erano felici.
Un giorno, tornando dalla città di Como con la barca carica, aspettavamo come al solito che Clara e Evelyn ci venissero incontro al porto, e fummo in qualche modo sorpresi nel vedere la spiaggia deserta. Seguendo l’impulso della mia natura, non volevo pensare a qualcosa di negativo, e cercavo si spiegarmi la cosa come una semplice casualità. Non così Adrian. Egli fu colto da un tremito e da un’ansia improvvisi, e mi urlò con veemenza di fare rapidamente rotta a terra; quando fummo vicini alla riva, uscì con un salto dalla barca quasi cadendo in acqua e, arrampicandosi su per la scarpata ripida, si affrettò lungo la stretta striscia di giardino, l’unico spazio piano tra il lago e la montagna. Lo seguii senza perdere tempo; il giardino e la corte interna erano vuoti, e così la casa, di cui controllammo ogni stanza. Adrian chiamò ad alta voce il nome di Clara, e stava per precipitarsi su per il vicino sentiero montano, quando la porta del padiglione in fondo al giardino si aprì lentamente, e apparve Clara, che non avanzò verso di noi, ma si appoggiò contro una colonna della costruzione con le guance sbiancate, in atteggiamento di totale sconforto. Adrian balzò verso di lei con un’esclamazione di gioia, e la strinse felice tra le braccia. Ella si ritrasse dal suo abbraccio e, senza una parola, entrò di nuovo nel padiglione. Le labbra tremanti, il cuore disperato, si rifiutavano di darle la voce per rivelarci la nostra disgrazia. Il povero piccolo Evelyn era stato colto da una febbre improvvisa mentre giocava con lei, e ora giaceva intorpidito e muto su un piccolo giaciglio dentro il padiglione.
Vegliammo incessantemente il povero bambino per quindici giorni interi, mentre la sua vita si spegneva sotto le devastazioni compiute da un tifo virulento. Il suo piccolo corpo e i suoi lineamenti minuti racchiudevano come in una gabbia l’embrione dell’anima dell’uomo, quell’anima che abbraccia tutto il mondo. La natura dell’uomo, traboccante di passioni e di affetti, avrebbe trovato una dimora in quel piccolo cuore, le cui pulsazioni veloci si affrettavano verso la fine. Il meccanismo raffinato della sua piccola mano, ora flaccida e rilassata, avrebbe compiuto, con lo sviluppo dei tendini e dei muscoli, lavori di bellezza o di forza. Il suo piede tenero e roseo avrebbe camminato con la determinazione della virilità per i pergolati e le radure della terra… Ma queste riflessioni avevano ormai ben poco senso: egli se ne stava lì, disteso, il pensiero e la forza sospesi, attendendo senza opporre resistenza il colpo finale.
Restammo al suo capezzale, e quando sopravveniva un accesso di febbre, non parlavamo né ci guardavamo l’un l’altro, ma osservavamo solo il suo respiro affannoso e il colore mortale che tingeva le sue guance scavate, la morte solenne che gravava sulle sue palpebre. È un espediente ormai trito dire che le parole non potrebbero esprimere quel nostro strazio che durava ormai da così tanto; e tuttavia le parole non possono dipingere sensazioni la cui intensità tormentosa ci rigetta indietro fin quasi alle radici profonde e alle fondamenta nascoste della nostra natura, che scuotono il nostro essere con spasimi violenti come un terremoto, tanto che cessando di avere fiducia nei sentimenti consueti che, come la madre terra, ci sostengono, ci aggrappiamo a qualche vana immaginazione o a qualche speranza ingannevole, che sarà presto sotterrata dalle rovine prodotte dalla violenta emozione finale. Ho detto che restammo in quella situazione per una quindicina di giorni, trascorsi a scrutare gli sviluppi della malattia sul nostro tenero bambino, e tanti devono essere stati. Ma di notte ci stupivamo nel renderci conto che un altro giorno era passato, mentre ogni singola ora sembrava infinita. Senza contarli, giorno e notte si erano invertiti, quasi non dormivamo, e non lasciavamo neppure la sua stanza se non quando una fitta acuta di dolore si impossessava di noi, e allora ci appartavamo per breve tempo, per nascondere i singhiozzi e le lacrime. Ci sforzavamo invano di sottrarre Clara a questa scena straziante. La fanciulla sedeva, ora dopo ora, guardandolo, oppure sistemandogli delicatamente il cuscino, e, quando lui aveva la forza di ingoiare, dandogli da bere. Giunse infine il momento della morte: il sangue cessò di scorrere, i suoi occhi si aprirono, e poi si chiusero di nuovo; senza convulsioni o sospiri, la fragile dimora fu lasciata priva del suo abitatore spirituale.219
Ho sentito dire che la vista dei morti ha confermato i materialisti nel loro credo. Io ho sempre sperimentato il contrario. Era forse mio figlio, quella cosa inanimata, sul punto di decomporsi? Il mio bambino andava in estasi alle mie carezze, la sua cara voce rivestiva i suoi pensieri, altrimenti inaccessibili, con suoni eloquenti, il suo sorriso era un raggio dell’anima, e la stessa anima aveva il suo trono negli occhi. Io mi volgo altrove davanti a questa grottesca parodia di quello che lui era. Riscuoti pure, terra, il tuo debito! Io ti consegno spontaneamente, e per sempre, la spoglia che ci concedesti. Ma tu, dolce creatura, fanciullo affettuoso e adorabile, o il tuo spirito ha cercato una dimora più consona, oppure, custodito come in un reliquiario dentro il mio cuore, vivrai fintanto che questo vivrà.
Deponemmo i suoi resti sotto un cipresso, dopo aver scavato una fossa destinata ad accoglierli nella parete diritta della montagna. E allora Clara disse: «Se volete che io viva, portatemi via di qui. C’è qualcosa in questo scenario di trascendente bellezza, in questi alberi, in queste colline, in queste acque, che mi sussurra continuamente: “lascia la tua carne ingombrante, e vieni a far parte di noi”. E dunque vi supplico ardentemente, portatemi via».
Così, il quindici agosto, dicemmo addio alla nostra villa e alle ombre accoglienti di questa dimora di bellezza, alla baia calma e alle cascate rumorose; anche alla piccola tomba di Evelyn dicemmo addio, e poi, con cuore greve, iniziammo il nostro pellegrinaggio verso Roma.
CAPITOLO XXIX
E ora… piano… Sono dunque arrivato così vicino alla fine? Sì! È tutto finito ormai; uno o due passi su queste fresche tombe, e il faticoso percorso è compiuto. Riuscirò a portare a termine il mio compito? Riuscirò a vergare il mio foglio con parole appropriate alla grandiosa conclusione? Risvegliati, o nera Malinconia! Abbandona la tua solitudine cimmeria!220 Porta con te, dagl’inferi, nebbie tenebrose, capaci di bersi in un sol sorso il giorno, porta influssi malefici ed esalazioni pestifere che, penetrando nelle grotte cave e nei luoghi della terra che sembrano vivi, possano riempire di corruzione le sue vene di pietra, affinché non solo la vegetazione non cresca più rigogliosa, gli alberi possano marcire, e i fiumi essere inondati di fiele; ma affinché anche le montagne eterne si decompongano, e l’oceano maestoso si putrefaccia, e l’atmosfera benigna che sta aggrappata al globo perda tutta la sua capacità di generare e dare sostentamento. Fa’ tutto questo, o potere dal volto triste, mentre io scrivo, mentre degli occhi leggono queste pagine.
Ma chi le leggerà? Fa’ attenzione, tenera prole del mondo rinato… Fa’ attenzione, bella creatura, dal cuore non ancora domato dalle preoccupazioni, dalla fronte non ancora solcata dal tempo; fa’ attenzione, o la corrente gioiosa del tuo sangue si arresterà, i tuoi riccioli d’oro diventeranno grigi, le dolci fossette del tuo sorriso si tramuteranno in rughe fisse e dure! Non lasciare che il giorno veda queste righe, o il giorno abbagliante si consumerà, diventerà pallido, e morirà. Cerca un boschetto di cipressi, in cui il gemito dei rami produrrà un’armonia conveniente; cerca qualche grotta, rinchiusa nel profondo delle oscure viscere della terra, dove non filtri luce alcuna, salvo quella che penetra a stento, rossa e guizzante, attraverso l’unica fessura e tinge la tua pagina con le sembianze più macabre della morte.
C’è una confusione dolorosa nel mio cervello, che si rifiuta di delineare in maniera distinta gli eventi successivi. Talvolta mi si presenta davanti la luminosità raggiante del sorriso gentile del mio amico, e mi sembra che la sua luce si espanda e riempia l’eternità, poi, di nuovo, provo quelle fitte atroci che mi lasciano senza fiato.
Abbandonammo Como e, assecondando l’ardente desiderio di Adrian, decidemmo, sulla via per Roma, di passare per Venezia. C’era qualcosa di particolarmente affascinante per gli inglesi nell’idea di questa città troneggiante su un’isola e circondata dall’acqua. Adrian non l’aveva mai vista. Discendemmo per il Po e il Brenta con una barca, e poiché le giornate erano intollerabilmente calde, di giorno riposavamo nei palazzi che si trovavano ai margini delle acque, e viaggiavamo di notte, quando l’oscurità rendeva indistinte le vicine sponde, e dava meno risalto alla nostra solitudine, quando la luna vagabonda illuminava le onde che si dividevano davanti alla nostra prua, il vento notturno riempiva le vele, e il mormorio della corrente, l’ondeggiare degli alberi, e il gonfiarsi delle vele si accordavano in una melodia armoniosa. Clara, sopraffatta dal dolore eccessivo, aveva in gran parte accantonato il suo timido riserbo e riceveva le nostre attenzioni con grata tenerezza. Mentre Adrian discorreva con fervore poetico delle gloriose nazioni dei morti, della bella terra e del destino dell’uomo, le scivolava al fianco, imbevendosi dei suoi discorsi con piacere silenzioso. Bandimmo dalle nostre chiacchierate, e fin dove possibile dai nostri pensieri, la consapevolezza della nostra desolazione. E sarebbe incredibile per un abitante delle città, per uno che appartiene alla folla affaccendata, sapere fino a che punto vi riuscimmo. Si pensi a un uomo confinato in una prigione sotterranea, in cui il piccolo spiraglio, coperto dalle grate, rende all’inizio la luce incerta ancor più tenebrosa, finché, quando l’occhio ha assorbito quel raggio e si è adattato alla sua scarsità, pensa che nella sua cella abiti il chiaro mezzogiorno. Così noi, solo una triade sulla terra deserta, ci eravamo moltiplicati l’uno per l’altro, fino a che diventammo tutto. Eravamo come alberi, le cui radici siano state divelte dal vento, che si sostengano reciprocamente, appoggiandosi e afferrandosi l’uno all’altro con crescente ardore, mentre ululano le bufere invernali.
Navigammo discendendo il letto sempre più ampio del Po, dormendo quando cantavano le cicale, vegliando con le stelle. Ci immettemmo tra le sponde più strette del Brenta, e arrivammo sulle rive della Laguna all’alba del sei settembre. Il globo luminoso sorse lentamente da dietro le cupole e le torri della città, e sparse la sua luce penetrante su quelle acque cristalline. Sulla spiaggia, a Fusina, erano sparse delle gondole, molte solo dei relitti, e alcune, poche, indenni. Ci imbarcammo su una di queste per raggiungere la figlia vedova dell’oceano, abbandonata e decaduta, che sedeva sconsolata, sorretta dalle sue isole, rivolta verso le lontane montagne della Grecia. Remammo dolcemente nella Laguna ed entrammo nel Canal Grande. La marea rifluiva accigliata dai portali rotti e dai saloni violati di Venezia: alghe e mostri marini venivano abbandonati sul marmo annerito, mentre la fanghiglia salata deturpava le ineguagliabili opere d’arte che ne adornavano le mura, e i gabbiani volavano fuori dalle finestre distrutte. Nel pieno della rovina terrificante abbattutasi su questi monumenti innalzati al potere dell’uomo, la natura asseriva la propria supremazia, e rifulgeva ancor più bella nel contrasto. Le acque radiose tremolavano appena, mentre le onde che si increspavano diventavano tanti specchi sfaccettati del sole; l’immensità blu che si scorgeva oltre il Lido, si estendeva in lontananza, non intaccata dalla piccola macchia di una sola barca; così tranquilla, così incantevole, che sembrava invitarci ad abbandonare la terra cosparsa di rovine, e a cercare un rifugio dal dolore e dalla paura nella sua placida distesa.
Dall’altezza del campanile di San Marco vedemmo sotto di noi le rovine di questa disgraziata città, e ci volgemmo col cuore in pena verso il mare che, sebbene sia una tomba, non innalza monumenti, né offre alla vista rovine. La sera era scesa in fretta. Il sole tramontò con calma maestà dietro le cime nebbiose degli Appennini, e le sue tonalità rosee e dorate tingevano le montagne che si trovavano sulla riva opposta. «Quella terra», disse Adrian, «tinteggiata dai colori delle ultime glorie del giorno, è la Grecia». Grecia! Quel suono fece vibrare una corda sorella nel petto di Clara. Ci ricordò con veemenza che le avevamo promesso di portarla ancora una volta in Grecia, sulla tomba dei suoi genitori. Perché andare a Roma? Cosa avremmo fatto a Roma? Potevamo prendere una delle molte navi che si trovavano lì vicino, imbarcarci, e dirigerci senza deviazioni verso l’Albania.
Io mi opposi ricordando i pericoli del mare e la distanza delle montagne che circondano Atene, una distanza che, considerato lo stato selvaggio e incolto del paese, era quasi insormontabile. Adrian, deliziato dalla proposta di Clara, controbatté a ciascuna di queste obiezioni. La stagione era favorevole, soffiava un vento nord occidentale che ci avrebbe spinto trasversalmente per il golfo, e poi in qualche porto abbandonato avremmo potuto trovare un leggero caicco greco, adatto a questo tipo navigazione, e scendere veloci giù per la costa della Morea e, oltrepassando l’istmo di Corinto, senza viaggiare troppo per terra o senza stancarci troppo, trovarci a Atene. Mi parve un discorso folle, ma il mare, infiammandosi di mille sfumature purpuree, appariva così brillante e sicuro e i miei adorati compagni erano così seri, così determinati che, quando Adrian disse: «Ebbene, se anche non è proprio quello che desideri, acconsenti, te ne prego, per me», non potei rifiutare più a lungo. Quella sera scegliemmo un’imbarcazione, la cui dimensione sembrava proprio adatta alla nostra impresa, fissammo le vele, sistemammo il sartiame; quella notte ci riposammo in uno dei mille palazzi della città, e concordammo di salpare all’alba del mattino seguente.
Quando i venti che non muovono la sua calma superficie, spazzano
L’azzurro mare, non amo più la terra;
I sorrisi della serena e tranquilla profondità
Tentano il mio animo inquieto…
Così disse Adrian, citando una traduzione di una poesia di Mosco, mentre nella chiara luce del mattino remavamo sulla Laguna, oltrepassando il Lido, verso il mare aperto. Avrei voluto aggiungere a mo’ di continuazione:
Ma, quando il ruggito
Del grigio abisso dell’oceano risuona, e la schiuma
Si raccoglie sul mare, ed esplodono alte le onde…221
Ma i miei amici dichiararono che tali versi erano un cattivo auspicio; e così, con umore gaio, lasciammo le acque basse e spiegammo le vele per cogliere la brezza favorevole. L’aria ridente del mattino le riempì, mentre la luce del sole bagnava la terra, il cielo e l’oceano. Le onde placide si aprivano per accogliere la nostra chiglia, e baciavano giocosamente i fianchi scuri del nostro piccolo scafo, mormorando un benvenuto; via via che la terra si allontanava, la distesa blu, assolutamente immobile, gemella dell’azzurro empireo, ci permetteva sempre un agevole controllo della nostra barca. Come tranquille e balsamiche erano l’aria e le acque, così i nostri animi erano immersi nella quiete. Paragonata a quell’abisso incontaminato, la terra funerea appariva una tomba, e le sue alte rocce e le sue montagne imponenti erano solo dei monumenti, i suoi alberi la criniera di un cavallo, e i ruscelli e i fiumi erano resi salmastri dalle lacrime versate per gli uomini scomparsi. Addio alle città desolate, ai campi e alla loro orrida mescolanza di grano ed erbacce, ai resti sempre più numerosi della nostra specie perduta. Oceano, noi ci affidiamo a te e, come l’antico patriarca navigò sul mondo sommerso, salva anche noi che, allo stesso modo, ci affidiamo alla tua piena perenne.
Adrian sedeva al timone e io mi occupavo del sartiame; la brezza, proveniente da poppa, ci riempiva le velature rigonfie, e noi le correvamo innanzi sull’abisso imperturbato. A mezzogiorno il vento calò, il suo alito pigro ci permetteva a malapena di mantenere la rotta. Come pigri marinai del buon tempo, incuranti dell’ora futura, parlavamo gaiamente del viaggio lungo la costa, dell’arrivo ad Atene. Avremmo scelto come dimora una delle Cicladi e là, tra i boschetti di mirto, nell’eterna primavera, rinfrescati dalla salubre brezza marina, avremmo vissuto lunghi anni in beata concordia… Esisteva al mondo una cosa come la morte?
Il sole oltrepassò lo zenit e si attardò per il piano immacolato della volta celeste. Disteso nella barca, la faccia rivolta verso il cielo, mi sembrò di vedere in quel blu alcune striature bianche, marmorizzate, così lievi, così immateriali, che ora dicevo: eccole, ci sono, e ora: è solo la mia immaginazione. Mentre le fissavo mi afferrò una paura improvvisa; saltai su, e mi precipitai a prua (mentre ero lì, in piedi, i capelli mi si sollevarono delicatamente dalla fronte e una linea scura fatta di increspature comparve a oriente raggiungendoci velocemente); una mia ansimante osservazione ad Adrian fu seguita dallo sbatacchiare delle vele, mentre il vento contrario le colpiva e la nostra barca sbandava; rapida come le parole, la tela della tempesta si ispessì a prua, il sole tramontò rosso, il mare scuro si ricoprì di schiuma, e il nostro scafo si ergeva e s’inabissava sulle sue scie sempre in aumento.
Eccoci ora nella nostra fragile casa, circondata da onde voraci e ruggenti, schiaffeggiata dai venti. Ad oriente due nuvoloni color dell’inchiostro che navigavano in direzioni contrarie si scontrarono: balzò fuori il lampo, e il tuono rauco brontolò. Anche a sud le nuvole risposero, e quel fiume forcuto di fuoco che correva per il cielo nero ci mostrò i cumuli terrificanti di nuvole che ora avevano toccato e oscurato le onde che si levavano sempre più alte. O gran Dio! E noi soli, noi tre, soli, unici abitatori del mare e della terra, dovevamo morire! Il vasto universo, le sue miriadi di mondi, e le distese di terra sconfinata che avevamo lasciato, l’estensione dell’immenso mare all’intorno si contrassero alla mia vista; tutto ciò e quello che vi era contenuto, si concentrò in un unico punto, proprio sulla nostra barca sballottata, che recava il carico di un’umanità gloriosa.
Un accesso di disperazione attraversò il volto risplendente d’amore di Adrian, mentre coi denti serrati mormorava: «Eppure loro devono salvarsi!». Clara, colta da uno spasimo di paura, pallida e tremante, gli scivolò vicino; egli la guardò con un sorriso incoraggiante: «Hai paura, mia dolce fanciulla? Oh, non aver paura, presto saremo a terra!».
L’oscurità mi impediva di vedere i cambiamenti del suo volto, ma la sua voce era chiara e dolce, mentre rispondeva: «Perché dovrei aver paura? Né il mare né la tempesta possono farci del male, se il destino potente o colui che domina il destino non lo permettono. E dunque non c’è la paura lancinante di sopravvivere a uno o all’altro di voi due: un’unica morte ci abbraccerà tutti senza dividerci».
Riducemmo tutte le vele, tranne un cuneo e, non appena ci fu possibile, cambiammo rotta, correndo col vento favorevole verso la costa italiana. La notte oscura confondeva tutto, e potevamo a malapena distinguere le creste bianche dei cavalloni assassini, a eccezione di quando i lampi creavano un rapido mezzogiorno e assorbivano l’oscurità mostrandoci il pericolo, restituendoci poi a una notte raddoppiata. Eravamo tutti in silenzio, tranne quando Adrian, il nostro timoniere, fece un’osservazione incoraggiante. Il nostro piccolo guscio rispose al timone miracolosamente bene, e corse sul filo delle onde come se fosse stato un rampollo del mare e la madre arrabbiata proteggesse il figlio in pericolo.
Sedetti a prua, controllando la rotta quando all’improvviso sentii le acque frangersi con furia raddoppiata. Eravamo certamente vicino alla riva; esclamai: «Là, da quella parte!», e nello stesso tempo un grande lampo che inondò la superficie concava ci mostrò per un attimo la spiaggia piatta davanti a noi persino la sabbia e i canneti rachitici spruzzati di melma che crescevano al livello della piena. Di nuovo fu tutto scuro, e noi tirammo un sospiro di sollievo, con la stessa contentezza di chi, mentre frammenti di roccia scagliati in alto da un vulcano oscurano l’aria, vede una grande folla arare il terreno proprio davanti ai suoi piedi. Non sapevamo cosa fare, i caval-
Ioni ci accerchiavano da ogni parte: mugghiavano, si scagliavano in avanti e ci lanciavano in faccia i loro odiosi spruzzi. Con notevole difficoltà e con grande rischio riuscimmo alla fine a modificare la rotta. Esortai i miei compagni a prepararsi al naufragio del nostro piccolo scafo, a legarsi a qualche remo o a qualche pennone in grado di farli galleggiare. Quanto a me ero un ottimo nuotatore, la sola vista del mare suscitava in me la sensazione del cacciatore che sente una muta di cani gettarsi all’inseguimento; adoravo sentire le onde che mi avvolgevano e cercavano di sopraffarmi, mentre io, padrone di me stesso, mi muovevo in questa o in quella direzione, a dispetto dei loro colpi rabbiosi. Anche Adrian sapeva nuotare, ma la sua debole costituzione fisica gli impediva di provare piacere nell’esercizio o di acquistare grande destrezza. Ma quale forza poteva opporre anche il nuotatore più forte alla violenza dirompente dell’oceano nel pieno della sua furia? I miei tentativi di preparare i compagni furono resi quasi del tutto vani: il rumore assordante dei marosi impediva di sentire quello che l’altro diceva e le onde che si frangevano continuamente contro la nostra imbarcazione mi costringevano a usare tutte le mie forze per togliere l’acqua con la stessa velocità con cui entrava. Intanto un’oscurità palpabile e tetra, dissipata solo dai lampi, ci attorniava completamente; talvolta vedevamo delle saette rosso fuoco cadere in mare, e a intervalli dei grossi fiotti d’acqua si riversavano giù dalle nuvole, facendo ribollire l’oceano selvaggio, che si sollevava per andar loro incontro, mentre il fortunale feroce trascinava avanti i nembi che si perdevano nel mescolarsi caotico di cielo e mare. Le nostre frisate erano state fatte a pezzi, la nostra unica vela era stata lacerata, ridotta in strisce e travolta dalla corrente del vento. Avevamo reciso l’albero, e alleggerito la barca di tutto quello che conteneva. Clara cercava di aiutarmi a togliere l’acqua dalla stiva e, mentre alzava gli occhi per guardare i lampi, in quel bagliore momentaneo vidi che la rassegnazione aveva vinto ogni paura. Abbiamo una forza che ci viene data in ogni situazione estrema, che sorregge la fibra altrimenti debole dell’uomo, permettendoci di sopportare le torture più atroci con una tranquillità d’animo che nelle ore di felicità non avremmo potuto immaginare. Una calma, più terrificante in verità della tempesta, placò i battiti selvaggi del mio cuore, una calma simile a quella del giocatore d’azzardo, del suicida o dell’assassino, quando l’ultimo dado sta per essere lanciato, la coppa avvelenata è ormai alle labbra, il colpo mortale sta per essere inferto.
Ore intere trascorsero così, ore che potrebbero imprimere i segni della vecchiaia sul volto imberbe della gioventù, e ingrigire i capelli serici dell’infanzia; ore in cui proseguì il tumulto caotico, in cui ogni raffica temuta superava la furia di quella precedente, mentre il nostro scafo rimaneva sospeso sull’onda che si frangeva dirompente, e poi precipitava nella valle sottostante, sobbalzava e roteava tra i precipizi d’acqua che il più delle volte sembravano incontrarsi sopra di esso. Per un momento il fortunale si placò, e l’oceano sprofondò in un relativo silenzio; fu un intervallo che lasciò col fiato sospeso; il vento che si era raccolto prima di spiccare il balzo, come un saltatore provetto, ora si precipitò sul mare con un mugghio terrificante, e le onde ci investirono violentemente a poppa. Adrian gridò che il timone era ormai fuori uso. «Siamo perduti!», gemette Clara. «Salvatevi! Oh, voi salvatevi!». Il lampo mi mostrò la povera ragazza quasi sommersa dall’acqua, sul fondo della barca: mentre stava sprofondando Adrian l’afferrò e la sostenne tra le braccia. Eravamo senza timone, precipitavamo con la prua in avanti immersa tra i giganteschi cavalloni che ci si ammassavano davanti; essi si infransero sopra di noi e riempirono il nostro piccolo scafo; sentii un urlo, un grido che diceva che eravamo perduti, fui io a lanciarlo; mi ritrovai tra le acque, intorno solo l’oscurità. Quando balenò la luce della tempesta, vidi la chiglia della nostra barca rovesciata vicino a me, mi aggrappai a essa, afferrandola saldamente con le mani e con le unghie, mentre mi sforzavo, a ogni lampo, di scoprire una traccia qualsiasi dei miei compagni. Mi parve di vedere Adrian che si aggrappava a un remo, non a grande distanza da me; abbandonai con un guizzo la mia presa, e con un’energia che andava oltre le mie forze, mi lanciai di lato sul filo delle acque cercando di afferrarlo. Quando quella speranza svanì, fui animato da un amore istintivo per la vita e insieme da sentimenti battaglieri, come se una volontà ostile combattesse contro la mia. Tenni testa ai flutti e li respinsi con forza, rigettandoli lontano da me, come avrei fatto con un leone che mi attaccasse coi suoi artigli affilati e mi stesse per azzannare al petto. Domato da un’onda ne risalivo un’altra, mentre sentivo un orgoglio amaro incresparmi le labbra.
Da quando la tempesta ci aveva sospinto vicino alla spiaggia non ci eravamo allontanati di molto da essa. A ogni bagliore scorgevo la costa vicina; tuttavia riuscivo ad avanzare ben poco, e ogni onda, quando recedeva, mi trascinava indietro con sé nei remoti abissi dell’oceano. A un tratto sentii che il piede toccava la sabbia e poi fui di nuovo nell’acqua profonda; le braccia cominciarono a perdere la capacità di muoversi e, oppresso delle acque soffocanti, mi venne a mancare il respiro. Mille pensieri scoordinati e deliranti mi attraversarono la mente; il sentimento dominante era: come sarebbe dolce posare la testa sulla terra quieta, dove i flutti non mi sferzerebbero il corpo indebolito, né il rumore delle acque mi risuonerebbe nelle orecchie. Per conquistare questa quiete, non per salvare la mia vita, feci un ultimo sforzo; la spiaggia digradante mi offrì improvvisamente un appiglio per il piede. Mi tirai su, e di nuovo fui abbattuto dai marosi; uno spuntone di roccia al quale ero riuscito ad afferrarmi, mi concesse un momento di sollievo, e allora, approfittando del defluire delle onde, corsi in avanti, raggiunsi la sabbia asciutta, e caddi privo di sensi sul canniccio salmastro che la cospargeva.
Devo essere rimasto a lungo privo di sensi; quando, con una sensazione di nausea, dischiusi gli occhi, vidi la luce del mattino. Nel frattempo era avvenuto un grande mutamento: l’alba grigia screziava le nuvole spinte dal vento, che si muovevano velocissime, lasciando scorgere a intervalli vasti laghi di cielo immacolato. In un crescente profluvio si levò da oriente una sorgente di luce, dietro le onde dell’Adriatico, trasformando il grigio in una tonalità rosea, e poi inondando il cielo e il mare con un oro etereo.
Una sorta di stupore seguì il mio svenimento; i sensi erano svegli, ma la memoria era scomparsa. La tregua benedetta fu breve: un serpente era in agguato vicino a me per riportarmi col suo morso alla realtà. Alla prima emozione che mi giunse dal passato sarei voluto balzare in piedi, ma le membra si rifiutarono di obbedirmi: le ginocchia mi tremavano, i muscoli avevano perso qualsiasi vigore. Credevo ancora di poter trovare uno dei miei diletti compagni naufragati come me, ancora vivi, sulla spiaggia, e mi sforzai con ogni mezzo per restituire al mio corpo l’uso delle sue funzioni. Mi scossi l’acqua salmastra dai capelli, e presto i raggi del sole appena sorto mi investirono col loro calore benefico. Una volta recuperate le forze fisiche, anche l’animo divenne in qualche modo consapevole dell’universo di miseria che d’ora in avanti sarebbe stato la sua dimora. Corsi sulla riva, chiamando forte quei nomi adorati. L’oceano ascoltò con diletto e assorbì la mia voce debole, rispondendo con un mugghio spietato. Salii su un albero vicino; il terreno sabbioso e pianeggiante, circondato da una pineta, e il mare cui si aggrappava stretto l’orizzonte, fu tutto quello che potei scorgere. Estesi invano le mie ricerche lungo la spiaggia; l’albero che avevamo gettato fuori bordo, col sartiame aggrovigliato, e i resti di una vela furono gli unici relitti del nostro naufragio che la terra ricevette. Restai immobile per del tempo, stringendomi angosciato le mani. Accusavo la terra e il cielo, la macchina universale e il potere dell’Onnipotente che ne aveva fatto un uso malvagio. Di nuovo mi gettai sulla spiaggia, e allora il vento sospirante, contraffacendo un grido umano, suscitò in me un’amara, ingannevole speranza. Sicuramente, se lì vicino ci fosse stata una piccola imbarcazione qualsiasi o una minuscola canoa, avrei rovistato le distese selvagge dell’oceano, avrei trovato gli amati resti di coloro che avevo perduto e, aggrappandomi stretto a loro, ne avrei condiviso la tomba.
Il giorno trascorse così; ogni momento conteneva l’eternità, anche se, quando le ore una dopo l’altra se n’erano andate, ero stupito dalla rapida fuga del tempo. Eppure allora non avevo ancora bevuto l’amara pozione fino al fondo; non ero ancora persuaso della perdita che avevo subito, non sentivo ancora in ogni mia pulsazione, in ogni nervo, in ogni pensiero, che io restavo ormai l’unico della mia stirpe, che ero l’ultimo uomo.
Il giorno si era incupito, e al tramonto cominciò a piovigginare. Persino i cieli eterni piangono, pensai; come può esservi disonore nel fatto che l’uomo mortale consumi tutte le proprie forze in lacrime? Ricordavo le antiche fiabe in cui si diceva di uomini che si dissolvono attraverso il pianto, trasformandosi in fontane che zampillavano per l’eternità.222 Ah! Se così fosse! Allora la mia sorte sarebbe stata in qualche modo affine alla morte per acqua di Adrian e Clara. Oh! il dolore è fantasioso: intesse una tela sulla quale tracciare la storia della propria sventura prendendo spunto da qualsiasi forma e cambiamento circostante, incorpora tutta la natura vivente, trova sostegno in ogni oggetto e, come la luce, riempie tutte le cose e dona il proprio colore a tutto.
Nella mia ricerca avevo vagabondato fino ad allontanarmi alquanto dal luogo in cui ero stato gettato, e giunsi a una di quelle torri di osservazione che, a determinate distanze, si incontrano lungo la costa italiana. Fui contento di trovare un rifugio, contento di trovare un’opera delle mani dell’uomo, dopo che avevo fissato così a lungo la malinconica sterilità della natura; così entrai, e salii la rozza scala a chiocciola fino alla stanza di guardia. A tal punto era benevolo il destino che non c’erano resti strazianti dei suoi antichi abitatori. Alcune assi poste per traverso su due tralicci, cosparse di foglie di granturco essiccate, ecco il letto che mi comparve davanti, e una cassa aperta, contenente alcuni biscotti in gran parte ammuffiti, risvegliò un appetito che forse esisteva anche prima, ma di cui fino a quel momento non ero stato consapevole. Anche la sete, violenta e bruciante, il risultato dell’acqua di mare che avevo bevuto e dello sfinimento del mio corpo, mi tormentava.
La natura benevola aveva associato delle sensazioni piacevoli alla soddisfazione di questi bisogni, così che io – sì proprio io! – mi sentii refrigerato e calmo dopo che ebbi mangiato questo cibo sgradevole e bevuto un po’ del vino acido che riempiva a metà una bottiglia abbandonata in questa dimora. Poi mi distesi sul letto, che la vittima di un naufragio non poteva certo disprezzare. L’odore di terra proveniente dalle foglie secche, dopo quello detestabile delle alghe marine, era un balsamo per i miei sensi. Dimenticai la mia condizione di solitudine. Non guardavo né avanti né indietro; i miei sensi si acquietarono nel riposo, mi addormentai e sognai tutte le care scene domestiche, i falciatori, il fischio del pastore al suo cane quando gli chiedeva aiuto per guidare il gregge all’ovile, i colori e i suoni della mia vita di montagna durante l’adolescenza, un periodo che avevo da tempo dimenticato.
Mi svegliai in preda a un’angoscia penosa, perché immaginai che l’oceano, rompendo i suoi confini, trascinasse via lo stabile continente e le montagne con le loro profonde radici, insieme ai corsi d’acqua che avevo amato, ai boschi, alle greggi; infuriava tutt’intorno, con quel mugghiare continuo e terrificante che aveva accompagnato l’ultimo relitto dell’umanità superstite. Quando ritornò la consapevolezza della veglia, i muri spogli della stanza di guardia mi si chiusero intorno, e la pioggia picchiettò contro l’unica finestra. Come è terribile emergere dall’oblio del sonno e ricevere come saluto di buongiorno il muto lamento del proprio cuore sventurato, ritornare dalla terra dei sogni ingannatori alla greve consapevolezza di una calamità inalterata! Così fu per me, allora, e poi per sempre! Gli spasimi provocati da altre sofferenze possono venire attutiti dal tempo, e persino i miei cedettero in parte, durante il giorno, al piacere ispirato dall’immaginazione o dai sensi; ma mai rivolgo il primo sguardo alla luce del mattino senza premere con forza le mani contro il cuore che mi scoppia e senza sentirmi inondare l’anima dalla marea interminabile di un’infelicità senza speranza. Allora mi ridestai per la prima volta in un mondo morto; mi ridestai solo e la sorda nenia funebre del mare, che si udiva persino attraverso la pioggia, mi riportò alla considerazione di quanto fossi infelice. Il suono giunse come un rimprovero, uno scherno, come la fitta del rimorso nell’anima; faticai a riprendere fiato, le vene e i muscoli della gola si gonfiarono, soffocandomi. Portai le mani alle orecchie, seppellii la testa tra le foglie del mio giaciglio, avrei voluto buttarmi a capofitto nel centro della terra per non sentire più quel gemito odioso.
Ma a me spettava un altro compito; visitai di nuovo quella spiaggia aborrita, e di nuovo cercai vanamente dappertutto, di nuovo innalzai alto il mio grido che non trovò risposta, levando l’unica voce che poteva ormai ancora costringere l’aria muta a sillabare il pensiero umano.
Che essere infelice ero, derelitto, sconfortato! Il mio stesso aspetto e i miei abiti raccontavano la storia della mia disperazione. I capelli erano arruffati e scompigliati, le braccia e le gambe imbrattate di melma salata; mentre ero in mare mi ero liberato degli indumenti che più mi impacciavano, e la pioggia inzuppava il leggero abbigliamento estivo che avevo tenuto addosso, i piedi scalzi sanguinavano a causa delle canne nane e delle conchiglie spezzate. Andavo avanti e indietro, e ora fissavo qualche roccia distante che, isolata sulla spiaggia, assumeva per un momento una sembianza ingannevole, ora con occhi lampeggianti rimproveravo l’oceano assassino per la sua indicibile crudeltà.
Per un momento mi paragonai a quel monarca del deserto, Robinson Crusoe. Eravamo stati entrambi scaraventati, senza compagni, lui sulla riva di un’isola disabitata, io su quella di un mondo disabitato. Io possedevo in abbondanza i cosiddetti beni della vita. Se avessi allontanato i miei passi dalla scena di desolazione a me prossima, e fossi entrato in una delle numerose città della terra, avrei trovato le sue ricchezze stipate a mio beneficio soltanto: vestiti, cibo, libri e una scelta di case superiore anche ai desideri dei principi dei tempi andati; io potevo scegliere qualsiasi clima, mentre lui era costretto a lavorare faticosamente per conquistarsi qualunque cosa gli fosse necessaria, e abitava in un’isola tropicale, dal cui caldo e dalle cui tempeste poteva trovare ben poco riparo. Considerando la questione da questo punto di vista, chi non avrebbe preferito i piaceri sibaritici di cui io potevo disporre, gli svaghi filosofici, e le ampie risorse per la vita intellettuale, alla sua esistenza di fatica e pericolo? E tuttavia egli era di gran lunga più felice di me: perché poteva sperare, e non invano. Alla fine infatti arrivò il vascello predestinato e lo portò dai concittadini e dai congiunti, dove le vicissitudini della sua solitudine divennero una storia da raccontare davanti al focolare. Ma a nessuno io avrei mai potuto riferire il racconto della mia sventura, né avevo speranze. Egli sapeva che, al di là dell’oceano che circondava la sua isola solitaria, vivevano migliaia di persone che venivano illuminate dal sole quando brillava su di lui; ma sotto il sole meridiano e sotto le visite della luna, io solo avevo sembianze umane, io solo potevo dare articolazione al pensiero e, quando io dormivo, nessuno contemplava il giorno o la notte. Lui era fuggito dai propri simili, e fu preso dal terrore davanti all’impronta di un piede umano. Io, davanti a questa stessa impronta, mi sarei inginocchiato e l’avrei adorata. Un selvaggio e crudele caraibico, uno spietato cannibale o, peggio, un veterano dei vizi della civiltà, incolto, bruto e spietato, sarebbe stato per me un compagno adorato, un tesoro altamente stimato; la sua natura sarebbe stata affine alla mia, la sua forma ricavata dalla stessa matrice, sangue umano scorrerebbe nelle sue vene, una simpatia e una comprensione umane ci avrebbero unito per sempre. Non può essere vero che io non vedrò mai più un mio simile! Mai! Mai! Mai, neppure col passare degli anni! Dovrò dunque svegliarmi, e non parlare a nessuno, trascorrere ore interminabili, la mia anima un’isola nel mondo, un punto solitario, circondato dal vuoto? Il giorno seguirà dunque al giorno così, all’infinito? No! No! C’è un Dio che governa il mondo… La provvidenza non ha barattato il suo scettro dorato con un morso d’aspide. Oh, via! ch’io fugga dalla tomba dell’oceano, ch’io prenda congedo da questo angolo sterile, precluso com’è a qualsiasi accesso per via della sua stessa desolazione, ch’io cammini ancora una volta per le città pavimentate, e porti i miei passi sulla soglia delle dimore dell’uomo, e allora, sicuramente, mi renderò conto che questo pensiero è solo un’orribile visione, un sogno che può far impazzire, ma fugace.
Prima che il sole fosse tramontato per la seconda volta sul mondo vuoto entrai a Ravenna, la città più vicina al luogo in cui ero stato rigettato; vidi molti esseri viventi: buoi, cavalli, cani, ma non c’erano uomini tra di loro; entrai in una villetta, era vuota; salii le scale marmoree di un palazzo, pipistrelli e gufi si erano annidati tra gli arazzi. Camminavo senza far rumore per non svegliare la città dormiente, e rimbrottai un cane, che con i suoi guaiti disturbava quel sacro silenzio; non avrei creduto che tutto era come sembrava… Il mondo non era morto, ma io ero pazzo: ero privo di vista, udito, e tatto; avanzavo faticosamente sotto la forza di un incantesimo, che mi permetteva di contemplare qualsiasi scena della terra, a eccezione dei suoi abitatori umani, che intanto continuavano le loro fatiche consuete. Ogni casa aveva il suo abitante, ma io non potevo vederlo… Se fossi riuscito a ingannare me stesso inducendomi a credere a qualcosa di simile, sarei stato molto più soddisfatto. Ma il mio cervello, tenacemente aggrappato alla sua ragione, si rifiutava di prestarsi a tali immaginazioni, e anche se mi sforzavo di fare il buffone con me stesso, sapevo che io, la discendenza dell’uomo, per lunghi anni uno dei molti, rimanevo ora l’unico sopravvissuto della mia specie.
Il sole tramontò dietro le colline occidentali; ero a digiuno dalla sera precedente, ma, anche se debole e stanco, provavo disgusto per il cibo, e finché rimase anche un solo raggio di luce, non smisi di percorrere a gran passi le strade solitarie. Scese la notte e mandò ogni creatura vivente, eccetto me, tra le braccia del proprio compagno. Riuscivo ad attutire lo strazio dell’anima con lo sforzo fisico; non avrei ricercato uno dei mille letti lussuosi che avevo a disposizione, mi stesi invece a terra sul selciato, un freddo gradino di marmo mi fece da cuscino. Giunse la mezzanotte, e solo allora le mie palpebre esauste mi tolsero dalla vista le stelle sfavillanti e il loro riflesso sul vicino selciato. Così trascorsi la seconda notte della mia desolazione.
CAPITOLO XXX
Mi svegliai al mattino, proprio quando le finestre più alte di quella casa elevata ricevettero i primi raggi del sole che stava sorgendo. Gli uccelli cinguettavano, appollaiati sui davanzali delle finestre e sulle soglie abbandonate delle porte. Mi svegliai, e il mio primo pensiero fu: Adrian e Clara sono morti. Non verrò mai più salutato dal loro buongiorno, non trascorrerò la lunga giornata in loro compagnia. Non li vedrò più. L’oceano me li ha rubati, ha strappato i loro cuori amorosi dal loro petto, e consegnato alla corruzione quello che era per me più prezioso della luce, della vita, della speranza.
Ero un pastore ignorante quando Adrian si degnò di concedermi la sua amicizia. Gli anni migliori della mia vita erano trascorsi con lui. Tutto quello ch’io avevo posseduto, ricchezze, felicità, conoscenza, virtù lo dovevo a lui. Con la sua persona, il suo intelletto e le sue qualità eccezionali, aveva dato alla mia vita uno splendore che senza di lui non avrebbe mai conosciuto. Più di qualsiasi altra creatura mi aveva insegnato che la bontà, pura e schietta, può essere un attributo dell’uomo. Osservarlo guidare, governare e consolare gli ultimi giorni della razza umana era uno spettacolo per assistere al quale persino gli angeli avrebbero potuto riunirsi.
Anche della mia incantevole Clara fui privato; lei, l’ultima delle figlie dell’uomo, che esibiva tutte quelle virtù femminili e virginali cui poeti, pittori e scultori hanno cercato di dar espressione nei loro diversi linguaggi. Eppure, riguardo a lei, potevo lamentarmi del fatto che fosse stata sottratta al sicuro sopraggiungere dell’infelicità nel fiore della giovinezza? Era pura d’animo, e tutti i suoi intendimenti erano santi. Ma il suo cuore era il trono dell’amore, e la sensibilità che il suo volto grazioso esprimeva era profezia di molte pene, non meno profonde e malinconiche per il fatto che le avrebbe nascoste in eterno.
Questi due esseri straordinariamente dotati erano stati risparmiati dal naufragio universale per essere miei compagni durante l’ultimo anno di solitudine. Mentre erano con me, ne avevo sperimentato tutto il valore. Ero consapevole che ogni altro sentimento, rimpianto o passione, si era fuso a poco a poco in un affetto struggente, fortissimo. Non avevo dimenticato la dolce compagna della mia gioventù, la madre dei miei figli, la mia adorata Idris; ma almeno vedevo una parte del suo spirito ancora viva in suo fratello; dopo che con la morte di Evelyn avevo perduto quanto me la ricordava nel modo più tenero, ne depositai la memoria, come fosse un reliquiario, nel corpo di Adrian, e mi sforzavo di confondere le due care figure. Sondo le profondità del mio cuore, e cerco invano di trarre da lì le espressioni che possano essere simboli adatti a raffigurare il mio amore per queste creature, le ultime vestigia della mia razza. Se il rimpianto e il dolore mi attraversavano la mente, come ben poteva accadere nella nostra condizione di solitudine e incertezza, il tono chiaro della voce di Adrian e il suo sguardo ardente dissipavano la malinconia, oppure venivo inconsapevolmente rallegrato dalla mite letizia e dalla dolce rassegnazione espressi dalla fronte limpida e dai profondi occhi blu di Clara. Loro due erano tutto per me: il sole della mia anima ottenebrata, il riposo nella mia stanchezza, il sonno nella mia pena che non conosceva riposo. Come ho espresso male, davvero molto male, con parole sconnesse, scarne e deboli, il sentimento con cui mi aggrappai a loro. Avrei voluto avvolgermi come edera, inestricabilmente, intorno a loro, così che lo stesso colpo avesse potuto distruggerci tutti. Avrei desiderato entrare dentro di loro ed esserne una parte, così che
se la fiacca sostanza della mia carne fosse pensiero,223
li avrei accompagnati persino ora nella loro nuova dimora, con cui non si può comunicare.
Non li rivedrò mai più. Sono privo della loro cara conversazione, privo della loro immagine. Sono un albero squarciato dal lampo, e mai il legno si richiuderà sulle fibre nude, mai la loro vita tremante, straziata dai venti, riceverà il narcotico che concede il sollievo di un momento. Sono solo al mondo, ma quell’espressione fino ad allora era meno carica d’infelicità di quella che diceva che Adrian e Clara sono morti.
La marea del pensiero e delle sensazioni continua a scorrere sempre eguale, anche se variano le rive e le forme circostanti che ne governano il corso e il riflesso nell’onda. Così il sentimento della perdita immediata in qualche modo s’indebolì, mentre col tempo si fece sempre più forte in me quello di una solitudine irrimediabile. Vagai per tre giorni attraverso Ravenna, ora con l’unico pensiero degli esseri amati che dormivano nelle caverne salmastre dell’oceano, ora proiettato nel vuoto terrificante che mi stava innanzi, tremando nel fare un passo avanti, fremendo convulsamente a ogni cambiamento che scandisse il progredire delle ore.
Vagai avanti e indietro in questa città malinconica per tre giorni. Passavo ore intere andando di casa in casa, ascoltando se fossi in grado di scoprire qualche segno nascosto di esistenza umana. Talvolta suonavo un campanello, che tintinnava per le volte delle stanze, e al suono faceva seguito il silenzio. Dicevo di essere disperato, tuttavia ancora speravo; e ancora la delusione segnava le ore, ficcando l’acciaio freddo e affilato nella ferita purulenta. Mi nutrivo come un animale selvaggio che afferra il proprio cibo solo quando è preso da una fame insopportabile. Durante tutti quei giorni non mi cambiai gli abiti, né cercai il riparo di un tetto. Una foga ardente, un’eccitazione nervosa, un flusso di pensieri incessante ma confuso, notti insonni, e giorni pervasi di un’agitazione frenetica, s’impossessarono di me in quel periodo.
Via via che la frenesia del mio sangue saliva, sopraggiunse a sorpresa il desiderio di vagabondare. Ricordo che il sole era tramontato sul quinto giorno dopo il mio naufragio, quando, senza meta e senza un proposito, abbandonai la città di Ravenna. Dovevo essere molto malato. Se fossi stato posseduto da un delirio diverso, maggiore o minore, quella notte sarebbe stata senz’altro l’ultima; infatti, mentre continuavo a camminare sulle rive del Mantone, di cui stavo risalendo il corso, guardavo ansiosamente la corrente, riconoscendo fra me che le sue onde semitrasparenti potevano medicare per sempre le mie pene, ma ero incapace di spiegare la mia riluttanza a cercare la protezione che avrebbero potuto offrirmi dagli strali avvelenati del pensiero che continuavano a trafiggermi. Camminai per gran parte della notte, e alla fine la stanchezza eccessiva vinse la mia avversione ad approfittare delle abitazioni deserte degli uomini. La luna calante, che era appena sorta, mi mostrò una casetta; l’ingresso lindo e il giardino ben tenuto mi fecero ricordare la mia Inghilterra. Sollevai il chiavistello della porta ed entrai. Come prima cosa mi si presentò una cucina in cui, guidato dai raggi della luna, trovai il materiale necessario ad accendere una luce. All’interno c’era una stanza da letto, con un letto provvisto di lenzuola candide come la neve; la legna accatastata accanto al focolare e la disposizione degli oggetti, come per un pasto, avrebbero quasi potuto ingannarmi inducendomi alla cara convinzione di aver trovato quello che avevo così a lungo cercato: un superstite, un compagno per la mia solitudine, un conforto per la mia disperazione. Mi temprai contro l’illusione: la stanza era vuota, era solo questione di prudenza, mi ripetei, esaminare il resto della casa. Immaginavo di essere impenetrabile alla speranza, eppure, ogni volta che posavo la mano sulla serratura di una porta riuscivo quasi a udire il battito del mio cuore che poi sprofondava di nuovo, non appena scorgevo in ogni stanza sempre lo stesso vuoto: erano oscure e silenziose come tombe. Così tornai nella prima stanza, chiedendomi quale ospite invisibile avesse disposto tutto il necessario al mio pasto e al mio riposo. Accostai una sedia al tavolo, e osservai le vivande che ero invitato a dividere. In verità si trattava di un banchetto di morte! Il pane era bluastro e ammuffito, il formaggio giaceva in un mucchio di polvere. Non osai esaminare gli altri piatti; una schiera di formiche attraversava in doppia fila la tovaglia, ogni stoviglia era ricoperta di polvere, di ragnatele e di miriadi di mosche morte: tutti questi oggetti, ciascuno di loro, stavano a indicare la fallacia delle mie speranze. Le lacrime si precipitarono agli occhi; sicuramente questa era una dimostrazione gratuita del potere della Distruttrice. Cosa avevo fatto, perché ogni nervo sensibile dovesse essere così sezionato? Eppure, perché ora dovevo rammaricarmi più di sempre? Questa casa vuota non rivelava alcuna nuova afflizione: il mondo era vuoto, l’umanità era morta… Lo sapevo bene, perché discutere su una verità riconosciuta e ormai stantia? Eppure, come ho detto, avevo sperato proprio nel pieno della disperazione, e ora ogni nuova impressione prodotta sulla mia anima dalla realtà spigolosa e tagliente portava con sé un nuovo spasimo, ripetendomi la lezione che ancora non avevo imparato: né il cambiamento di luogo né il tempo avrebbero potuto portare sollievo alla mia infelicità; avrei dovuto continuare così come ero giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, finché fossi vissuto. Avevo a malapena l’ardire di fare congetture su cosa significasse quello spazio di tempo. È vero, non ero più nel rigoglio della virilità, ma non ero neppure sceso molto in basso nella valle degli anni; gli uomini hanno ritenuto la mia la primavera della vita: ero appena entrato nel mio trentasettesimo anno d’età, tutte le membra erano robuste e le articolazioni agili come quando avevo fatto il pastore sulle colline del Cumberland, e con tutti questi vantaggi, dovevo aprire il corteo della vita solitaria. Queste furono le riflessioni che quella notte accompagnarono il mio sonno.
Il riparo e un sonno meno agitato di cui godetti mi restituirono il mattino seguente una salute e una forza maggiori di quelle che avessi mai sperimentato dal momento del mio fatale naufragio. Tra le scorte che avevo scoperto perlustrando la casa la notte precedente, c’era una gran quantità di uva secca che mi rifocillò al mattino, quando lasciai quindi il mio alloggio e mi diressi verso una città che scorgevo a breve distanza. Da quanto potevo capire doveva essere Forlì. Entrai con piacere nelle sue strade ampie ed erbose. Tutto, è vero, raffigurava l’eccesso di abbandono, eppure mi piacque moltissimo trovarmi in quei luoghi che erano stati la dimora dei miei simili. Mi divertii a percorrere una strada dopo l’altra, a guardare in su, verso le case alte, che, mi ripetevo, un tempo contenevano esseri simili a me… Non sono sempre stato lo sventurato che sono ora. L’ampia piazza di Forlì, circondata di arcate, il suo aspetto gaio e piacevole mi rallegrarono. Fui compiaciuto all’idea che, se la terra si fosse di nuovo ripopolata, noi, la razza estinta, grazie ai relitti che ci saremmo lasciati dietro, non avremmo offerto ai nuovi venuti uno spettacolo disprezzabile delle nostre capacità.
Entrai in uno dei palazzi, e aprii la porta di un salone magnifico. Trasalii… Guardai di nuovo con rinnovato stupore. Chi era quel selvaggio dall’aspetto incolto, tutto arruffato, e seminudo, che mi stava davanti? La sorpresa durò solo un momento.
Mi accorsi che quello che stavo osservando in un grande specchio in fondo alla sala ero io stesso. Non c’era da stupirsi che l’innamorato della principesca Idris non riuscisse a riconoscersi nel miserabile oggetto là ritratto. Il mio vestito sbrindellato era lo stesso col quale, mezzo morto, mi ero faticosamente trascinato fuori dal mare in tempesta. I capelli lunghi e intricati mi ricadevano in una massa arruffata sulla fronte, i miei occhi scuri, ora incavati e folli, luccicavano al di sotto; le guance scolorite dall’itterizia, che a causa della miseria e della trascuratezza si era diffusa su tutta la pelle, erano quasi nascoste da una barba lunga di molti giorni.
Perché non dovevo restare così, pensai; il mondo è morto, e questo sordido abbigliamento è un abito da lutto ben più adeguato della vanità di un completo nero. E così, mi sembrava, sarei rimasto, se la speranza, senza la quale non credo che l’uomo possa esistere, non mi avesse suggerito che, in un tale stato, avrei suscitato paura e repulsione in quella creatura, preservata non sapevo dove, ma che io credevo ardentemente di riuscire infine a trovare. Disprezzeranno forse i miei lettori la vanità che mi fece abbigliare con una certa cura, per amore di questo essere immaginario? O perdoneranno le stramberie di un’immaginazione quasi impazzita? Posso perdonare me stesso senza difficoltà, perché la speranza, per quanto vaga, mi era così cara e un sentimento di piacere si presentava così raramente, che cedevo subito a ogni idea che accarezzasse l’uno o promettesse un accesso qualsiasi dell’altra nel mio cuore addolorato.
Dopo tale occupazione, percorsi ogni strada, ogni vicolo e ogni nicchia di Forlì. Queste città italiane avevano un aspetto ancor più desolato di quelle dell’Inghilterra o della Francia. La peste qui era comparsa prima, aveva concluso il suo corso e portato a termine il suo lavoro molto prima che da noi. Probabilmente l’ultima estate non aveva trovato un solo essere umano vivente in tutto l’itinerario incluso tra le rive della Calabria e le Alpi settentrionali. La mia ricerca fu assolutamente vana, eppure non mi scoraggiai. Mi sembrava che la ragione fosse dalla mia parte; e le possibilità che esistesse in qualche parte dell’Italia – in una terra devastata, spopolata – uno sopravvissuto come me non erano per nulla disprezzabili. E perciò errai per la città deserta e feci un piano per le azioni future. Avrei continuato il mio viaggio verso Roma. Quando, dopo una ricerca accurata, mi fossi persuaso di non lasciarmi alle spalle alcun essere umano nelle città che attraversavo, avrei scritto in una zona ben visibile di ognuna di esse, con della vernice bianca, in tre lingue, che «Verney, l’ultimo superstite della razza inglese, aveva preso dimora a Roma».
Entrai dunque nel negozio di un pittore e mi procurai della vernice. È strano come un’occupazione così insignificante dovesse consolarmi, e persino ravvivarmi. Ma l’afflizione rende infantili, la disperazione stravaganti. A questa semplice iscrizione, aggiunsi solo la supplica: «Amico, vieni! ti aspetto! Deh, vieni! ti aspetto!».224
Il mattino seguente, con qualcosa di simile alla speranza come compagna, lasciai Forlì riprendendo la mia strada verso Roma. Fino a questo momento, le memorie strazianti del passato e le fosche prospettive del futuro avevano tormentato la mia veglia e cullato il mio riposo. Molte volte avevo ceduto alla tirannia dell’angoscia… molte volte decisi di dare una rapida conclusione ai miei dolori, e la morte ottenuta con le mie stesse mani era un rimedio la cui praticabilità mi dava addirittura coraggio. Cosa potevo temere nell’altro mondo? Se c’era un inferno, e io vi ero destinato, vi sarei giunto già capace di sopportarne le torture; il gesto sarebbe stato semplice, la fine della mia deplorevole tragedia rapida e sicura. Ma ora, davanti all’aspettativa appena nata, questi pensieri svanirono. Proseguii per la mia strada, e non provavo più, come prima, la sensazione che ogni ora, ogni minuto fosse un secolo imbevuto di una pena incalcolabile.
Mentre vagavo per la pianura, ai piedi degli Appennini, attraverso le loro valli, e sulle loro cime brulle, il mio sentiero mi conduceva attraverso un paese che era stato percorso da eroi, visitato e ammirato da migliaia di persone. Come una marea tutti costoro si erano ritirati, lasciando me, nudo, nel mezzo. Ma perché lamentarsi? Non nutrivo forse delle speranze? Così mi dominavo, persino dopo che quello spirito che mi dava vigore mi aveva realmente abbandonato; così per prevenire il ritorno di quella disperazione caotica e intollerabile sopraggiunta dopo lo sventurato naufragio che aveva coronato ogni timore e annichilito ogni gioia, ero obbligato a ridestare tutta la forza d’animo di cui potevo disporre, che non era molta.
Mi alzavo ogni giorno col sole del mattino, e lasciavo la mia triste locanda. Mentre i miei piedi si smarrivano per il paese spopolato, i miei pensieri vagavano per l’universo e mi sentivo meno infelice quando, assorto in qualche sogno a occhi aperti, potevo dimenticare il trascorrere delle ore. Ogni sera, a dispetto della stanchezza, aborrivo entrare in una qualsiasi abitazione per trascorrervi la notte. Sono rimasto seduto, ore e ore, davanti alla porta della casa che avevo scelto, incapace di sollevare il chiavistello e di incontrare, faccia a faccia, la vuota desolazione dell’interno. Molte notti, sebbene fossero calate intorno le nebbie autunnali, le trascorsi sotto un leccio; molte volte ho cenato con bacche di corbezzolo e castagne, come uno zingaro, facendo un fuoco per terra: lo scenario selvaggio della natura mi ricordava meno intensamente la mia disperata condizione di solitudine. Contavo i giorni, e portavo con me un bastone di salice sbucciato, sul quale, per come potevo ricordare, avevo segnato con delle tacche i giorni che erano trascorsi dal mio naufragio, e ogni notte aggiungevo un’altra unità a quella somma malinconica.
Mi ero faticosamente inerpicato su per una collina che portava a Spoleto. Tutt’intorno si distendeva una pianura circondata dagli Appennini, ricoperti di castagni. Su di un lato si apriva una gola oscura, attraversata da un acquedotto, i cui alti archi affondavano le loro radici nella valletta sottostante, e stavano ad attestare che lì un tempo l’uomo si era degnato di dedicare lavoro e ingegno a ornare e civilizzare la natura. Natura selvaggia e ingrata, che in un suo gioco brutale deturpava quei resti, e faceva sporgere intorno agli eterni edifici dell’uomo quella sua fragile vegetazione di fiori selvaggi e piante parassite, che pure si rinnova con facilità. Mi sedetti su un frammento di roccia e guardai intorno. A occidente il sole aveva bagnato d’oro l’atmosfera, a oriente le nuvole ne trattenevano il fulgore, e sbocciavano in una grazia caduca: tramontava su un mondo che conteneva soltanto me come abitante. Tirai fuori il mio bastone, contai i segni. Venticinque ne erano già tracciati, venticinque giorni erano già trascorsi, da quando una voce umana aveva allietato le mie orecchie, o un volto umano incontrato il mio sguardo. Venticinque lunghi, faticosi giorni, seguiti da notti scure e solitarie, si erano mescolati agli anni precedenti ed erano diventati una parte del passato, quello che non può essere mai più recuperato, una porzione reale, innegabile della mia vita… Venticinque lunghi, lunghissimi giorni.
E perché non era un mese! Perché parlare di giorni, settimane, o mesi! Dovevo afferrare il concetto di anni nella mia immaginazione, se volevo davvero dipingermi il futuro; tre, cinque, dieci, venti, cinquanta anniversari di quell’epoca fatale sarebbero potuti trascorrere, ogni anno coi suoi dodici mesi, ciascuno fatto di conteggi su un diario ben più numerosi di quelli necessari per i venticinque giorni già andati… Può essere? Sarà così? Eravamo abituati a considerare la morte con tremore, e per quale motivo, se non perché il suo posto era oscuro? Ma più terribile, e molto più oscuro, era il corso ormai disvelato del mio futuro solitario. Spezzai il bastone, lo scagliai lontano da me. Non avevo bisogno di strumenti per registrare la crescita della mia vita, che aumentava di un pollice e di un chicco d’orzo, mentre i miei pensieri inquieti creavano suddivisioni diverse da quelle dominate dai pianeti. Guardando indietro al secolo che era trascorso da quando ero rimasto solo, mi rifiutai sprezzante di dare il nome di giorni e di ore alle dolorose fitte di angoscia che in realtà lo avevano ripartito.
Mi nascosi il volto tra le mani. Il cinguettare degli uccellini che stavano andando a dormire, e il loro fruscio tra gli alberi turbavano la quiete dell’aria immobile della sera; i grilli cantavano; l’assiolo tubava di tanto in tanto. I miei erano stati pensieri di morte, questi suoni mi parlavano di vita. Volsi gli occhi in alto: un pipistrello stava volteggiando all’intorno, il sole era sprofondato dietro il profilo frastagliato delle montagne, e allora fu visibile la pallida luna crescente, col suo bianco argenteo nell’arancio del tramonto, che accompagnata da una stella luminosa, prolungava così il crepuscolo. Una mandria incustodita di bestiame attraversò la valletta sottostante, dirigendosi là dove avrebbe potuto abbeverarsi; l’erba frusciava sotto una brezza gentile, e gli ulivi, i cui profili si ammorbidivano in soffici masse sotto la luce della luna, contrapponevano il loro fogliame verdemare a quello scuro dei noci. Sì, questa è la terra; nella sua distesa verdeggiante non è avvenuto alcun cambiamento, nessuna distruzione, nessuna lacerazione; essa continua ancora e sempre a ruotare nel cielo, alternando la notte e il giorno, anche se l’uomo non è più il suo abitatore, né più l’adorna. Perché non potevo perdere la memoria di me stesso come uno di quegli animali, e dunque non soffrire più per la folle inquietudine dell’infelicità che mi opprime? Eppure, quale voragine fatale si spalanca tra la loro condizione e la mia! Essi non hanno forse delle creature che gli sono simili? Non ha ciascuno di loro il proprio compagno, il cucciolo adorato, la propria dimora che, anche se non ci viene comunicato è, non ne dubito, resa più cara e più ricca ai loro stessi occhi, dalla compagnia che la natura gentile ha creato per loro? Sono soltanto io a essere solo, io, sulla cima di questa collinetta, che fisso i recessi della pianura e della montagna, il cielo popolato di stelle, e ascolto ogni suono della terra, e dell’aria, e dei flutti mormoranti… Soltanto io non ho un compagno a cui esprimere i miei molteplici pensieri, né posso poggiare la testa pulsante su un grembo amato, né, incontrando uno sguardo, bere un’ambrosia refrigerante, inebriante, che supera il favoloso nettare degli dei. E non devo dunque lamentarmi? Non devo maledire il motore assassino che ha falciato i figli dell’uomo, i miei fratelli? Non devo lanciare una maledizione su ogni altro discendente della natura, che osa vivere e gioire, mentre io vivo e soffro?
No! Disciplinerò il mio cuore sofferente affinché condivida le vostre gioie, e sarò felice perché voi lo siete. Continuate a vivere, voi, creature innocenti, voi, i tesori prediletti dalla natura: io non sono poi molto diverso da voi. Nervi, pulsazioni, cervello, giunture e carne, di ciò sono composto, e voi siete organizzati secondo le stesse leggi. Io posseggo qualcosa che va al di là di questo, ma lo definirò un difetto, non un dono, se mi conduce alla sofferenza, mentre voi siete felici. Proprio allora emersero da un boschetto ceduo che si trovava lì vicino due capre con un piccolo capretto, che stava vicino alla madre, e cominciarono a brucare l’erba della collina. Mi avvicinai a loro senza che mi vedessero; raccolsi una manciata di erba fresca, e gliela porsi; il piccolo si rannicchiò vicino alla madre, mentre l’animale si ritraeva timidamente. Il maschio fece un passo avanti, puntandomi gli occhi addosso: mi avvicinai, sempre porgendo la mia esca, mentre lui, abbassando la testa, mi si precipitava addosso con le corna. Fui un vero sciocco: lo sapevo, eppure cedetti alla mia rabbia. Staccai un grosso pezzo di roccia, che avrebbe schiacciato il mio nemico impetuoso. Lo bilanciai, presi la mira, poi mi mancò il cuore. Lo scagliai lontano dall’obiettivo, e il masso rotolò rumorosamente tra i cespugli sparsi nella valletta. I miei piccoli visitatori, atterriti, tornarono di corsa al riparo del bosco mentre io, col cuore sanguinante e straziato, scesi a precipizio giù per la collina, cercando, con la furia dello sforzo fisico, di sfuggire alla mia infelicità.
No, no, non vivrò tra gli scenari selvaggi della natura, la nemica di tutto quello che vive. Ricercherò le città: Roma, la capitale del mondo, il coronamento delle conquiste dell’uomo. Tra le sue strade leggendarie, le sue sacre rovine e i resti meravigliosi delle fatiche umane, non troverò ogni cosa immemore dell’uomo; così invece è qui, dove se ne calpesta la memoria, se ne deturpano le opere, e di collina in collina, e di valle in valle, vicino ai torrenti liberatisi dei confini ch’egli aveva imposto, alla vegetazione affrancatasi dalle leggi ch’egli aveva dettato, vicino alle abitazioni abbandonate alla muffa e alle erbacce, viene proclamato che il suo potere è finito, la sua razza annientata per sempre.
Salutai inneggiante il Tevere, perché esso era come un possedimento inalienabile dell’umanità. Salutai inneggiante la Campagna225 incolta, perché ogni strada era stata calpestata dagli uomini, e il selvaggio stato di abbandono in cui essa versava, di data non recente, proclamava in modo ancor più eminente il potere dell’uomo; che aveva dato un nome degno d’onore e un appellativo sacro a ciò che altrimenti sarebbe stato un percorso inutile e sterile. Entrai nella Roma Eterna attraverso Porta del Popolo, e salutai con reverente timore il suo spazio consacrato dal tempo. L’ampia piazza, le chiese vicine, la lunga distesa del Corso, la vicina altura di Trinità dei Monti apparivano come opera di fate, tanto erano silenziose, quiete e belle. Era sera, e il popolo degli animali che ancora viveva in questa maestosa città, era andato a riposare; non c’era alcun suono, salvo quello delle sue numerose fontane, la cui dolce monotonia era un’armonia per la mia anima. La consapevolezza di essere a Roma, città mirabile, appena più insigne per i suoi eroi e i suoi saggi che per il potere che esercitava sull’immaginazione degli uomini, mi placò. Quella notte andai a dormire, l’eterna fiamma del mio cuore estinta, i miei sensi tranquilli.
Il mattino successivo iniziai con impazienza i miei giri in cerca di oblio. Salii sulle molte terrazze del giardino di Palazzo Colonna, sotto il cui tetto avevo dormito, e passando, dall’esterno, fino alla sua sommità, mi ritrovai su Monte Cavallo. La fontana scintillava al sole, l’obelisco soprastante trapassava l’azzurro intenso dell’aria limpida. Le statue su ogni lato, opere, secondo le iscrizioni, di Fidia e Prassitele, si ergevano con intatta grandiosità: rappresentavano Castore e Polluce, che con potere maestoso domavano gli animali che si alzavano al loro fianco. Se erano davvero stati questi artisti illustri a modellare queste forme, al volgere di quante generazioni erano sopravvissute le loro gigantesche proporzioni! Ora venivano osservate dall’ultimo superstite della specie che erano state scolpite a rappresentare e deificare. Mi ero sentito piccolo, fino a diventare insignificante ai miei stessi occhi, mentre consideravo la moltitudine di esseri cui questi semidei di pietra erano sopravvissuti, ma questa seconda riflessione mi restituì la dignità nella mia stessa considerazione. La visione della poesia eternata in queste statue tolse la spina del tormento al pensiero, disponendolo soltanto nell’idealità poetica.
Mi ripetei: sono a Roma! Osservavo e, in un certo senso, parlavo familiarmente con la meraviglia del mondo, la signora sovrana dell’immaginazione, la maestosa ed eterna superstite di milioni di generazioni di uomini estinti. Mi sforzai di acquietare le sofferenze del mio cuore dolente interessandomi, persino ora, a ciò che nella mia gioventù avevo desiderato ardentemente vedere. Ogni angolo di Roma abbonda delle reliquie dei tempi antichi. Le strade più insignificanti sono cosparse di colonne dimezzate, di capitelli rotti, corinzi e ionici, di scintillanti frammenti di granito o di porfido; i muri delle abitazioni più indigenti racchiudono un pilastro scanalato o della pietra massiccia che un tempo facevano parte del palazzo dei Cesari. E da queste cose mute, che furono animate e glorificate dall’uomo, attraverso vibrazioni silenziose esala la voce del tempo andato.
Abbracciai le grandi colonne del tempio di Giove Statore, che sopravvive in quello spazio aperto che fu il Foro, e appoggiando la guancia ardente contro la sua fredda permanenza, cercai di perdere la consapevolezza della miseria e della desolazione presenti, richiamando nella cella tormentata del mio cervello memorie vive dei tempi trascorsi. Mi rallegrai del successo, quando mi figurai Camillo, i Gracchi, Catone e infine gli eroi di Tacito rifulgere come meteore di splendore eccezionale nella notte tenebrosa dell’impero; quando i versi di Orazio e di Virgilio, o gli appassionati periodi di Cicerone si accalcarono ai cancelli aperti della mia mente, mi sentii infervorato da un entusiasmo che avevo da tempo dimenticato. Ero deliziato sapendo di guardare la scena che anche loro avevano guardato, la scena cui furono testimoni le loro mogli e le loro madri, le folle di anonimi che onorarono, applaudirono o piansero per questi impareggiabili esemplari dell’umanità. Alla fine, dunque, avevo trovato una consolazione. Non avevo cercato invano le mura leggendarie di Roma, avevo scoperto una medicina per le mie numerose e letali ferite.
Sedetti ai piedi di queste grandi colonne. Il Colosseo, la cui nuda rovina è rivestita dalla natura con un velo verde e brillante, si stendeva alla mia destra sotto la luce del sole. Poco lontano, sulla sinistra, c’era la torre del Campidoglio. Rovine di archi trionfali e mura cadenti di molti templi ricoprivano il terreno ai miei piedi. Mi sforzai, decisi di costringermi a vedere la moltitudine plebea e le altere figure patrizie riunite lì intorno e, mentre il diorama di secoli passava attraverso la mia fantasia soggiogata, essi furono sostituiti dal romano moderno: il papa, con la sua bianca stola, che distribuiva benedizioni ai fedeli inginocchiati, il frate con la sua tonaca e il cappuccio, la ragazza dagli occhi scuri, velata dal suo mezzero,226 il contadino rumoroso, bruciato dal sole, che guidava la sua mandria di bufali e buoi al Campo Vaccino. L’alone di leggenda di cui noi, intingendo le nostre matite nei colori d’arcobaleno del cielo e della natura trascendente dotiamo gli italiani, in certa misura gratuitamente, sostituì la magnificenza solenne dell’antichità. Rammentai il cupo monaco, e le figure fluttuanti dell'Italiano, e il brivido che aveva percorso il mio sangue d’adolescente a quella descrizione. Richiamai alla mente Corinna che saliva il Campidoglio per essere incoronata,227 e, passando dall’eroina all’autore, riflettei su come l’Anima Incantatrice di Roma avesse dominio sovrano sulle menti degli immaginosi; e infine si era posata su di me, l’unico spettatore rimasto delle sue meraviglie.
Rimasi a lungo immerso in simili meditazioni; ma l’anima si stanca di un volo senza soste e, abbassandosi nei suoi giri circolari che ruotavano sempre intorno a questo luogo, cadde improvvisamente a diecimila braccia di profondità, nell’abisso del presente, nella coscienza di sé, in una tristezza decuplicata. Mi risvegliai, interruppi quei sogni a occhi aperti; fino a poco prima potevo quasi sentire le grida della folla romana ed ero urtato da moltitudini innumerevoli, ma ora vedevo le rovine deserte di Roma dormire sotto il suo cielo blu; le ombre si stagliavano tranquille sul terreno, alcune pecore incustodite brucavano sul Palatino, e un bufalo procedeva impettito giù per la Via Sacra che conduceva al Campidoglio. Ero solo nel Foro, solo a Roma, solo al mondo. Un solo uomo in vita, un compagno, nella mia tediosa solitudine, non valeva forse quanto tutta la gloria e tutto il potere ora ricordato di questa città consacrata dal tempo? Una duplice pena, la tristezza, nutritasi nelle caverne cimmerie, vestirono la mia anima con abiti luttuosi. Le generazioni che avevo rievocato nella mia fantasia, formavano un contrasto violentissimo con la fine di tutto, quell’unico punto singolo in cui, come nel vertice di una piramide, terminava la fabbrica maestosa della società, mentre io, sulla cima vertiginosa, scorgevo tutt’intorno a me lo spazio vuoto.
Da tali vaghi lamenti mi volsi a contemplare nei dettagli la mia situazione. Finora non avevo avuto successo riguardo all’unico oggetto dei miei desideri: trovare un compagno per la mia desolazione. Tuttavia non disperavo. È vero che le mie iscrizioni erano per la maggior parte situate in città e villaggi insignificanti, tuttavia, anche senza queste testimonianze, era possibile che la persona che, come me, si trovasse sola in una terra spopolata, venisse, come me, a Roma. Più fragile era la mia speranza, e più decidevo di affidarmi a essa, e di adattare le mie azioni a questa vaga possibilità.
Fu perciò necessario vivere civilmente per un po’ di tempo a Roma. Fu necessario guardare in faccia la mia calamità, senza recitare il ruolo dello scolaro che obbedisce ma non si sottomette, sopportando la vita, e pure ribellandomi alle leggi in base alle quali vivevo.
Eppure come potevo rassegnarmi? Senza amore, senza compartecipazione, senza comunione con nessuno, come potevo andare incontro al sole del mattino, e con lui percorrere quel viaggio spesso ripetuto verso le ombre della sera? Perché continuavo a vivere, perché non gettare via il tedioso peso del tempo e, con la mia stessa mano, liberare dal mio petto agonizzante il prigioniero che lì dentro si agitava? Non era la vigliaccheria a trattenermi, perché la vera forza d’animo stava nel resistere, e la morte era accompagnata da un suono che procurava sollievo, e che mi avrebbe indotto alla tentazione di entrare nei suoi domini. Ma non lo avrei fatto. Dal momento in cui avevo ragionato sull’argomento, mi ero ritenuto il suddito del caso, e il servitore della necessità, leggi visibili del Dio invisibile; credevo che la mia obbedienza fosse il risultato di un ragionamento fondato, di sentimenti puri, e di un elevato senso della vera eccellenza e nobiltà della mia natura. Se avessi potuto scorgere in questa terra vuota, nelle stagioni e nel loro mutare, soltanto la mano di un potere cieco, avrei ben volentieri posato la testa sulle zolle erbose della terra, e chiuso per sempre gli occhi davanti alla sua leggiadria. Ma il destino mi aveva concesso la vita: quando la peste aveva già afferrato la sua preda, tirandomi per i capelli mi aveva trascinato fuori dalle acque soffocanti. Compiendo tali miracoli mi aveva comprato per sé, e io riconoscevo la sua autorità e mi inchinavo ai suoi decreti. Se, dopo matura considerazione, questa era la mia risoluzione, era doppiamente necessario che non sprecassi la parte finale della vita, il miglioramento delle mie facoltà, e non ne avvelenassi il corso con lagnanze senza fine. Tuttavia come cessare di lamentarsi, se non c’era vicino una mano che estraesse l’arpione acuminato che mi era penetrato nel centro del cuore? Tesi la mano, ed essa non toccò nessuno le cui sensazioni rispondessero alle mie. Barriere di solitudine spesse sette strati mi circondavano, mi cingevano tutt’intorno di mura, mi chiudevano dall’alto come delle volte. Solo un’occupazione, se fossi riuscito a dedicarmi a essa, sarebbe stata in grado di concedere un narcotico alla mia sensazione di dolore eternamente vigile. Avendo deciso di fare di Roma la mia dimora, almeno per alcuni mesi, presi delle disposizioni per la mia sistemazione, scelsi la mia casa. Palazzo Colonna si confaceva al mio scopo. La sua grandiosità, il tesoro delle sue pitture, i suoi magnifici saloni erano oggetti adatti a placare e anche a rallegrare.
Trovai i granai di Roma ben provvisti di cereali, e in particolare di granturco e, poiché richiedeva meno elaborazione nella preparazione dei cibi, lo scelsi come mia fonte di sostentamento principale. Mi accorsi ora che gli stenti e la sregolatezza della mia gioventù tornavano utili. Un uomo non può gettare al vento le abitudini di sedici anni. A partire da quell’età, è vero, avevo vissuto nel lusso, o almeno circondato da tutte le comodità che la civiltà concede. Ma prima di quel tempo, ero stato «un selvaggio incolto come il fondatore dell’antica Roma, allevato da una lupa»;228 ora, proprio a Roma, le antiche inclinazioni del ladro e del pastore, simili a quelle del suo fondatore, risultavano vantaggiose per il suo unico abitante. Passai le mattine andando a caccia a cavallo nella Campagna; trascorsi lunghe ore nelle varie gallerie; fissai ogni statua, e mi persi in fantasticherie davanti a più di una bella Madonna o di una vaga ninfa. Mi aggirai per il Vaticano, e me ne stetti circondato da forme marmoree di una bellezza divina. Ogni divinità di pietra era posseduta da una sacra letizia e dall’eterno godimento dell’amore. Mi guardavano con una compiacenza priva di partecipazione, e spesso, con accenti brutali, le rimproveravo per la loro suprema indifferenza, perché erano forme umane, la divina struttura umana era evidente in ognuna delle loro membra e dei loro lineamenti bellissimi. La perfezione con cui erano state modellate recava con sé l’idea del colore e del movimento; spesso, un po’ con scherno amaro, un po’ preso realmente dall’illusione, abbracciavo le loro forme gelide, e mettendomi tra Cupido e le labbra della sua Psiche, premevo il marmo vuoto di ogni pensiero.
Mi sforzai di leggere. Visitai le biblioteche di Roma. Scelsi un volume e, in una nicchia appartata e ombrosa sulle rive del Tevere, oppure davanti al bel tempio nei Giardini di Villa Borghese o sotto l’antica piramide di Cestio, mi sforzavo di nascondere me a me stesso, e d’immergermi nell’argomento descritto nelle pagine che avevo di fronte. Come quando si piantano nello stesso terreno la morella e il mirto, ciascuno di loro si appropria della terra, dell’umidità, e dell’aria a disposizione ciascuno per affermare le rispettive proprietà, così il mio dolore trovò il suo sostentamento e il vigore necessario per vivere e crescere, in ciò che in situazioni diverse era stato una manna divina che nutriva splendide meditazioni. Ah! Mentre scrivo in queste pagine il racconto di quelle che erano le mie cosiddette occupazioni, mentre do forma allo scheletro dei miei giorni, le mani mi tremano, il cuore palpita e il cervello si rifiuta di fornire un’espressione, una frase, un’idea con cui poter dare un’immagine del velo di dolore inesprimibile che rivestiva queste nude realtà. Mio cuore, esausto e pulsante, mi è forse lecito sezionare le tue fibre, e dire come in ogni immitigabile miseria, convivessero un’atroce tristezza, lamentele e disperazione? Posso annotare i miei numerosi deliri, le maledizioni folli che lanciai contro la natura e i suoi tormenti, e come abbia trascorso giorni e giorni escludendo la luce e il cibo, tutto, eccetto l’inferno bruciante che viveva nel mio stesso petto?
Nel frattempo, tra le varie occupazioni, mi si presentò quella che meglio di ogni altra era adatta a disciplinare i miei pensieri malinconici, che si smarrivano verso il passato, tra mille rovine, e attraverso mille radure fiorite, fin sui recessi montani da cui, nella mia prima gioventù, ero emerso per la prima volta.
Durante uno dei miei vagabondaggi attraverso le abitazioni di Roma, trovai del materiale per scrivere sul tavolo dello studio di uno scrittore. Sparpagliate in giro c’erano parti di un manoscritto. Era una dotta disquisizione sulla lingua italiana, e in una pagina c’era una dedica incompleta alla posterità, a vantaggio della quale lo scrittore aveva setacciato e selezionato le sottigliezze di questa lingua melodica, a eterno beneficio della quale egli lasciava, come eredità, le sue fatiche.
Anch’io scriverò un libro, esclamai, ma chi lo leggerà? A chi sarà dedicato? E allora con sciocchi svolazzi (cos’altro è così capriccioso e infantile come la disperazione?) scrissi:
DEDICATO
AGLI ILLUSTRI DEFUNTI.229
OMBRE, SVEGLIATEVI, E LEGGETE DELLA VOSTRA CADUTA!
ECCO LA STORIA
DELL'ULTIMO UOMO.
Eppure, non potrebbe forse questo mondo essere ripopolato, e allora, i figli di una coppia di innamorati, che si era salvata in qualche nascondiglio sconosciuto e irraggiungibile per me, vagando fino a questi resti prodigiosi della razza che precedette la peste, non cercheranno di sapere come mai degli esseri così straordinari nelle loro conquiste, dotati di un’ingegnosità infinita, e di poteri simili a quelli degli dei, abbiano abbandonato le loro case per una regione sconosciuta?
Scriverò e lascerò in questa antichissima città, «incomparabile monumento del mondo»,230 una memoria di queste cose. Lascerò un monumento all’esistenza di Verney, l’Ultimo Uomo. All’inizio pensai di parlare solo della peste, della morte, e alla fine, dell’abbandono; ma mi soffermai con tenero affetto sui miei primi anni, e ricordai con sacro ardore le virtù dei miei compagni. Loro sono stati con me durante l’adempimento del mio compito. L’ho portato a termine, sollevo gli occhi dal mio foglio, e di nuovo li ho perduti. Di nuovo sento di essere solo.
È passato un anno da quando mi sono dedicato a questo. Le stagioni hanno compiuto il loro ciclo consueto e adornato questa città eterna con una veste mutevole di eccezionale bellezza. Un anno è passato, e io non faccio più congetture sulla mia condizione o sulle mie prospettive, la solitudine è mia intima amica, il dolore mio compagno inseparabile. Mi sono sforzato di affrontare la tempesta, di disciplinare il mio animo alla forza; ho cercato di assorbire le lezioni della saggezza. Non basterà. I miei capelli sono diventati quasi grigi, la mia voce, disabituata ormai a emettere suoni, mi giunge in modo strano alle orecchie. La mia persona, con le sue capacità e le sue fattezze umane, mi sembra una mostruosa escrescenza della natura. Come esprimere col linguaggio umano un dolore che l’uomo fino a questo momento non ha mai conosciuto! Come dare un’espressione intelligibile a una fitta di dolore che nessuno, se non io, potrebbe mai capire! Nessuno è entrato a Roma. Nessuno verrà mai. Sorrido amaramente all’illusione che ho nutrito per tanto tempo, e ancor più, quando rifletto sul fatto che l’ho scambiata per un’altra altrettanto illusoria, altrettanto falsa, ma alla quale mi aggrappo ora con la stessa amorevole fiducia.
È giunto di nuovo l’inverno, e i giardini di Roma hanno perso le loro foglie; dalla Campagna giunge un’aria pungente che ha spinto i suoi abitanti, gli animali, a prendere dimora nelle molte abitazioni della città deserta. Il gelo ha fermato le fontane sgorganti, e Trevi ha ridotto al silenzio la sua musica eterna. Avevo fatto un calcolo approssimativo, aiutato dalle stelle, in base al quale mi sforzavo di appurare quale fosse il primo giorno del nuovo anno. Nell’età antica, ormai logora, il Pontefice Massimo era solito celebrare con pompa solenne il rinnovarsi dell’anno, piantando un chiodo nel cancello del tempio di
Giano. In quel giorno salii su San Pietro, e incisi sulla sua pietra più alta la memorabile data 2100, ultimo anno del mondo!
Il mio unico compagno era un cane, un animale ispido, metà cane da caccia e metà da pastore, che trovai a sorvegliare delle pecore nella Campagna. Il suo padrone era morto, ciononostante la bestia continuava ad adempiere ai suoi doveri in attesa del ritorno dell’uomo. Se una pecora si allontanava dal gruppo, la costringeva a tornare nel gregge, e teneva diligentemente lontano ogni intruso. Cavalcando per la Campagna, mi ero imbattuto nelle pecore da lui custodite, e per del tempo l’osservai ripetere quelle lezioni imparate dall’uomo, ormai inutili, anche se non dimenticate. La sua gioia quando mi vide fu estrema. Mi saltò alle ginocchia, fece mille capriole, agitando la coda ed emettendo brevi e acuti latrati di piacere: lasciò il suo gregge per seguirmi, e da quel giorno non ha mai smesso di vegliare su di me o di scortarmi, mostrando una gratitudine impetuosa ogni volta che l’accarezzavo o gli parlavo. Quando entrammo nella magnifica vastità delle navate di San Pietro si sentì soltanto lo scalpiccio dei nostri passi. Salimmo insieme le miriadi di scalini e una volta arrivati in cima realizzai il mio proposito e tracciai con cifre rozze la data dell’ultimo anno. Poi mi volsi a contemplare il paesaggio e a prendere congedo da Roma. Avevo deciso da tempo di abbandonarla, e ora predisposi il piano che avrei adottato per il mio futuro, dopo aver lasciato questa magnifica dimora.
Un essere solitario è per istinto un vagabondo, e tale io sarei diventato. Una speranza di miglioramento accompagna sempre l’abbandono di un luogo: almeno si sarebbe alleggerito il fardello della mia vita. Ero stato uno sciocco a restare a Roma tutto questo tempo: Roma, celebre per la Malaria, la famosa organizzatrice di banchetti per la morte. Ma era ancora possibile, se avessi potuto visitare l’intera estensione della terra, che trovassi in qualche parte della sua vasta distesa un sopravvissuto. Mi sembrava che la spiaggia fosse il rifugio più probabile che una tale persona avrebbe scelto. Sola e abbandonata in una zona interna, non avrebbe potuto restare per sempre nel luogo in cui erano state distrutte le sue ultime speranze; avrebbe seguitato a viaggiare, come me, in cerca di un compagno per la sua solitudine, fino a che la barriera d’acqua avrebbe bloccato ogni ulteriore avanzamento.
Sarei andato verso quell’acqua, allora, causa delle mie sofferenze, e forse destinata ora a esserne la cura. Addio, Italia! Addio a te, ornamento del mondo, impareggiabile Roma, rifugio dell’essere solitario per lunghi mesi! Addio alla vita civile, alla dimora stabile e al susseguirsi di giorni monotoni, addio! D’ora in avanti mi apparterrà il pericolo, e lo saluto come un amico; la morte mi attraverserà in eterno il sentiero, e io le andrò incontro come a una benefattrice; gli stenti, il tempo inclemente, e le tempeste rischiose saranno i miei compagni fidati. Voi spiriti della bufera, accoglietemi! E voi poteri della distruzione, spalancate le vostre braccia, e stringetemi per sempre! Se un potere più benevolo non ha decretato una conclusione diversa, che mi permetta, dopo una lunga sopportazione, di raccogliere la mia ricompensa, e sentire di nuovo il mio cuore battere vicino al cuore di un altro essere simile a me.
Il Tevere, la strada dispiegata dalla mano stessa della natura, si stendeva ai miei piedi, e alle sue rive erano attraccate molte barche. Con alcuni libri, alcune provviste, e il mio cane, mi sarei imbarcato su una di queste e avrei navigato lungo il corso del fiume fino al mare e poi, tenendomi vicino alla terra, avrei costeggiato le belle spiagge e i promontori assolati del Mediterraneo blu, oltre Napoli, lungo la Calabria, e avrei sfidato i pericoli gemelli di Scilla e Cariddi; poi, meta intrepida (perché, cosa avevo da perdere?), avrei sfiorato la superficie dell’oceano verso Malta e le più distanti Cicladi. Avrei evitato Costantinopoli, la vista delle cui ben note torri e insenature appartenevano a un altro stato dell’esistenza, diverso dall’attuale; avrei costeggiato l’Asia Minore, e la Siria e, passando davanti al Nilo dalle sette bocche, mi sarei diretto di nuovo verso nord, fino a che, perdendo di vista la dimenticata Cartagine e la Libia deserta, avrei raggiunto le colonne d’Ercole. E allora, non importa dove, chissà!, le caverne salmastre, le insondabili profondità dell’oceano potrebbero essere la mia dimora prima che concluda questo lungo viaggio, o forse il dardo della malattia potrebbe raggiungere il mio cuore mentre navigo solitario sul Mediterraneo tumultuoso; oppure, in uno dei luoghi che toccherò, potrei trovare quello che cerco, un compagno. Se questo non potrà essere, nel tempo infinito, decrepito e grigio, la gioventù già nella tomba insieme a quelli che amo, il viandante solitario dispiegherà ancora le sue vele, e afferrerà il timone; obbedendo alle brezze dei cieli, doppiando un promontorio e poi un altro ancora, ormeggiandomi a una baia e poi a un’altra ancora, solcando di nuovo lo sterile oceano, lasciandomi dietro la terra verdeggiante dell’Europa nativa, giù per le fulve spiagge dell’Africa, dopo aver superato i feroci mari del Capo di Buona Speranza, potrei ancorare il mio logoro scafo in una piccola baia, ombreggiata dai boschetti aromatici delle isole odorose del lontano Oceano Indiano.
Sogni folli. Eppure da quando, ormai una settimana fa, mi balenarono improvvisi alla mente, mentre me ne stavo sulla cupola di San Pietro, hanno dominato la mia immaginazione. Ho scelto la barca e vi ho deposto le mie esigue scorte. Ho scelto alcuni libri: i più importanti sono Omero e Shakespeare. Ma, davanti a me, si aprono le biblioteche di tutto il mondo e in ogni porto posso rinnovare le mie provviste. Non ho certo speranza di un cambiamento in meglio, ma la monotonia del presente mi è intollerabile. I miei piloti non sono né la speranza né la gioia; mi spingono piuttosto una disperazione inquieta e una brama feroce di cambiamento. Desidero ardentemente cimentarmi col pericolo, essere eccitato dalla paura, avere qualche compito, per quanto insignificante o volontario, da compiere ogni giorno. Sarò testimone di tutta la varietà di sembianze che gli elementi possono assumere, leggerò un buon auspicio nell’arcobaleno, minacce nelle nuvole, un insegnamento o un ricordo caro al mio cuore in ogni cosa. Così, intorno ai lidi della terra deserta, mentre il sole è alto e la luna cresce o cala, gli angeli, gli spiriti dei morti e l’occhio sempre vigile del Supremo, contempleranno la minuscola barca che trasporta il carico di Verney… l’ultimo uomo.