10 Conclusioni (pars construens)

Aspetti generali

Per concludere queste riflessioni con qualche proposta sensata (la pars construens, appunto) sembra necessario riprendere alcuni concetti di buon senso, che sono connaturati alla cultura politica anglosassone, ma di certo non alla nostra.

La questione di base non è solo quella di evitare di sprecare preziosissimi soldi pubblici (i bisogni sociali veri sono tanti, e gravi) ma soprattutto di rendere conto ai cittadini di come i soldi sono stati spesi e perché. È il concetto anglosassone di accountability politica, non a caso difficile da rendere in italiano.

L’accountability, cioè il dovere di rendere conto, non è un fatto tecnico: secondo chi scrive è un pilastro della democrazia. Altrimenti il rischio che predominino logiche del tipo «scambio di favori» – anche con gruppi particolari di elettori, si badi – è altissimo, e il vecchio principio del bene pubblico va presto in soffitta (meglio, si trasforma nel principio «il bene pubblico è quello che decido io o il partito/movimento»).

Vediamo in estrema sintesi se il nostro ordinamento contiene qualche indicazione in questo senso. In realtà, con non piccola fatica, se ne trovano tre, ma tutte vaghissime e non vincolanti.

La prima la si trova all’inizio della costituzione. Recita infatti l’articolo 2: «I cittadini sono uguali di fronte alla legge». L’implicazione fiscale di questo principio è che la tassazione non può essere arbitraria, o persecutoria nei confronti di individui o gruppi. Non molto davvero: nulla viene detto sull’arbitrarietà della spesa corrispondente. L’arbitrio del decisore politico («il principe») sembra qui essere assoluto. Nemmeno è detto che i denari pubblici non devono essere sprecati. L’unica verifica è quella elettorale, spesso generica, lontana nel tempo e disinformata (infatti non è previsto nemmeno l’obbligo di informare correttamente i cittadini della destinazione e dei risultati ottenuti con i loro soldi). Forse questo può essere annoverato tra i motivi della diffusa disaffezione per la politica, disaffezione che sembra anche in alcuni casi estendersi alla democrazia.

Il secondo riferimento lo si trova nell’articolo 52, ed è anche questo laconico: «la fiscalità si ispira a criteri di progressività». Cioè chi è più ricco paga di più in termini percentuali, non solo in assoluto, che varrebbe anche con percentuali costanti. C’entra con le nostre considerazioni? In parte sì, a motivo della sua vaghezza: al principe nulla viene prescritto né su quanto le tasse debbano essere progressive, né su quanta parte del reddito nazionale possa essere prelevato dalle tasse (anche il 90%?). Questa totale vaghezza infatti è un segnale per il principe di quanto ampia possa essere la sua discrezionalità. Neanche qui è chiamato a render conto puntualmente: bastano le elezioni dopo quattro anni.

Il terzo punto sul quale si potrebbero trovare vincoli alle modalità di spesa riguarda una prerogativa della Corte dei Conti, che è quella di vigilare sui possibili «danni erariali». In teoria, se un decisore politico butta i soldi pubblici dalla finestra, la Corte può riscontrare questo tipo di danno, e sanzionarlo. In pratica, questo può essere fatto solo in termini assolutamente oggettivi (e così è stato fino a oggi: per esempio, un edificio pubblico è venduto a metà del suo valore di mercato, fatti riscontrabili). Ma se un’opera pubblica è di scarsissima utilità o costa il doppio del necessario, il politico può sempre addurre motivazioni «sociali» (occupazione, sviluppo nel lungo termine ecc.). E il peso del politico prevale per definizione. Motivazioni di questo tipo sono insindacabili.

Per di più la Corte dei Conti non ha la struttura giuridica relativamente più «blindata» di una Autorità indipendente. È noto il caso di un giudice che si era espresso in modo molto critico sui costi esorbitanti delle Ferrovie dello Stato: fu subito assunto da queste in una posizione dirigenziale (ovviamente si dimise dalla Corte) e non successe nulla. Recentemente il campo d’azione della Corte è stato un po’ esteso a questioni più generali ma, data la sua non-indipendenza sostanziale, non sembra intenzionata, al contrario di quella francese che abbiamo visto nel Capitolo 8, ad avventurarsi su terreni troppo ardui. Abbiamo poi visto che anche quella francese non ha ottenuto alcun risultato pratico, se non quello di un’immagine dignitosa.

È allora evidente che la prima cosa da fare è lavorare su quel concetto che abbiamo definito accountability: qualsiasi spesa rilevante in infrastrutture deve essere preceduta da analisi economiche e finanziarie «terze» (non fatte in casa), comparative (dimostrando che una è meglio di un’altra attraverso un ranking) e trasparenti (con tutti i passaggi in chiaro, senza «scatole nere» che mascherino l’origine dei risultati, rese comprensibili a un cittadino di media cultura). Queste tre caratteristiche delle analisi dovrebbero diventare una specie di «mantra».

Ma non basta affatto: un’operazione del tutto simile deve essere anche fatta ex post, con le stesse regole, per dimostrare il risultato dell’investimento fatto con i soldi dei cittadini. In primo luogo per accountability, ma anche perché l’esperienza internazionale dimostra che è un metodo fondamentale per «imparare» e migliorare così le scelte successive. Detto per inciso, la maggior ricerca condotta ex post sulle grandi opere di trasporto1 (che ne ha analizzate 48 in tutto il mondo) non lascia molti dubbi: mediamente le grandi opere hanno avuto risultati molto negativi, soprattutto quelle ferroviarie, con costi più alti e traffici molto inferiori del previsto, soprattutto – di nuovo – per i progetti ferroviari). E i lettori di queste note ormai sanno benissimo perché questi risultati erano da attendersi.

Questo, a livello di cultura politica generale, al fine di una miglior difesa dell’interesse pubblico, comunque definito.

Cose da fare

Ma per trasporti italiani ci sono moltissime cose da fare, e con costi inferiori a quelli delle grandi opere.

La mobilità merci e passeggeri si svolge per il 75% all’interno dei confini regionali e qui si verificano, come abbiamo visto, i maggiori costi per le famiglie e per le imprese, i maggiori fenomeni di congestione e di impatto ambientale. Su queste distanze la ferrovia per le merci non può competere e il cambio modale (l’emigrazione dal trasporto privato a quello pubblico) può avvenire solo per percentuali molto ridotte, se non verso le maggiori aree metropolitane, a causa delle basse densità abitative e della dispersione dei posti di lavoro. L’Italia è un paese di città medio-piccole.

Questo significa che il trasporto su gomma rimarrà comunque dominante, anche per i motivi tecnologici che vedremo.

Allora la soluzione è semplice: occorre migliorare le poche linee ferroviarie regionali sature (ce ne sono molte di più deserte) e migliorare la rete stradale locale. Lo stato di manutenzione della viabilità locale, come abbiamo visto, è oggi pessima per mancanza di fondi e va deteriorandosi rapidamente (il deterioramento, se non si interviene in modo sistematico, fa aumentare molto rapidamente i costi complessivi).

Piccole opere, quindi, decise a scala locale con sistemi di appalto – competitivo e periodico – di vaste porzioni della rete (i «bacini di traffico» regionali) al fine di ridurre i costi e il micro-clientelismo a imprese locali troppo piccole ma politicamente «ben connesse». Ma anche al fine di gestire in modo integrato e strategico tutta la mobilità dell’area, anche l’informazione all’utenza, la segnaletica e le emergenze. Un esempio è la gestione variabile nel tempo sia delle corsie riservate ai mezzi pubblici (nelle ore di punta), sia il ricorso a tecnologie che possono modificare il senso di marcia di alcune corsie per il traffico privato a seconda degli orari di ingresso e di uscita della pendolarità verso i maggiori centri insediativi («banalizzazione»).

E questa logica delle «piccole opere» e delle manutenzioni diffuse, si noti, ha anche due importanti significati macroeconomici: da un lato per euro pubblico speso genera molta più occupazione che non le grandi opere, dall’altro genera questa occupazione in tempi molto più brevi. Per citare il famoso detto di Keynes già ricordato nel Capitolo 1 in tempi di crisi basterebbe impiegare i disoccupati a scavar buche e riempirle per rilanciare la domanda interna. Nel caso delle reti stradali locali occorre tuttavia fare una variante al celebre detto, perché le buche ci sono già, e in grande abbondanza.

I problemi di congestione sono quelli che infine generano anche i maggiori costi ambientali oltre che perdite di tempo (un veicolo stradale consuma per km circa il doppio a 20 km all’ora che a 60, e genera anche residui incombusti molto tossici quando il flusso procede a singhiozzo, «stop and go»). Se, come abbiamo visto la maggior parte del traffico merci e passeggeri si svolge su distanze medio-brevi, e rimarrà prevalentemente stradale, anche aumentare la capacità delle strade locali là dove serve per diminuire la congestione sembra una strategia del tutto sensata.

La rapida evoluzione della tecnologia del settore

Ma occorre soprattutto guardare agli scenari prossimi sul versante delle tecnologie, per orientare gli investimenti infrastrutturali che per definizione hanno vita tecnica lunga.

Ora, le tecnologie di trasporto stanno vivendo una fase di rapida evoluzione, che sarà destinata a cambiare radicalmente gli scenari futuri. E questa evoluzione riguarda quasi esclusivamente il trasporto stradale per un motivo ovvio: è qui il regno del mercato e della competizione, che ha generato la rivoluzione industriale due secoli fa. Il monopolio e i sussidi pubblici tolgono per definizione gli incentivi a innovare, se non in casi eccezionali come l’AV francese, che tuttavia risale ormai a più di trenta anni fa.

Vediamo rapidamente le principali innovazioni in arrivo per il settore: i tempi per la penetrazione nei diversi mercati e segmenti del trasporto potranno certo variare, ma sembra che non vi siano più dubbi sulla direzione intrapresa, anche per gli enormi investimenti privati in concorrenza che sono già pienamente in atto.

Iniziamo dalle motorizzazioni. I motori ibridi, rapidamente estensibili anche ai veicoli merci, già oggi consentono la marcia elettrica alle basse velocità, mentre velocità maggiori occorrono ancora a motori a combustione interna. Questo, si badi, è essenziale per abbattere non solo l’inquinamento totale, ma soprattutto quello nelle aree urbane, dove l’impatto sulla salute umana è ovviamente molte volte superiore a quello nelle aree extraurbane, dove le velocità sono necessariamente maggiori. L’evoluzione verso ibridi sempre più efficienti (per esempio plug-in, cioè ricaricabili da prese elettriche domestiche) è inoltre rapida, in una traiettoria che porterà anche a una totale elettrificazione di buona parte del parco circolante. Certo questo non annullerà totalmente i problemi ambientali, nella misura in cui la produzione di elettricità dipenderà ancora da fonti inquinanti, ma certo li abbatterà in modo molto rilevante, soprattutto per quanto concerne la salute umana (il CO2, che produce l’«effetto serra», non è dannoso per l’uomo). E gli stessi motori a combustione interna presentano ancora spazi di innovazione notevoli, per esempio grazie all’utilizzo di biocarburanti.

Veniamo ora ai veicoli: sono possibili rilevanti riduzioni dell’inquinamento e della congestione con l’introduzione, già citata, di veicoli merci con un peso massimo di 60 tonnellate (invece delle attuali 44), che circolano da molti anni in Nord Europa, USA e Australia. È infatti ovvio che a parità di merci trasportate, un camion grande inquina e occupa la strada meno di due piccoli (in percentuale, ha meno «tara»). Ma i camion si prestano già ad avere sistemi di guida automatica, sulla viabilità maggiore e di lunga distanza, che consentono di viaggiare in tutta sicurezza in convogli di veicoli a pochi centimetri di distanza uno dall’altro, collegati solo da sistemi immateriali che agiscono su sterzo e freni. Ricordando che avvicinandosi ai 100 km/h la gran parte della resistenza all’avanzamento, e quindi dei consumi di carburante, è dovuta al fattore aerodinamico, questa «marcia a convoglio» riduce molto costi e inquinamento, e, occupando meno spazio stradale, riduce anche i fenomeni di congestione. Si noti che alcuni di questi convogli circolano già sperimentalmente in Germania, certo ancora con i conducenti a bordo per ragioni di sicurezza, ma anche questo aspetto è destinato a modificarsi con l’avvento di sistemi di guida sempre più automatizzati.

L’infrastruttura stradale sembra anch’essa chiamata a collaborare all’evoluzione complessiva del settore, e ciò in due modi. Innanzitutto con dispositivi di «boe elettroniche» per supportare i sistemi di guida automatica e in secondo luogo con sistemi di alimentazione elettrica sia a contatto sia a induzione, per aumentare l’autonomia dei veicoli elettrici, aspetto che oggi costituisce ancora una limitazione alla loro diffusione.

E per i sistemi di guida, l’avvento di un totale automatismo, pur perfettamente possibile e già ampiamente sperimentato, sarà preceduto gradualmente da dispositivi per la guida assistita che aumenteranno di molto la sicurezza (questi dispositivi incominciano già a essere diffusi sulle automobili di alta gamma). Occorre infatti ricordare che il 90% degli incidenti stradali è oggi provocato da errori umani, e tale incidentalità genera costi sociali superiori anche a quelli ambientali.

Infine l’avvento della guida totalmente automatica su veicoli non inquinanti, che costituisce un orizzonte più lontano ma ragionevolmente certo, ridurrà in modo drastico il costo della mobilità stradale. Verrà infatti verrà meno la necessità di possedere un veicolo e il noleggio per il solo viaggio necessario (urbano o extraurbano) sarà privo dell’onere per il guidatore. Infine la pressione fiscale, che oggi in Europa rappresenta oltre la metà del costo dell’uso di un veicolo privato, dovrebbe anch’essa ridursi drasticamente, non essendovi più carburanti inquinanti da tassare. Anche i costi assicurativi, riducendosi l’incidentalità, si abbasseranno.

Uno scenario complessivo per il trasporto stradale non troppo lontano dall’attuale.

Il rischio di spendere fiumi di denari pubblici in grandi opere ferroviarie sembra allora davvero altissimo: non è quella la direzione in cui si muove l’innovazione, già molto visibile nel settore dei trasporti. Più che elefanti bianchi, rischiamo di trovarci di fronte a cimiteri di elefanti, avendo indirizzato le scarse risorse pubbliche verso una tecnologia sostanzialmente ottocentesca, che soffre e soffrirà sempre dell’impossibilità di fare servizi «porta a porta». La ferrovia ha bisogno della strada, ma non viceversa.


1. Bent Flyvbjerg, Nils Bruzelius, Werner Rothengatter, Megaprojects and Risk: An Anatomy of Ambition, Cambridge, Cambridge University Press, 2003.