9 Conclusioni (pars destruens)

Aspetti generali

Le conclusioni di questa «narrazione» (certo di parte, ma quale non lo è?) si concentreranno su quelle che crediamo essere le cause principali dei mali pubblici che abbiamo illustrato. È la pars destruens dell’analisi. Queste cause sono a loro volta divisibili in due maggiori e una minore.

La prima maggiore è la costituzione come S.p.A. pubblica di Ferrovie dello Stato per l’Italia, che non è – e non può essere – un’impresa se non formalmente, fatto che provoca gravi distorsioni nelle scelte per le infrastrutture ferroviarie (e anche per altro…).

La seconda è il regime concessorio delle autostrade, che è, oltre che «generosissimo», anche totalmente insensato e anacronistico sul piano funzionale.

La causa minore è invece il ri-accentramento nello Stato centrale delle risorse per i trasporti anche di competenza regionale.

La pars construens del Capitolo 10 metterà insieme alcune proposte operative, certo di non facile realizzazione, dato il perdurare dei meccanismi di costruzione del consenso che abbiamo illustrato nei capitoli precedenti.

Il ruolo delle Ferrovie dello Stato

Già il nome la dice lunga: incarna una visione funzionale e sociale antica dei servizi pubblici. Oggi le ferrovie hanno un ruolo assolutamente secondario per la mobilità di merci e passeggeri (per semplificare con un ordine di grandezza, diciamo il 10% del totale degli spostamenti fisici di merci e passeggeri, ma in termini economici nettamente meno). Non era certo così, in tutto il mondo, due secoli fa quando sono nate e cresciute, ma oggi questi sono i numeri.

La coscienza ambientale, insieme all’inerzia di molti interessi politici e industriali, può portare, se accade un miracolo, questo numero al 15%, sempre strettamente minoritario.

E chi oggi proporrebbe un «Autobus dello Stato» o un «Camion dello Stato»? Ci hanno ancora recentemente provato con la «Compagnia aerea dello stato» Alitalia, e si è visto come è andata. Le grandi navi passeggeri «dello Stato» sono naufragate prima, con l’avvento degli aerei.

La tecnologia contribuisce a far giustizia di modelli gestionali e proprietari antichi. Ma non per le ferrovie europee (e italiane). Il motivo è la dimensione diversa di questo modo di trasporto in termini occupazionali diretti e di forniture industriali. Un blocco di interessi quasi insormontabile che costituisce una forma peculiare di «too big to fail» pubblico.

Anche l’Europa ha purtroppo giocato un ruolo micidiale nel rafforzare gli interessi clientelari e privati dei sostenitori delle grandi opere ferroviarie, con una particolare duplicità. Ha infatti promosso, apparentemente contro gli interessi dei monopoli nazionali ferroviari, l’apertura alla concorrenza nel settore, ma parallelamente ha «scommesso» sul modo ferroviario, formalmente per ragioni ambientali. La prima operazione è stata però un sostanziale insuccesso: a vent’anni dalle prime direttive di apertura dei mercati, tale apertura è ancora modestissima per i servizi passeggeri (si può stimare che nell’Europa continentale i treni passeggeri in concorrenza non siano, dopo due decenni, più del 10%; l’Italia con l’AV è una limitata ma positiva eccezione). D’altronde nel processo di liberalizzazione «si sono affidate le galline alla volpe»: le aziende ferroviarie, essendo tutte pubbliche e monopolistiche, sono riuscite a premere con successo sui governi affinché fossero protette dalla concorrenza (magari straniera!). Per le infrastrutture invece la stessa capacità di pressione (clout, in gergo economico), che genera elevatissimi sussidi alle imprese ferroviarie nazionali, unita alla passione politica per le grandi opere, ha generato un esteso consenso per grandi reti intraeuropee (TEN-T di cui abbiamo già detto), principalmente ferroviarie, costituite sostanzialmente da nove linee tracciate col pennarello sulla carta geografica, ad andamento pressoché rettilineo. Come se disegnare linee dritte avesse qualche relazione con la domanda di trasporto tra le diverse aree, e quella ferroviaria fosse la soluzione tecnica più adatta a servire tale domanda! Ciò che è mancato e continua a mancare è qualsiasi analisi preliminare, non diciamo di domanda, ma nemmeno di traffico. Si tratta di decisoni tutte politiche prese dal Parlamento europeo, non dalla Commissione che è un organo tecnico. Tra l’altro, queste linee son state definite semplicemente sommando i desideri espressi dai singoli Stati, al fine di poter poi dichiarare, per i progetti meno difendibili o urgenti, «È l’Europa che lo vuole!». Ovviamente poi i fondi europei vanno a finanziare quegli stessi progetti, in una perfetta «partita di giro». Ciascun paese, infatti, riceve una quota dei fondi che versa (con qualche aggiustamento per aiutare i meno ricchi) e poi richiede che siano destinati ai propri progetti favoriti. Di razionalità sovranazionale se ne riscontra davvero poca. E i fondi sbandierati come «europei» tali non sono affatto.

L’errore fondamentale della politica è stato, e continua a essere, scommettere sul ruolo del modo di trasporto ferroviario, che quasi in tutta Europa vive solo grazie a ingentissimi sussidi pubblici e ad altrettanto ingenti tasse sul modo stradale. Ora, anche le condizioni delle finanze pubbliche non sembrano confortare questa scommessa. Né la conforta lo sviluppo tecnologico in corso, tutto riferito alla strada: mezzi non inquinanti, guida automatica anche per ridurre la congestione, «megatrucks», strade intelligenti ecc.

Inoltre la condizione specialissima di tutte le ferrovie dell’Europa continentale, di essere contemporaneamente pubbliche, «dominanti» per ragioni di protezionismo e pesantemente sussidiate, fa sì che sembra difficile che possano avere incentivi a comportarsi come imprese «normali» che, per definizione, rischiano il capitale, devono innovare per sopravvivere e devono battere la concorrenza offrendo prodotti migliori e/o prezzi inferiori. La dizione di «S.p.A.» di fianco alla sigla FSI, è certamente vera in termini formali, ma certamente falsa in termini sostanziali.

E questa situazione ha effetti devastanti anche sugli investimenti infrastrutturali, che vengono effettuati strettamente in funzione di scelte politiche che pochissimo hanno a che vedere con l’efficienza e molto con obiettivi a volte poco condivisibili e spesso non esplicitati. FSI date le sue competenze tecniche dovrebbe essere chiamata a valutare gli investimenti, ma non ha alcuna motivazione per farlo, anzi ha solide motivazioni per legittimarli con una patina di pianificazione strategica priva di reali contenuti, se non quelli di spendere i soldi che le arrivano. Le uscite pubbliche (a posteriori gloriose) dell’ing. Moretti sull’inutilità sia della TAV Torino-Lione sia del «terzo valico» sono destinate a rimanere una assoluta eccezione, e ha dovuto precipitosamente ritrattarle, pena la perdita del posto (insomma, coraggio sì, ma a tutto c’è un limite… specialmente in questo paese).

Il ruolo delle concessioni autostradali

Il secondo male discende da una cosa purtroppo in sé ottima: la creazione nel dopoguerra dell’Autostrada del Sole a pedaggio, che però ha anche dimostrato a imprenditori e politici che il trasporto stradale poteva essere una straordinaria fontana di soldi anche per le infrastrutture, non solo con il bollo e le tasse sui carburanti. Gli utenti erano disposti a pagare qualsiasi cosa, e senza discutere, tanto questo modo di trasporto risultava utile per lavoro e tempo libero (e divertente, si può aggiungere: per molti guidare la macchina è anche un divertimento).

Allora, una volta ammortizzate le opere con i pedaggi, perché la pacchia doveva finire? Ormai gli utenti erano abituati a pagare, e anche contenti di farlo.

Il meccanismo delle concessioni fu una colossale spartizione tra interessi pubblici e privati, fittamente intrecciati. Nella fase di costruzione, l’interesse dei costruttori era ovvio, come era ovvio per i politici presentare l’opera come un generoso regalo fatto all’elettorato (un regalo che l’elettorato avrebbe pagato ben caro, ma non lo sapeva né l’avrebbe saputo mai). Inoltre questi stessi politici non sottraevano molti soldi né ai loro colleghi «settoriali», motivati da altre spese, né alle casse dello Stato.

Nella fase di gestione si passava all’incasso. I concessionari recuperavano i costi anticipati, con amplissimi guadagni, i politici erano già stati accontentati, come si è detto, e i pedaggi non facevano perdere consensi. Ma forse le condizioni straordinariamente generose delle concessioni non furono tutte decise senza adeguate contropartite, come era (o è) d’altronde prassi corrente.

L’argomento della «maggior efficienza» dei privati rispetto al pubblico, spesso vero, in questo caso non regge. Innanzitutto per ragioni tecnologiche: un’autostrada, anche se un po’ più complessa di una strada ordinaria, è pur sempre soltanto un nastro d’asfalto, che poi va mantenuto in ordine durante la sua lunga vita tecnica, niente di più. Una gara ben fatta per la costruzione, e un’altra «periodica» (per esempio ogni 5-7 anni) per la manutenzione, come per la viabilità ordinaria, bastano e avanzano. Invece l’inutile meccanismo concessorio (che ha unito costruzione e gestione per periodi lunghissimi) per le sole autostrade ha fatto sì che unicamente questa forma gestionale generasse sia risorse sia incentivi a fare nuovi e super-remunerati investimenti, mentre, come vedremo, il settore stradale necessita di una strategia di interventi organica in tutte le sue componenti.

Che unificare costruzione e manutenzione garantisca che il concessionario non lesini nella fase di costruzione, per non rischiare di dover fronteggiare poi alti costi di manutenzione, è smentito dai fatti. I costi di manutenzione successivi sono infatti generalmente comunque rimborsati a piè di lista, togliendo così al concessionario ogni incentivo a minimizzarli.

Quindi oggi in Italia l’unica componente del vasto settore stradale che disponga di abbondantissime risorse, pagate dagli utenti, è quella in concessione, per ragioni «storiche» (si ricorda l’Autostrada del Sole?). Ma gli utenti percorrono invece molto di più le infrastrutture stradali ordinarie, drammaticamente sotto-finanziate.

Il ri-accentramento amministrativo

Ci fu una stagione leghista che aveva qualche contenuto condivisibile: quella del federalismo fiscale. Era orientata da stravaganti obiettivi egoistici: la ricca e operosa Padania che manteneva il Sud e simili amenità (oggi è la sovranità della Patria e del Tricolore, dalle Alpi alla Sicilia). Ma il federalismo fiscale aveva diversi aspetti positivi anche per il settore dei trasporti, che vale la pena qui ricordare. Innanzitutto la conoscenza dei problemi: la mobilità è un fenomeno che si svolge principalmente a livello regionale, nonostante possa a volte sembrare diversamente. Conoscere da vicino i problemi è una premessa indispensabile per gestirli meglio. Da Roma sembra davvero molto più difficile, se non per aspetti realmente nazionali.

Inoltre prelevare risorse localmente rende i decisori politici, che hanno sempre basi territoriali, molto più attenti a non sprecarle, per ragioni di consenso: non possono più dire ai propri elettori «questa ferrovia è frutto della mia capacità politica in vostro favore, questa strada invece non ho potuto farla perché Roma (ladrona) non mi ha dato i soldi». Questo, se gli elettori pagano più tasse direttamente a livello locale. E il decentramento fiscale per un breve periodo aumentò, sia per le infrastrutture sia per i servizi. Ma ben presto successero due fatti: il meccanismo aveva una debolezza intrinseca, che emerse rapidamente. Questa debolezza era legata al fatto che la spesa locale in realtà non aveva un tetto costituito dal prelievo fiscale (più i soldi dati o presi dallo Stato centrale in funzione della ricchezza relativa delle diverse regioni): chi più spendeva comunque veniva poi salvato con i soldi pubblici. Inoltre i politici capirono rapidamente che è molto più semplice arrogarsi meriti e dare colpe a Roma che non gestire bene il prelievo fiscale e la spesa. Il processo quindi si arrestò, di fatto prima ancora che la parte di decentramento sul prelievo fiscale partisse.

Anche nell’erogazione dei soldi pubblici si tornò a centralizzare, anche per i trasporti. Un male rilevantissimo, anche se il prelievo fiscale rimanesse accentrato, perché se i soldi per le spese pubbliche fossero distribuiti da Roma «in solido» alle regioni, cioè non distinti tra i diversi fabbisogni sociali (trasporti, ambiente, educazione, sanità ecc.), questo sarebbe un forte incentivo all’efficienza: sotto gli occhi di elettori locali e quindi «più vicini», si metterebbe infatti in moto una sorta di competizione tra i titolari dei diversi servizi, che dovrebbero affannarsi a convincere colleghi ed elettori della loro capacità di spender bene quei soldi, senza sprechi e con grande efficacia, in modo da «meritarseli». Se invece i soldi arrivano da Roma già predestinati (earmarked, in inglese), l’unico obiettivo dei diversi politici settoriali è di «aprire i rubinetti romani» il più possibile, l’esatto contrario del risparmio e della razionalità. Spesso addirittura chi più spende più avrà (non si possono chiudere cantieri di opere o servizi inutili già avviati per ragioni sociali ecc.). E spesso questi soldi romani sono poi destinati a regioni ed enti locali non certo in funzione della razionalità della spesa, ma assai di più dell’affinità politica o addirittura partitica.