21
Ciao, Beth.
Spero che tu, Jimmy e Laura stiate bene.
Scusami se non ti ho telefonato, ma faccio sempre confusione con il fuso orario di laggiù. Adesso è mattina? Non ne ho idea. Ecco. Visto? Sono un vecchio sciocco. E poi il costo delle chiamate intercontinentali qui è salito alle stelle. Talvolta penso che spenderei meno per un biglietto aereo. A proposito, mi auguro che veniate presto a trovarmi. Mi mancate tantissimo.
Finalmente mi hanno tolto il gesso (lo chiamate così anche a Los Angeles?). L’infermiere che se n’è occupato ha cercato di convertirmi alla fede in Cristo. Incredibile. Però ne sono uscito con il mio ateismo intatto. Almeno il prurito è scomparso.
Purtroppo il braccio è ancora parecchio dolorante e mi reggo a malapena in piedi. L’incidente mi ha conciato peggio del previsto. Nonostante le mie lamentele iniziali, le visite domiciliari si sono rivelate di immenso aiuto. Temo che da solo avrei faticato a cavarmela. Per quanto adori la mia indipendenza, forse sarebbe una buona idea prolungare l’assistenza infermieristica; di due o tre settimane, non oltre, finché non mi sarò risistemato al novantatré per cento (il cento per cento è un ricordo del passato).
Salutami con affetto Jimmy e naturalmente Laura. Ormai sarà diventata una vera signorina.
Ti voglio bene.
Papà
Frank si riappoggiò allo schienale della sedia della biblioteca: come funzionava la posta elettronica? Immaginò la sua e-mail viaggiare a migliaia o milioni o bilioni di chilometri orari lungo la linea telefonica, superando la costa, attraversando i flutti, dal canale della Manica all’oceano nordatlantico, arrivando in America e proseguendo all’interno dello stesso cavo per spuntare sul computer della figlia a Los Angeles. Si chiese se fosse già stata recapitata e quando Beth gli avrebbe risposto. Sarebbe potuto tornare dopo a controllare. Però di sabato la biblioteca chiudeva a mezzogiorno. Se fosse andato a sfogliare un atlante, tracciando il percorso del suo messaggio da Fullwind-on-Sea a LA, avrebbe poi trovato l’e-mail della figlia ad aspettarlo? Era improbabile. Nonostante sostenesse di non conoscere le differenze di fuso orario, Frank era abbastanza certo che a Los Angeles fossero otto ore indietro rispetto a Fullwind. Di certo Beth non gli avrebbe inviato una risposta alle tre del mattino.
Dal computer uscì un suono metallico.
Ciao, papà.
Rimango sempre di stucco quando ricevo una tua e-mail. Forse sono talmente stupida da immaginarti alle prese con i telegrammi o il codice Morse o roba del genere.
Ultimamente stiamo passando un periodaccio. Il contratto di Jimmy è saltato. Lui è distrutto, a essere franchi. Ci aveva sudato sopra sette camicie. Credo che si senta deluso e preso in giro.
Quella del gesso è una buona notizia (sì, anche in America si chiama allo stesso modo). Te l’ha firmato qualcuno? Mi auguro che tu l’abbia conservato. E hai fatto bene a non lasciarti convertire. Qui sarebbe più duro resistere. Da queste parti tutti credono in qualcosa, o almeno così sostengono. Mi dispiace che tu stia ancora male. Perché non cerchiamo di ottenere una sovvenzione dallo stato o dal comune? Pure noi ci troviamo in una situazione simile, per quanto detesti ammetterlo. Che razza di figlia sono? Riflettiamoci sopra un attimo e cerchiamo di scovare una soluzione.
Ti prometto che ti chiamerò, magari domani.
Stavolta dico sul serio. Non sei l’unico a sbagliare fuso orario.
Speriamo che la faccenda di Jimmy si risolva e di venire presto a trovarti. Forse dopo la festa del Ringraziamento.
E, sì, ormai Laura è una vera signorina.
Con tutto il nostro affetto,
Beth xoxoxo
Frank rispose all’istante.
Ciao, Beth.
Non mi aspettavo che fossi sveglia.
Per piacere, dimenticati la questione delle visite domiciliari. Non avrò problemi a cavarmela da solo. Mi stavo agitando senza motivo. È molto più importante che voi vi rimettiate in piedi (ogni riferimento a dita e metatarsi spezzati è puramente casuale). Ne riparleremo presto al telefono, anche se questo scambio di e-mail è stato quasi una conversazione. Sarà magnifico vedervi non appena la faccenda si sarà sistemata (e sono certo che succederà). Forse dopo la festa del Ringraziamento, come mi hai anticipato.
Salutami con enorme affetto Jimmy e Laura.
Papà xo
Forse dopo la festa del Ringraziamento. Cioè quando? Ma il Ringraziamento non era il nome americano del Natale? Frank era connesso alla postazione internet di una biblioteca. Doveva esistere un modo per scoprirlo.
Ringraziamento. Natale. Kelly Natale. Come i suggerimenti che si aggiornano automaticamente su un sito di vendita online: se ti piace il Ringraziamento, potresti essere interessato a Natale. Gli acquirenti che hanno guardato Natale, hanno guardato anche Kelly.
Frank finì sul sito della Lemon.
Kelly stava ancora aspettando che la temperatura salisse sul termometro, sfoggiando il solito sorrisone per la gioia del fotografo nella sua divisa lucida blu.
In cima alla pagina, Frank cliccò su Quanto costa? Da lì arrivò a una sezione sulle tariffe identica a quelle di migliaia di altri servizi per anziani, nel senso che cercava in ogni modo di non darti una risposta. Lui si sforzò di leggere tra le righe.
L’agenzia Lemon sa che ognuno rappresenta un caso a sé stante.
Se vi dicessimo subito quanto costa...
L’assistenza domiciliare è pianificata sulla base dei vostri bisogni e necessità.
...forse decidereste di non potervelo permettere.
Ci teniamo a capire le vostre particolari esigenze...
Ci teniamo a vedere quanto siete in grado di sborsare...
...e ci interessa incontrare il paziente che dovremo seguire, famiglia compresa, prima di discutere una cifra.
...e poi cercheremo di spillarvi un po’ di più.
Per evitare di incorrere in errori, preferiamo iniziare ogni rapporto...
Vogliamo convincervi a sganciare il dovuto...
...venendovi a trovare a casa vostra.
...in un ambiente con una porta chiusa a chiave e preferibilmente una rampa di scale...
A quel punto potremo discutere di che tipo di aiuto avete bisogno.
...per impedirvi la fuga.
Vi preghiamo di contattare il nostro numero telefonico attivo ventiquattr’ore su ventiquattro per parlare con uno dei nostri consulenti assistenziali e fissare la data per una visita domiciliare.
Frank uscì dalla biblioteca, dirigendosi verso i negozi. Zoppicava leggermente ed era riapparso il braccio-boomerang. Se esisteva anche solo la minima possibilità che il contratto di Jimmy non fosse saltato e che Beth gli stesse tirando un divertentissimo scherzo, perché in realtà era già arrivata in aereo per fargli una gradita sorpresa, lui non voleva cadere nello stesso tranello degli imbecilli che pretendevano un sussidio di invalidità e poi venivano filmati mentre giocavano a rugby o praticavano bungee jumping da un elicottero in volo. Così, in caso la figlia fosse balzata fuori da un cespuglio con una scatola di biscotti, una statuetta dell’Empire State Building e un nuovo dépliant sulla demenza senile, Frank decise di zoppicare e di muoversi come se fosse ancora ingessato.
Era una giornata torrida e lui si tolse il giubbotto, sfilando con cautela il braccio dalla manica e abbozzando una smorfia quasi sentisse ancora male. In un certo senso si augurava che qualcuno lo stesse spiando: Beth, Jimmy, Laura, un investigatore a caccia di invalidi fasulli, Hilary (la responsabile della pattuglia a guardia del vicinato) o chiunque altro. Desiderava che la sua abilità di attore venisse debitamente apprezzata.
Controllò il saldo del conto corrente al bancomat fuori dal minimarket. Trentatré sterline e novanta. Gli restavano da pagare le bollette arretrate di luce e gas e aveva finito gli spaghetti in scatola. Rifiutandosi di morire di fame o assiderato, avrebbe vissuto al di sopra dei propri mezzi. E, particolare più importante, il suo tempo in compagnia di Kelly era quasi scaduto. Non era ancora pronto ad accettarlo.
Una leggera brezza gli scompigliò i capelli. Magari era l’inizio di un’improvvisa ondata di gelo: dopo una primavera afosa, l’estate più fredda della storia. Se per una settimana le temperature fossero scese sotto lo zero, Frank avrebbe ricevuto un sussidio governativo per il riscaldamento. Forse gli sarebbe bastato per un’altra visita domiciliare. Entrò nel minimarket, spendendo tre sterline e novantotto per lo stretto necessario, più un gratta e vinci. Si augurò che la neve lo avrebbe accolto non appena uscito dal negozio.
Alle due del mattino Frank era ancora sveglio. Si alzò, si mise la dentiera, tracannò un bicchiere d’acqua, cercò di liberarsi la bocca dal saporaccio degli ultimi quarant’anni, sollevò la cornetta del telefono e chiamò il numero attivo giorno e notte della Lemon.
«Agenzia di assistenza domiciliare Lemon. Come posso aiutarla?»
«Salve», rispose Frank con un accento americano. Non così marcato come nell’imitazione di Ron, ma cercando di sembrare un inglese trasferitosi negli Stati Uniti che stava lentamente prendendo l’inflessione del posto. Tipo Catherine Zeta-Jones o la cantante Lulu. «Vi sto contattando per mio padre. Spero di non importunarvi. Qui a Los Angeles sono le sei e cinque del pomeriggio.»
Frank si spacciò per il proprio figlio immaginario, improvvisando con la donna al telefono lo stesso discorso che doveva avere fatto Beth per ottenere un tariffario senza la necessità di un incontro preliminare. Raccontò che era a LA, distante migliaia di chilometri e impossibilitato a viaggiare. Parlò dell’incidente del padre e chiese quali tipi di servizi fossero disponibili per una persona tanto anziana.
La donna gli pose un paio di domande e gli elencò le forme e i livelli di assistenza offerti dall’agenzia.
«Sì, mi sembra perfetto», replicò lui. E poi, quasi soprappensiero, come se il denaro non rappresentasse un problema: «Quanto mi costerebbe, spannometricamente?» Non era sicuro dell’esatto significato di quel termine, ma l’aveva sentito usare da Beth e in qualche film.
Dopo che la donna gli rivelò la cifra complessiva, Frank la ringraziò, assicurandole che l’avrebbe richiamata. Poi tornò a letto, sognando l’arrivo di una gelida estate, di vincere al lotto o di vendersi i reni.
Si svegliò prima che decollasse l’aereo della domenica mattina per Alicante. Si infilò la vecchia giacca a vento rossa di Sheila, i guanti di gomma gialli di Kelly e la maschera rosa da subacqueo con boccaglio di Beth. Uscì in giardino. I suoi vicini che si erano alzati di buon’ora e che lo videro addobbato così probabilmente pensarono: «Qualcuno non ha seguito i consigli di Ron sull’importanza di un sano regime alimentare e di mantenere attivi il corpo e la mente».
Per levarsi di testa i problemi finanziari, Frank aveva deciso di costruire il suo cinema.
Prima di affrontare l’edera che imprigionava il contenuto del capanno, sarebbe stato costretto ad attraversare le ragnatele appese sulla soglia come una tenda trasparente. Non aveva paura dei ragni, ma non voleva ripulirsi per ore i capelli dai loro filamenti o ingoiarne uno, cadendo vittima di una sequenza lunga e fatale secondo la quale avrebbe poi dovuto deglutire un uccello, un gatto, un cane e una mucca, eccetera eccetera, come insegnava una vecchia filastrocca. Così si tirò su la cerniera della giacca a vento, si coprì la testa con il cappuccio impermeabile e si sistemò la maschera da sub; ansimando attraverso il boccaglio, vittima di un caldo atroce e della claustrofobia, aggredì con un bastone di legno la tela intessuta dai diabolici aracnidi.
Quello fu l’inizio dell’Odeon Empire. Un vecchio con un sogno e un capanno. Un vecchio con un sogno, una giacca a vento da donna, un paio di guanti di gomma, una maschera da subacqueo per bambini e un capanno. E un bastone di legno.
Mentre le ragnatele sparivano, Frank stava già riflettendo sul programma della serata inaugurale. Disponeva di un filo conduttore. Avrebbe esordito con Birra ghiacciata ad Alessandria, seguito da A qualcuno piace caldo. Tra un film e l’altro, brani di musica classica sarebbero stati diffusi a basso volume nella sala e lui avrebbe servito gelati e pop-corn preparato al microonde. Non aveva un forno a microonde, ma l’avrebbe acquistato. Per supplire alla mancanza iniziale di un proiettore, avrebbe presentato i film in dvd. Prima dell’arrivo delle poltrone imbottite, il pubblico si sarebbe dovuto accontentare delle sedie da giardino.
Naturalmente esisteva sempre un rischio: dopo essersi sbarazzato delle ragnatele e dell’edera, Frank avrebbe potuto scoprire che erano le uniche cose in grado di tenere in piedi il capanno. E così la costruzione di legno sarebbe crollata sul prato, come la casa smontabile di un pagliaccio da circo. Ma Hollywood non era stata costruita grazie a quel pessimismo da bicchiere mezzo vuoto.
Frank ci impiegò più di un’ora a tagliare il rampicante con un paio di cesoie arrugginite: i manici continuavano a incrociarsi e a pizzicargli le dita. Alla fine riuscì comunque a liberare le sdraio e la scaletta a pioli mezza marcia. Dopo avere totalizzato tre grandi cumuli di edera, Frank era esausto e si concesse una lunga pausa pranzo.
Nel pomeriggio iniziò a sgomberare il resto del capanno, scovando ciarpame che non si era accorto di avere perso o che aveva conservato senza rendersene conto o capirne il perché. Si chiese se un vicino si fosse servito della baracca di legno per risolvere il problema di un solaio sovraffollato. Quasi tutti gli oggetti che trovò erano rotti o arrugginiti o con un pezzo mancante. Il prato assunse l’aspetto di un mercatino delle pulci post-apocalittico.
Quando Kelly arrivò il giorno seguente, il mercatino sembrava pronto a levare le tende. I venditori, i clienti e la merce migliore erano scomparsi. Rimanevano soltanto utensili da giardino coperti di ruggine, due mozziconi di tubi per innaffiare, uno stivale di gomma, tre rotoli usati per metà di carta da parati, una sportina con i rimasugli di un tappeto, un trolley per la spesa di tela scozzese con una ruota che cigolava e le intelaiature di due lettini da spiaggia. La donna scavalcò i resti di una scatola di cartone infradiciata e aggirò i tre barattoli di vernice che erano stati il suo contenuto. Attraversò lo strato di palline di polistirolo, masticate e sputate da volpi e topi (un tempo inquilini del capanno) e disseminate sull’erba come tanti coriandoli.
Frank non era davanti alla finestra stile James Stewart e non si accorse dell’arrivo di Kelly. Si trovava nella baracca di legno a perfezionare la sua imitazione di Richard Dreyfuss. In quel preciso momento si stava concentrando su una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo, quando l’attore pare essere impazzito e fabbrica un plastico della Torre del Diavolo con pezzi del giardino, non essendo riuscito nell’impresa con il purè di patate e la schiuma da barba. Frank aveva svuotato il contenuto del capanno sul prato e non gli restava che trasportare tutto quanto su per le scale e costruire la sua versione della Torre del Diavolo.
Kelly scansò un comodino con il ripiano sfondato e un sacchetto pieno di antenne e telecomandi. La porta del capanno era socchiusa e, a giudicare dai rumori, all’interno c’era qualcuno. «Frank? È la dentro?» sussurrò lei, lievemente preoccupata per l’eventuale risposta. Non era in grado di avvicinarsi ulteriormente senza spostare le cianfrusaglie a terra. Ai suoi piedi, una gabbietta da viaggio per gatti, una cesta e una lettiera. Si sentì prudere il naso e trattenne uno starnuto.
I rumori si interruppero. La porta si spalancò e Freddy uscì. «Ta-dah!» Aveva il respiro affannoso ed era madido di sudore, con addosso la giacca a vento rossa e i guanti gialli di gomma. Stava trascinando un tavolo pieghevole da tappezziere (o forse ne era aggredito). Tossì, strofinandosi i capelli con la mano. Polvere, ragnatele e frammenti di foglie piovvero al suolo. «Spero che si sia portata dietro la spazzola.» Rimase inutilmente in attesa di una risata o un applauso da parte di Kelly.
«Non dovrebbe stancarsi così», rispose la donna. «Si è appena rimesso da un grave incidente.» Scosse il capo in segno di disappunto e se ne andò, scavalcando la porcheria disseminata per il giardino. Tirò un calcio a un pallone sgonfio che le ostacolava il cammino e sparì oltre la soglia di casa.
Frank mollò il tavolo; un grumo rappreso di colla per carta da parati si staccò di colpo, appiccicandosi sulla sua guancia e facendolo puzzare ancora di più.
Avrebbe voluto sventolare una bacchetta magica e che il capanno fosse tornato pieno all’istante. Forse sarebbe stato meglio restare davanti alla finestra, imitando James Stewart. Sferrò un calcio allo stesso pallone sgonfio, spedendolo in fondo al giardino, e salì le scale. Kelly era in cucina a riempire una bacinella di acqua tiepida. «Si metta seduto», gli ordinò.
Lui raggiunse il salotto e si accomodò in poltrona. L’infermiera entrò, posando il catino sul tavolo accanto. Camminava troppo alla svelta per una casa così piccola. «Allora, ci togliamo la giacca a vento?» gli chiese.
A Frank tornò in mente Janice. Fissò Kelly con un’aria da cucciolo abbandonato. Non sapeva come reagire. Avrebbe dovuto levarsela? Stava aspettando istruzioni dettagliate. Non voleva agitarla ulteriormente cadendo in errore. L’espressione della donna gli suggerì che sarebbe stato meglio spogliarsi. Le obbedì e lei appoggiò la giacca a vento sullo schienale della poltrona. Frank restò in attesa di ulteriori ragguagli.
«So che è una bacinella per lavare i piatti, ma forse prima dovrebbe liberarsi dai guanti», proseguì Kelly.
«D’accordo.» Lui si sentì il protagonista dello striptease meno eccitante della storia. Cercò di toglierseli, faticando parecchio. La sferzata d’energia che l’aveva spinto a svuotare il capanno lo stava abbandonando. Di colpo fu assalito da una profonda stanchezza. Kelly lo afferrò per la mano, tirando il guanto fino a sfilarglielo con un sonoro thwap: il suono di Batman quando tira un pugno a Joker nei telefilm. Poi si sbarazzò anche dell’altro, appallottolandoli insieme; non era in vena di giocare a basket e si accontentò di posarli sul tavolo di fianco alla bacinella.
«Metta il braccio nell’acqua.»
Frank eseguì all’istante. I graffi dell’edera bruciavano da impazzire, ma non si lamentò. Kelly non sembrava particolarmente comprensiva.
«Adesso lo muova.»
Lui non si oppose, scatenando una piccola onda anomala e rovesciando dell’acqua sul tavolo.
«Con delicatezza.»
Frank spostò il braccio più lentamente.
«Come va?»
«Qualche fitta di dolore.»
«Immagino che sopravvivrà. Lo tenga a mollo per circa cinque minuti, continuando a muoverlo. Dovrebbe esercitarsi cinque volte al giorno. Non gliel’hanno spiegato in ospedale?»
«Temo di no.»
«Che cosa le hanno raccomandato?»
«Non ricordo. Mi hanno consegnato un opuscolo, ma forse l’ho buttato via. Pensavo fosse un nuovo numero della loro rivista religiosa.» Frank le raccontò dell’infermiere che si era presentato davanti alla porta di casa, ma probabilmente non venne creduto. Kelly sparì in cucina a lavare le stoviglie della colazione. Era più rumorosa del solito, quasi come Janice. Non era un baccano assordante, ma abbastanza forte da comunicare a Frank di essere contrariata. La mancanza di una bacinella di plastica a separare i piatti e le posate dal lavello di metallo acuiva il frastuono.
Kelly ritornò dopo i cinque minuti previsti, portò via il catino, lo svuotò e lo riempì di acqua fredda. Lo appoggiò sul tavolo, dicendogli di infilarci dentro il braccio. Prese una salvietta dalla cucina e la piegò a metà per asciugare l’acqua che si era rovesciata.
«Sembra arrabbiata con me», azzardò lui.
«No, per niente.» L’infermiera si precipitò in cucina ad accendere il bollitore, per ritornare subito dopo. Gli si piazzò davanti; forse non aveva le mani sui fianchi, ma fingiamo di sì. «Deve avere cura di sé. Non mi pare una buona idea sgomberare un capanno quando le è stato appena tolto il gesso per una grave frattura. E guardi come si è ridotto le braccia. Adesso dovrò pulirgliele. Non rientrerebbe nemmeno nelle mie mansioni.»
Frank si fissò i graffi. «Colpa dell’edera.» Detestava essere sgridato. Lo odiava, punto e basta. Nessuno della sua età si meritava di essere rimproverato. Avrebbero dovuto stabilirlo per legge, proprio come la tessera gratuita per il pullman e l’abbonamento televisivo omaggio.
«Non sono arrabbiata», ribadì Kelly. «Mi preoccupo per lei.» Si sedette. Gli asciugò il braccio con la salvietta, tirò fuori dalla borsa un pacchetto di batuffoli d’ovatta e un tubetto di pomata, e gli disinfettò i graffi più profondi. «Che cosa combinava là fuori?»
Frank le raccontò il suo sogno, quasi fosse stato un concorrente di X Factor. Le spiegò che aveva sempre desiderato costruirsi un cinema e ne aveva studiato l’aspetto, il nome e i film da programmare. Le parlò dell’insonorizzazione, della fantasia sul tessuto rosso dei sedili, della marca e della velocità del proiettore che gli sarebbe piaciuto comprare, di come Sheila sarebbe stata la maschera e avrebbe strappato i biglietti, accompagnando gli spettatori ai loro posti con una pila tascabile. Andò in camera, recuperò una scatola da sotto il letto, trovò gli schizzi della sala e li mostrò a Kelly. «Senza Sheila, ho perso l’entusiasmo iniziale. Con il passare del tempo, la baracca in giardino si è riempita di ciarpame.»
I due chiacchierarono ancora un po’ di film e di quanto fossero cambiati da quando Frank aveva l’età di Kelly.
«Ormai vado raramente al cinema», ammise lei.
«Potrebbe venire al mio.»
«Che cosa danno?»
«Sceglierei un film di suo gradimento. Qual è il suo preferito in assoluto?»
«Dirty Dancing», rispose Kelly senza stare a rifletterci sopra.
«Ah, certo, quello con...» Frank avrebbe voluto dire Patrick Swayze. Era praticamente sicuro di averci azzeccato, ma non poteva rischiare una figuraccia, in caso il nome giusto fosse stato Bernard Swayze o Patrick Snazeby.
«Patrick Swayze», rispose la donna.
«...ayze», biascicò Frank, pronunciando insieme a lei almeno parte del cognome dell’attore. «È un bel film?»
«Non ha mai visto Dirty Dancing?» si stupì Kelly, come se lui avesse confessato di non avere mai visto la neve o un arcobaleno. Dopo avergli raccontato per una decina di minuti che era un capolavoro e che se l’era goduto decine di volte, l’infermiera controllò l’ora. «Oddio. Oggi non ho combinato nulla. Mi dispiace. Ora devo scappare. Ho approfittato del suo tempo, continuando a blaterare.» Si alzò, ficcando in borsa la pomata e il resto.
«È bello avere qualcuno con cui parlare», affermò Frank, drizzandosi di scatto e seguendola in corridoio.
«Torni a sedersi. Si riposi», gli intimò Kelly.
«Bisogna chiudere la porta del capanno.»
«Provvederò io.»
«Sul serio, non c’è problema.» Lui l’accompagnò giù dalle scale e fuori dal cancello.
Kelly adocchiò il motorino appoggiato alla siepe. «Era di sua nipote?»
Frank lo fissò, le nappine rosa del manubrio che sbatacchiavano dolcemente sotto la brezza. «No, è mio. L’ho appena comprato.»
«Signor Derrick, come devo fare con lei?» La donna attraversò il cancello e la strada, aprì la portiera dell’auto e prima di salire disse: «Se la scopro a usarlo con il braccio ancora in via di guarigione, stavolta la investirò io». Poi entrò, avviando il motore. Lo stereo tuonò all’istante. Abbassò il finestrino. «Comunque, i suoi occhiali mi piacciono molto.»
«Grazie», replicò Frank.
«Le tolgono almeno cinque anni.»
«Se avessi comprato un paio di lenti a contatto, forse ne avrei dimostrati dieci di meno.»
«Mi sbaglio o sono già rotti?»
Frank se li sfiorò. «È stato il postino.»
«Chi?»
«Il postino!»
Kelly accelerò, pronta a partire, ma poi le venne in mente qualcos’altro. «La prossima settimana potremmo andare all’ipermercato. Non si vive di soli spaghetti in scatola.»
«Non ci sono mai stato.»
Stavano urlando entrambi per farsi sentire sopra il frastuono del motore e della musica, proprio come succedeva con il fischio del bollitore.
«Non è mai stato in un supermercato?»
«Be’, sì, ma non in quello. Sono salito sulla navetta gratuita, senza però giungere a destinazione. Tipo Jim Lovell, insomma.»
«Chi?»
«Jim Lovell. L’unico astronauta che arrivò per due volte fino alla luna, ma non ci atterrò mai.»
«È un esperto di viaggi spaziali?»
«Ho visto e rivisto Apollo 13.»
«Sono in ritardo.» Kelly accelerò di nuovo e scese dalla sponda erbosa, raggiungendo la strada. Frank (in compagnia dell’intero quartiere, perché loro due avevano gridato a squarciagola) guardò l’utilitaria blu andare avanti e indietro, le marce che grattavano finché lei non infilò quella giusta, suonando il clacson e sfrecciando via. Grazie agli occhiali nuovi, Frank riuscì a seguirla fino in fondo alla strada, quando sterzò a destra e sparì.
Se si fosse concentrato, forse l’avrebbe vista anche dopo che aveva svoltato l’angolo. Quasi avesse avuto dei superpoteri. Frank Derrick. Superman. Più veloce di un proiettile, più potente di una locomotiva. Non scavalcava i grattacieli con un balzo solo perché si doveva accontentare delle villette a un piano.