1 La logica antica delle grandi opere moderne

Da Smith a Dupuit, da Keynes a Buchanan: un minimo di teoria economica

Beniamino Andreatta, grande economista e politico democristiano tragicamente scomparso nel 2007, dichiarò a Repubblica in una famosa intervista all’inizio degli anni Novanta, prima che le inchieste giudiziarie travolgessero tutti i partiti «storici»: «I politici che promuovono grandi opere pubbliche sono interessati solo alle loro tangenti». E anche in commemorazioni recenti quell’intervista è stata opportunamente dimenticata.

Spendere soldi pubblici crea consenso politico, risparmiarli lo distrugge, e questa massima purtroppo vale anche per amministratori e politici onesti. Sarà uno degli slogan dominanti delle riflessioni che seguono.

Facciamo un rapido excursus storico sulla questione delle infrastrutture, come è stata vista dai maggiori economisti, dalla Rivoluzione Industriale a oggi. Adam Smith, il grande scozzese che nel Settecento ha inventato l’economia moderna, storico difensore del libero mercato e «padre ideologico» della Rivoluzione Industriale, scriveva: «Certo i porti e le strade [di infrastrutture non c’era molto altro, allora] li deve costruire lo Stato e non i privati. Ma non a capriccio del politico o del funzionario di turno, ma valutando i traffici da servire, in modo da non sprecar soldi». Un genio anche in questo aspetto, che generò poi, molti decenni dopo, le tecniche di valutazione economica, cioè l’analisi costi-benefici, di cui parleremo.

Questa analisi – paradossalmente – fu sviluppata, in realtà troppo presto, in Francia da Jules Dupuit, grande funzionario del Genio Civile, nella prima metà dell’Ottocento. Perché «troppo presto»? Perché il pensiero economico dominante non ci era ancora arrivato, e Dupuit dovette «inventarsi» tutto. I suoi scritti risultarono astratti e difficilissimi all’epoca, e furono rapidamente dimenticati. Non esistevano ancora gli strumenti tecnici della microeconomia pubblica, nota anche come «economia del benessere». Dovette spiegare tutto a parole, con una sorta di «racconto economico».

Il tema riprese fortissima attualità con il pensiero di Keynes e con la terribile crisi economica mondiale del 1929 e degli anni successivi. Altro che quelle attuali! Il paese più ricco e sviluppato del mondo, gli Stati Uniti, perse il 30% del PIL, e le file alle mense dei poveri divennero interminabili, come le migrazioni interne di contadini spossessati dalle loro terre (si vedano i libri di Faulkner e i film di Frank Capra). Keynes teorizzò che contro le crisi lo Stato doveva spendere molti soldi in deficit, e spenderli rapidamente, per rimettere in moto l’economia capitalistica quando questa si inceppava (si era già inceppata molte altre volte, ma mai così gravemente). Però, una volta rimessa in moto l’economia, stimolando i consumi, lo Stato doveva rimettere a posto i propri conti, facendo la manovra opposta (cioè tassando e risparmiando). Tassare poi non richiedeva nemmeno, nelle fasi di crescita, di aumentare le tasse: il volume dei ricavi fiscali sarebbe aumentato da solo con il crescere dei redditi e della produzione.

Ma spendere come? Il celebre slogan di Keynes «andrebbe bene anche far scavar buche ai disoccupati, e poi riempirle di nuovo» fu sostituito dal presidente Roosevelt con un grande programma di infrastrutture (strade, dighe, canali, reti elettriche, ferrovie) che fecero uscire gli USA e il mondo dalla crisi – anche se non completamente. Fu anche il primo caso in cui si usarono analisi costi-benefici per fare delle scelte tra infrastrutture diverse. La poverissima valle del fiume Tennessee (lungo quasi 3.000 km) fu la palestra dove questo grande programma di spesa fu collaudato.

Emerse però, dopo la seconda guerra mondiale, che la lezione keynesiana conteneva anche un sottile veleno: spendere creava consenso, rimettere in ordine i conti no (come abbiamo visto). Quindi la politica di spese pubbliche “generose” perseguita da molti paesi, tra cui l’Italia, continuò anche quando si sarebbe dovuto fare il contrario, creando così deficit pubblici crescenti e pericolosi. Tutti cicale, formiche non se ne vedevano, e Keynes fu usato a senso unico, cioè solo quando era politicamente conveniente.

Emerse allora negli Stati Uniti alla fine del secolo scorso un nuovo modo di vedere i problemi delle decisioni di spesa pubblica (si chiamava «Public Choice», e il suo fondatore James Buchanan prese anche il premio Nobel). Si contrapponeva alla scuola di pensiero dominante, nota come «Social Choice», che assumeva che i decisori politici avessero come unico obiettivo il benessere collettivo, comunque lo si voglia definire.

La nuova scuola sosteneva quella che oggi suona come una banalità, ma che è ancora lontana dall’avere una piena diffusione, e soprattutto dall’avere grandi impatti pratici: i politici, anche onesti, vogliono almeno essere rieletti, quindi cercano di spendere il più possibile e in tutti i modi possibili. E, se possibile, in modo che gli elettori percepiscano chiaramente chi devono ringraziare per i benefici che arrivano loro da queste spese. E che cosa è meglio delle grandi infrastrutture a questo fine? Si vedono, si inaugurano con grandi cerimonie mediatiche, fanno contenti i costruttori, gli utenti (anche se quelli reali sono relativamente pochi, come vedremo) e i politici locali. Occupano comunque gente, e non attirano la concorrenza di imprese straniere. Le opere pubbliche infatti sono molto «locali»: bisogna comprare in loco ferro, cemento e inerti come sabbia e ghiaia (costa troppo portarli da lontano), e anche le macchine per lavorarli e scavare, e assumere in loco buona parte dei lavoratori meno specializzati. È così ovunque nel mondo. Il fatto che spesso possano essere soldi sprecati, cioè che generino molti più costi che benefici, alla collettività interessa pochissimo, e misurare questo scarto è comunque pericoloso proprio in termini di consenso.

Perché una ferrovia non è un’autostrada e altri aspetti generali delle infrastrutture

Venendo ora al nostro tema specifico, i trasporti, vediamone un aspetto assai particolare e illuminante, la differenza tra i sistemi di trasporto.

Porti, aeroporti e strade sono pagati essenzialmente da chi li usa, con i pedaggi o con le tasse sui carburanti. Le ferrovie invece sono pagate essenzialmente dai contribuenti con le loro tasse.

Vediamone ora rapidamente il perché, davvero molto peculiare. Gli utenti delle strade ordinarie (non a pedaggio) sono chiamati a pagarle essenzialmente con le tasse sulla benzina (ne basta una parte, dato che in Italia le accise sono tra le più alte del mondo), e continuano a usarle, e anzi le congestionano. Gli utenti delle autostrade le pagano, oltre che con le tasse sulla benzina, anche con pedaggi molto salati. Anche porti e aeroporti in buona parte sono pagati con i pedaggi dagli utenti, che continuano a volare e navigare senza problemi. Ma se le infrastrutture ferroviarie dovessero essere pagate anche solo in parte dagli utenti (merci e passeggeri), questi fuggirebbero. Il costo del biglietto per andare da Milano a Roma con l’Alta Velocità (AV), per esempio, raddoppierebbe.

Come si spiega? Solo con il fatto che la preferenza degli utenti a viaggiare in ferrovia rispetto che con altri mezzi è decisamente più bassa, a fronte dei costi per produrre le infrastrutture ed erogare i servizi che rendono possibile questo tipo di trasporto. Gli utenti quindi non hanno nessuna intenzione di pagare tutti questi costi. Occorre che li paghino i contribuenti.

Si obietterà: certo, ma le ferrovie inquinano di meno. Vero, ma bisogna vedere i numeri, che sono davvero piccoli e non giustificano affatto le differenti politiche tariffarie per le diverse infrastrutture. E su questo torneremo. Tali politiche fiscali e tariffarie così «asimmetriche» sono in realtà dettate dal problema di evitare effetti del tipo «re nudo»: spendere moltissimi soldi pubblici (che è il vero obiettivo) per infrastrutture che non si può poi rischiare che rimangano semideserte.

Vediamo ora rapidamente qualche altro aspetto generale delle grandi infrastrutture di trasporto.

In primo luogo i soldi pubblici sono diventati scarsi e quindi occorre spenderli con molta cautela, solo dove si è ben certi che servano. Il quadro internazionale sulle grandi opere, soprattutto ferroviarie, dice che i rischi di sprechi sono altissimi in questo settore, con in media costi molto superiori a quelli previsti e traffici molto inferiori alle aspettative dichiarate (ovviamente i promotori delle opere, politici o industriali che siano, hanno la «naturale» tendenza a prevedere bassi costi e grandi traffici, e questo ovunque nel mondo).

Secondo: l’impatto occupazionale delle grandi opere civili, per euro speso, è molto ridotto, e per di più temporaneo (con problemi di cantieri «inchiudibili», soprattutto in aree con forte disoccupazione, dove è difficilissimo licenziare). Oggi poi, al contrario di un secolo fa, è quasi tutto fatto con elevati sistemi di automazione, in particolare i tunnel (col ricorso alle cosiddette «talpe»).

Terzo: la tecnologia che viene usata ha scarsi contenuti innovativi. Il cemento e i movimenti terra non sono uguali all’informatica o alla bioingegneria. E questo vale ovviamente anche per le attività indotte. Le talpe di cui si è detto erano un’innovazione forse cinquant’anni fa.

Quarto: il settore, come abbiamo visto, non è molto apribile alla concorrenza. Questo ne aumenta i costi, e soprattutto facilita rapporti «troppo stretti» tra politica e imprese di costruzione (ma anche la penetrazione della criminalità organizzata). La corruzione nel settore è un fenomeno che occupa la cronaca con una buona continuità. E si badi che la corruzione moderna ha aspetti molto più sofisticati della classica mazzetta con busta annessa. I meccanismi triangolari di «scambi di favori» tra politici o amministratori e imprese sono diventati complessi, e molto spesso persino legali o semi-legali, cioè difficilissimi da perseguire. Il voto di scambio è solo un esempio.

Quinto: l’Italia non è un paese sottosviluppato, dove le infrastrutture sono scarsissime. Noi ne abbiamo già molte, e di ogni tipo. Quelle che aggiungiamo possono certo essere ancora utili, ma è difficile che siano in qualche modo decisive per lo sviluppo del paese. L’impatto di una strada che apre un mercato internazionale chiuso o una regione isolata è diverso da quello di una via che è utile a ridurre un po’ i tempi di viaggio o la congestione del traffico.

Sesto: quanto appena detto vale tanto più quanto più la crescita demografica ed economica italiana è modesta – né si prevede che possa accelerare molto. Senza gli immigrati, la popolazione italiana diminuirebbe rapidamente. E siamo un paese abbastanza ricco, nonostante tutto, e con un’economia matura: le accelerazioni nei tassi di sviluppo possono avvenire solo in contesti che escono da economie relativamente arretrate. Come Cina, India, Brasile, Indonesia ecc.

Settimo: l’impatto ambientale delle grandi infrastrutture di trasporto può essere rilevante, e negativo, sia per il paesaggio sia per la produzione di acciaio e cemento, che sono tra i materiali più inquinanti in termini di CO2 emesso per tonnellata prodotta. Le emissioni dei veicoli che transitano sulle grandi infrastrutture hanno invece un’incidenza trascurabile: il trasporto in sé incide infatti meno di quanto si pensi (per il cambiamento climatico il 25% circa in Europa e il 15% nel mondo) e soprattutto lo spostamento di traffico tra strada e ferrovia (o viceversa) sulle lunghe distanze può incidere solo per valori nell’ordine dell’1% delle emissioni di CO2. Ma l’argomento ambientale viene invocato spessissimo (senza numeri di supporto) per giustificare investimenti ferroviari che costituiscono evidenti sprechi di soldi pubblici.

Ottavo: nel nostro paese gli spostamenti sono prevalentemente su distanze medie o brevi, sia per le merci sia per i passeggeri. Circa il 75% avviene all’interno dei confini regionali, dove si collocano anche i maggiori problemi di inquinamento e di congestione. Le grandi infrastrutture di trasporto sono invece destinate per definizione ai traffici su più lunga distanza, che creano assai meno problemi.

Nono: per le merci in particolare, il costo del trasporto ha un’incidenza decrescente sui costi totali dei prodotti. Questo costo, infatti, aveva una grandissima importanza quando si trasportavano soprattutto prodotti «poveri e pesanti» (minerali, cereali, materiale edilizio, prodotti siderurgici ecc.). Oggi per fortuna trasportiamo merci ad alto valore per unità di peso (computer, abbigliamento di moda, macchinari ecc.) e per queste produzioni l’incidenza dei costi di trasporto sui prezzi finali è molto piccola, e risulta difficilissimo farli viaggiare per ferrovia. L’incidenza dei costi di trasporto rimane molto alto per l’acqua minerale, ma insomma…

Come riconoscere un’opera che serve davvero e note a margine sulla recente politica americana

In assoluto, qualsiasi infrastruttura serve. Chi la usa è comunque contento di usarla, se no – per definizione – non la userebbe. Può trovarla troppo cara o scomoda, ma comunque ha preferito scegliere quella invece di un’altra, e non starsene a casa. In termini economici, si dice che l’utilità dell’infrastruttura per l’utente è maggiore dei costi che egli percepisce viaggiando (compresi quelli del tempo di viaggio, importantissimi per i trasporti).

Solo confrontando l’utilità complessiva (compresa eventualmente quella ambientale) di un’infrastruttura con i costi che la società affronta nel costruirla e gestirla si può decidere se essa sia davvero utile o se sia invece uno spreco di preziose risorse pubbliche (e su questo torneremo in dettaglio).

Osservando ora in un flash un aspetto strettamente politico del tema, rileviamo due atteggiamenti che si sono evidenziati recentemente negli Stati Uniti.

L’amministrazione Obama, che è miracolosamente riuscita a rilanciare l’economia americana portandola fuori dalla grande recessione del decennio passato, ha attuato una politica economica strettamente keynesiana, cioè di grandi spese pubbliche (quasi 800 miliardi di dollari), ma non di nuove grandi opere: quei soldi sono stati spesi soprattutto per il sostegno alle imprese e per lavori pubblici di manutenzione delle infrastrutture esistenti – attività che crea molta occupazione in tempi brevi.

Cinque anni fa Obama aveva visitato molti Stati europei, dove gli furono mostrate diverse linee di AV. Le lodò moltissimo, dichiarandosene entusiasta. Media e politici europei cantarono in coro che anche gli USA avrebbero costruito una rete di ferrovie ad AV, imitando l’Europa. Peccato che, tornato in patria, il presidente stanziò pochissimi fondi per le ferrovie, precisando anche che «per i progetti di AV le analisi costi-benefici non danno risultati soddisfacenti».

Ovviamente i media europei ignorarono la notizia.

Il neoeletto presidente americano Donald Trump ha invece proclamato un grandioso programma di grandi opere, del quale non sono ancora noti i dettagli, ma certo il senso politico. La creazione di consenso, l’immagine del «costruttore di monumenti ammirati in tutto il mondo» sembra connotare un certo tipo di populismo nazionalistico, in cui rientra anche una fiera avversione per il libero mercato che invece, secondo questa ideologia, deve essere piegato agli interessi dei più forti, e in particolare delle imprese nazionali. «Make America great again» è uno slogan che certo può funzionare nel breve periodo, ma purtroppo l’esperienza insegna che il protezionismo nel medio periodo impoverisce tutti e crea pericolosi meccanismi di ritorsione, per quanto splendenti siano le grandi «opere di regime». A volte, la storia insegna, le ritorsioni arrivano fino ai conflitti armati.