31
Frank dormì fino a tardi. A parte il ricovero in ospedale, da secoli non rimaneva a letto dopo le undici. Dagli albori della civiltà, come ripetevano spesso in televisione.
Il taccheggio e i furti dai vicini lo avevano distrutto. Aveva continuato a pisolare nonostante il rombo di venti o trenta aeroplani, un violento temporale e un numero indefinito di telefonate promozionali.
Sapeva che era tardi, ma non esattamente quanto. Allungò la mano per afferrare l’orologio, ma poi si ricordò di averlo venduto al banco dei pegni. Se non fosse tornato indietro con la memoria fino al punto in grado di suggerirgli la data del giorno prima, non avrebbe mai appurato quella di oggi. Era una sensazione liberatoria.
Restò a letto, riflettendo sui programmi televisivi della sera passata. Un torneo di biliardo, una trasmissione sul giardinaggio, una raccolta di video amatoriali su catastrofi di ogni tipo, la serie sugli antiquari...
«Merda!»
Frank si alzò di scatto come se gli stessero bruciando le chiappe. Si stirò il collo. Per un pelo non si slogò la caviglia. Era troppo vecchio per i movimenti improvvisi. Gli formicolò il piede e lo sbatté a terra finché non gli passò. Aprì le tende, quasi strappandole via. Un gancio bianco schizzò attraverso la stanza.
«Merda!»
Fuori era chiaro. Sea Lane era piena di traffico. Arrivò la navetta gratuita per l’ipermercato. Se le finestre fossero state aperte e il vento avesse soffiato nella direzione giusta, lui avrebbe sicuramente sentito le vecchiette ridacchiare e fischiare dietro al postino mentre il pullman sorpassava la sua bicicletta rossa.
«No!»
Era lunedì e si era perso l’ultima visita domiciliare di Kelly.
Non l’avrebbe più rivista ed era rimasto dormire. Sì, l’infermiera aveva la chiave nella cassaforte fissata al muro esterno, ma Frank aveva messo la catenella alla porta prima di addormentarsi. Lei non sarebbe mai riuscita ad aprirla. Di sicuro lo avrebbe chiamato attraverso lo spiraglio tra l’uscio e lo stipite: «Frank? È in casa?» Poi avrebbe suonato il campanello, senza sapere che era stato scollegato. Allora lo avrebbe chiamato al telefono. Perché Frank non l’aveva sentito squillare? Perché era addormentato come un sasso, ecco perché! Rubare era stancante e il suono non l’aveva svegliato.
Raggiunse il salotto. Un caos assurdo. Il trolley di tela scozzese era piazzato al centro della stanza, circondato dalle gentili donazioni degli abitanti di Fullwind. I dvd scampati alla selezione per il COMPRO & VENDO erano disseminati sul tappeto. Lanciò un’occhiata all’orologio sopra il caminetto. Le undici e venticinque. Quello in cucina segnava le undici e ventinove. Una lunga sfilza di otto lampeggiava sul lettore dvd.
Frank si era messo a letto vestito. Probabilmente si era steso per un attimo, appisolandosi profondamente. Se aveva sognato qualcosa, non se lo ricordava. Magari era quello l’incubo. Lui era Judy Garland e non si trovava più in Kansas. Si infilò le scarpette rosso rubino e scese di fretta. Il giornale era sullo stuoino. Il ragazzo addetto alla consegna lo infilava solo per metà nella buca delle lettere. Forse era stata Kelly a spingerlo dentro, per sbirciare dalla feritoia, controllando se lui fosse svenuto in fondo alle scale e chiamandolo a viva voce: «Signor Derrick?»
Frank si incamminò lungo il vialetto. Per un attimo si chiese il motivo di tutte quelle buche in giardino. Si ficcò la mano in tasca, sentendo i cinque pence in spiccioli, le mollette per capelli, la medaglietta di Bibì e la spilla sgraffignata al negozietto dell’usato. Da qualche parte, sepolta nella lanugine dei pantaloni, doveva esserci la vite minuscola dei vecchi occhiali.
Si fermò sulla sponda fuori dal cancello, guardando in entrambe le direzioni, alla ricerca dell’utilitaria blu di Kelly. L’erba era bagnata; siccome il temporale era un lontanissimo ricordo, lui incolpò la rugiada del mattino. Non scorgendo l’auto dell’infermiera, si avviò verso i negozi. Si tolse gli occhiali, strofinandosi le palpebre. Non era completamente sveglio. Pensò di mettersi a correre. Chissà se ne era ancora capace. Sveltì il passo; se avesse aumentato la velocità, di sicuro sarebbe crollato in ginocchio.
Lava Troppo La Macchina stava lavando la macchina e lo salutò. Frank non gli rispose, limitandosi a un sorriso tirato. Si rammentava vagamente di avergli rigato la fiancata dell’auto nel corso della seconda nottata di scorribande. Verificò in tasca l’eventuale presenza dell’arma del delitto: una molletta per capelli, una monetina, la spilla, la medaglietta di Bibì, una chiave... No, niente chiavi. Le aveva scordate in casa. Si era chiuso fuori. E se si fosse dimenticato pure la data del suo giorno di nascita per aprire la piccola cassaforte sul muro?
Aveva percorso una decina di metri quando notò una macchina venirgli incontro. Era dello stesso blu di quella di Kelly. Avrebbe voluto farle un cenno con la mano, ma non era sicuro che fosse lei. Non gli sarebbe piaciuto essere ribattezzato Saluta Gli Sconosciuti. Quando l’utilitaria si avvicinò, si accorse che dentro c’erano due persone. Kelly era dietro al volante e sul posto del passeggero (quello di Frank) stava seduto un uomo. All’improvviso l’infermiera sterzò nella sua direzione e rischiò di investirlo. Intenzionalmente o per puro caso: era una pessima guidatrice. Se lo avesse travolto, le avrebbero permesso ugualmente di seguirlo a domicilio durante la convalescenza?
Frank indietreggiò, quasi appoggiandosi allo steccato del Tre Comignoli. In effetti il bungalow ne aveva davvero tre. Si domandò di nuovo a che cosa servissero. Magari avevano costruito la casa in base al nome indicato sul cancello. Se non fosse stato così esausto, avrebbe subodorato la possibile esistenza di tre camini.
Kelly si fermò sull’erba, abbassando il finestrino. Frank la raggiunse, chinandosi per sbirciare all’interno.
«Aveva messo la catenella alla porta», esordì lei. «Ho capito che doveva essere per forza a casa. Ho suonato il campanello. Le ho telefonato ma non mi ha risposto. Tutto bene?»
«Non mi sono svegliato.» Dall’espressione preoccupata dell’infermiera, Frank si rese conto di essere ridotto da schifo. Probabilmente era conciato come quando si erano incontrati per la prima volta, tre mesi addietro, dopo i vari capricci e il rifiuto di lavarsi. Stava sudando e gli mancava il fiato. Aveva le borse sotto gli occhi e i capelli scompigliati. Non si radeva da giorni e ciuffi di peli gli spuntavano dalle narici. Sarebbe stato costretto ad aggiungere sul curriculum imitazione dell’uomo di Neanderthal.
L’uomo sul sedile del passeggero era il suo ritratto di Dorian Gray. Giovane, forse appena più vecchio di Kelly, capelli corti e ordinati, tipo un soldato o un poliziotto, con un filo di barba che sembrava dipinto con l’aerografo. Probabilmente da uno stuolo di fatine.
«Oh, scusatemi», affermò Kelly. «Lui è Sean. Sean, questo è il signor Derrick.»
«Frank. Mi chiamo Frank. Il signor Derek era il presentatore di un programma per bambini.» Né Kelly né Sean avevano la minima idea di che cosa stesse parlando. E poi biascicava. Non aveva avuto tempo di infilarsi la dentiera. Dall’alto della sua esperienza, forse la donna pensava che gli fosse venuto un ictus. Magari poi gli avrebbe controllato volto e arti alla ricerca di altri segni rivelatori. «Un vecchio programma per bambini con i pupazzi animati, tra cui una volpe», proseguì lui. «Il signor Derek era uno dei conduttori, come il signor Roy o il signor Rodney. Io sono Derrick. I-C-K. Si scrive diversamente.»
«Perché non entriamo in casa a discuterne?» gli propose Kelly. Aveva un tono calmo, quasi avesse dovuto convincere un aspirante suicida a non buttarsi dal davanzale della finestra. A chi si riferiva con quell’«entriamo»? Si voltò verso Sean e i due iniziarono a confabulare tra loro. Frank cercò di seguire la conversazione, leggendo il labiale. Un tentativo inutile, soprattutto quando Kelly si sporse a baciare Sean e le labbra di entrambi sparirono dalla visuale.
La donna aprì la portiera. «Lui ritornerà al lavoro con la mia auto», precisò mentre scendeva. «Io prenderò il pullman più tardi e andrò a recuperarla.»
Sean si spostò sul sedile del guidatore. «Piacere di averla incontrata, signor Derrick.» E poi, rivolgendosi a Kelly: «A presto». La donna richiuse la portiera. Sean sfrecciò via dopo un’inversione di marcia.
Non appena si dileguò, lei si girò a fissare Frank. «Qui ci sono delle talpe?»
«Come?»
«Forza, entriamo.» Si incamminarono verso casa. «Qualcuno le sta scavando delle buche in giardino. Mi sono preoccupata, soprattutto quando mi sono accorta di non riuscire ad aprire la porta. Ho evitato di chiamare la polizia o i vigili del fuoco, in caso lei fosse stato solo addormentato o in bagno. Avevo appena lasciato Sean al lavoro e sono tornata a prenderlo perché svitasse la catenella. Sapevo che si era portato dietro i suoi attrezzi. Probabilmente non è stata un’idea geniale. Non credo che smontare porte d’ingresso sia contemplato nel manuale della Lemon.»
«Non mi sono svegliato», ribadì Frank.
Superarono il cancello, arrivando nel prato. Lui non si era reso conto della quantità di voragini che aveva scavato. Era indeciso sulla giustificazione da fornire a Kelly. La verità era da escludersi. Le talpe sarebbero state un perfetto capro espiatorio, ma Frank preferì raccontarle di essersi dedicato al giardinaggio, pur non essendo troppo bravo. Le mostrò le dita. «Vede? Niente pollice verde.» Raggiunsero la soglia di casa. «Ho dimenticato dentro le mie chiavi.»
L’infermiera pescò quella contenuta nella cassaforte e aprì la porta. Lui agguantò il giornale e la corrispondenza.
Kelly lo seguì di sopra. Frank pensò al bailamme sul pavimento del salotto, al trolley e ai sacchetti per le donazioni, e a una valida spiegazione. Non avrebbe potuto incolpare le talpe. O forse sì?
In cima alle scale, vide di sfuggita il proprio riflesso nello specchio e si domandò chi avesse appeso il ritratto di un vecchio vagabondo.
Non sarebbe dovuta andare così.
Aveva progettato di alzarsi in anticipo. O di non coricarsi neppure, in modo da avere abbastanza tempo per farsi carino in occasione dell’ultima visita di Kelly. Si sarebbe goduto un lungo bagno rilassante, con tanta schiuma, intonando il solito jingle. Si sarebbe rasato con il suo multilama, spruzzandosi il dopobarba sulla faccia fino a sentirsela bruciare.
Si sarebbe messo la sua camicia più pacchiana, strappato i peli delle orecchie, del naso e delle ciglia, starnutendo e sbattendo la testa contro lo specchio. Dopo l’opera di restauro, avrebbe mangiato una tazza di cereali, che aveva comprato perché se ne ricordava il motivetto pubblicitario. Lo avrebbe canticchiato tra una cucchiaiata e l’altra. Poi avrebbe letto il giornale e guardato i programmi dell’ora di colazione, riordinando il salotto prima di piazzarsi davanti alla finestra. Si sarebbe girato, arruffandosi i capelli, e avrebbe finto di essere Jimmy Stewart fino all’arrivo di Kelly.
Invece non si era svegliato.
Quando fissò lo specchio in cima alle scale, quasi non riconobbe quello scarabocchio infantile che ricambiò il suo sguardo. La sua faccia era una macchia di sporco sul vetro. «Che lavoro fa il suo fidanzato?» domandò all’infermiera.
«Ripara i tetti.»
Ma naturalmente.
Lei gli chiese la ragione del caos in salotto e Frank le rispose che stava svuotando casa, donando tutto in beneficenza. Era stato costretto a rincorrere l’uomo che consegnava i sacchetti di plastica, pregandolo di averne ancora. Quando Kelly si accorse che dalla mensola mancavano alcuni soprammobili, lui le spiegò di averli spostati nella stanza di servizio. Non aveva mai chiamato in quel modo la camera da letto di Beth.
La donna cominciò a riassettare, rimettendo la merce rubata dentro i sacchetti. Ormai era una complice. Raccolse da terra una borsetta. «Forse una volta era un alligatore.» Abbozzò una smorfia per la puzza, tenendola a debita distanza e stringendola tra la punta delle dita, per poi lasciarla cadere dentro una delle sportine. «Oh, Frank, non intendevo essere scortese. Apparteneva a Sheila?»
«Sì», replicò lui. «Probabilmente era di coccodrillo», aggiunse, in caso che un semplice sì non fosse una bugia abbastanza grossa.
Quando finì di riempire i tre sacchetti, Kelly li sollevò dal pavimento, due nella destra e uno nella sinistra. Aveva le mani molto occupate, proprio come il lattaio che aveva investito Frank e aveva motivato la presenza dell’infermiera in quella casa.
«Li porto fuori.»
«Ci penserò io più tardi.»
Ma lei era già in corridoio, sul punto di scendere, inarrestabile. Era fatta così. Le sarebbe mancata. Frank si spostò alla finestra e la osservò appoggiare le sportine sulla sponda erbosa oltre il cancello. La donna ne approfittò per raddrizzare i bidoni della spazzatura, buttandoci dentro un pezzo di carta arrivato dalla strada.
Se avesse sbirciato nel contenitore per la raccolta differenziata, lo avrebbe trovato quasi pieno. Frank si dimenticava o non si preoccupava di lasciarlo fuori per quando venivano i netturbini. Lui non era certo inarrestabile. Era fatto così. Si scordava di svuotare i bidoni, non pagava le bollette, non tagliava l’erba, non curava il giardino, non aveva mai costruito il suo cinema.
Tutti quelli che si presentavano davanti alla porta di casa per aggiustargli il tetto: be’, avevano ragione. Le tegole erano sconnesse. Avevano bisogno di essere riparate. Le finanziarie che lo chiamavano per proporgli un piano di rateizzazione dei debiti non sbagliavano numero. Un aiuto in quel campo gli sarebbe servito. Se avesse comprato le pile del registratore per ascoltare le lezioni di spagnolo in audiocassetta, non sarebbe andato oltre: «Hola, mi nombre es Frank Derrick». E non avrebbe mai suonato la batteria.
Se non fosse stato investito dal lattaio, il cibo nel frigo avrebbe continuato a scadere e nessuno avrebbe ridipinto la colonnina abbattuta, che sarebbe rimasta a terra con l’erba che ci cresceva su. Lui sarebbe rimasto in poltrona a guardare la televisione, indossando i vestiti sopra il pigiama, riempiendosi la casa di dvd e di inutile paccottiglia del negozietto dell’usato, dimenticata sulla mensola a impolverarsi. Proprio come Frank. Che non era inarrestabile, anzi.
Osservò Kelly appoggiare le sportine sull’erba e raddrizzare i bidoni. Ci gettò dentro anche un paio di ramoscelli di una pianta che stava crescendo troppo. E poi iniziò a parlare con qualcuno. Albert Papavero. Lui le sussurrò qualcosa e lei si voltò a fissare il giardino, per poi rigirarsi. Le stava chiaramente chiedendo delle buche sul prato. Frank cercò di seguire il discorso, leggendoglielo sulle labbra. Kelly sembrava dire talpe o forse volpi. Lui si augurò che la donna non avesse intenzione di baciare Albert Papavero come aveva fatto con Sean. Kelly annuì, alzando lo sguardo verso la casa. Frank si scostò rapido dalla finestra. Quando controllò di nuovo fuori, i due erano spariti.
«Frank!» gridò l’infermiera dalla metà delle scale. «Albert vorrebbe vederla.»
Lui sentì il rumore dei passi sui gradini. Non erano solo quelli di Kelly. Lei l’aveva invitato a entrare. Come un vampiro.
Frank si guardò intorno alla ricerca di due oggetti con cui formare una croce. Se solo non avesse venduto i cucchiaini... Probabilmente contenevano abbastanza argento per stecchire Papavero, se fossero stati usati per trafiggergli il cuore.
Kelly e Albert si presentarono in salotto. Frank si accorse dell’immediato disgusto di Papavero per l’aspetto della stanza. Il trolley arrugginito di tela scozzese e i sacchetti vuoti per la beneficenza sparsi sul pavimento. I dvd disseminati sul tappeto e la mensola del caminetto quasi priva di soprammobili. L’uomo sembrò attirato dai numeri che lampeggiavano sul lettore: solo un vecchio rimbambito dello stampo di Frank non sarebbe stato in grado di programmare un orologio digitale. Forse Papavero stava per fargli una predica sull’imminente gara dei Salotti In Fiore.
Dietro il velato ribrezzo di Albert si nascondeva la gioia. La gioia di entrare a casa di qualcun altro e scoprire che era peggio della propria. Fissò l’ultimo mazzo di fiori che Kelly aveva regalato a Frank. Pendevano appassiti dai bordi del vaso colmo di acqua stagnante. Fiori morti. Magari ci fosse stato anche un papavero, si disse Frank.
«Vi lascerò da soli», affermò la donna. Andò a lavare i piatti e riordinare in giro mente Albert continuava a blaterare di buche e palline di polistirolo in giardino. Si informò di nuovo del colore dei bitorzoli di cemento e dell’erba che ci cresceva sopra e sotto. Comunicò che sarebbe stato entusiasta di incaricare il proprio giardiniere di sistemare la sponda e riverniciare le colonnine.
«È molto economico.»
«Grazie, ma non mi serve.»
«Hmmm. Posso suggerirle, come soluzione assolutamente temporanea, di sprangare almeno il cancello? Non oltre la fine della gara, ovviamente. Mi sarebbe di immenso aiuto.»
Kelly era in bagno a sistemare gli asciugamani e cambiare l’acqua nel bicchiere della dentiera. Sostituì la carta igienica, piegando a punta l’inizio del rotolo come la cameriera di un albergo sciccoso. Canticchiava tra sé e sé. Frank avrebbe voluto rispondere ad Albert di chiudere il becco per ascoltare la voce della donna.
«Non sarebbe male posizionare momentaneamente qualcosa davanti al cancello. Per bloccare la visuale dall’esterno», proseguì Papavero.
«Come? Ah, giusto», replicò Frank, lanciando un’occhiata all’orologio. Presto Kelly sarebbe ripartita. Stava andando tutto per il verso sbagliato. Prima la dormita inaspettata, poi Sean e alla fine quell’idiota. Si era immaginato in modo totalmente diverso l’ultima visita domiciliare dell’infermiera. Il copione non prevedeva niente del genere.
Kelly passò davanti alla porta del salotto, dirigendosi in cucina senza smettere di cantare.
«Allora, parlerò al mio giardiniere della sponda? Dell’erba? Delle colonnine?» chiese Papavero.
«La sponda? L’erba?» ribatté Frank.
«Sì. E le colonnine.»
«Ah, giusto.» Non era mai stato tanto distratto.
«Gradisce una tazza di tè?» gridò Kelly dalla cucina. Anche se non lo chiamò per nome, si stava ovviamente rivolgendo ad Albert Papavero.
Albert guardò l’orologio. Aveva l’aria costosa. La tizia del COMPRO & VENDO l’avrebbe messo direttamente nel mucchietto dei sì. Frank avrebbe voluto farglielo saltare dal polso con un colpo d’accetta, portandogli via anche la fede e la mano. Ne avrebbe ricavato abbastanza per altri dodici mesi con Kelly.
«Ho ancora un po’ di tempo libero», rispose Albert. Uccidilo, si disse Frank. «Grazie, una tazza di tè sarebbe perfetta», continuò l’uomo con un sorriso. A Frank sarebbe piaciuto spaccargli la bocca con un pugno, vendere le otturazioni d’oro e costruirsi con il resto una dentiera nuova. Avrebbe desiderato strangolare, decapitare, sbudellare e squartare Papavero sul tappeto tra i sacchetti per le donazioni. Seppellirlo sotto le colonnine giallo girasole.
Kelly preparò il tè e i tre si sedettero in salotto. Lei scambiò quattro chiacchiere con Albert fino al termine della visita domiciliare. Frank rimase quasi sempre in silenzio. Non era disposto a estendere la durata della conversazione con un suo contributo. Perché Kelly stava parlando con Papavero? Beth aveva sborsato una fortuna per garantire un’assistenza a Frank. E poteva permetterselo a malapena. Il contratto del marito era saltato. Il frutto del sudore e del lavoro di Jimmy non doveva essere sperperato per intrattenere Albert Papavero. Che era il proprietario di un negozio di fiori. Sfoggiava giacca e scarpe costose. E un orologio elegante. Sarebbe stato tranquillamente in grado di pagarsi le proprie visite a casa. Perché non levava le tende? Sparisci, Papavero, sparisci.
Dopo venti minuti, l’uomo finalmente si congedò. Tese la mano a Frank. Lui gliel’avrebbe stretta volentieri in una morsa. Spesso svegliava Beth al mattino quando era piccola. E la sfidava: «Fai il pugno». La figlia ci provava, stesa a letto, ma era ancora troppo addormentata e debole per riuscirci. Ormai la forza di Frank era la stessa, durante l’intera giornata. Aveva il vigore di un’esile bambina mezza assopita. Se avesse stretto la mano di Papavero con la potenza che gli era rimasta, probabilmente quel seccatore non ne sarebbe neanche accorto.
Frank lo accompagnò nel corridoio.
«Ringrazi la sua infermiera da parte mia.» Albert si guardò intorno. «Bella casa. Con le scale. Una rarità per Fullwind. Ah, bisognerà spostare anche i sacchetti per le donazioni.»
Frank si trattenne dal buttarlo giù dai gradini. «Verrà qualcuno a raccoglierli.»
«Sì, ovvio. Sa che molti di questi enti benefici sono una bufala?» E poi, a voce bassa quasi a nascondere il proprio razzismo: «Regali per quei bastardi dell’Europa dell’Est. Ci manca anche questa. Arrivederci». E con quella frase fortunatamente si dileguò.
Frank tornò in salotto. Kelly stava armeggiando con la borsa e infilandosi la giacca a vento. «D’ora in avanti è libero», gli comunicò. Aprì un mazzetto di fogli piegati in due. «Deve firmare per chiudere il rapporto.» Gli passò i moduli e una penna. Lui la fissò. Era dello stesso blu dell’auto di Kelly. Aveva sopra lo stesso marchio dell’agenzia Lemon. In cima era leggermente smangiucchiata.
«Non voglio che se ne vada», sussurrò Frank con un groppo in gola.
«Come?»
«Non se ne vada. Per favore.»
Kelly controllò l’ora. «Ma...»
«Non mi sono rimesso del tutto.»
«Lei è in ottima forma. Meglio della maggior parte degli uomini con metà dei suoi anni.»
«No. Non mi sono rimesso. Non ancora.»
Una pausa. Frank non era riuscito a piangere sulla spiaggia, ma in quel momento le lacrime arrivarono rapide come la marea. «Aveva detto di essere preoccupata per me.»
«Certo. È vero.» Kelly riempì di nuovo la borsa, quasi a sottolineare che stava partendo.
«Non le importa niente di me?»
«Io sono un’infermiera. Una badante. È il mio lavoro. Bado alla gente. A lei e agli altri signori anziani...»
«Non voglio sentire parlare di loro.»
«Oh, Frank.»
E persino in quel terribile istante, nel bel mezzo di una specie di esaurimento nervoso, lui fu tentato di voltarsi di spalle, arruffarsi i capelli e roteare gli occhi in un’imitazione di Groucho Marx.
«Devo andare», affermò Kelly.
«Perché?»
La donna controllò di nuovo l’ora. «Sono in ritardo.»
«Che cosa farò adesso?»
«Non si comporti da sciocco.»
«Che cosa farò adesso?»
«In che senso?»
«Senza di lei.»
«Senza di me?»
«Sì.»
«Che cosa faceva prima?» sospirò Kelly.
«Prima?» Frank scosse il capo. «Niente.»
«Oh, non è vero. E i suoi adorati film?»
Lui spostò lo sguardo sulla magra raccolta di dvd, cercando di ricordare quali avesse venduto al banco dei pegni. Gli tornarono in mente i sedici millimetri, ormai scomparsi per sempre, probabilmente già spediti a un collezionista giapponese che li aveva pagati migliaia di sterline.
«E il cinema? Il suo cinema?» gli domandò Kelly, quasi a leggergli nel pensiero.
«È solo un capanno. Un capanno pieno di porcherie.»
Lei si sedette su un bracciolo del divano, per fargli intendere che sarebbe rimasta ancora qualche minuto, ma non per sempre. Non aprì bocca, lasciandolo continuare. Dandogli l’impressione di essere padrone della situazione. Kelly, la donna che sussurrava ai pensionati.
«Volevo che oggi fosse diverso», proseguì Frank. «Con meno estranei intorno. E adesso...» Si fissò il polso, quasi sperando di dare un’occhiata all’ora. «...Immagino che non la vedrò mai più», sospirò.
«Ah, non ci scommetta. Il mondo è piccolo. E questo paesino è addirittura minuscolo. Mi promette di non scoraggiarsi?» Era la sua ennesima domanda retorica. Praticamente un ordine. «E non resti seduto qui tutto il giorno, d’accordo?»
Frank annuì.
«Là fuori c’è un mondo grande e stupendo ad aspettarla.»
«Ma se ha appena detto che è piccolo.»
«Ha ragione. Be’, grande o piccolo, è comunque la sua ostrica. O se l’è scordato?»
Lui abbozzò un mezzo sorriso. «Come il gelato.»
«Ecco qualcosa che non avrei mai imparato se non l’avessi incontrata», rispose Kelly. «Il mio modo di mangiare i cornetti è cambiato per sempre.»
Rimasero in silenzio per quella che sembrò un’eternità e poi la donna indicò il lettore dvd. «Mi sono dimenticata di chiederglielo. Le è piaciuto?»
Frank fissò la custodia di Dirty Dancing, aperta e vuota. Scoprì di non rammentarsene neppure un’inquadratura. «Sì, niente male.»
«Devo scappare.» Kelly si alzò. «Non si preoccupi di questi.» Ficcò in borsa il mazzetto di fogli e moduli dell’orario, senza che lui li avesse firmati. «Ci penserò io. Tenga la penna. E poi non racconti in giro che non le regalo mai niente. Sono in ritardo. Devo andare a recuperare la macchina. Sean si starà chiedendo dove sono finita.»
Lui raggiunse lo scaffale dei dvd. Le porse una copia di Cappello a cilindro. «Glielo presto volentieri. È con Fred Astaire e Ginger Rogers.»
«Ma non tornerò più qui», replicò Kelly, sospettando un inganno da parte di Frank.
«Me lo spedisca.»
«Forse sarebbe meglio se...»
«Oppure se lo tenga. L’ho visto centinaia di volte. Ne ho addirittura due.»
La donna lo ringraziò, infilandoselo in borsa. «Be’, arrivederci. Mi raccomando, perda l’abitudine di farsi investire dai lattai.» E se ne andò.
Frank si piazzò davanti alla finestra, osservandola incamminarsi lungo il vialetto. Se solo si girasse alzando gli occhi... si disse. Niente del genere: Kelly attraversò il cancello, chiudendoselo alle spalle. Quello non era un film.
Poi continuò giù per Sea Lane. Sicuramente anche gli altri Jimmy Stewart del circondario la stavano spiando. «Niente macchina», avrebbe annotato Hilary sul suo quaderno degli avvenimenti sospetti.
Frank seguì Kelly con lo sguardo finché non glielo permisero gli occhiali da architetto belga, la svolta della strada e l’angolazione della finestra. Dal primo piano fu in grado di fissarla meglio e più a lungo del resto dei curiosi nei loro bungalow con chissà quanti camini e i cestini di fiori e i cartelli con i nomi da sioux appesi alla porta d’ingresso. Lui era contento di abitare in alto. Osservò la donna svanire oltre la curva e poi fissò i sacchetti per le donazioni sulla sponda erbosa. Meglio riportarli dentro prima che un passante qualsiasi riconoscesse la forma di un oggetto che gli era appartenuto.