5

Frank ricevette quindici chiamate promozionali nei tre giorni successivi. Probabilmente si trattava di un record. Non reagì sempre allo stesso modo. Rispose con garbo che non era interessato, disse «me non parlare inglese» e, all’ultima telefonata, se ne uscì con un: «Le passo mia moglie». Poi appoggiò la cornetta sul divano, accanto al gatto che dormiva tranquillo e che continuò a ronfare per cinque minuti mentre lui era in bagno.

Venerdì Frank evase da Alcatraz.

Ci impiegò un’eternità a prepararsi. Infilare il braccio-boomerang nella manica del giubbotto si rivelò un’impresa da Houdini (ma al contrario) che avrebbe meritato un pubblico più vasto del solo Bibì con l’immancabile aria distratta. Nel tentativo, Frank si stirò il collo. Poi le dita gli si impigliarono in un buco della fodera. Quando finalmente il giubbotto fu a posto, gli si inceppò la cerniera a metà. Fu obbligato a sedersi in salotto per riprendere fiato. Qualcuno avrebbe dovuto filmare la scena in bianco e nero con un accompagnamento di piano. Forse la settimana dopo Frank sarebbe rimasto appeso a un orologio rotto sulla facciata di un palazzo altissimo e una casa di legno gli sarebbe crollata addosso con la colonna sonora dal vivo del solito pianista.

Si rese conto che probabilmente sarebbe dovuto rimanere con il giubbotto e il gesso per il resto dei suoi giorni. Era un capo d’abbigliamento brutto, blu sbiadito, con la cerniera rotta, la fodera strappata e un cappuccio staccabile perso chissà dove. L’aveva sempre detestato. Se non altro si intonava al colore delle scarpe da vela. Magari una rivista di moda prima o poi l’avrebbe fotografato.

Dal mattino dell’incidente, Frank si era limitato a usare le sue adorate ciabatte rosse. Iniziò con il piede sinistro, un’operazione complicata dalle condizioni del braccio, ma almeno la scarpa gli calzò alla perfezione. Con la sinistra fu più difficile, quasi fosse stata di una misura diversa. La slegò, allargandola il più possibile, ma anche così si ritrovò stretto in una morsa dolorosa. I lacci erano diventati troppo corti per essere sistemati in qualche modo.

Frank si alzò. «Parteciperemo lo stesso alla festa da ballo», annunciò a Bibì, che si era ben guardato dal muovere una zampa per aiutarlo. Appese al braccio-boomerang la borsa per la vita. Borsa per la vita. Il rigattiere non si era spinto troppo in là stampando quella frase sulla sportina di tela, considerando l’età media dei clienti. Frank si rimirò nello specchio del corridoio e dopo avere deciso che, sì, aveva un aspetto tremendo, afferrò il bastone da passeggio che gli aveva dato l’ospedale, corruppe i secondini della sua prigione, fece uscire il gatto e si avviò zoppicante giù dal vialetto. Aggirò la colonnina che qualcuno aveva ribaltato sul prato vicino a casa, ripromettendosi di raddrizzare quel pesante blocco di cemento non appena gli avessero tolto l’ingessatura.

Era la sua prima gita con il bastone e non aveva ancora imparato a usarlo. Doveva appoggiarci sopra il peso del corpo? Dimenarlo davanti a sé come un cieco? Frank si era esercitato camminando avanti e indietro per il corridoio, appoggiando un piede o l’altro, roteando il bastone in salotto stile Charlie Chaplin. Ne erano prova una lampada da tavolo rotta e un cigno di porcellana decapitato. Adoperarlo nel modo giusto, però, era una faccenda completamente diversa. Forse avrebbe potuto proseguire lungo Sea Lane a passo di danza, scagliandolo in aria e riafferrandolo al volo dopo una piroetta degna di Fred Astaire. Si augurò che un paio di discoli impertinenti lo superassero di corsa, spernacchiandolo e chiamandolo mezzasega, in modo che lui potesse minacciarli con la sua nuova arma urlando: «Ah, se vi prendo...»

Non era neanche un bel bastone. Frank ne avrebbe preferito uno tempestato di preziosi, con il pomello a testa di cane o a sfera di cristallo o con una zanzara racchiusa nell’ambra, tipo quello di Richard Attenborough in Jurassic Park. Gliene sarebbe piaciuto uno con una spada nascosta all’interno o che almeno gli servisse da seggiolino, se si fosse stancato sulla via per i negozi. Invece, il suo era uno squallido, funzionale aggeggio di alluminio con la punta di gomma, il manico di plastica piegato ad angolo retto e un adesivo con la scritta PROPRIETÀ DELL’AZIENDA SANITARIA DEL WEST SUSSEX.

Mentre percorreva Sea Lane, il suono del terzo e del quarto canale radio della BBC si librò attraverso le finestre aperte di graziose villette. Intorno si spandeva l’odore delle alghe utilizzate per concimare i prati, in attesa della vicina gara dei Borghi In Fiore. Un aeroplano a elica volò alto nel cielo, gli uccellini cinguettarono e i colombacci si unirono al coro con il loro strano tubare.

Un simile scenario gli fece tornare in mente una canzone dei Monkees, Pleasant Valley Sunday. Quasi senza accorgersene, partì a canticchiarla. Sì, Frank conosceva i Monkees, non soltanto cariatidi dello stampo di Vera Lynn o Max Bygraves. E aveva pure sentito parlare degli Arctic Monkeys, anche se probabilmente non aveva mai ascoltato un loro pezzo.

In fondo a Sea Lane, un paio di cartelli minuscoli che indicavano la vendita di alcuni stabili erano stati sradicati e scaraventati a terra. Un’altra colonnina bianca era stata ribaltata di fianco. Quando Frank entrò nel negozio di seconda mano, l’intera clientela stava discutendo dell’ondata di criminalità che aveva colpito il paese la sera passata. Tre microscopici cartelli di un’agenzia immobiliare erano stati divelti e quasi una decina di colonnine di cemento ribaltate, compresa quella davanti all’abitazione di Frank, causando un enorme scompiglio tra la nutrita popolazione di onischi dei dintorni. E poi, un segnale stradale all’angolo di Renis Crescent era stato brutalmente vandalizzato. La zona era diventata peggio di un ghetto di Los Angeles.

Le care, vecchie signore del negozio si stavano calando nei panni di perfette Miss Marple.

«Colpa dei ragazzini», dedusse una di loro, occupata a prezzare qualche cardigan.

«Sì, di sicuro», concordò un’altra, che stava rifornendo lo scaffale consacrato ai romanzi di Dan Brown.

«Ah, quei monelli», commentò una cliente mentre comprava un modello per il lavoro a maglia.

Tutte annuirono. Si era verificata la stessa scena in coda per i francobolli, all’ufficio postale accanto.

«Ragazzini», aveva dichiarato l’uomo in fila.

«Certo, ragazzini», aveva risposto la donna dietro il vetro antisfondamento.

Solo una cara, vecchia signora che stava provando una camicia da notte in un angolino nascosto del negozio preferì non giungere a conclusioni affrettate, in mancanza di ulteriori prove. «Probabilmente sono stati dei ragazzini», sussurrò da dietro la tenda dello spogliatoio.

Perché sempre loro? si chiese Frank. Perché i giovani devono detenere il monopolio di qualsiasi stupido atto di teppismo? Perché nessuno di noi può divertirsi a fracassare una cabina del telefono o riempire di graffiti una panchina del parco, almeno di tanto in tanto? Perché la colpa deve essere dei ragazzini?

La cliente che stava comprando il modello gli lesse nella mente e gli rispose. «Sono annoiati.»

Annoiati. Ah. Sul serio. Annoiati. Neanche conoscevano il significato preciso della parola. Lui sarebbe stato in grado di impartire a quei giovani una lezioncina in merito. Annoiati di che cosa? Disponevano di scivoli, altalene e videogiochi. Potevano giocare a pallone e ad acchiapparella. Potevano correre, saltare, balzare, lanciarsi in alto, fare capriole e giravolte. Prendersi a pugni. Masticare la gomma. Avevano canali tivù apposta per loro e milioni di programmi radiofonici. Avevano internet, biciclette, cellulari e skateboard. Se erano davvero tanto annoiati, avrebbero dovuto provare a stare seduti in poltrona da soli per centinaia e centinaia di pomeriggi, guardando le repliche della Signora in giallo. Così si sarebbe risolta la questione. Gli anziani sarebbero stati giustificati a spaccare tutto, non i ragazzini.

Se Frank avesse sbattuto sul pavimento l’espositore dei biglietti d’auguri del negozio, nessuno avrebbe potuto rimproverarlo. Oppure avrebbe potuto spingersi fino a tirare un calcio all’alta vetrinetta nel centro della stanza, polverizzando sotto i piedi il vaso orientale (forse) di valore che ci tenevano chiuso dentro quasi fosse stato il diamante «Pantera rosa». Nessun giudice della nazione avrebbe avuto il fegato di ammettere che non era stato provocato. Frank avrebbe mostrato a quei mocciosi gli effetti della vera noia.

Non appena fosse andato a trovare Puzzola John, avrebbe bussato a tutte le porte della residenza assistita dove abitava l’amico per poi tagliare la corda. Sarebbe salito sull’ascensore, schiacciandone i tasti uno per uno: pianterreno e primo piano. Si sarebbe messo a saltarci dentro fino a bloccarlo e il sorvegliante sarebbe stato costretto a chiamare il pronto intervento tecnico.

Alla fine delle ciance sulla terribile ondata di criminalità, Frank avrebbe comprato un paio di ninnoli, qualche dvd, e poi sarebbe schizzato a ribaltare a terra un bel po’ di colonnine. Avrebbe aspettato che l’agente immobiliare facesse un salto in paese per mettere a posto i cartelli, così lui li avrebbe sradicati di nuovo.

A Hilary sarebbe servito un quaderno degli avvenimenti sospetti molto più grande del precedente.

Frank pagò i dvd e i soprammobili per la mensola del caminetto. Si era aggiudicato un portauovo, un pesce e due minuscole giraffe di porcellana. Ormai di giraffe ne aveva dodici. Se ne avesse acquistate abbastanza, ne avrebbe avuta una collezione, e qualche giapponese o americano gliel’avrebbe comprata all’istante. I dvd erano quelli della Grande fuga e di Gattaca. La porta dell’universo; li aveva già entrambi.

Frank uscì, dirigendosi al minimarket di fianco, dove prese una piccola confezione di pancarrè, tre barattoli di spaghetti e mezzo litro di latte.

«Con questa roba, non potrai mai vincere alla Prova del cuoco», obiettò il commesso. Esattamente come nel suo sogno. Un giro noioso per negozi con un saputello sarcastico alla cassa. Forse tra poco Frank si sarebbe svegliato.

Però di sicuro non si sentiva giovane. Anzi, gli sembrava di essere più vecchio del solito. Puntò verso casa, dove nessuno, ma proprio nessuno lo stava aspettando per sistemare la spesa.

Una volta tornato, aggirò la colonnina caduta sulla sponda erbosa. «Questi ragazzini», bofonchiò tra sé e sé, attraversando il cancello e raggiungendo il giardino. Un tizio stava fissando il tetto, scuotendo la testa ed emettendo un verso preoccupato.

Frank si immaginò di sguainare la spada dal bastone dell’ospedale, urlando «En garde!» e infilzando il riparatore di tetti da parte a parte. Poi si accorse di avere lasciato l’aggeggio di alluminio nel negozietto dell’usato. E di non avere comprato la sabbia per la lettiera di Bibì.