5 La Grande Svolta (in cerca di consenso)

Un’ondata politica di rinnovamento, presto tradita

Con l’aggravarsi della crisi economica, il Cavaliere sparisce dalla scena e i governi Monti e Letta non hanno la forza né la durata per cambiare molte cose, salvo il fatto di rendere di nuovo un po’ credibile l’immagine internazionale del paese (e quindi di abbassare lo spread e il conseguente rischio di default).

Ma nel 2012 un nuovo personaggio si affaccia sulla scena politica italiana. È il giovane e dinamico sindaco di Firenze Matteo Renzi, del PD. Nel primo tentativo di scalare la segreteria del partito viene sconfitto, ma raccoglie comunque una messe del tutto inattesa di consensi.

Alcuni suoi stretti collaboratori, tra cui Yoram Gutgeld, l’ex responsabile italiano della prestigiosissima società di consulenza McKinsey & Company, contattano lo scrivente per dei pareri sui trasporti, pareri che poi vengono riflessi in un libro scritto da Gutgeld, Più uguali, più ricchi, che si configura se pur indirettamente come il manifesto di Renzi ed esprime idee nel complesso orientate a un prudente liberismo. Sulle grandi opere in particolare il parere suona fortemente negativo, e Renzi stesso si esprime in pubblico contro la TAV.

Questa linea programmatica, fortemente innovatrice, raccoglie un grandissimo consenso nel partito. Al secondo tentativo Renzi vince per la segreteria e poco dopo sostituisce Letta come capo di un governo che vede molti collaboratori vicini alla presidenza, tre cui Gutgeld, di orientamento, come si è detto, moderatamente liberale (in Inghilterra, si direbbe «Lib-Lab», liberali-labouristi).

Frenetiche speranze, per l’ennesima volta, di un cambiamento di linea rispetto al passato, in particolare da parte degli studiosi che si erano opposti invano alla logica delle grandi opere. Questa forse è la volta buona!

Subito ovviamente arriva la doccia gelata: ai Trasporti, per problemi di equilibri partitici, viene collocato come ministro Italo Lupi, persona molto legata alla Compagnia delle Opere, che subito si manifesta un convinto sostenitore delle opere (grandi in particolare). Sua è una celebre frase pronunciata durante un convegno, in risposta a un’obiezione di chi scrive sull’assenza di traffico su alcune infrastrutture in programma: «Il traffico prima o poi arriverà». Profonda e meditata analisi sull’opportunità di spendere fiumi di sempre più scarse risorse pubbliche.

Ma dal palazzo arrivano segnali di speranza, per quanto un po’ imbarazzati: «Lupi è un incidente passeggero, sembra volersi dedicare presto al partito (NCD), o all’Europa». Intanto il commissario Cottarelli, responsabile della spending review, cioè della riduzione dei possibili sprechi nella spesa pubblica, chiede allo scrivente se può aiutarlo per il settore dei trasporti. Lupi ulula subito un fermo e giustificato veto, ma tuttavia di lì a poco deve rassegnare le dimissioni per una strana faccenda di un orologio regalato al figlio (!?).

La cura del ferro e la fine di ogni speranza

Nel frattempo, era scattata una stretta collaborazione (sempre a titolo gratuito, come le precedenti) dello scrivente con il professor Roberto Perotti, ordinario di Economia all’Università Bocconi, che aveva affiancato Gutgeld come consigliere economico del governo (Gutgeld nel frattempo era stato eletto senatore per il PD). Perotti inorridisce quando vede l’inconsistenza economica di moltissime grandi opere, soprattutto ferroviarie, che nel frattempo stavano giungendo a maturazione (progetti meglio definiti, prese di posizione politiche crescenti ecc… Lupi non era passato invano).

Nuove speranze di chi scrive e di molti altri, ma questa volta davvero raggelate: giunge una telefonata, drammatica per chi scrive, da Perotti, che sembra interpretare anche la posizione di Gutgeld. «Lasciate ogni speranza, la battaglia politica sulle grandi opere è definitivamente perduta».

Di lì a non molto Perotti si dimetterà, dichiarando del tutto inutili i suoi sforzi per razionalizzare la spesa (senza alludere specificamente al settore dei trasporti, che tuttavia ha rappresentato bene una delle difficoltà insormontabili da lui affrontate).

Ma davvero spes ultima dea: infatti nuove speranze sorgono dalla nomina a ministro dei Trasporti di una figura del PD molto stimata, l’ex sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio, che si era più volte espresso in pubblico in termini molto prudenti, se non esplicitamente negativi, verso la logica delle grandi opere, raccomandando anche «attente valutazioni» e dichiarando: «Non esistono infrastrutture né grandi né piccole ma infrastrutture che sono utili, quando sono utili alla comunità».

Anche questa speranza appassisce presto: ormai ci sono dichiarazioni ufficiali di segno contrario (l’onorevole Serracchiani a Napoli, per esempio, dichiara allo scrivente prima di un dibattito pubblico che «le grandi opere sono irrinunciabili») e Delrio incomincia il suo mandato con uno slogan che contraddice ogni esigenza di confronti e valutazioni: dichiara che per il paese ci vuole una «cura del ferro», dimenticandosi che il 70% della rete ferroviaria italiana è fortemente sottoutilizzata, cioè sovrabbondante, e che le tratte congestionate, su cui cioè può aver senso intervenire per aumentarne l’utenza, si contano sulle dita di una mano, e nulla hanno a che vedere con le grandi opere, trattandosi quasi esclusivamente di tratte attorno ai maggiori centri metropolitani.

Questa situazione si verifica, si noti bene, nonostante le tariffe ferroviarie italiane siano tra le più basse d’Europa, grazie ai generosissimi sussidi pubblici, e il modo alternativo, quello stradale, sia tra i più tassati del mondo.

Nessuno sembra insomma resistere alla logica di spendere il più possibile, una volta messe le mani su un centro di spesa, quale è da sempre il ministero dei Trasporti. Delrio si trasforma rapidamente in Lupi, fino a spingersi ad affermare concetti analoghi sul traffico «comunque destinato prima o poi ad arrivare». E c’è di peggio, nascosta tra le pieghe della legislazione precedente, e non più modificata. Tra i molti difetti della Legge Obiettivo berlusconiana infatti, c’era una clausola positiva e innovatrice, nota come quella del vincolo dei «lotti funzionali». Che cosa significavano? Che un’opera non poteva essere avviata se non vi erano risorse certe per terminarne almeno una parte che potesse essere realmente utilizzata, per esempio una tratta autostradale da casello a casello, o una tratta ferroviaria che collegasse due stazioni. Non si poteva aprire un cantiere per una cosa che poi finisse in un prato, o solo per un pezzo di tunnel. Questo non era un vincolo poi così rigido: non significava che ci volevano risorse certe per l’opera intera, ma solo per una parte utilizzabile dagli utenti.

Questa clausola però era stata modificata senza alcuna pubblicità alla fine dell’ultimo governo Berlusconi, con un banalissimo cambio di termini: il vincolo all’apertura di un cantiere non era più che si trattasse di un «lotto funzionale», ma di un «lotto costruttivo». Cioè un lotto che tecnicamente potesse essere iniziato e terminato, anche se la tratta terminata finiva appunto in un prato. Di fatto, un vincolo inesistente. Le conseguenze pratiche di quel semplice cambio di nome sono devastanti: si possono inaugurare con pochi soldi centinaia di cantieri che poi, quando i soldi finiscono, sono difficilissimi da chiudere, sia per ragioni occupazionali, sia per le pressioni locali e industriali a non lasciare incompiute opere comunque costose e impattanti. La soluzione è che i cantieri non finiscono mai, ci si limita a congelare i lavori finché non arrivano nuove risorse, mentre i tempi e i costi delle opere crescono a dismisura, cosa che – si badi – ai costruttori non dispiace affatto.

E Renzi sui cento cantieri da aprire ha costruito l’ultima fase della sua campagna per il referendum costituzionale, promettendo opere in giro per tutta Italia, senza tuttavia molto successo. Avere così clamorosamente contraddetto l’ondata innovatrice che lo aveva portato al potere sembra non avergli portato fortuna.