Margaret Mitchell
VIA COL VENTO
Traduzione di
Ada Salvatore e Enrico Piceni
1936 by the McMillan Company
Copyright renewed 1964 by Stephens Mitchell and Trust Company
of Georgia as esecutor of the will of Margaret Mitchell Marsh
Copyright renewed 1964 by Stephens Mitchell
All rights reserved
Protection under the Berne Universal and Buenos Aires Conventions
Titolo originale: Gone with the wind
1937 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione Omnibus dicembre 1937.
7 edizioni I libri del Pavone
I edizione Il Bosco ottobre 1967
7 edizioni Oscar narrativa
I edizione Oscar classici moderni maggio 1989
ISBN 88-04-49601-0
Questo volume è stato stampato
presso Mondadori Printing S.p.A
Stabilimento NSM – Cles (TN)
Stampato in Italia – Printed in Italy
PARTE PRIMA
1
Rossella O' Hara non era una bellezza; ma raramente gli uomini se ne accorgevano quando, come i gemelli Tarleton, subivano il suo fascino. Nel suo volto si fondevano in modo troppo evidente i lineamenti delicati della madre - un'aristocratica della Costa, oriunda francese - con quelli rudi del padre, un florido irlandese. Ma era un viso che, col suo mento aguzzo e le mascelle quadrate, non passava inosservato. Gli occhi verde chiaro, senza sfumature nocciola, ombreggiati da ciglia nere e folte, avevano gli angoli volti leggermente all'insù. Le sopracciglia nere e folte piegavano anch'esse verso l'alto, tracciando una strana linea obliqua sulla sua candida pelle di magnolia - quella pelle così apprezzata dalle donne del Mezzogiorno, che la riparano con infinita cura dai raggi ardenti del sole della Georgia mediante cuffie, veli e mezzi guanti.
Seduta tra Stuart e Brent Tarleton, in quel chiaro pomeriggio d'aprile del 1861, nell'ombra fresca del porticato di Tara, la piantagione di suo padre, ella formava davvero un grazioso quadretto.
Il suo abito nuovo di mussolina verde a fiori si allargava in pieghe ondeggianti sulla gonna a cerchi ed armonizzava a perfezione con le scarpine di marocchino verde dal tacco basso che suo padre le aveva portato recentemente da Atlanta. L'abito fasciava mirabilmente il vitino di quaranta centimetri di circonferenza, il più sottile nelle tre contee, e disegnava il seno, abbastanza maturo per i suoi sedici anni.
Malgrado la castità dell'amplissima gonna, la semplicità con cui i capelli erano intrecciati e raccolti in un nodo, la compostezza delle bianche mani congiunte nel grembo, la sua vera personalità non riusciva a celarsi. Gli occhi verdi erano vivacissimi nel visino dolce, pieni di volontà, avidi di vita, in assoluto contrasto col suo contegno riservato. Questo derivava dagli affettuosi consigli materni e dalla severa disciplina della bambinaia; ma gli occhi erano suoi ed erano indipendenti.
Seduti a fianco della fanciulla, i gemelli stavano comodamente appoggiati alle spalliere delle loro sedie; socchiudevano alla luce del sole gli occhi muniti di occhiali montati in metallo e ridevano e chiacchieravano incrociando pigramente le lunghe gambe dai saldi muscoli di cavalcatori. Avevano diciannove anni, erano alti un metro e novanta; coi volti abbronzati e i capelli fulvi, gli occhi dall'espressione gaia e arrogante, vestiti di identiche giacche turchine e calzoni da cavalcare color mostarda si somigliavano come due piante di cotone.
Fuori, il sole del tardo pomeriggio scendeva all'orizzonte e illuminava il cortile avvolgendo in una gloria di raggi gli alberi di corniolo che formavano solide masse di fiori bianchi su uno sfondo verde tenero. I cavalli dei gemelli, due grossi animali rossicci come i capelli dei loro padroni, zampavano sulla strada maestra; attorno a loro squittiva e saltellava la muta dei veltri magri e nervosi che accompagnava Stuart e Brent dovunque andassero. Un po' in disparte, con aria aristocratica, era sdraiato un grosso cane da pastore, che, col muso posato sulle zampe anteriori, aspettava pazientemente che i giovanotti andassero a casa per la cena.
Fra i cani, i due cavalli e i due gemelli era un'affinità più profonda di quella derivante dall'essere sempre insieme. Erano tutti giovani animali sani, spensierati, graziosi e vivaci; i ragazzi focosi e temerari come i loro cavalli ma, con tutto ciò, docili e ubbidienti con chi sapeva come trattarli.
Benché fossero nati fra le agiatezze della vita della piantagione e fossero stati serviti in tutto e per tutto sin dall'infanzia, i volti dei tre giovani seduti sotto al porticato non avevano l'aspetto languido né molle. Avevano piuttosto il vigore e la vivacità di coloro che hanno passato tutta la vita all'aria aperta e non si sono troppo occupati di malinconia e di libri. La vita nella contea di Clayton nella Georgia settentrionale era ancora agli inizi, né aveva lo sviluppo già raggiunto in Augusta, Savannah, Charleston.
Le provincie meridionali più vecchie e più tranquille guardavano con un certo disdegno gli abitanti di quella parte della regione che confinava coi loro paesi; ma qui, nella parte settentrionale, la mancanza di certe finezze dell'educazione classica non era considerata una vergogna, purché questa fosse compensata dall'abilità nelle cose che più importavano. E queste erano: il coltivare del buon cotone, saper cavalcare, ballare con leggerezza, tirare al bersaglio, inchinarsi alle signore con eleganza e comportarsi come un gentiluomo di fronte ai liquori. Tutte cose in cui i gemelli eccellevano: ed essi erano ugualmente saldi nella loro notoria incapacità ad apprendere qualunque cosa fosse contenuta fra le pagine di un libro. La loro famiglia aveva più danaro, più cavalli e più schiavi di qualsiasi altra nel paese; ma i ragazzi avevano meno nozioni grammaticali di quante ne avesse la maggior parte dei loro poveri vicini.
Questa la ragione per cui Stuart e Brent poltrivano sotto il porticato di Tara in quel pomeriggio d'aprile. Erano stati espulsi in quei giorni dall'Università di Georgia; la quarta Università che li metteva alla porta in due anni; i due fratelli maggiori, Tom e Boyd, erano tornati sempre a casa anche loro, non volendo rimanere in un istituto dove i gemelli non erano i benvenuti. Stuart e Brent consideravano la loro ultima espulsione come un bellissimo scherzo; e Rossella, che da quando aveva lasciato l'anno prima l'Accademia femminile di Fayetteville non aveva più aperto un libro, lo trovava anch'essa divertentissimo.
- Sapevo che a voi due non importava nulla di essere espulsi; e neanche a Tom - disse. - Ma Boyd? È uno di quelli che tengono ad avere un'educazione, e voi due gli avete fatto lasciare le Università di Virginia, di Alabama e della Carolina del Sud; e ora quella di Georgia. Con questo sistema, non riuscirà mai a finire gli studi. -
- Oh, potrà leggere il codice nell'ufficio del giudice Parmalee a Fayetteville - rispose Brent incurante. - Del resto, ciò non ha importanza. Tanto saremmo dovuti tornare a casa ad ogni modo, prima che fosse finito il corso. -
- Perché? -
- La guerra, sciocca! Può darsi che scoppi da un giorno all'altro; e non puoi supporre che qualcuno di noi resti in collegio mentre c'è la guerra! -
- Sai benissimo che la guerra non ci sarà - fece Rossella seccata. -Son tutte chiacchiere. Ashley Wilkes e suo padre hanno detto la settimana scorsa al babbo che i nostri commissari a Washington stanno per venire ad un... un... accordo amichevole col signor Lincoln riguardo alla Confederazione. E ad ogni modo, gli yankees hanno troppa paura di noi per combattere. Non ci sarà nessuna guerra ed io sono stufa di sentirne parlare. -
- Non ci sarà la guerra! - esclamarono indignati i gemelli come se qualcuno li avesse truffati.
- Ti assicuro, tesoro, che la guerra ci sarà - affermò Stuart. - Può darsi che gli yankees abbiano paura di noi, ma dopo il modo con cui il generale Beauregard li ha messi fuori dal Forte Sumter l'altro ieri, bisognerà che si battano se non vogliono essere bollati come codardi dinanzi al mondo intero. La Confederazione... -
Rossella fece una smorfia di noia e di impazienza.
- Se pronunciate ancora una volta la parola "guerra" me ne vado in casa e chiudo la porta. Nessuna parola in vita mia mi è mai parsa tanto insopportabile, se non la parola "secessione". Il babbo parla di guerra la mattina, a mezzogiorno e la sera, e tutti quelli che vengono a trovarlo non fanno che nominare il Forte Sumter e i Diritti di Stato e Abe Lincoln, finché mi sento così esasperata che avrei voglia di urlare! E poi vi sono anche tutti i ragazzi che ne parlano. In tutta la primavera non c'è stato nessun divertimento, nessuna riunione perché i giovinotti non possono parlare d'altro. Sono stata tanto contenta che almeno la Georgia abbia aspettato dopo Natale a separarsi altrimenti anche i ricevimenti natalizi sarebbero andati a monte. Se pronunciate ancora la parola "guerra" me ne vado in casa. -
E lo avrebbe fatto, perché era incapace di sopportare per molto tempo una conversazione di cui ella non fosse l'argomento principale. Ma sorrideva nel parlare, sicché sulle sue guance si formavano due graziose fossette, e le sue lunghe ciglia nere palpitavano come ali di farfalla. I ragazzi furono affascinati, com'ella aveva previsto, e si affrettarono a chiederle scusa per averla annoiata. La sua mancanza di interessamento non la diminuiva al loro occhi; essi pensavano che la guerra era una cosa che riguardava gli uomini e non le donne, e il suo atteggiamento parve anzi a loro una prova della sua femminilità.
Essendo riuscita a sviarli dal noioso argomento della guerra ella tornò ad interessarsi della loro situazione immediata.
- Che cosa ha detto la mamma del fatto che siete stati nuovamente espulsi? -
I ragazzi si sentirono a disagio, ricordando qual era stata la condotta della mamma tre mesi prima, quando essi erano tornati dall'Università di Virginia.
- Veramente - disse Stuart - non ha ancora avuto occasione di dir nulla. Stamattina noi e Tom siamo usciti presto, prima che si alzasse; Tom si è fermato dai Fontaine mentre noi siamo venuti qui. -
- E ieri sera, quando siete arrivati, non ha detto nulla? -
- Oh, siamo stati fortunati. Poco prima del nostro arrivo, era stato portato il nuovo stallone che mammà si è procurato il mese scorso nel Kentucky, e tutti erano sottosopra. Quel bestione - è un gran cavallo, Rossella; devi dire a tuo padre di venirlo a vedere - aveva già dato un morso, cammin facendo, al garzone che lo aveva condotto e aveva calpestato due negri di mammà che erano andati all'arrivo del treno a Jonesboro. E pochi minuti prima del nostro arrivo aveva mezzo demolito la stalla a calci e quasi ammazzato Strawberry, il vecchio stallone di mammà. Abbiamo visto mammà fuori della stalla con un sacchetto di zucchero, che cercava di ammansirlo, e vi riusciva. I negri, tutti spaventati, stavano a guardare mammà che parlava col cavallo come se fosse una persona e gli dava da mangiare in mano. Nessuno sa trattare i cavalli come mammà. Quando ci ha visti ha detto: “In nome del cielo, che diamine siete tornati a fare a casa? Siete peggio delle piaghe d'Egitto!” Allora il cavallo cominciò a sbuffare e a impennarsi, e mammà a gridare: “Via, andate via! Non vedete che è nervoso, questo tesoro? Andate, mi occuperò di voi domattina!” Così ce ne andammo a letto e stamattina ci siamo alzati prima di lei e abbiamo lasciato Boyd a casa per parlarle. -
- Credi che lo picchierà? - Come tutti gli abitanti della Contea, Rossella non riusciva a capire come la piccola signora Tarleton trattasse così tirannicamente i figliuoli grandi e li percuotesse col suo frustino quando l'occasione lo richiedeva.
Beatrice Tarleton era una donna attiva, che dirigeva non solo la sua grande piantagione di cotone, con un centinaio di negri, e otto figliuoli, ma anche il più grande allevamento di cavalli della contrada. Era di umor vivo e facilmente irritata dalle frequenti scappate dei suoi quattro figli; e, mentre a nessuno era permesso di frustare un cavallo o uno schiavo, ella riteneva che una bastonata ogni tanto non facesse alcun male ai ragazzi.
- Oh, non lo batterà di certo. Non lo ha mai picchiato molto perché è il più vecchio ed è anche il nano della famiglia - riprese Stuart fiero del suo metro e novanta. - Perciò lo abbiamo lasciato a casa a darle le spiegazioni. Dio benedetto, mammà dovrebbe smetterla di frustarci! Abbiamo diciannove anni e Tom ne ha ventuno e lei ci tratta come se fossimo bambini di sei anni! -
- E cavalcherà il suo nuovo cavallo domani, alla riunione dei Wilkes? -
- Ne avrebbe il desiderio, ma il babbo dice che è troppo pericoloso. E poi, le ragazze non glielo permetteranno. Vogliono vederla intervenire almeno una volta a una riunione in carrozza, come una signora. -
- Speriamo che non piova, domani - proseguì Rossella; - da una settimana piove tutti i giorni. Non c'è niente di più noioso di una merenda fatta in casa. -
- Oh, sarà bel tempo e caldo come in giugno - affermò Stuart. -Guarda il tramonto: non ne ho mai visto di più rossi. Sai che dal tramonto si può sempre prevedere che tempo farà il giorno seguente. -
Guardarono verso l'orizzonte vermiglio, oltre gli sterminati campi di cotone di Geraldo O'Hara. Ora che il sole stava declinando avvolto di porpora dietro le colline al di là del fiume Flint, il calore della giornata d'aprile dava luogo a una piacevole frescura.
La primavera era giunta in anticipo quell'anno, con piogge tepide e un improvviso spumeggiare di rosei fiori di pesco; i cornioli macchiavano di grosse chiazze candide la palude scura e le colline lontane. L'aratura era quasi terminata e la gloria sanguigna del tramonto dava ai solchi di rossa terra della Georgia una tinta anche più ardente. Il terriccio umido che attendeva avidamente i semi del cotone appariva roseo nel fondo sabbioso dei solchi, vermiglio, scarlatto e focato dove si stendevano le ombre sui lati dei fossati. La casa di pietra intonacata di bianco sembrava un'isola in un selvaggio mare purpureo, un mare le cui onde si fossero improvvisamente pietrificate nel momento in cui si frangevano. Perché quivi non erano solchi lunghi e dritti come si vedevano nel campi di argilla giallastra della piatta Georgia centrale o nella terra nera delle piantagioni che sorgevano sulla costa. L'ondulosa e collinosa campagna della Georgia settentrionale era lavorata in un'infinità di curve per impedire che la terra generosa franasse e andasse a finire in fondo al fiume.
Era un terriccio di un violento colore sanguigno dopo le piogge, simile a polvere di mattone durante i periodi di siccità; la migliore del mondo per la coltivazione del cotone. Un piacevole paesaggio di case bianche, di campi tranquilli e ben lavorati, di pigri fiumi dall'acqua giallastra; ma pieno di contrasti, di sole abbagliante e di ombre dense. Le zone dissodate e le vaste estensioni di campi di cotone sorridevano a un sole caldo, placido e compiacente. Ai loro margini sorgevano le foreste vergini, fresche ed oscure anche nei meriggi più ardenti, misteriose, un po' sinistre, ove i pini sembravano attendere con secolare pazienza e mormorare minacciosi: “Badate! State attenti! Vi abbiamo avuti una volta. Possiamo riprendervi nuovamente.”
All'orecchio dei tre sotto al porticato giunse uno strepito di zoccoli, un tintinnar di catene di bardature e il riso stridente dei negri, poiché lavoratori e mule tornavano dai campi. Dall'interno della casa si udì la voce dolce della madre di Rossella, Elena O'Hara, chiamare la bimba negra che portava il suo cestello di chiavi. La voce acuta infantile rispose: Eccomi, signora - e vi fu uno scalpiccio nel retro della casa, verso il luogo dove si conservavano i viveri affumicati e dove Elena doveva misurare il cibo per i coltivatori che tornavano a casa. Vi fu un acciottolio di porcellane e un tramestio di argenti quando Pork, il domestico-maggiordomo di Tara, apparecchiò la tavola per la cena.
Udendo questi ultimi rumori, i gemelli si accorsero che era ora di muoversi per tornare a casa. Ma non avevano nessuna voglia di trovarsi di fronte alla madre e rimasero ancora a gingillarsi sotto al porticato aspettando da un momento all'altro che Rossella li invitasse a rimanere a cena.
- A proposito, Rossella. E per domani? - cominciò Brent. - Non sarebbe giusto che essendo stati via e ignorando dell'invito e del ballo, dovessimo essere privati di ballare con te domani sera. Non avrai promesso tutti i balli, spero? -
- Sicuro che li ho promessi! Come potevo sapere che sareste tornati? Non potevo correre il rischio di rimanere a far tappezzeria per aspettarvi! -
- Tu, far tappezzeria! - i ragazzi risero saporitamente.
- Senti, cara - riprese Brent. - Mi darai il primo valzer e darai l'ultimo a Stu; e cenerai con noi. Staremo seduti sulla scaletta dell'approdo come abbiamo fatto all'ultimo ballo e ci faremo dire nuovamente la buona ventura da Mammy Jincy. -
- Non mi piacciono le predizioni di Mammy Jincy. Sapete benissimo che ha detto che dovevo sposare un signore coi capelli nerissimi e lunghi baffi neri; e sapete che non mi piacciono gli uomini bruni. -
- Ti piacciono i fulvi, non è vero, gioia? - rise Brent. -Via, promettici tutti i valzer e la cena. -
- Se ce li prometti, ti riveliamo un segreto - soggiunse Stuart.
- Quale? - esclamò Rossella, ansiosa come una bambina.
- Quello che abbiamo saputo ieri ad Atlanta, Stu? Se è quello, sai che abbiamo promesso di non parlare. -
- Sicuro: ce l'ha detto la signorina Pitty. -
- La signorina chi? -
- Sai, quella cugina di Ashley Wilkes che sta ad Atlanta: la signorina Pittypat Hamilton; la zia di Carlo e di Melania Hamilton. -
- La conosco; non ho mai conosciuto una vecchia più stupida. -
- Ebbene: ieri mentre eravamo ad Atlanta aspettando il treno per venire qui, la incontrammo in carrozza; si fermò a parlarci e ci disse che domani sera al ballo di Wilkes verrà annunziato un fidanzamento. -
- Oh, lo so! - esclamò Rossella delusa. - Quell'idiota di suo nipote, Carletto Hamilton, con Gioia Wilkes. Lo sappiamo da anni che un giorno o l'altro dovevano sposarsi, benché lui sia abbastanza tiepido. -
- Credi che sia un idiota? - chiese Brent. - A Natale hai lasciato che ti ronzasse intorno parecchio. -
- Non potevo impedirgli di ronzare - e Rossella alzò le spalle negligentemente. - Ma credo che sia proprio uno scemo. -
- Del resto, non è il suo fidanzamento quello che sarà annunciato - dichiarò Stuart trionfante - ma quello di Ashley con la sorella di Carletto, Melania. -
Il volto di Rossella non mutò, ma le sue labbra si sbiancarono come capita a chi riceve un colpo violento senza preavviso e che nel primo momento, non si rende ben conto di quanto accade. La sua espressione era così calma che Stuart, poco osservatore; ritenne per certo che ella fosse soltanto sorpresa e molto incuriosita.
- La signorina Pitty ci ha detto che non volevano annunciarlo ufficialmente fino all'anno venturo, perché Melania è stata poco bene; ma con le voci di guerra che ci sono in giro, le famiglie hanno pensato che era meglio sollecitare il matrimonio. Così il fidanzamento sarà annunciato domani sera, durante la cena. Ora che ti abbiamo detto il segreto, devi prometterci di cenare con noi. -
- Senza dubbio - rispose Rossella automaticamente.
- E tutti i valzer? -
- Tutti. -
- Sei un tesoro! Scommetto che gli altri saranno furenti. -
- Che ce ne importa? - disse Brent. - In caso l'avranno da fare con noi. Un'altra cosa, Rossella: domattina, a mangiare la porchetta, siedi accanto a noi. -
- Che cosa? - Stuart ripeté la domanda.
- Va bene. -
I gemelli si guardarono giubilanti ma con una certa sorpresa. Benché si ritenessero i corteggiatori favoriti di Rossella, non avevano mai fino ad ora ottenuto così facilmente dei segni del suo favore. Di solito ella lasciava che pregassero e supplicassero, prendendoli in giro, rifiutando di dire un sì o un no, ridendo quando si imbronciavano, diventando glaciale quando si adiravano. Ed ora aveva promesso praticamente di trascorrer con loro tutta la giornata seguente: stare con loro durante quella colazione all'aperto in cui si mangiava la porchetta arrostita intera, e poi tutti i valzer (avrebbero pensato loro a far suonare soltanto dei valzer!) e la cena. Valeva la pena di farsi espellere dall'Università.
Pieni di nuovo entusiasmo per il loro successo, si gingillarono parlando del pic-nic, del ballo e di Ashley Wilkes e di Melania Hamilton, interrompendosi l'un l'altro, scherzando e ridendo e cercando di farsi invitare a cena. Passò un po' di tempo prima che si accorgessero che Rossella non parlava. L'atmosfera era mutata. I gemelli non capirono perché, ma lo splendore del pomeriggio era scomparso. Sembrava che Rossella prestasse poca attenzione a ciò che essi dicevano, benché rispondesse correttamente. Intuendo qualche cosa che non riuscivano a comprendere, annoiati e contrariati, i gemelli esitarono alquanto; quindi si alzarono con riluttanza, guardando i loro orologi.
Il sole era basso al di là dei campi arati, e i grandi boschi oltre il fiume apparivano più grandi nei loro neri profili. Le ombre dei comignoli spiccavano sul cortile; e galline, anatre, tacchini attraversavano i campi barcollando sulle gambe corte.
Stuart urlò: - Jeems! - Dopo un istante un giovinotto negro della loro età, alto e robusto, corse ansante, girando attorno alla casa verso i cavalli legati. Era il loro servitore e, come i cani, li accompagnava dovunque. Era stato il compagno di giochi della loro infanzia, regalato poi ai gemelli, in loro proprietà, per il loro decimo compleanno. Vedendolo, i cani dei Tarleton si alzarono dalla rossa polvere e rimasero ad attendere i loro padroni. I ragazzi si inchinarono e strinsero la mano a Rossella dicendole che l'indomani mattina si sarebbero trovati di buon'ora ad attenderla dinanzi alla casa dei Wilkes. Quindi si affrettarono a raggiungere i loro cavalli, balzarono in sella e, seguiti da Jeems, si avviarono al galoppo lungo il viale di cedri, agitando i cappelli ed emettendo grida di saluto.
Oltrepassata la curva della strada polverosa che li nascondeva alla vista di Tara, Brent fermò il suo cavallo sotto a una macchia di cornioli. Anche Stuart si fermò e il ragazzo negro rimase a qualche passo di distanza. I cavalli, sentendo che le redini erano lente, allungarono il collo a brucare le tenere erbette primaverili, e i cani pazienti si sdraiarono nuovamente nella soffice polvere rossa e guardarono con bramosa nostalgia il fumo dei comignoli che svaniva nel cielo crepuscolare. La larga faccia ingenua di Brent aveva un'espressione di stupore e di lieve indignazione.
- Senti: non ti pare che avrebbe dovuto invitarci a cena? - disse a suo fratello.
- Infatti - rispose Stuart. - Credevo che lo avrebbe fatto. Lo aspettavo. E invece non ci ha detto nulla.
Che ne dici? -
- Niente. Ma mi pare che avrebbe dovuto invitarci. Dopo tutto, è il primo giorno che siamo a casa, e avevamo tante altre cose da dirle. -
- Quando siamo arrivati, mi è sembrato che fosse molto contenta di vederci. -
- E' sembrato anche a me. -
- E poi, circa mezz'ora fa, è diventata silenziosa come se avesse mal di capo. -
- Infatti; ma lì per lì non ci ho badato. Che cosa credi che avesse? -
- Non saprei. Abbiamo forse detto qualche cosa che l'ha irritata? -
Rimasero per un minuto a riflettere.
- Non ne ho nessun'idea. Del resto, quando Rossella si irrita, se ne accorgono tutti. Non si comporta come le altre ragazze. -
- Sì, e questo è quello che mi piace in lei. Non diventa fredda e astiosa, ma dice le sue ragioni. Sarà qualche cosa che abbiamo fatto o detto che l'ha fatta diventare silenziosa e quasi annoiata. Giurerei che quando siamo arrivati è stata contenta e aveva l'idea d'invitarci a cena. -
- Non sarà perché siamo stati espulsi? -
- Ma no! Non dire sciocchezze. Ha riso tanto quando glielo abbiamo raccontato... -
- E poi Rossella non ha maggior passione pei libri di quanta ne abbiamo noi. -
Si volse sulla sella e chiamò il negro.
- Jeems! -
- Badrone? -
- Hai sentito di che cosa parlavamo con la signorina Rossella? -
- Mai più, Mister Brent! Come bensare che io stare a spiare signori bianchi? -
- Spiare! Voialtri negri sapete sempre tutto quello che succede. Del resto, bugiardo che sei, ti ho visto coi miei occhi gironzolare attorno al porticato e accoccolarti nel cespuglio del gelsomini accanto al muro. Dunque: ci hai sentito dire qualche cosa che può avere irritato la signorina Rossella o aver ferito i suoi sentimenti? -
Interrogato in questo modo, Jeems smise di fingere di non aver udito la conversazione e aggrottò la sua nera fronte.
- Veramende io non essere accorto che aver detto niente che botere irritarla. Mi è sembrato che essere molto condenda di vedere miei badroni, ed essere felice come un uccellino fino a quando avere barlato del fidanzamento di Mister Ashley con miss Melly Hamilton. Allora essere diventata silenziosa come uccello quando vede volare falco. -
I gemelli si guardarono e annuirono, ma senza capire.
- Jeems ha ragione. Ma non vedo perché - disse Stuart. - Dio mio! Ashley è soltanto un amico per lei. Non è innamorata di lui. E' innamorata di noi. -
Brent annuì.
- Forse si sarà adirata perché Ashley non le ha dato la notizia prima che agli altri. Sono amici da tanti anni; e poi le ragazze tengono molto ad essere informate per prime di queste cose. -
- Può darsi. Ma che ci sarebbe di male? Doveva essere un segreto, una sorpresa... e uno ha bene il diritto di serbare il silenzio sul proprio fidanzamento, no? Noi non lo avremmo saputo se non ce lo avesse detto la zia di miss Melania. Ma Rossella doveva sapere che un giorno o l'altro ci sarebbe stato questo matrimonio. Noialtri, infatti, lo sapevamo da anni. I Wilkes e gli Hamilton si sposano sempre tra cugini. Tutti sapevano che l'avrebbe probabilmente sposata, come Gioia Wilkes sposerà il fratello di Melania, Carletto. -
- E va bene, sarà così. Ma mi secca che non ci abbia trattenuti a cena. Ti giuro che non ho nessuna voglia di andare a casa e sentire quello che dirà la Mamma per la nostra espulsione. Non è la prima volta! -
- Forse a quest'ora Boyd l'avrà calmata. Ci riesce sempre, con le sue chiacchiere, quel vermiciattolo! -
- Sì, ci riesce, ma gli ci vuole del tempo. Parla, parla finché la confonde e allora la Mamma gli dice che la smetta e si risparmi la voce per quando farà l'avvocato. Ma in queste poche ore non è stato certo possibile. Scommetto che la Mamma è così eccitata per il suo nuovo cavallo che non si ricorderà neppure che siamo tornati, finché non siederà a cena e vedrà Boyd. E prima che la cena sia finita farà fuoco e fiamme. Arriveranno le dieci prima che Boyd trovi il momento opportuno per dirle che non sarebbe stato onorevole che uno della famiglia fosse rimasto in collegio dopo che il rettore ha trattato te e me in quel modo. E ci vorranno due ore perché Boyd le faccia cambiare umore; a mezzanotte sarà diventata furibonda contro il rettore e chiederà a Boyd perché non lo ha ammazzato. No, non possiamo andare a casa prima di mezzanotte. -
I gemelli si guardarono cupamente. Non avevano paura dei cavalli selvaggi, delle risse e delle questioni che finivano a rivoltellate, ma avevano un sacro terrore delle sgridate della loro fulva genitrice e dello scudiscio che ella maneggiava senza ritegno.
- Facciamo una cosa - riprese Brent. - Andiamo dai Wilkes. Ashley e le ragazze saranno contenti di averci a cena. -
Stuart crollò il capo, sconfortato.
- No, non ci possiamo andare. Saranno sottosopra a preparar tutto per domani; e poi... -
- Oh, non ci pensavo più - interruppe Brent. - Hai ragione; non ci andiamo. -
Diedero la voce ai cavalli e per un po' di tempo cavalcarono in silenzio; sulle abbronzate guance di Stuart era apparso un rossore di imbarazzo. Fino all'estate precedente Stuart aveva fatto la corte a Lydia Wilkes con l'approvazione di entrambe le famiglie e dell'intera contea. Tutti pensavano che la fredda e contegnosa Lydia avrebbe prodotto su lui l'effetto di un calmante. O almeno, lo speravano vivamente.
E Stuart l'avrebbe sposata volentieri; ma Brent non approvò. Lydia gli piaceva, ma la trovava troppo semplice e innocua; impossibile innamorarsene anche lui, per far compagnia a Stuart. Era la prima volta che i gemelli non la pensavano allo stesso modo; e Brent era seccatissimo che suo fratello avesse delle attenzioni verso la fanciulla che a lui sembrava insignificante.
E poi, l'estate precedente era accaduto che a una riunione politica che aveva luogo in un boschetto di querce, tutti e due avevano improvvisamente notato Rossella O'Hara. La conoscevano da molti anni e fin dalla loro infanzia era stata una delle compagne di giochi preferite, perché era capace di andare a cavallo e di arrampicarsi sugli alberi quasi tanto bene quanto loro. Ma adesso, con loro sorpresa, era diventata una giovine donna; ed era la più graziosa e la più simpatica del mondo.
Per la prima volta si erano accorti che i suoi occhi verdi erano e mobilissimi, che quando rideva faceva le fossette, che aveva mani e piedi piccini e una vita sottile. Queste loro osservazioni l'avevano fatta ridere clamorosamente e, solleticati dall'idea che essa li riteneva una coppia notevole, i due avevano sorpassato se stessi.
Era stata una giornata memorabile nella vita dei gemelli. In seguito, ogni qualvolta ne parlavano, essi si chiedevano sempre come mai non avevano prima d'allora notato le qualità di Rossella. E non riuscivano a trovare la soluzione dell'enigma; cioè che Rossella aveva deciso, quel giorno, di farsi notare da loro. Ella era costituzionalmente incapace di sopportare che un uomo - chiunque fosse - si innamorasse di una donna che non era lei; e la vista di Lydia Wilkes che discorreva con Stuart era stata intollerabile per il suo carattere rapace. Non contenta del solo Stuart, aveva gettato l'amo anche a Brent, ed era riuscita nel suo intento con una perfezione che sbalordiva entrambi i giovani.
Ora erano tutti e due innamorati di lei, e tanto Lydia Wilkes quanto Enrichetta Munroe, di Lovejoy, a cui Brent aveva fatto una corte discreta, erano ben lontane dalla loro mente. Essi non si chiedevano quale sarebbe stato il perdente, qualora Rossella avesse scelto uno dei due. Avrebbero superato questa difficoltà quando fosse giunto il momento. Per ora erano contenti di essere nuovamente d'accordo sul conto della fanciulla, poiché fra loro non esisteva gelosia. Era una situazione che divertiva il vicinato e infastidiva la loro madre, la quale non aveva alcuna simpatia per Rossella.
- Vi starà bene, se quella furbacchiona accetta uno di voi - soleva dire. - Oppure, può darsi che vi accetti entrambi, e allora dovrete andare a stare a Utah, se i mormoni vorranno accogliervi... cosa di cui dubito... Quello che mi preoccupa è che un bel giorno vi picchierete perché sarete gelosi uno dell'altro a causa di quella piccola e falsa creatura dagli occhi verdi, e vi ammazzerete. D'altronde, anche questa non sarebbe una cattiva idea. -
Dal giorno della riunione politica, Stuart si era sempre trovato a disagio dinanzi a Lydia. Non che essa gli avesse mai mosso alcun rimprovero o avesse rivelato in qualche modo di essersi accorta del suo mutamento. Era troppo signora per farlo. Ma Stuart si sentiva colpevole verso di lei. Sapeva di essere riuscito a farsi amare e che Lydia lo amava ancora; e, nel profondo del cuore, sentiva di non essersi comportato da gentiluomo. Continuava a trovarla molto simpatica e la rispettava per il suo contegno freddo ed educato, per la sua istruzione e per tutte le sue qualità. Ma, accidenti, era sempre così pallida e poco interessante e monotona, paragonata al fascino brillante e mutevole di Rossella. Con Lydia si sapeva sempre a che punto si era, mentre con Rossella non lo si sapeva mai. Questo poteva portare un uomo alla demenza, ma aveva il suo fascino.
- Allora, andiamo da Cade Calvert e ceniamo da lui. Rossella ha detto che Caterina è tornata da Charleston. Forse avrà qualche notizia di Forte Sumter che ancora ignoriamo. -
- Caterina? Sono pronto a scommettere due contro uno che non sa neppure che il Forte era sopra al porto, e tanto meno che era pieno di yankees prima che noi li scacciassimo. Lei sa soltanto parlare dei balli a cui è stata e dei corteggiatori di cui ha fatto collezione. -
- Ad ogni modo, quando chiacchiera è divertente. Ed è un modo di passare il tempo finché mammà sarà andata a letto. -
- E va bene, perbacco! Caterina è simpatica e piacevole, e sarò contento di aver notizie di Carolo Rhett e dell'altra gente di Charleston; ma che il diavolo mi porti se tollero di mangiare ancora una volta avendo a tavola quella yankee della sua matrigna. -
- Non essere così aspro verso di lei, Stuart. È piena di buone intenzioni. -
- Non sono aspro. È una donna che mi fa pena, ma non mi piace la gente che mi fa pena. E poi continua a girare intorno, cercando di fare del suo meglio perché uno si senta come a casa sua; ma riesce sempre a fare e dire tutto il contrario di quello che dovrebbe. Mi dà ai nervi! E crede che i meridionali siano selvaggi. Lo ha detto alla mamma. Ha paura della gente del Sud. Quando siamo da lei, è terrorizzata. Mi dà l'idea di una gallina pelle e ossa, arrampicata su una sedia, con gli occhi brillanti e spauriti, pronta a starnazzare e schiamazzare al più piccolo movimento dei presenti. -
- Dopo tutto, non puoi biasimarla. Ricordati che hai ferito Cade in una gamba. -
- Ero esasperato perché ero stato picchiato, altrimenti non lo avrei fatto. E Cade non me ne ha serbato alcun rancore. E neanche Catina, né Raiford, né il signor Calvert. Solo quella matrigna yankee ha strepitato dicendo che ero un selvaggio e che le persone perbene non potevano stare in mezzo a questi meridionali incivili. -
- Non si può darle torto. È yankee ed ha avuto un'ottima educazione; e poi, hai ferito il suo figliastro.-
- Vai all'inferno! Non è una buona ragione per insultarmi. Tu sei figlio, vero figlio, di mammà; ma si è forse risentita quella volta che Tony Fontaine ti ha ferito alla gamba? Niente affatto; si limitata a mandare a chiamare il vecchio dottor Fontaine per medicarti e gli chiese come mai Tony mirasse così male. E disse che secondo lei le frustate danneggiavano l'abilità di un tiratore. Ti ricordi come si infuriò Tony per questo? -
I due ragazzi risero saporitamente.
- La mamma è un tipo! - approvò affettuosamente Brent. - Si può sempre essere sicuri che sa come regolarsi e che non vi fa mai fare brutta figura di fronte agli estranei. -
- Sì; ma è capacissima di farci fare una figura pessima dinanzi al babbo e alle ragazze stasera quando arriviamo a casa - replicò Stuart abbattuto. - Sono sicuro, Brent, che in questo modo non riusciremo ad andare in Europa. Sai che la mamma ha detto che se ci facevamo espellere da un altro collegio non avremmo fatto il nostro viaggio. -
- Beh! E che ce n'importa? Che c'è da vedere in Europa? Scommetto che quegli stranieri non hanno da mostrarci nulla che noi non abbiamo già in Georgia. I loro cavalli non sono più veloci dei nostri né le loro ragazze più graziose; e sono sicuro che il loro whisky di segala non può stare a paragone di quello del babbo. -
- Ashley Wilkes ha detto che hanno un'infinità di teatri e di musica. Ad Ashley l'Europa piace molto. Non fa che parlarne. -
- Oh, sai bene come sono i Wilkes. Smaniosi di libri, di teatri, di musica. Mammà dice che è perché il loro nonno veniva dalla Virginia, e i Virginiani attribuiscono un grande valore a queste cose. -
- Beh, facciano pure. Quanto a me, con un buon cavallo e un buon liquore e una brava ragazza da corteggiare e un'altra... non brava con la quale divertirmi, sto benone qui come in Europa! Che ce n'importa di non fare il viaggio? Figurati, se fossimo in Europa adesso e scoppiasse la guerra? Non avremmo altro pensiero che di tornare a casa al più presto. Preferisco infinitamente andare alla guerra che in Europa. -
- Anch'io, il giorno in cui... Oh, senti! Ho pensato dove possiamo andare a cena. Attraversiamo la palude e andiamo a dire ad Abele Winder che siamo tornati tutti e quattro e siamo pronti per le esercitazioni militari. -
- Ottima idea! - esclamò Brent con entusiasmo. - Sapremo così tutte le notizie dello squadrone, e che colore hanno scelto finalmente per le uniformi. -
- Se sono uniformi da zuavo, mi faccio impiccare piuttosto che andare a fare il soldato! Con quei calzoni larghi, rossi, mi sembrerebbe di essere una donnetta. Somigliano alle mutande da donna di flanella rossa. -
- Badroni avere intenzione di andare da Mist' Wynder? - Chiese Jeems. - Perché se avere quest'idea, gredo che non trovare molto da mangiare. Loro guoco morto e non avere angora gombrato altro. Fare gucinare da una donna, e un negro avere detto che essere peggiore guoca di tutta regione. -
- Dio benedetto! E perché non lo hanno comprato? -
- Gosa volere che può gombrare bovero bianco straccione? Non avere mai avuto molti negri e non di buona razza. -
Nella voce di Jeems era uno schietto disprezzo. Egli era sicuro della propria condizione sociale, perché i Tarleton possedevano cento negri, e - come tutti gli schiavi delle grandi piantagioni - guardava dall'alto in basso i piccoli coltivatori che possedevano pochi schiavi.
- Bada che ti levo la pelle! - gridò Stuart irritato. - Non ti permetto di chiamare Abele Wynder un "bianco straccione". Sarà povero, ma non straccione. E nessuno dei miei uomini, nero o bianco che sia, deve arrischiarsi a parlar male. Non vi è uomo migliore nella Contea; altrimenti perché lo squadrone lo avrebbe eletto luogotenente? -
- Non avere mai dubitato, badrone - riprese Jeems senza scomporsi per la sfuriata del suo padrone. - Ma io bensare che loro fare meglio scegliere ufficiali fra giovani ricchi invece che fra miserabili della palude. -
- Non è un miserabile! Vorresti forse paragonarlo ai bianchi veramente poveri, come gli Slattery? Soltanto, non è ricco. È un piccolo coltivatore, non un piantatore in grande; e se i ragazzi, hanno avuto tanta stima di lui da eleggerlo luogotenente, nessun negro può arrischiarsi a parlarne impudentemente. Lo squadrone sa quello che fa. -
Lo squadrone di cavalleria era stato organizzato tre mesi prima, lo stesso giorno in cui la Georgia si era separata dall'Unione: da allora, però, le reclute non avevano più molta speranza che si facesse la guerra. Il reparto non aveva ancora un nome, benché non mancassero i suggerimenti: ciascuno aveva un'idea in proposito e non aveva voglia di rinunciarvi; come ciascuno aveva anche un'idea intorno al colore e alla foggia delle uniformi. "I gatti selvaggi di Clayton" - "I mangiatori di fuoco" "Zuavi" "Fucilieri dell'Interno" (benché lo squadrone dovesse essere armato di pistole, sciabole, pugnali e non di fucili) "Gli sterminatori" - "Rapidi e violenti - tutti avevano i loro aderenti. Ma finche non si prendeva una decisione, tutti parlavano dell'organizzazione come dello squadrone e malgrado il nome sonoro finalmente adottato, esso fu conosciuto sino alla fine come "Lo Squadrone".
Gli ufficiali erano eletti dai membri, perché nessuno nella Contea aveva esperienza militare, ad eccezione di pochi veterani delle guerre col Messico e coi Seminoli; d'altronde, lo Squadrone avrebbe disprezzato un veterano come capo, se non lo avesse personalmente amato e stimato. Tutti quanti avevano simpatia per i quattro ragazzi Tarleton e per i tre Fontaine, ma purtroppo non li avevano potuti eleggere, perché i Tarleton erano troppo vivaci e amavano far delle mattane e i Fontaine avevano un carattere troppo impetuoso e attaccabrighe. Ashley Wilkes era stato eletto capitano perché era il miglior cavallerizzo della Contea e perché si faceva assegnamento sulla sua calma per mantenere un poco d'ordine; Raiford Calvert era stato fatto primo luogotenente perché tutti gli volevano bene, e Abele Wynder, figlio di un cacciatore delle paludi e piccolo coltivatore per conto suo, era stato nominato secondo luogotenente.
Abele era un gigante, grave, furbo, illetterato, pieno di cuore, maggiore di età degli altri ragazzi, ma altrettanto educato, e anche di più, in presenza delle signore. Vi era poco snobismo nello Squadrone. Troppi, fra i padri e i nonni dei componenti, erano arrivati alla loro attuale situazione cominciando con l'essere dei piccoli coltivatori. Inoltre, Abele era il più bravo tiratore dello Squadrone, un vero puntatore che colpiva la testa di uno scoiattolo a settanta metri; ed era pratico di vita all'aperto, capace di accendere il fuoco sotto la pioggia, di scoprire sorgenti, di catturare animali. Lo Squadrone si inchinava dinanzi al merito; e siccome avevano anche simpatia per lui, lo nominarono ufficiale. Egli accettò l'onore gravemente senza eccessiva ritrosia, come se gli fosse dovuto. Ma le mogli e gli schiavi dei piantatori non potevano lasciar passare il fatto che egli non era nato gentiluomo, benché i loro signori e padroni lo trascurassero.
Da principio, lo Squadrone era stato reclutato soltanto tra i figli dei piantatori: una truppa di signori, ciascuno dei quali provvedeva il proprio cavallo, l'equipaggiamento, l'uniforme e l'attendente. Ma i ricchi piantatori non erano numerosi nel giovine paese di Clayton; e per mettere assieme uno squadrone degno di tal nome si era dovuto estendere il reclutamento anche ai figli dei piccoli coltivatori, ai cacciatori della foresta, a quelli che tendevano i lacciuoli nelle paludi, e, in pochissimi casi, anche ai bianchi poveri, se erano al disopra della media della loro classe.
Questi ultimi giovinotti erano ansiosi di combattere contro gli inglesi - il giorno in cui scoppiasse la guerra - non meno dei loro ricchi vicini; ma vi era la delicata questione del denaro. Ben pochi fra i piccoli coltivatori possedevano cavalli. Per i lavori della loro proprietà si servivano di muli; e anche di questi, non ne avevano d'avanzo: raramente più di quattro. Non si poteva privarsene per mandarli in guerra, anche se lo Squadrone li avesse accettati, ciò che non avvenne. Quanto ai rifiuti bianchi della palude, questi stimavano di essere già in condizione abbastanza buona quando possedevano una mula. I cacciatori della foresta e quelli della palude non avevano né cavalli né muli. Essi vivevano esclusivamente dei prodotti della loro terra e di caccia, commerciavano generalmente col sistema degli scambi e vedevano raramente cinque dollari in un anno; quindi cavalli e uniformi erano per loro irraggiungibili. Ma erano tanto orgogliosi nella loro povertà quanto i piantatori nella loro ricchezza; e non avrebbero accettato nulla, da quelli, che potesse apparire un'elemosina. Così, per salvaguardare i sentimenti di tutti e per dare allo Squadrone tutta la necessaria efficienza, il padre di Rossella, John Wilkes, Buck Munroe, Giacomo Tarleton, Ugo Calvert, tutti, insomma, i grandi piantatori della Contea con l'unica eccezione di Angus MacIntosh, si erano quotati per equipaggiare completamente lo Squadrone: uomini e cavalli. L'essenza dell'affare fu che ogni piantatore convenne di pagare l'equipaggiamento dei propri figli e di un certo numero di altri; ma la cosa fu trattata in modo che i membri meno ricchi potettero accettare cavalli ed uniformi senza offesa per il loro onore.
Lo Squadrone si riuniva due volte la settimana a Jonesboro per fare le esercitazioni e pregare che la guerra cominciasse. Non erano ancora state completate le disposizioni per procurare tutti i cavalli occorrenti, ma quelli che avevano già i cavalli compivano ciò che immaginavano fossero manovre di cavalleria, dietro al Tribunale, sollevando un'enorme quantità di polvere, emettendo grida rauche e agitando le sciabole della Guerra Rivoluzionaria che erano state staccate dalle pareti del salone. Quelli che non avevano ancora il cavallo sedevano sull'orlo del marciapiedi dinanzi alla bottega di Bullard, e osservavano i loro camerati, masticando tabacco e raccontando delle storie. Oppure facevano delle gare di tiro. Non occorreva insegnare a nessuno a tirare a segno. La maggior parte dei meridionali era nata col fucile in mano; e la vita del cacciatore aveva fatto di tutti loro dei tiratori scelti.
Dalle case dei piantatori e dalle capanne fra le paludi venne fuori una quantità di armi da fuoco svariate. Lunghi fucili da caccia che datavano dall'epoca della prima traversata degli Alleghany, vecchi tromboni ad avancarica, pistole da cavallo che erano servite nel 1812, pistole da duello con l'impugnatura ageminata d'argento, pistole a canna corta, moschetti a doppia canna e carabine inglesi di nuovo modello, col calcio di legno prezioso.
Le esercitazioni terminavano sempre nei saloni di Jonesboro e al cader della notte erano già scoppiate tante risse, che gli ufficiali avevano il loro da fare per evitare ferimenti prima che questi fossero inflitti dagli inglesi. Era stato durante uno di questi tafferugli che Stuart Tarleton aveva ferito Cade Calvert e Tony Fontaine aveva ferito Brent. I gemelli erano appena tornati a casa, espulsi dall'Università di Virginia; lo Squadrone era stato organizzato in quei giorni ed essi avevano aderito con entusiasmo; ma dopo la rissa, avvenuta due mesi prima, la madre li aveva impacchettati e spediti all'Università statale, con l'ordine di non muoversi. Durante la loro assenza, essi avevano penosamente sentito la mancanza dell'eccitazione data dagli esercizi militari; ritenevano che la loro educazione fosse incompleta se non potevano cavalcare, gridare e sparar fucilate in compagnia dei loro amici.
- Bene, allora andiamo da Abele - concluse Brent. Attraversando il fiume degli O'Hara e il prato dei Fontaine, arriviamo in un momento.
- Non drovare nulla di mangiare; solo garne di sariga e un po' di legumi - obbiettò Jeems.
- Tu non avrai un bel niente - sghignazzò Stuart. - Andrai a casa ad avvertire la mamma che non torniamo a cena. -
- Oh no, no! - esclamò Jeems spaventato. - No, no! non piacere assaggiare scudiscio di miss Beatrice più forte che con badroni! Brima di tutto lei arrabiarsi con me perché badroni nuovamente espulsi. E poi, perché io non avervi fatti tornare a casa stasera e lei potervi dare grossa lezione. E poi diventare furia come se tutto questo essere colpa mia e frustarmi forte. Se non volete portarmi da mist' Wynder, io restare nei boschi tutta la notte e forse guardie pattuglie prendere povero Jeems, ma io preferire guardie piuttosto che miss Beatrice quando essere infuriata. -
I gemelli guardarono con perplessità e indignazione il risoluto ragazzo negro.
- Sarebbe capace davvero di farsi prendere dalle guardie, e questo darebbe argomento ai discorsi di mammà per qualche settimana. Giuro che i negri sono un bel fastidio. A volte penso che gli abolizionisti abbiano ragione. -
- In fondo, non è giusto fare affrontare a Jeems quello che non vogliamo affrontare noi. Lo porteremo con noi. Ma guarda, negraccio impudente, che se ti sogni di darti delle arie coi negri di Wynder e di raccontar loro che da noi si mangia pollo e prosciutto mentre loro non hanno che coniglio e sariga, ti... lo dirò alla mamma. E non ti faremo neanche venire alla guerra con noi. -
- Arie? Io darmi arie con quei miserabili? No, badrone; io avere educazione! E miss Beatrice avermi insegnato modo di gomportarmi come avere insegnato a tutti voi. -
- Non ha avuto un gran risultato con nessuno dei tre - rise Stuart. - Via, andiamo. -
Diede la voce al suo cavallo rossiccio e spronandolo leggermente gli fece saltare con facilità lo steccato divisorio della proprietà di Geraldo O'Hara, e si trovò nel soffice campo. Il cavallo di Brent lo seguì e dopo di lui quello di Jeems, col negro afferrato alla criniera e al pomo della sella. A Jeems non piaceva saltare gli ostacoli; ma ne aveva saltato anche dei più alti per seguire i suoi padroni.
Mentre si avviavano attraverso i solchi purpurei e scendevano la collina verso il fiume nel crepuscolo che diventava sempre più cupo, Brent gridò a suo fratello:
- Senti un po', Stu! Non ti pare che Rossella avrebbe dovuto invitarci a cena? -
- Infatti credevo che lo facesse – gridò a sua volta Stuart.
- Ma perché...-
2
Quando i gemelli lasciarono Rossella sotto al porticato di Tara e l'ultimo scalpitar di zoccoli fu spento, ella tornò alla sua poltrona col passo di una sonnambula. Il suo volto era rigido, e la bocca le doleva perché involontariamente l'aveva sforzata a sorridere per evitare che i gemelli comprendessero il suo segreto. Piombò a sedere, con una gamba ripiegata sotto di sé, e le sembrò che il suo cuore si gonfiasse di disperazione fino ad essere troppo grande per il suo affetto. Lo sentiva battere a piccoli colpi bizzarri; aveva le mani fredde e un senso di sciagura la opprimeva. Nel suo volto era un'espressione di pena e di sbalordimento; lo sbalordimento di una bambina viziata che aveva sempre avuto tutto ciò che voleva, ed ora per la prima volta si trovava a contatto con quello che la vita ha di spiacevole.
Ashley sposava Melania Hamilton!
Oh, non poteva esser vero! I gemelli s'ingannavano. Le avevano fatto uno dei loro soliti scherzi. Ashley non poteva, no, non poteva essere innamorato di quell'altra. Nessuno poteva innamorarsi di un topolino come Melania. Rossella ricordò con sdegno la figuretta infantile di Melania, il suo volto triangolare dall'espressione seria e semplice. E Ashley non poteva averla vista in questi ultimi mesi. Non era stato ad Atlanta più di due volte dopo il ricevimento che avevano dato l'anno scorso alle Dodici Quercie. No, Ashley non poteva essere innamorato di Melania, perché - oh, in questo non s'ingannava! perché era innamorato di lei. Lei, Rossella, era la sola amata; lo sapeva!
Udì il passo pesante di Mammy sul pavimento del vestibolo e si affrettò ad allungare la gamba e a cercare di dare al suo volto un espressione più tranquilla. Non bisognava che Mammy sospettasse che qualche cosa non andava bene. Mammy apparteneva agli O'Hara corpo e anima e i loro segreti erano i suoi segreti; bastava un'ombra di mistero per metterla sulla traccia, instancabilmente come un segugio. Rossella sapeva per esperienza che se la curiosità di Mammy non era immediatamente soddisfatta, essa ne avrebbe parlato ad Elena, e allora la fanciulla sarebbe stata costretta a rivelare tutto a sua madre o a cercare una menzogna plausibile.
Mammy emerse dal vestibolo; una grossa vecchia con occhi piccoli e scuri come quelli di un elefante. Era di un nero lucido, puro africano, devota agli O'Hara fino all'ultima goccia del suo sangue, la mano destra di Elena, la disperazione delle sue tre figliole, il terrore delle altre persone di servizio. Mammy era negra, ma il suo codice di condotta e il suo senso di orgoglio era tanto alto quanto quello dei suoi proprietari, se non di più. Era stata allevata nella camera da letto di Solange Robillard, madre di Elena O'Hara: una francese fredda, schizzinosa, altera, che non risparmiava né ai suoi figli né ai suoi servi la giusta punizione per qualsiasi infrazione al decoro. Era stata la nutrice di Elena, ed era venuta con lei da Savannah quando ella si era sposata. Mammy ben castigava chi ben amava. E siccome il suo amore per Rossella e il suo orgoglio di lei erano enormi, i castighi erano quasi continui.
- Essere andati? Come mai non averli fatti rimanere a cena? Io avere detto a Pork di mettere due coperti di più per loro. Dove essere tuoi cavalieri? -
- Oh, ero così stanca di sentirli parlare di guerra che non avrei potuto sopportarli anche a cena, specialmente con papà che si sarebbe unito a loro per strepitare contro Lincoln. -
- Tu avere tanta educazione quanto una gallina; dopo che Miss Elena mi avere fatto tanto faticare con te! E stare qui fuori senza scialle! A momenti cadere la notte. Ti avere detto tante volte che viene febbre se stare fuori di notte senza nulla sulle spalle. Venire subito in casa, Miss Rossella. -
Rossella si volse con studiata noncuranza, felice che nella sua preoccupazione per lo scialle, Mammy non avesse osservato il suo viso.
- No, ho voglia di stare qui a contemplare il tramonto. E' così bello. Vai a prendermi lo scialle, ti prego, Mammy: starò qui finché papà torna a casa. -
- Avere voce come se ti venire raffreddore - fece Mammy sospettosa.
- Ma no! - esclamò Rossella con impazienza. - Vai a prendermi lo scialle. -
Mammy attraversò il vestibolo barcollando e Rossella la udì che chiamava, dal basso delle scale, la cameriera che era al piano superiore.
- Rosa! buttami giù lo scialle di Miss Rossella! - Poi, a voce più alta: - Fannullona di una negra! Non essere mai dove dev'essere e non fare nulla di buono. Mi toccare salire a prenderlo io stessa. -
La fanciulla udì la scala cigolare e si alzò in piedi leggermente. Certamente Mammy ritornando avrebbe ripreso la predica sulla mancanza di ospitalità della fanciulla; e questa sentiva che non avrebbe potuto sopportare altre chiacchiere su un argomento così volgare, mentre il suo cuore si spezzava.
Rimase in piedi, esitante, chiedendosi dove poteva nascondersi finché la pena del suo cuore fosse diminuita un poco; le venne un'idea che le diede un barlume di speranza. Suo padre era andato quel pomeriggio a cavallo alle Dodici Quercie, la piantagione dei Wilkes, per combinare con loro l'acquisto di Dilcey, la mulatta moglie del suo servo Pork. Dilcey era capo delle donne e levatrice alle Dodici Quercie e fin dal suo matrimonio, avvenuto sei mesi prima, Pork aveva supplicato giorno e notte il suo padrone di comperare Dilcey, a fine di poter vivere entrambi nella stessa piantagione. Quel giorno Geraldo, avendo ceduto, era andato a fare un'offerta per Dilcey.
Certamente, pensò Rossella, papà saprà se questa terribile storia è vera. Anche se non gli hanno detto nulla, forse si sarà accorto di qualche cosa, avrà notato una certa eccitazione nei Wilkes. Se posso vederlo da solo prima di cena, gli tirerò fuori la verità: cioè che si tratta di uno dei soliti scherzi malvagi dei gemelli.
Era l'ora del ritorno di Geraldo; e se voleva vederlo solo, la miglior cosa per lei era di andargli incontro, dove il viale sboccava nella strada. Discese tranquillamente i gradini dinanzi alla casa, e si volse a guardare attentamente per assicurarsi che Mammy non la osservasse dalle finestre del primo piano. Non vedendo nessuna faccia nera avvolta in un candido turbante che la rimirasse disapprovando tra le cortine, sollevò audacemente la sua gonna verde a fiori e si affrettò lungo il viale, con la velocità consentitale dalle scarpine chiuse da nastri incrociati.
Ai due lati del viale inghiaiato i rami dei cupi alberi di cedro s'incontravano formando un arco che trasformava il viale in una galleria. Appena ella si trovò sotto i rami nodosi degli alberi, sicura di non essere più vista dalla casa, rallentò il passo.
Sospirava perché le scarpine erano allacciate troppo strettamente per consentirle di correre, ma camminava più rapidamente che poteva. In breve fu all'estremità del viale e uscì sulla strada principale, ma non si fermò finché non ebbe girato la curva che metteva fra lei e la casa una grande macchia di alberi.
Ansante e rossa in volto, sedette su un tronco per aspettare suo padre. Era già in ritardo, ma ella ne fu contenta perché questo le dava tempo di calmare l'affanno e di dare al suo volto un'espressione tranquilla in modo da non destare sospetti. Da un momento all'altro si attendeva di udire lo scalpitare del suo cavallo e di vederlo discendere la collina con la sua solita fantastica velocità. Ma i minuti passavano e Geraldo non giungeva. Ella guardava la strada, col cuore che ricominciava a dolerle.
"Oh; non può essere vero!" pensò. "Perché non viene?" I suoi occhi erano fissi sulla strada di un rosso sanguigno dopo la pioggia della mattina. Ricostruiva col pensiero il tragitto: lo vedeva discendere la collina sino al pigro fiume Flint e poi attraversare le paludi sino all'altra collina dov'erano le Dodici Querce e dove Ashley viveva. Quella strada ora non aveva altra importanza se non quella di essere la strada che conduceva verso Ashley e verso la bella casa a colonne bianche che incoronava la collina come un tempio greco.
"Oh, Ashley, Ashley!" pensò; e il suo cuore batté più rapido. Il freddo senso di sgomento e di stupore che l'aveva oppressa da quando i ragazzi Tarleton avevano parlato, fu respinto da lei nel fondo del suo cuore; e al suo posto risorse la febbre che la possedeva da due anni.
Ora era stupita che Ashley non le fosse sembrato così attraente durante la sua adolescenza. Nei giorni dell'infanzia lo aveva visto andare e venire senza badargli. Ma da quel giorno, due anni prima, quando Ashley, tornato dal suo viaggio di tre anni in Europa, era venuto a far visita ai suoi genitori, lo aveva amato. Una cosa semplicissima.
Si trovava sotto il porticato mentre egli giungeva a cavallo lungo il viale, vestito di grigio, con una grande cravatta nera sulla camicia pieghettata. Ricordava ancora ogni particolare del suo abbigliamento, il cammeo con la testa di Medusa sulla cravatta, le scarpe lucide, l'ampio cappello di panama che si era tolto immediatamente vedendola. Era smontato, aveva lanciato le redini a un bambinetto negro, ed era rimasto a guardarla coi suoi grandi occhi grigi, pigri e sorridenti; il sole brillava sui suoi capelli biondi in modo da farli sembrare un elmo di lucido metallo. Aveva esclamato: - Come siete cresciuta, Rossella! - E, dopo aver salito leggermente i gradini, le aveva baciato la mano. E la sua voce! No, ella non dimenticherebbe mai il balzo del suo cuore nell'udirla, languida e musicale, come se fosse la prima volta.
Lo aveva desiderato in quel primo momento, desiderato semplicemente e irragionevolmente, come desiderava il cibo per nutrirsi, un cavallo per cavalcare e un morbido letto per dormire. Per due anni egli le aveva fatto da cavaliere a tutti i balli, le riunioni di pesca e quelle a base di porchetta arrostita. Non così assiduo come i gemelli Tarleton o Cade Calvert, non così insistente come i ragazzi Fontaine, ma non passava mai una settimana senza che Ashley si recasse a fare una visita a Tara.
In verità non le aveva mai fatto la corte, né i suoi chiari occhi grigi avevano mai brillato di quella luce ardente che Rossella conosceva così bene negli altri uomini. Eppure... eppure... ella sapeva che l'amava. Non poteva ingannarsi; l'istinto più forte della ragione e della conoscenza nata dall'esperienza, le diceva che egli l'amava. Troppo spesso ella aveva sorpreso i suoi occhi non sonnolenti né distratti, ed egli la guardava con una tristezza e un turbamento che la stupivano. Sapeva che la amava. Perché non glielo diceva? Questo non riusciva a comprenderlo. Ma vi erano in lui tante cose che ella non comprendeva.
Era sempre cortese, ma distante. Nessuno avrebbe potuto dire che cosa pensasse, e Rossella meno degli altri. In un ambiente in cui tutti dicevano quello che pensavano e appena lo avevano pensato, lo strano riserbo di Ashley era esasperante. Egli era abile quanto gli altri giovanotti nei soliti passatempi della Contea: caccia, gioco, danza e politica. Ed era il miglior cavalcatore di tutti; ma differiva dagli altri in quanto queste piacevoli attività non erano per lui lo scopo e il fine della vita. Ed egli rimaneva solo nella sua passione per i libri e per la musica e nel suo amore per la poesia e nella sua tendenza a comporne.
Oh, perché era così graziosamente biondo, così gentile e distante, così follemente noioso coi suoi discorsi sull'Europa e sui libri e la musica e la poesia, e tante cose che non la interessavano per nulla... eppure così desiderabile? Tutte le notti, quando andava a letto dopo essere rimasta seduta con lui nella semioscurità del porticato, Rossella si agitava irrequieta per ore ed ore e si confortava unicamente col pensiero che la prossima volta certamente egli le avrebbe chiesto di sposarlo. Ma la prossima volta il risultato era identico; e la febbre che la possedeva diventava sempre più alta e più ardente.
Lo amava, lo desiderava e non lo comprendeva. Era una creatura dritta e semplice come i venti che soffiavano su Tara e sul giallo fiume che la percorreva; e sino alla fine dei suoi giorni ella non sarebbe riuscita mai a comprendere certe complicazioni. E ora, per la prima volta, si trovava di fronte a una natura complicata.
Infatti Ashley era nato da una razza di uomini che passavano le loro ore libere a riflettere, non ad agire, a intessere sogni brillantemente colorati che non avevano in sé un barlume di vero. Egli viveva in un mondo interiore molto più bello della Georgia, e tornava malvolentieri alla realtà. Guardava le persone senza provare per loro né simpatia né antipatia. Accettava l'universo e il suo posto in esso per ciò che erano e, crollando le spalle, tornava alla sua musica, ai suoi libri, al suo mondo migliore.
Come avesse potuto conquistare Rossella il cui spirito era così estraneo al suo, era una cosa che la fanciulla ignorava. Il mistero che lo avvolgeva eccitava in lei la curiosità, come una porta senza chiave né serratura. Le cose che ella non poteva capire rendevano il suo amore più forte, e la maniera strana e contenuta con la quale egli la corteggiava non faceva che rafforzare la determinazione di lei di averlo tutto per sé. Ella non aveva mai dubitato che un giorno o l'altro Ashley si sarebbe dichiarato; era troppo giovine e viziata per aver mai saputo che cosa fosse una sconfitta. Ed ora, come un colpo di fulmine, era giunta quella tremenda notizia! Ashley doveva sposare Melania! Non poteva esser vero!
Soltanto la settimana scorsa, mentre cavalcavano verso casa, al crepuscolo, tornando da Fairhill, egli le aveva detto: Rossella, debbo dirvi una cosa importante ma non so come cominciare.
Ella aveva abbassato gli occhi modestamente, mentre il cuore le batteva con violenza, credendo giunto il felice momento. Quindi egli aveva ripreso: - Ora no! Siamo quasi a casa e non c'è il tempo... Oh, Rossella, come sono vigliacco! - e spronando il cavallo l'aveva riaccompagnata a casa salendo di corsa la collina.
Seduta sul tronco d'albero, la giovinetta ripensava a quelle parole che l'avevano resa così felice; ma a un tratto esse presero un altro significato, un significato orribile. Forse aveva voluto darle la notizia del suo fidanzamento!
Oh, se papà si fosse sbrigato a tornare a casa! Ella non poteva più sopportare l'attesa. Guardò nuovamente con impazienza la strada e fu nuovamente delusa. Il sole era adesso sotto all'orizzonte e lo splendore purpureo andava digradando in rosa. Il cielo sfumava lentamente dall'azzurro al delicato blu-verde di un uovo di pettirosso, e la calma divina del crepuscolo rurale discendeva a poco a poco sopra di lei. Un'oscura opacità scivolava lentamente sui campi. I solchi scavati nella terra e la strada infossata perdevano il loro magico colore sanguigno e diventavano semplice terra bruna. Al di là della strada nel prato, cavalli, muli e mucche, con la testa al disopra della barriera, aspettavano tranquillamente di essere ricondotti nelle stalle per avere il foraggio. Non amavano le ombre cupe dei cespugli lungo il ruscello che scorreva attraverso il prato, e muovevano le orecchie verso Rossella, come se fossero stati capaci di solidarietà umana.
Nella strana mezza luce, i grandi pini della palude, di un verde così caldo sotto i raggi del sole, erano neri contro il cielo color ardesia; una fila impenetrabile di giganti neri, che nascondevano ai loro piedi la pigra acqua giallognola. Sulla collina al di là del fiume, i grandi comignoli bianchi della casa di Wilkes svanivano gradatamente nell'oscurità delle grandi querce che li circondavano; soltanto qualche punto luminoso le lampade accese per illuminare la cena - mostrava che laggiù vi era una casa. L'umido e profumato tepore della primavera l'avvolgeva dolcemente, insieme col fresco odore della terra arata e dei verdi germogli.
Tramonto, primavera e germogli non erano un miracolo per Rossella. Ella accettava quelle bellezze naturalmente, come l'aria che respirava e l'acqua che beveva, non avendo mai visto scientemente la bellezza in nulla se non nei volti femminili, nei cavalli, nelle vesti di seta ed altre cose tangibili. Eppure la serena luce crepuscolare sui ben coltivati campi di Tara portò una certa calma al suo spirito turbato. Ella amava quella terra, senza neanche sapere di amarla; l'amava come amava il volto di sua madre sotto la lampada, all'ora della preghiera.
Sulla strada sinuosa Geraldo non si vedeva apparire. Certo, se ella fosse rimasta ancora ad attendere, Mammy sarebbe venuta a cercarla, per costringerla a rientrare. Ma appunto mentre aguzzava gli occhi nell'oscurità crescente, udì uno scalpitar di zoccoli giungere dall'estremità del poggio e vide mucche e cavalli disperdersi spaventati. Geraldo O'Hara stava tornando a casa attraverso la campagna a gran velocità.
Salì la collinetta al galoppo del suo cavallo dal petto largo e dalle gambe sperticate, apparendo in distanza come un ragazzo su un cavallo troppo grande. I suoi lunghi capelli bianchi svolazzavano indietro; egli eccitava l'animale con lo scudiscio e con le grida.
Benché piena della propria angoscia, Rossella lo guardò avvicinarsi con orgoglio affettuoso, perché Geraldo era un ottimo cavaliere.
"Chi sa perché ha la smania di saltar le barriere quando ha bevuto un poco" disse fra sé. "Dopo la caduta dell'anno scorso, proprio in quel punto, quando si spezzò il ginocchio...Credevo che gli sarebbe servito di lezione; specialmente, poi, perché ha giurato alla mamma di non saltare più."
Rossella non aveva rispetto per suo padre; lo considerava suo coetaneo più delle proprie sorelle, perché il saltar le siepi di nascosto di sua moglie gli dava un orgoglio da ragazzo e una gioia simile a quella di lei quando riusciva a farla in barba a Mammy. Si alzò in piedi e lo osservò mentre si avvicinava.
Il grosso cavallo giunse alla barriera, si piegò sulle gambe posteriori e saltò senza sforzo, con la leggerezza di un uccello, mentre il suo cavaliere gridava d'entusiasmo, agitando lo scudiscio in aria, coi riccioli bianchi che ondeggiavano dietro il capo, Geraldo non vide sua figlia nell'ombra degli alberi, e proseguì accarezzando con approvazione il collo del cavallo.
- Nessuno nella Contea può starti a paro, e neanche nella regione -disse con orgoglio alla sua cavalcatura. Quindi si pose frettolosamente a ravviarsi i capelli e a rassettare la camicia sgualcita e la cravatta che nella violenza della corsa gli era andata a finire sotto l'orecchia. Rossella conosceva questo frettoloso modo di rimettersi in ordine, che aveva per scopo di apparire dinanzi alla moglie come un signore che ha cavalcato tranquillamente tornando da una visita a un vicino. Sapeva anche che ciò avrebbe dato a lei il pretesto di iniziare la conversazione con lui senza rivelare il suo vero scopo.
Rise forte. Come aveva previsto, Geraldo sobbalzò; poi la riconobbe e sul suo volto florido apparve un'espressione timida e diffidente nel tempo stesso. Mise piede a terra con difficoltà, a causa del ginocchio rigido e, passandosi le redini intorno al braccio, mosse verso di lei.
- Beh, signorina - le disse prendendole il ganascino - sei stata qui a spiarmi e poi, come ha fatto tua sorella Susanna la settimana scorsa, andrai a dirlo alla mamma? -
Vi era dell'indignazione nella sua voce bassa un po' rauca, ma anche una certa blandizia, e Rossella per stuzzicarlo fece scoppiettare la lingua contro i denti, mentre lo aiutava a rimettere a posto la cravatta. L'alito di lui, che le respirava sul viso, sentiva fortemente di whisky Bourbon, con una lieve fragranza di menta. Egli emanava anche odore di tabacco da masticare, di cuoio e di cavalli; un miscuglio di profumi che Rossella associava sempre a suo padre e che le piaceva istintivamente negli altri uomini.
- No, babbo, io non sono una pettegola come Susele - lo assicurò, esaminando con aria giudiziosa se tutto era in ordine nel suo aspetto.
Geraldo era piccolo: poco più di un metro e cinquantacinque; ma così quadrato di spalle e grosso di collo, che quando era seduto gli estranei lo credevano alto. Il suo torso atticciato posava su corte gambe robuste, sempre serrate nei più bei stivaloni di cuoio che si potessero trovare e sempre largamente piantate come quelle di un ragazzino barcollante. La maggior parte delle persone piccole di statura sono ridicole quando si prendono sul serio; ma il gallo "bantam" è rispettato nel pollaio, e così avveniva per Geraldo. Nessuno avrebbe mai avuto la temerità di credere Geraldo un ometto ridicolo.
Aveva sessant'anni e i suoi capelli ricciuti erano argentei; ma il volto malizioso non aveva una ruga e gli occhi azzurri erano giovanili, di quella persistente giovinezza di chi non si è mai tormentato il cervello con problemi più astratti della quantità di carte che bisogna chiedere in una mano di poker. Era un viso schiettamente irlandese, come se ne potevano trovare nel paese che aveva lasciato tanti anni prima: tondo, colorito; naso corto, bocca larga e aggressiva.
Sotto il suo aspetto collerico, Geraldo O'Hara aveva il cuore più tenero del mondo. Non poteva vedere uno schiavo fare il broncio dopo una reprimenda, per quanto meritata, né udire un gattino miagolare o un bambino piangere; ma aveva orrore che questa sua debolezza fosse scoperta. Egli ignorava che tutti coloro che lo conoscevano scoprivano dopo cinque minuti la bontà del suo cuore; la sua vanità ne avrebbe terribilmente sofferto, perché gli piaceva credere che quando egli gridava i suoi ordini, tutti tremavano obbedienti al suono della sua voce. Non si era mai accorto che ad una sola voce si obbediva alla piantagione: alla dolce voce di sua moglie Elena. Era un segreto che non avrebbe mai scoperto, perché tutti, da Elena fino al più stupido lavoratore dei campi, erano uniti in una tacita e benevola cospirazione per lasciargli credere che la sua parola era legge.
Rossella si lasciava impressionare meno di chiunque altro dalle sue grida e dalle sue ire. Era la sua figliuola maggiore; e Geraldo, ora che non sperava più che venissero altri figli maschi dopo i tre che giacevano nella tomba di famiglia, aveva preso a trattarla come avrebbe trattato una ragazzo, in una maniera che ella trovava divertentissima. Ella somigliava a suo padre più delle due sorelle minori, perché Carolene, battezzata Carolina Irene, era delicata e sognatrice, e Susele - nata Susanna Eleonora - si inorgogliva della propria eleganza e del proprio aspetto signorile.
Inoltre, Rossella e suo padre erano legati da un reciproco accordo per nascondere le loro marachelle. Se Geraldo la sorprendeva a scavalcare una barriera invece di camminare per mezzo chilometro fino a trovare un'apertura, oppure a sedere fino a ora tarda sui gradini della casa insieme a un giovinotto, la puniva personalmente e con veemenza, ma taceva il fatto a Elena e a Mammy. E quando Rossella lo scopriva a saltare le siepi e le barriere malgrado la solenne promessa fatta a sua moglie, o veniva a sapere attraverso i pettegolezzi della Contea, l'ammontare preciso delle sue perdite a poker, si asteneva dall'accennare al fatto, sia pure nella maniera astuta e ingenua di Susele. Rossella e suo padre si assicuravano solennemente l'un l'altro che far giungere un fatto simile alle orecchie di Elena non avrebbe avuto altro risultato che di farla soffrire; e nulla al mondo li avrebbe indotti a darle un dispiacere.
La fanciulla guardò suo padre nella luce crepuscolare e, senza saper perché, trovò nella sua presenza un certo conforto. Vi era in lui qualche cosa di vitale, di rude, di grossolano che le andava a genio. Essendo la negazione di ogni analisi, non si rese conto che ciò avveniva perché ella possedeva in alto grado quelle stesse qualità, malgrado sedici anni di sforzi da parte di Elena e di Mammy per distruggerle.
- Ora hai l'aspetto molto presentabile - gli disse - e credo che nessuno possa sospettare i tuoi giochi se non sei tu a vantartene. Ma trovo che dopo esserti rotto il ginocchio l'anno scorso saltando la stessa barriera...-
- Ah, beh, ora ci manca soltanto che mia figlia mi dica quando devo e quando non devo saltare! - e le prese nuovamente il ganascino. - Il collo è mio; dunque... Del resto, signorina, che state facendo voi, fuori a quest'ora senza uno scialle? -
Vedendo che egli impiegava le solite manovre per sbrogliarsi da una conversazione spiacevole, ella infilò il braccio sotto al suo dicendo: - Ti stavo aspettando. Non sapevo che avresti fatto così tardi. Volevo sapere se hai comprato Dilcey. -
- L'ho comprata, e ad un prezzo rovinoso. Ho comprato lei e la sua piccola mulatta, Prissy. John Wilkes me le avrebbe quasi regalate, ma non voglio che si dica che Geraldo O'Hara approfitta dell'amicizia quando si tratta di affari. Gli ho fatto accettare tre biglietti da mille per tutt'e due. -
- Dio mio, babbo, tremila! E non avevi nessun bisogno di comprare Prissy! -
- Da quando in qua le mie figlie si mettono in cattedra a giudicarmi? Prissy è una graziosa piccola mulatta e...-
- La conosco. È una creatura stupida e timida; - replicò Rossella senza scomporsi. - E la sola ragione per cui l'hai comprata è che Dilcey ti ha pregato di comprarla. -
La spavalderia di Geraldo scomparve ed egli apparve confuso e turbato come sempre quando veniva sorpreso a compiere una buon'azione. La figlia rise del suo turbamento.
- Beh, e se anche lo avessi fatto? A che mi sarebbe servito comprare Dilcey se poi si fosse immalinconita a causa della bambina? Del resto, non permetterò mai più a un negro di sposarsi fuori di qui. È troppo dispendioso. Suvvia, piccola, andiamo a cena. -
L'oscurità era diventata più profonda; dal cielo erano scomparse le ultime sfumature di verde e un freschetto pungente aveva sostituito il tepore primaverile. Ma Rossella s'indugiava, non sapendo come condurre il discorso su Ashley senza destar sospetti in suo padre. Era difficile, perché la fanciulla era priva di furberia; e suo padre le somigliava tanto che riusciva immediatamente a penetrare i suoi deboli sotterfugi, come lei penetrava i suoi. E nel farlo mancava generalmente di tatto.
- Come stanno alle Dodici Querce? -
- Al solito. C'era Cade Calvert e dopo definita la faccenda di Dilcey ci siamo trattenuti tutti quanti nella galleria a bere qualche bicchierino. Cade è appena tornato da Atlanta, dove tutti sono agitati e parlano di guerra...-
Rossella sospirò. Se Geraldo cominciava a parlare della guerra e della secessione, non l'avrebbe più smessa per qualche ora. Lo interruppe con un altro argomento.
- Ti hanno parlato della riunione di domani? -
- Aspetta che ci penso. Miss... come diamine si chiama? quella piccina graziosa che era qui anche l'anno scorso... sai, la cugina di Ashley... ah, sì: miss Melania Hamilton! Dunque, lei e suo fratello Carlo sono già arrivati da Atlanta...-
- Ah, dunque è venuta? -
- E' venuta; ed è molto carina; tranquilla e silenziosa come dovrebbero essere tutte le donne. Su, figliuola, non perdiamo tempo. La mamma ci starà cercando! -
Rossella si sentì cadere il cuore alla notizia. Aveva sperato e sperato che Melania Hamilton sarebbe stata trattenuta ad Atlanta dove abitava; e il sentire che anche suo padre approvava il suo carattere tranquillo così diverso dal suo, la decise a parlare apertamente.
- C'era anche Ashley? - chiese.
- C'era. - Geraldo lasciò il braccio di sua figlia e si volse a scrutarla. - E se è per questo che sei venuta ad aspettarmi, perché non lo hai detto subito, invece di girare intorno all'argomento? -
Rossella non trovò una parola da rispondere ed arrossì indispettita.
- Avanti, parla. -
La fanciulla continuò a tacere, desiderando in cuor suo che le fosse permesso scrollare il proprio babbo per chiudergli la bocca.
- C'era e ha chiesto molto cortesemente di te, come hanno fatto anche le sue sorelle e hanno detto che speravano che nulla ti avrebbe impedito di essere domani alla festa. Cosa di cui non garantisco. - aggiunse malizioso. - Ora, figliuola, che cos'è questa storia fra te e Ashley? -
- Nessuna storia - rispose Rossella brevemente riattaccandosi al suo braccio. - Rientriamo, babbo. -
- Ora sei tu che hai voglia di andare - osservò Geraldo. - Ma io rimango qui finché non ti ho capita. Ora che ci penso, da un po' di tempo in qua sei di umore strano. Ti ha fatto la corte? Ti ha chiesto di sposarlo? -
- No - fu la breve risposta.
- E non lo farà - riprese Geraldo.
Un impeto di furore la invase; ma Geraldo le accennò con la mano di calmarsi.
- Aspetta, bambina! Ho saputo oggi molto confidenzialmente da John Wilkes che suo figlio sposerà miss Melania. Sarà annunciato domani. -
La mano di Rossella ricadde dal suo braccio. Dunque, era vero!
Si sentì stringere il cuore come in una morsa. Sentiva però sopra di sé lo sguardo di suo padre, un po' compassionevole, un po' annoiato di trovarsi di fronte a un problema che era incapace di risolvere. Egli voleva bene alla figliuola, ma l'idea che ella lo costringesse a cercare una soluzione ai suoi problemi infantili gli dava fastidio. Elena era capace di risolverli; Rossella avrebbe dovuto confidare a lei le sue pene.
- Hai dunque fatto una figura ridicola... e l'hai fatta fare a noi? - gridò, alzando la voce come sempre nei momenti di eccitazione. - Sei corsa dietro a un uomo che non ti ama, mentre potresti avere i migliori giovanotti della Contea? -
La collera e l'orgoglio ferito presero il sopravvento sul dolore.
- Non gli sono corsa dietro. Soltanto... mi sorprende. -
- Menti! - Quindi scrutando il visino dolorante, soggiunse, in un impeto di tenerezza: - Mi dispiace, figliuola. Ma dopo tutto, sei ancora una bambina; e vi sono tanti altri giovinotti! -
- La mamma aveva quindici anni quando ti sposò; ed io ne ho sedici - replicò la fanciulla con voce sorda.
- Tua madre era diversa. Non è mai stata leggera come te. Su, bambina, stai allegra; la settimana ventura ti porterò a Charleston a far visita a zia Eulalia; e con tutto il tumulto che c'è lì per Forte Sumter, in pochi giorni ti scorderai di Ashley. -
"Mi crede una bambina" pensò Rossella a cui dolore e collera toglievano la parola "e immagina che un giocattolo nuovo basterà per farmi dimenticare la mia pena."
- Non fare la sciocca continuò Geraldo. - Se avessi giudizio, avresti sposato già da un pezzo Stuart o Brent Tarleton. Pensaci, figliuola. Sposa uno dei due gemelli e allora le piantagioni saranno riunite e Giacomo Tarleton ed io ti fabbricheremo una bella casa, proprio al confine, dove c'è la selvetta di pini...-
- Smettila di trattarmi come una bambina! - esclamò Rossella. - Non voglio andare a Charleston e non voglio avere una casa e sposare i gemelli. Voglio soltanto... - Si interruppe ma era troppo tardi.
La voce di Geraldo era stranamente tranquilla ora ed egli parlava lentamente come se tirasse fuori ogni parola da un deposito di cui si serviva raramente.
- Tu vuoi sposare soltanto Ashley e non lo avrai. E se egli ti volesse sposare, darei il mio consenso malvolentieri, e lo darei soltanto a causa della buona amicizia che vi è fra John Wilkes e me. - E poiché ella lo guardava stupita, concluse: - Io desidero che la mia bimba sia felice; e con lui non lo saresti. -
- Oh, lo sarei! Lo sarei! -
- No. Solo quando si sposa chi è simile a noi può esservi la felicità. -
Rossella provò subitamente il perfido desiderio di gridare: "Ma tu e la mamma siete stati felici, eppure non vi somigliate in nulla" ma lo represse temendo di ricevere un ceffone per la sua impertinenza.
- Noi e i Wilkes siamo assai diversi - proseguì lentamente Geraldo, cercando le parole. - I Wilkes sono differenti da tutti i nostri vicini, differenti da tutte le famiglie che ho conosciuto. È gente strana; ed è meglio che si sposino tra cugini e si tengano tutta la loro stranezza. -
- Ma babbo, Ashley non è...-
- Taci, gattina! Non dico niente contro il ragazzo, perché mi è simpatico. E dicendo strano non intendo dire stravagante. Non è la stranezza dei Calvert che giocherebbero tutto quello che hanno su un cavallo, o dei Tarleton che hanno sempre uno o due ubriachi in ogni letto, o dei Fontaine che sono delle teste calde, pronti ad ammazzare un uomo per una sciocchezza. Questo genere di stranezze è facile a comprendersi e se non fosse per la grazia di Dio, sono difetti che anche Geraldo O'Hara potrebbe avere! E non voglio neanche dire che Ashley correrebbe dietro ad altre donne se tu fossi sua moglie o che ti batterebbe. Saresti forse più felice se lo facesse, perché almeno lo capiresti. È strano in un senso tutto diverso, e non vi è modo di comprenderlo. Nelle cose che dice io non trovo né capo né coda. Dimmi la verità, gattina, tu capisci qualche cosa di tutte le sue sciocchezze sui libri, la musica, la poesia, i vecchi quadri e altre stupidaggini di questo genere? -
- Oh babbo! - esclamò con impazienza Rossella. - Se lo sposassi, lo cambierei! -
- Credi? - replicò stizzosamente Geraldo lanciandole uno sguardo penetrante. - Allora vuol dire che conosci ben poco gli uomini, non escluso Ashley. Nessuna moglie ha mai cambiato il cervello del marito, ricordatelo! E quanto a cambiare un Wilkes... Per la camicia di Giove! Tutta la famiglia è così e lo è sempre stata; e probabilmente lo sarà sempre. Ti dico che lo sono di nascita. Guarda come si agitano per andare a Nuova York e a Boston a sentir delle opere in musica e a vedere dei vecchi quadri! E ordinano libri francesi e tedeschi senza esclusione degli inglesi... E poi stanno ore ed ore seduti a leggere e a sognare Dio sa che cosa, quando potrebbero passare il tempo a cacciare e a giocare a poker come fanno tutti gli uomini normali! -
- Nessuno nella Contea cavalca meglio di Ashley - ribatté Rossella, furente per quell'accusa di effeminatezza che veniva lanciata su Ashley. - Nessuno, eccetto forse suo padre. E quanto al poker, non ti ha vinto duecento dollari proprio la settimana scorsa a Jonesboro? -
- I ragazzi Calvert hanno fatto nuovamente dei pettegolezzi - borbottò Geraldo - altrimenti non sapresti la cifra. Ashley può competere col miglior cavaliere e col miglior giocatore: cioè con me, bambina! E non nego che se si mette a bere può dare dei punti perfino ai Tarleton. Fa tutte queste cose, ma senza passione. Perciò ti dico che è strano. -
Rossella rimase silenziosa e si sentì cadere il cuore in terra. Non poteva replicare a queste ultime parole, perché sapeva che Geraldo aveva ragione. Ashley non metteva alcuna passione nelle cose che faceva tanto bene. Si interessava solo con cortesia a tutto ciò che appassionava chiunque altro.
Interpretando giustamente il suo silenzio, Geraldo le accarezzò il braccio e riprese trionfante: - Lo vedi, Rossella? Anche tu riconosci che è vero. Che ne faresti di un marito come Ashley? Lunatico come tutti i Wilkes! - Poi, con tono più lusinghevole:- Parlandoti dei Tarleton, poco fa, non ho inteso influenzarti. Sono dei cari ragazzi, ma se preferisci Cade Calvert, per me è lo stesso. I Calvert sono brava gente, tutti quanti, benché il vecchio abbia sposato un'inglese. E quando io non ci sarò più... Stammi a sentire, tesoro! Lascerò Tara a te e a Cade...-
- Non vorrei Cade neanche se mi coprissero d'oro! - esclamò Rossella furibonda. - E ti prego di smetterla con questi consigli! Non desidero Tara né altre vecchie piantagioni. Le piantagioni non valgono nulla se...-
Stava per aggiungere "se non si ha l'uomo che si desidera"; ma Geraldo inasprito dal modo impertinente col quale ella trattava il dono offerto, la cosa che egli amava di più al mondo, dopo Elena, proruppe in una specie di ruggito.
- E hai il coraggio, Rossella O'Hara, di dirmi in faccia che Tara... che questa terra... non val nulla? -
La fanciulla annuì caparbia. Il suo cuore era troppo esulcerato perché ella potesse preoccuparsi di destare o no la collera di suo padre.
- La terra è la sola cosa al mondo che valga qualche cosa - urlò Geraldo, e le sue braccia corte e grosse facevano grandi gesti di indignazione - perché è la sola cosa al mondo che rimanga e, non dimenticarlo!, la sola cosa per cui vale la pena di lavorare di lottare... di morire. -
- Oh babbo! - ribatté Rossella disgustata - parli come un irlandese! -
- Mi sono forse mai vergognato di esserlo? No; anzi ne sono orgoglioso. E non dimenticare che tu sei per metà irlandese! E per tutti coloro, che hanno nelle vene anche una sola goccia di sangue irlandese, la terra su cui vivono è come una madre. È di te che mi vergogno in questo momento. Ti offro la più bella terra del mondo: ad eccezione di Country Meath nel mio vecchio paese; e tu che cosa fai? Arricci il naso! -
Geraldo aveva cominciato ad abbandonarsi a una collera piacevolmente clamorosa, quando qualche cosa nel volto addolorato di Rossella lo fermò.
- In fondo, sei giovane. L'amore per la terra ti verrà col tempo. Non potrà essere diversamente, perché sei irlandese. Ora sei una bambina, preoccupata soltanto dei tuoi adoratori. Quando sarai più vecchia, vedrai... Ora rifletti, cerca di pensare a Cade o ai gemelli o a uno dei ragazzi di Evan Munroe, e vedrai come ti metterò bene a posto! -
- Oh, babbo! -
Geraldo era ormai stufo della conversazione e infastidito del problema che veniva a gravare sulle sue spalle. Inoltre si sentiva offeso che Rossella avesse ancora l'aria desolata dopo che le erano stati offerti i migliori giovanotti della Contea e per di più, Tara. A Geraldo piaceva che i suoi doni fossero accolti con battimani e abbracci.
- Ora non facciamo il broncio, madamigella. Non importa sapere chi sposerai, purché sia uno che la pensa come te e sia un bravo e orgoglioso meridionale. Per una donna, l'amore viene dopo il matrimonio. -
- Oh babbo queste sono idee del tuo paese! -
- E sono idee ottime! Guarda un po', questi americani che hanno la smania di fare dei matrimoni d'amore, come i servitori, come gli yankees! I matrimoni migliori avvengono quando i genitori scelgono per la ragazza. Come potrebbe una stupida ragazzina come te distinguere un gentiluomo da un mascalzone? Guarda i Wilkes. Che cosa li ha conservati forti e orgogliosi attraverso tante generazioni? Il fatto di essersi sempre sposati tra di loro: tutti hanno sempre sposato i cugini o le cugine desiderate dalla famiglia. -
Rossella diede un piccolo grido, sentendo rinnovarsi la sua pena alle parole del padre che confermavano la tremenda inevitabile verità. Geraldo guardò il suo capo chino e si sentì a disagio.
- Piangi? - chiese; e cercò di sollevarle il mento mentre sul suo volto si dipingeva una grande pietà.
- No! - gridò la fanciulla con ira, volgendo altrove la testa.
- Dici una bugia, ma ne sono fiero. Sono contento che tu sia orgogliosa; e voglio che questo orgoglio tu lo dimostri domani. Non mi piace che tutta la Contea spettegoli e rida di te, perché hai dato il cuore a un uomo che non ha mai avuto per te un pensiero che non fosse di semplice amicizia. -
"Lo ha avuto il pensiero" disse fra sé Rossella dolorosamente. "Oh, ne ha avuti tanti! Lo so. Ne sono certa. Se avessi avuto ancora un po' di tempo, so che lo avrei condotto a dirmi... Oh, se non fosse che i Wilkes debbono sempre sposarsi fra cugini!”
Geraldo le prese il braccio e lo passò sotto al suo.
- Ora andiamo a cena; e tutto questo rimane fra noi. È inutile preoccupare tua madre. Soffiati il naso, bambina. -
Rossella si soffiò il naso nel fazzoletto lacerato; quindi si avviarono a braccetto per il viale, col cavallo che li seguiva lentamente. In prossimità della casa la giovinetta stava per ricominciare a parlare, ma vide sua madre nella semioscurità del porticato. Aveva la cuffia, lo scialle e dietro a lei era Mammy col volto annuvolato, tenendo fra le mani la borsa di cuoio nero in cui Elena O'Hara portava sempre le bende e i medicinali che adoperava per curare gli schiavi. Le labbra di Mammy erano grosse e pendule; e quando essa era indignata, quello inferiore poteva raggiungere il doppio della sua lunghezza normale. In questo momento era lunghissimo, e Rossella comprese che Mammy stava rimuginando qualche cosa che non approvava.
- Mister O'Hara - gridò Elena quando li vide avvicinarsi lungo il viale. Elena apparteneva a una generazione che rimaneva cerimoniosa anche dopo diciassette anni di matrimonio e la nascita di sei figli. - Mister O'Hara, c'è bisogno di me dagli Slattery. Emma ha avuto un bambino, ma è moribondo e bisogna battezzarlo. Vado con Mammy a vedere che cosa posso fare. -
La sua voce aveva un tono interrogativo, come se ella attendesse l'approvazione di suo marito; una semplice formalità ma che a Geraldo faceva piacere.
- Santo Dio! - proruppe Geraldo - perché quegli straccioni della palude vengono a chiamarti proprio a ora di cena e mentre io desidero raccontarti quello che si dice della guerra ad Atlanta! Vai, signora O'Hara. Non dormiresti tranquilla stanotte sapendo che fuori c'è qualcuno che ha delle angustie e tu non sei ad aiutarlo. -
- Non riposare mai tranquilla, perché dovere tante volte alzarsi per curare negri e bianchi poveri che non possono curarsi da soli borbottò Mammy con voce monotona mentre scendeva i gradini e andava verso la carrozza che aspettava nel viale laterale. -
- Prendi il mio posto a tavola, cara - disse Elena accarezzando dolcemente il volto di Rossella con la mano coperta dal mezzo guanto.
Benché sentisse alla gola il nodo delle lagrime, la fanciulla rabbrividì al tocco magico della mano materna, e al debole profumo di verbena che emanava la sua veste di seta. Per lei vi era in Elena O'Hara qualche cosa che toglieva il respiro; un miracolo che viveva in casa con lei e le ispirava rispetto, la affascinava, la blandiva.
Geraldo accompagnò sua moglie fino alla carrozza e diede ordine al cocchiere di fare attenzione. Tobia, che aveva cura da vent'anni dei cavalli di Geraldo, sporse le labbra con muta indignazione nel sentirsi dire come doveva guidare. Mentre si allontanava, con Mammy seduta accanto a lui, entrambi erano la perfetta personificazione del broncio africano pieno di biasimo.
- Se io non facessi tanto per quegli straccioni bianchi degli Slattery ed essi dovessero pagare qualcuno per tante cose - si adirò Geraldo sarebbero costretti a vendermi quei miserabili pochi jugeri di fondo di palude e la Contea sarebbe sbarazzata di loro. - Poi, rallegrandosi in anticipazione di una delle sue solite burle: - Vieni, figliuola; andiamo a dire a Pork che invece di comprare Dilcey ho venduto lui a John Wilkes. -
Gettò le redini del suo cavallo a un negretto che era lì accanto e si avviò su per i gradini. Aveva quasi dimenticato il crepacuore di Rossella, e pensava solo a burlarsi del suo domestico. Rossella salì lentamente gli scalini dietro a lui, coi piedi pesanti. Pensava che, dopo tutto, un'unione fra lei e Ashley non sarebbe stata più strana di quella di suo padre con Elena Robillard O'Hara. Come sempre, si chiese come mai suo padre, così rumoroso e così poco sensibile, avesse potuto sposare una donna come sua madre; poiché mai vi erano state due persone più lontane come nascita, come educazione, come abitudini mentali.
3
Elena O'Hara aveva trentadue anni e, secondo le opinioni dell'epoca era una donna matura; aveva avuto sei figliuoli, di cui tre erano morti. Era alta (superava di tutta la testa il suo piccolo e focoso marito), ma si muoveva con una grazia così tranquilla nella sua ondeggiante gonna a cerchi, che la sua statura non attirava l'attenzione. Il collo, che si ergeva dal corpetto aderente di taffettà nero, era rotondo e sottile, con la pelle candidissima, e sembrava piegar sempre leggermente indietro per il peso della lussureggiante capigliatura raccolta in un nodo sulla nuca.
Aveva ereditato gli occhi neri ombreggiati da lunghe ciglia e i capelli corvini da sua madre, una francese i cui genitori si erano rifugiati ad Haiti nel 1791 a causa della Rivoluzione; e da suo padre, soldato di Napoleone, le veniva il lungo naso dritto e la mascella quadrata che era però addolcita dalla curva soave delle guance. Soltanto la vita, però, aveva potuto dare al volto di Elena quella sua espressione di orgoglio senza alterigia, la sua grazia, la sua malinconia, e la sua mancanza di gaiezza.
Sarebbe stata una donna di bellezza notevole se vi fosse stata più lucentezza nei suoi occhi, più calore nel suo sorriso, più spontaneità nella sua voce che suonava come dolce melodia all'orecchio dei suoi famigliari e dei servi. Parlava col molle accento dei Georgiani della Costa, liquido nelle vocali e dolce nelle consonanti, con una lontana traccia di accento francese. Era una voce che non si alzava mai per dare ordini a uno schiavo o per muover rimprovero a un bambino; ma tutti le obbedivano istintivamente a Tara, dove le grida e gli urli di suo marito erano pacificamente tenuti in non cale.
Per quanto Rossella poteva ricordare, sua madre era stata sempre la stessa; la sua voce morbida e dolce, sia che lodasse sia che rimproverasse; i suoi modi calmi e dignitosi, malgrado le quotidiane necessità del governo della casa, e il suo spirito sempre sereno e il suo dorso diritto anche quando le erano morti i tre bambini.
Rossella non aveva mai visto sua madre appoggiarsi alla spalliera della sedia, né l'aveva mai vista sedere senza un lavoro d'ago fra le mani, eccettuato durante i pasti o quando assisteva gli ammalati o si occupava della contabilità della piantagione. Se c'era gente, si trattava di un ricamo delicato; altrimenti le sue mani si occupavano delle camicie pieghettate di Geraldo, delle vesti delle bambine o degli abiti per gli schiavi. Rossella non riusciva a immaginare le mani di sua madre senza il ditale d'oro, né la sua figura attiva non accompagnata dalla bambina negra che non aveva nella vita altra funzione se non quella di togliere le imbastiture e di portare di stanza in stanza la scatola da lavoro di legno rosa, quando Elena girava per la casa sorvegliando la cucina, la pulizia, e la lavorazione degli abiti per i piantatori.
Non aveva mai visto sua madre agitata, né l'aveva mai vista mancare a un impegno, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Quando Elena si vestiva per un ballo o per ricevere degli invitati o anche per andare a Jonesboro per qualche riunione, aveva bisogno di due ore, due serve e Mammy per essere completamente soddisfatta; ma le sue tolette in casi come questi, erano magnifiche.
Rossella, la cui camera era di fronte a quella di sua madre al di là del vestibolo, conosceva sin dall'infanzia il sordo scalpiccio dei piedi scalzi dei negri, che correvano sul pavimento di legno all'alba; il bussare frettoloso alla porta di sua madre e le voci spaventate e rauche dei negri che mormoravano di malattie, di nascite e di morti nella lunga fila di capanne imbiancate nel quartiere degli schiavi.
Da bambina era spesso sgusciata sino alla porta e, guardando attraverso le fessure, aveva visto Elena uscire dalla camera buia, dove il russare di Geraldo continuava ritmico e ininterrotto nella luce tenue di una candela tenuta in alto, con la borsa dei medicinali sotto il braccio, i capelli ravviati e non un occhiello del suo abito sbottonato.
Era sempre stato così dolce per Rossella udire sua madre mormorare compassionevole, ma con fermezza, mentre attraversava il vestibolo in punta di piedi: - Zitti, zitti, non tanto forte. Sveglierete il signor O'Hara. Certo non sta male da morire. -
Sì, era piacevole tornare a letto e sapere che Elena era fuori nella notte e che tutto andava bene.
La mattina, dopo le sessioni notturne di nascite e di morte, quando il vecchio e il giovane dottor Fontaine erano entrambi in giro per visite e non potevano essere andati ad aiutarla, Elena presiedeva alla tavola della colazione come sempre, con gli occhi neri cerchiati ma senza che la sua voce e i suoi modi rivelassero la stanchezza. Sotto la sua ferma dolcezza era una tenacia ferrea che incuteva ammirazione e rispetto in tutti, sia in Geraldo che nelle figliole, benché Geraldo sarebbe morto piuttosto che ammetterlo.
A volte, quando andava la sera in punta di piedi a baciar le guance di sua madre, Rossella guardava la sua bocca con le labbra troppo piccole e troppo tenere, una bocca troppo facile ad esprimere la sofferenza; e si chiedeva se si era mai curvata nelle sciocche risate infantili o se aveva mormorato dei segreti alle amiche intime durante le lunghe notti d'estate. Ma no, non era possibile. La mamma era sempre stata così: una colonna di forza, una fonte di saggezza, la sola persona che aveva la risposta pronta per tutti.
Eppure Rossella aveva torto, perché tanti anni prima Elena Robillard di Savannah aveva riso nella simpatica città costiera nello stesso modo inesplicabile in cui ridono tutte le quindicenni e aveva bisbigliato con le sue amiche per lunghe notti scambiando confidenze e raccontando tutti i segreti meno uno. Era l'anno in cui Geraldo O'Hara, di vent'otto anni maggiore di lei, era entrato nella sua vita... l'anno in cui il suo giovane cugino dagli occhi neri, Filippo Robillard, ne era uscito. E quando Filippo, coi suoi occhi ardenti e le sue maniere violente, aveva lasciato Savannah per sempre, egli aveva portato con sé tutto il calore che era nel cuore di Elena, lasciando per il piccolo irlandese dalle gambe corte che l'aveva sposata soltanto un grazioso guscio vuoto.
Ma questo bastava a Geraldo, oppresso dall'incredibile felicità di sposarla. E se qualche cosa in lei era venuto a mancare, egli non se ne era accorto mai. Perspicace com'era, egli si rendeva conto che era un miracolo che un irlandese, senza beni di fortuna e senza famiglia, conquistasse la figlia di una delle più ricche e più altere famiglie della Costa. Perché Geraldo era un uomo che doveva tutto a se stesso.
Geraldo era venuto in America dall'Irlanda all'età di vent'anni. Era venuto in fretta e furia, come tanti altri irlandesi migliori o peggiori di lui erano venuti prima e dopo; coi soli abiti che aveva addosso, due scellini in tasca oltre al denaro del viaggio, e sulla sua testa una taglia che gli sembrava molto più vistosa di quanto il suo misfatto non comportasse. Infatti, non esisteva un Orangista (1) che valesse cento sterline per il Governo inglese o per il demonio in persona. Ma dal momento che il Governo inglese aveva preso così a cuore la morte dell'esattore di un possidente irlandese, Geraldo fu costretto a partire per mettere il mare fra sé e quel Governo. Per esser sinceri, dobbiamo riconoscere che egli aveva chiamato l'esattore "bastardo d'un Orangista!" - ma questo, secondo il modo di pensare di Geraldo, non dava affatto a quell'uomo il diritto di insultarlo mettendosi a zufolare le prime battute della canzone: "The Boyne water" (L'acqua del Boyne).
La battaglia del Boyne era stata combattuta più di cento anni addietro; ma per gli O'Hara e per i vicini era come se fosse stato ieri che i loro sogni e le loro speranze, assieme alle loro terre e alle loro ricchezze, erano scomparsi nella stessa nube di polvere che aveva avvolto un principe Stuart spaventato e fuggiasco, lasciando Guglielmo di Orange e i suoi odiosi soldati con le loro coccarde arancione ad uccidere gli irlandesi aderenti degli Stuart.
Per questa e per altre ragioni, la famiglia di Geraldo non era disposta a considerare il fatale esito della sua lite, come una cosa molto seria, se non fosse stato per il fatto che portava con sé delle conseguenze molto gravi. Per molti anni gli O'Hara erano stati in cattivi rapporti col Corpo di Polizia inglese a causa di sospetta attività contro il Governo; e Geraldo non era il primo O'Hara che si metteva le gambe in spalla e lasciava l'Irlanda dalla sera alla mattina.
Egli ricordava vagamente i suoi due fratelli maggiori, Giacomo e Andrea, due giovani taciturni che andavano e venivano in certe strane ore della notte per misteriose ragioni o scomparivano per parecchie settimane con grande ansietà della loro mamma. Erano andati in America diversi anni prima, dopo la scoperta di un piccolo arsenale di fucili sepolti sotto il porcile di O'Hara, ed erano diventati dei ricchi negozianti a Savannah, "benché solo il buon Dio sappia dov'è questo posto", come la madre sempre diceva quando parlava dei suoi due figli maggiori; e il giovane Geraldo fu mandato presso di loro.
Aveva lasciato la casa con un bacio frettoloso di sua madre sulla guancia, la sua fervente benedizione cattolica nelle orecchie e l'ammonizione di suo padre: "Ricorda chi sei e sappi essere sempre un uomo". I suoi cinque fratelli, tutti pezzi di giovani, lo salutarono con sorrisi ammirati ma leggermente protettori, perché Geraldo era il più giovane e il più piccolo di una famiglia robusta.
I suoi cinque fratelli ed il padre erano alti più di un metro e ottantacinque, e robusti in proporzione; ma il piccolo Geraldo, arrivato a vent'anni, sapeva che il Padre Eterno nella sua saggezza non gli avrebbe regalato più del suo metro e cinquantacinque di statura. Però egli non aveva mai perso tempo a rimpiangere la statura che gli mancava, né aveva mai trovato che questo fosse un ostacolo per ottenere qualsiasi cosa desiderasse. Anzi, era la sua salda, benché piccola, corporatura che lo aveva fatto ciò che era, poiché egli aveva appreso di buon'ora che la gente piccola dev'essere solida per poter sopravvivere fra i grandi. E Geraldo era solido.
I suoi fratelli, alti di statura, erano torvi e silenziosi; in essi la tradizione famigliare delle glorie passate perdute per sempre, si inaspriva in un odio contenuto, e prorompeva in amari sarcasmi. Se Geraldo fosse stato robusto, sarebbe diventato come gli altri O'Hara e avrebbe agito cupamente e silenziosamente fra i ribelli contro il Governo. Ma egli era "strillone" e "testone", come diceva scherzando sua madre; attaccabrighe e pronto a fare a pugni, con le sue spalle quadre dagli ossi così sporgenti che quasi si disegnavano sotto ai vestiti. Camminava zampettando in mezzo agli alti O'Hara, come un pettoruto galletto Bantam in un pollaio di giganteschi galli domestici; essi lo amavano, lo stuzzicavano affettuosamente per sentirlo strepitare e lo battevano coi loro grossi pugni non più di quanto fosse necessario per far rigar dritto un fratellino.
Se l'educazione che Geraldo aveva portato in America era insufficiente, egli lo ignorò sempre. Né gliene sarebbe importato se gliel'avessero detto. Sua madre gli aveva insegnato a leggere e a scrivere con chiarezza. Sapeva far di conto; ma qui le sue cognizioni finivano. Il solo latino che egli conoscesse era quello delle risposte alla Messa, e, come storia, sapeva soltanto i molteplici torti fatti all'Irlanda. Non conosceva poesia eccetto quella di Moor, né musica eccetto le canzoni irlandesi che si erano tramandate attraverso gli anni. Mentre aveva il più gran rispetto per quelli che erano più istruiti di lui, la sua mancanza d'istruzione non gli dava fastidio. Che bisogno avrebbe avuto di queste cose in un paese nuovo dove i più ignoranti degli irlandesi avevano fatto fortuna? In quel paese che chiedeva agli uomini soltanto di essere forti e di non aver paura di lavorare? Neanche Giacomo e Andrea che lo accolsero a Savannah nel loro negozio furono disturbati dalla sua mancanza di coltura. La sua buona calligrafia, i suoi numeri esatti e la sua abilità nel contrattare conquistarono il loro rispetto, mentre cognizioni di letteratura o raffinato gusto musicale, se Geraldo li avesse posseduti, non avrebbero suscitato che la loro beffa e il loro disprezzo. L'America nei primi anni del secolo era stata favorevole agli irlandesi. Giacomo e Andrea che avevano cominciato col trasportare merci in carri coperti da Savannah alle città interne della Georgia, erano riusciti ad avere un negozio proprio, e Geraldo prosperò con loro.
Gli piaceva il Sud e ben presto ritenne di essere diventato un meridionale. Vi erano negli Stati del Sud e nei loro abitanti molte cose che egli non avrebbe mai compreso; ma, con la cordialità insita nella sua natura, egli adottò le loro idee e i loro costumi, così come li comprendeva: poker e corse di cavalli, politica ardente e codice cavalleresco, diritti di Stato e maledizione a tutti gli yankees, schiavitù e cotone, disprezzo per i rifiuti bianchi ed esagerata cortesia verso le donne. Imparò perfino a masticare tabacco. Non vi era bisogno per lui di acquistare la facilità a bere whisky perché l'aveva di nascita.
Ma Geraldo rimaneva Geraldo. Le abitudini di vita e le idee mutarono, ma egli non volle mutare i suoi modi anche se ne fosse stato capace. Ammirava l'eleganza affettata dei ricchi piantatori di riso e di cotone che si recavano a Savannah dai loro reami paludosi, a cavallo di purisangue seguiti dalle carrozze delle loro signore ugualmente eleganti e dai carri dei loro schiavi. Geraldo non riuscì mai a diventare elegante. Quel modo di parlare pigro e strascicato era piacevole per le sue orecchie; ma la sua lingua si rifiutava ad adottare altro linguaggio che non fosse il suo vivo dialetto. Gli piaceva la grazia indifferente con la quale essi conducevano affari importanti, arrischiando un patrimonio, una piantagione o uno schiavo su una carta e scrivendo le loro perdite con incurante buon umore e senza darvi maggior importanza di quando gettavano dei soldi ai piccoli negri. Ma Geraldo aveva conosciuto la povertà e non poté mai imparare a perdere il denaro allegramente e con buona grazia. Erano simpatici, quei Georgiani della Costa, con la loro voce dolce, le loro subite ire e la loro deliziosa inconsistenza, e a Geraldo piacevano molto. Ma nel giovine irlandese appena giunto da un paese dove il vento soffiava umido e fresco e dove nelle paludi nebbiose non si celava la febbre, era una vitalità ardente e irrequieta che lo rendeva diverso da quegli indolenti individui prodotti dal clima semitropicale e dalle paludi malariche.
Da essi imparò ciò che gli sembrò utile, trascurando il resto. Trovò che il poker era la più utile delle abitudini meridionali; il poker e la resistenza al whisky; e fu la sua naturale attitudine alle carte e ai liquori che procurò a Geraldo due delle tre proprietà a cui teneva di più: il suo domestico e la sua piantagione. La terza era sua moglie; e questa egli l'attribuiva soltanto alla misteriosa bontà di Dio.
Il servo, chiamato Pork, un negro lucente, dignitoso e pratico di ogni specie di eleganza vestimentaria, era il risultato di una notte di poker con un piantatore dell'Isola di S. Simon, il cui coraggio nel "bluff" uguagliava quello di Geraldo, ma che non aveva la sua stessa resistenza al rum di Nuova Orleans. Quantunque il proprietario di Pork offrisse poi di ricomprarlo per il doppio del suo valore, Geraldo rifiutò ostinatamente, perché il possesso di quel primo schiavo - per soprappiù, "il miglior dannato servitore della Costa" - costituiva il primo passo verso l'adempimento del desiderio che era in fondo al suo cuore. Geraldo desiderava di essere un proprietario di schiavi e un possessore di terreni.
Si era messo in mente di non passare tutte le sue giornate a contrattare, come Giacomo e Andrea, e tutte le sue sere ad allinear cifre, al lume di una candela. Sentiva acutamente, ciò che i suoi fratelli non sentivano: le stimmate con cui la società bollava quelli che erano "nel commercio". Geraldo voleva essere un piantatore. Con la profonda avidità di un irlandese che è stato fittavolo nelle terre che un tempo erano state proprietà della sua famiglia, egli desiderava di vedere i propri campi stendersi verdi dinanzi ai suoi occhi. Con una spietata sincerità di propositi, egli desiderava la propria casa, la propria piantagione, i propri cavalli, i propri schiavi. E qui, in questo nuovo paese, libero dai due pericoli della terra che aveva lasciato - le tasse che divorano i raccolti e la continua minaccia di improvvisa confisca - egli intendeva di averli. Ma col passar del tempo, si accorse che avere quell'ambizione e giungere a realizzarla erano due cose ben diverse. La Costa georgiana era tenuta troppo strettamente da un'aristocrazia trincerata in se stessa, perché egli potesse mai sperare di conquistare il posto che desiderava avere.
Allora la mano del Destino e quella del poker si accordarono per dargli la piantagione che egli più tardi chiamò Tara, e nello stesso tempo lo tolse dalla Costa per mandarlo a stabilirsi nell'altipiano della Georgia settentrionale.
Fu in un salone di Savannah, in una calda notte di primavera, che la conversazione di uno straniero seduto accanto a lui fece drizzare le orecchie a Geraldo. Costui, un nativo di Savannah era tornato al suo paese dopo dodici anni di assenza. Era stato uno dei vincitori della lotteria terriera emessa dallo Stato per dividere la vasta area della Georgia centrale, ceduta dagli indiani l'anno prima che Geraldo venisse in America. Colui si era recato e vi aveva stabilito una piantagione; ma ora che la sua casa si era incendiata, non aveva più voglia di stare in quel "maledetto luogo" e sarebbe stato felice se avesse potuto cederlo.
Geraldo, sempre col pensiero di avere una piantagione propria, fece in modo da farsi presentare; e il suo interessamento aumentò quando lo straniero gli disse che la parte settentrionale dello Stato si stava popolando di persone che venivano dalla Carolina e dalla Virginia. Geraldo aveva ormai passato a Savannah tanto tempo che aveva acquistato il punto di vista degli abitanti della Costa; riteneva cioè che tutto il resto dello Stato fosse foresta folta con un indiano nascosto in ogni macchione. Trattando affari per i fratelli O'Hara, gli era avvenuto di visitare Augusta, a cento miglia a nord del fiume, e aveva viaggiato nell'interno visitando le vecchie città dell'ovest. Sapeva che quella parte era tanto bene organizzata quanto la Costa; ma dalla descrizione dello straniero la sua piantagione doveva trovarsi a più di 250 miglia nell'interno, a nord e a ovest di Savannah, a non grande distanza dal fiume Chattahoochee. Geraldo sapeva che a nord, al di là di quel fiume, il territorio era ancora in mano degli indiani Irochesi; quindi fu con stupore che udì lo straniero burlarsi dei timori di questioni con gli indiani e raccontare come nel nuovo paese si stessero sviluppando prosperose città e feconde piantagioni.
Un'ora dopo, quando la conversazione cominciò a languire, Geraldo, con una scaltrezza smentita dai suoi grandi occhi azzurri, propose di fare una partita. Con l'avanzar della notte e dopo numerosi bicchieri, a poco a poco tutti abbandonarono il gioco lasciando soltanto Geraldo e lo straniero a battersi. Lo straniero puntò tutti i gettoni che aveva davanti e vi aggiunse il documento di proprietà della sua piantagione; Geraldo a sua volta spinse tutti i suoi gettoni e vi posò sopra il proprio portafogli. Se il denaro che conteneva apparteneva ai fratelli O'Hara, la coscienza di Geraldo non era tanto turbata da confessarlo prima della Messa dell'indomani mattina. Sapeva ciò che voleva; e quando Geraldo voleva una cosa, vi arrivava per la via più diretta. E poi, aveva una tal fede nel suo destino e nei dadi, che neanche per un momento si chiese come avrebbe restituito il denaro se avesse perduto il colpo.
- Non è un buon affare il vostro, ed io son contento di non dover più pagar tasse laggiù - sospirò il possessore di un "full d'assi" dopo aver chiesto penna e calamaio. - La casa grande si è incendiata un anno fa e nei campi stanno crescendo boscaglie e pinastri. Ma è roba vostra. -
- Non mescolare mai carte né whisky se non sei stato svezzato con acquavite d'Irlanda - disse gravemente quella sera Geraldo a Pork mentre questi lo aiutava a coricarsi. E il servo, che aveva cominciato a masticare il dialetto irlandese nella sua ammirazione per il padrone, gli rispose in una strana combinazione di gergo negro e di idioma di County Meath che avrebbe intrigato chiunque, eccetto loro due.
Il fangoso fiume Flint che correva silenzioso tra pini e querce sulle quali si arrampicava la vite selvaggia, avvolgeva la nuova proprietà di Geraldo come un braccio incurvato, abbracciandola da due lati. Per Geraldo, ritto sul piccolo cocuzzolo su cui era stata un tempo la casa, quella grande barriera verde rappresentava la piacevole evidenza del suo possesso, come se fosse uno steccato costruito proprio da lui per segnare il limite della proprietà. Ritto sulle fondamenta annerite della casa bruciata, egli guardava il lungo viale alberato che conduceva alla strada e bestemmiava allegramente, con una gioia troppo profonda per permettergli una preghiera di gratitudine. Quelle due linee parallele di alberi cupi erano sue, suo quel prato abbandonato, invaso dalle erbacce cresciute enormemente sotto i giovani alberelli di magnolie. I campi incolti e circondati di pinastri e di cespugli spinosi, che ai quattro lati stendevano lontana la loro superficie di argilla rossiccia, appartenevano a Geraldo O'Hara... erano suoi perché egli aveva un ostinato cervello irlandese, e il coraggio di arrischiare tutto su un colpo alle carte.
Geraldo chiuse gli occhi e, nel silenzio del terreno senza lavoratori, sentì di essere giunto a casa. Qui, sotto i suoi piedi, sorgerà una casa di mattoni intonacati. Al di là della strada saranno nuove barriere di legno e di ferro, dietro alle quali pascoleranno mandrie ben pasciute e cavalli di razza; e il terreno sanguigno che giunge dalla collina al fertile fondo valle risplenderà al sole di un candore piumoso: cotone, jugeri e jugeri di cotone! La fortuna degli O'Hara risorgerà a nuovo splendore!
Col piccolo peculio guadagnato che i fratelli gli liquidarono con scarso entusiasmo, e con una sommetta ottenuta mettendo un'ipoteca sul terreno, Geraldo comprò i primi agricoltori e si stabilì a Tara vivendo in solitudine nella casetta di quattro stanze del sorvegliante, fino al giorno in cui avrebbe potuto costruire la casa bianca.
Dissodò i campi in cui piantò il cotone e si fece prestare altro denaro da Giacomo e da Andrea per comprare un maggior numero di schiavi.
Gli O'Hara erano una tribù irlandese, unita nella prosperità come nell'avversità, non per eccessiva affezione famigliare, ma perché avevano imparato durante gli anni dolorosi, che una famiglia deve, per poter sopravvivere, presentare al mondo un fronte compatto. Prestarono il denaro a Geraldo, il quale, negli anni seguenti, lo restituì con gli interessi. Gradatamente la piantagione s'ingrandì, perché Geraldo comprò ancora del terreno vicino; e col tempo la casa bianca divenne una realtà invece di un sogno.
Fu costruita dagli schiavi ed era un edificio largo e pesante che coronava il cocuzzolo dominante il verde pendio che giungeva sino al fiume; e piaceva molto a Geraldo perché anche quand'era nuova aveva l'apparenza di essere fabbricata da diversi anni. La vecchie quercie che avevano visto passare sotto il loro fogliame gli indiani circondavano la casa coi loro grossi tronchi e spandevano coi loro rami un'ombra densa sul tetto. Il prato, ripulito dalle erbacce, si ricoprì di trifoglio e di erba medica e Geraldo sorvegliò che fosse ben tenuto. Dal viale dei cedri alle bianche capanne del quartiere degli schiavi era in tutta Tara un'aria di solidità e di stabilità; e quando Geraldo girava al galoppo la curva della strada e vedeva tra i rami verdi il tetto della sua casa, il - suo cuore si gonfiava di orgoglio, come se lo vedesse per la prima volta.
Era tutto opera sua, del piccolo, cocciuto e rumoroso Geraldo. Ed egli era in ottimi rapporti con tutti i suoi vicini, meno coi MacIntosh, il cui terreno confinava col suo a sinistra, e con gli Slattery i cui miseri tre jugeri si stendevano alla destra, lungo le paludi tra il fiume e la piantagione di John Wilkes.
I MacIntosh erano scozzesi - irlandesi e Orangisti; e se anche avessero posseduto tutte le sante qualità del calendario cattolico, questa provenienza li avrebbe resi maledetti per sempre agli occhi di Geraldo. Veramente vivevano in Georgia da settant'anni e, prima, avevano trascorso il tempo di una generazione nella Carolina; ma il primo della famiglia che aveva messo piede sulle rive americane era giunto da Ulster, e questo bastava per Geraldo.
Era una famiglia di gente rigida e taciturna, che viveva per conto proprio e si sposava fra parenti; Geraldo non era il solo ad avere antipatia per loro, perché la gente della Contea era socievole c cordiale, e non tollerava negli altri la mancanza di queste qualità. La fama di aver simpatia per gli abolizionisti non aumentava la popolarità dei MacIntosh. Il vecchio Angelo non aveva mai manomesso un solo schiavo ed aveva commesso l'imperdonabile colpa di vendere alcuni dei suoi negri a mercanti di schiavi di passaggio che si recavano ai campi di zucchero della Luisiana; ma le voci persistevano.
- E' un abolizionista, non vi è dubbio, - osservava Geraldo a John Wilkes: - Ma in un Orangista, quando un principio è contrario all'avarizia scozzese, non viene più rispettato. -
Con gli Slattery la faccenda era diversa. Essendo essi dei bianchi miserabili non si aveva per loro neanche il forzato rispetto che l'indipendenza di Angelo MacIntosh otteneva dalle famiglie dei vicini. Il vecchio Slattery, che rimaneva disperatamente attaccato ai suoi pochi jugeri di terreno malgrado le ripetute offerte di Geraldo e di John Wilkes, era inetto e piagnucoloso. Sua moglie era una donna coi capelli scarmigliati, di aspetto pallido e malaticcio, madre di una nidiata che aumentava regolarmente ogni anno. Tom Slattery non possedeva schiavi; lui e i suoi due figli maggiori coltivavano spasmodicamente i lori pochi jugeri di cotone, mentre la moglie e i figli minori si occupavano del cosiddetto podere. Ma il cotone non cresceva mai bene e l'orto, a causa delle continue gravidanze della signora, forniva raramente di che nutrire il modesto armento.
La vista di Tom Slattery che gironzolava sotto i porticati dei vicini, mendicando dei semi di cotone o un po' di lardo per poter tirar avanti, era frequente. Slattery odiava i suoi vicini con quel po' di energia che possedeva, intuendo il loro disprezzo sotto alla loro cortesia; e specialmente odiava i negri servi di questi ricchi. Gli schiavi negri della Contea si consideravano superiori ai "rifiuti bianchi" e il loro non celato disprezzo lo feriva, così come la loro più sicura posizione nella vita destava la sua invidia. Egli conduceva un'esistenza miserabile mentre essi erano ben nutriti, ben vestiti, e curati quando erano vecchi e ammalati. Essi erano fieri del buon nome dei loro padroni e generalmente fieri di appartenere a gente che era "qualcuno", mentre Slattery era disprezzato da tutti.
Egli avrebbe potuto vendere la sua proprietà per il triplo del suo valore a qualsiasi piantatore della Contea; chiunque avrebbe considerato bene speso il denaro che liberava il Paese da un individuo spiacevole; ma egli preferiva rimanere e vivere miseramente del ricavato di una balla di cotone all'anno e della carità dei suoi vicini. Col rimanente degli abitanti della Contea, Geraldo era in rapporti di amicizia e con qualcuno di intimità. I Wilkes, i Calvert, i Tarleton, i Fontaine sorridevano quando la piccola figura sul grande cavallo bianco galoppava lungo i loro viali; e facevano cenno perché fossero portati dei grandi bicchieri in cui era stato versato una buona quantità di whisky su una cucchiaiata di zucchero e un pizzico di menta tritata. Geraldo era simpatico e i vicini apprendevano col tempo ciò che i bambini, i negri e i cani scoprivano a prima vista e cioè che dietro ai suoi modi truculenti e alla sua voce reboante si nascondeva un cuore ottimo, un orecchio sempre pronto ad ascoltare e un portafogli che si apriva con facilità.
Il suo arrivo provocava sempre un tumulto di cani che abbaiavano e di bambini negri che urlavano correndogli incontro, litigando fra loro per il privilegio di tenere il suo cavallo, e poi si torcevano e ridevano ai suoi insulti scherzosi. I bambini bianchi volevano sedere sulle sue ginocchia per fare il cavalluccio, mentre egli denunciava ai loro genitori l'infamia degli uomini politici inglesi; le figlie dei suoi amici gli confidavano i segreti amorosi e i giovinotti del vicinato, che avevano paura di confessare ai loro padri i debiti d'onore, trovavano in lui un amico pronto ad aiutarli.
- Avevi questo debito da un mese, ragazzaccio! - gridava. - Ma, in nome di Dio, perché non mi hai chiesto il denaro prima? Il suo modo ruvido di parlare era troppo noto per offendere; il giovanotto si limitava a sorridere imbarazzato rispondendo: Non volevo disturbarvi, signore, e mio padre...-
- Tuo padre è un buon uomo, ma un po' tirato; prendi questi e non ne parliamo più. -
Le mogli dei piantatori furono le ultime a capitolare. Ma la signora Wilkes (una gran signora che ha il dono di saper tacere, come la definiva Geraldo) disse una sera a suo marito, dopo aver visto Geraldo scomparire in fondo al viale - parla in modo volgare, ma è un signore -; e allora la posizione di O'Hara fu assicurata.
Egli non sapeva che gli c'erano voluti quasi dieci anni per arrivare, perché non si era mai accorto che da principio i suoi vicini lo guardavano storto. Nella sua mente non vi era mai stato alcun dubbio in proposito, dal momento in cui aveva messo piede a Tara.
Quando ebbe compiuto quarantatré anni - così atticciato di corpo e florido di volto che sembrava un gentiluomo sportivo gli venne in mente che Tara, per quanto fosse piacevole, e gli abitanti della Contea, per quanto avessero il cuore e la casa aperti per lui, non erano abbastanza. Gli ci voleva una moglie.
Tara aveva bisogno di una padrona. Il grasso cuoco, un negro agricoltore elevato a quel grado per necessità di cose, non era mai puntuale nel preparare i pasti; e la cameriera, che prima lavorava essa pure nei campi, lasciava che la polvere si accumulasse sui mobili e non aveva mai tovaglie pulite, sicché l'arrivo di ospiti era sempre occasione di subbuglio e di confusione. Pork, l'unico negro abituato a servire in casa, aveva l'incarico di sorvegliare gli altri servitori, ma anche lui era diventato negligente e trascurato dopo tanti anni di vita rilassata. Come servitore teneva in ordine la camera da letto di Geraldo, e come cameriere serviva a tavola con dignità e con stile; ma oltre a questo, lasciava che le cose seguissero il loro corso. Con l'infallibile istinto africano, i negri avevano tutti scoperto che Geraldo era un cane che abbaiava ma non mordeva, e ne approfittavano vergognosamente. Si sentivano sempre alte minacce di vendere gli schiavi o di frustarli a sangue, ma nessuno schiavo era mai stato venduto fra quelli di Tara e una sola frustata vi era stata somministrata soltanto perché il cavallo preferito di Geraldo non era stato strigliato dopo una lunga giornata di caccia.
Gli occhi azzurri di Geraldo osservavano come erano ben tenute le case dei suoi vicini e con che facilità le donne dai capelli ravviati e dagli abiti fruscianti, dirigevano la servitù. Egli ignorava l'attività di queste donne dall'alba a mezzanotte, fra la sorveglianza della cucina, del bucato, del rammendo e l'allevamento dei bimbi. Vedeva soltanto i risultati esteriori e questi l'impressionavano.
L'urgente necessità di una moglie gli apparve chiaramente una mattina mentre si stava vestendo per recarsi in città ad assistere a un'udienza al Tribunale. Pork tirò fuori la miglior camicia a pieghettine di Geraldo così malamente rammendata che ormai solo il domestico avrebbe potuto metterla.
- Mister Geraldo - aveva detto mentre ripiegava con riconoscenza la camicia e Geraldo strepitava - quello che tu avere bisogno è moglie; una moglie che avere buon numero di negri per la casa. -
Gerardo rimproverò Pork per la sua impertinenza, benché fosse convinto che aveva ragione. Aveva bisogno di una moglie e aveva bisogno di bambini; e se non provvedeva subito, poi sarebbe troppo tardi. Ma non voleva sposare la prima venuta, come aveva fatto il signor Calvert, che aveva impalmato la governante inglese dei suoi bambini orfani di madre. Sua moglie doveva essere una signora, una vera signora dignitosa ed elegante come la signora Wilkes, e capace di governare Tara come la signora Wilkes governava la sua proprietà.
Ma nelle famiglie della Contea vi erano due difficoltà. La prima era la scarsità di fanciulle in età da marito. La seconda, più seria, era che Geraldo era un "uomo nuovo", malgrado i suoi dieci anni di residenza, e uno straniero. Non si sapeva nulla della sua famiglia. Pur essendo meno inespugnabile dell'aristocrazia della Costa, la società della Georgia settentrionale non avrebbe mai ammesso che una delle sue figliuole sposasse un uomo del quale si ignorava chi fosse il nonno.
Geraldo sapeva che, malgrado la simpatia sincera degli uomini della Contea coi quali cacciava, beveva e parlava di politica, non avrebbe potuto sposare la figlia di nessuno di loro. E non voleva che si potessero far delle chiacchiere attorno alle tavole, a cena, sul fatto che questo o quell'altro padre avesse con rammarico rifiutato a Geraldo O'Hara il permesso di far la corte alla sua figliuola. Non per questo Geraldo si sentiva inferiore ai suoi vicini: d'altronde nulla e nessuno avrebbe mai potuto far sì che egli si sentisse inferiore a chiunque. Soltanto, riconosceva che era una strana costumanza della Contea, quella che faceva maritare le ragazze solo con persone appartenenti a famiglie che vivevano nel sud da oltre vent'anni, e che durante tutto quel tempo erano stati possessori di schiavi e si erano dedicati unicamente ai vizi eleganti.
- Prepara il bagaglio. Andiamo a Savannah - disse a Pork. - E se ti sento emettere una sola imprecazione, ti vendo immediatamente, perché sono espressioni che io stesso uso ben raramente. -
Giacomo e Andrea avrebbero potuto certamente dargli dei consigli intorno a questa faccenda del matrimonio; e forse tra i loro vecchi amici poteva esservi qualche fanciulla che avesse i requisiti voluti e che lo trovasse accettabile come marito. I fratelli ascoltarono pazientemente la sua storia ma non gli diedero eccessivo incoraggiamento. Non avevano parenti a Savannah a cui rivolgersi, perché entrambi erano già sposati quando erano venuti in America! E le figlie dei loro vecchi amici erano maritate da un pezzo e avevano già dei bambini.
- Sei un uomo ricco ma non di grande famiglia - osservò Giacomo.
- Sono diventato ricco e la grande famiglia me la farò. Ma non voglio sposare la prima venuta. -
- Hai delle vedute alte - replicò Andrea seccamente.
Ma fecero del loro meglio per aiutare Geraldo. Erano ormai anziani e si erano creati a Savannah un cerchio di amicizie. Per un mese condussero Geraldo di casa in casa, facendogli frequentare balli, cene, pic-nic.
- Ce n'è una che mi piace - disse finalmente Geraldo - una ragazza che quando io sbarcai in America non era ancora nata. -
- E chi sarebbe? -
- Miss Elena Robillard - e la risposta cercò di avere un tono indifferente, perché gli occhi neri e lievemente obliquati in basso di Elena lo avevano colpito più di quanto volesse dire, e il suo modo di fare, ingannevolmente incurante, così strano in una fanciulla quindicenne, lo aveva affascinato. Inoltre vi era in Elena una continua espressione di disperazione che gli andava al cuore e lo rendeva più gentile con lei che non fosse mai stato con nessun altro.
- Ma potresti esser suo padre! -
- Sono nel fiore della vita! - ribatté Geraldo, punto.
Giacomo prese la parola, con calma.
- Ascoltami, Jerry: non vi è ragazza in Savannah con la quale tu possa aver minori probabilità. Suo padre è un Robillard; e questi francesi sono orgogliosi come Lucifero. E sua madre Dio l'abbia in gloria - era una gran signora.
- Non me n'importa - si ostinò Geraldo. - Del resto, sua madre è morta e il vecchio Robillard mi vuol bene.-
- Come uomo, sì; ma come genero, no. -
- E poi la ragazza non ti accetterebbe - intervenne Andrea. - Da un anno fa l'amore con quel ragazzaccio di suo cugino, Filippo Robillard, benché la sua famiglia la tormenti giorno e notte perché lo lasci. -
- E' partito il mese scorso per la Luisiana. -
- Come lo sai? -
- Lo so. - E Geraldo non volle svelare che quest'informazione gli veniva da Pork né che Filippo era andato in Occidente per espresso desiderio della sua famiglia. - E non credo che ne sia tanto innamorata da non poterlo dimenticare. Quindici anni son troppo pochi, perché l'amore sia profondo. -
- Preferiranno quel rompicollo di cugino a te. -
Giacomo e Andrea furono quindi stupiti come tutti gli altri quando si sparse la notizia che la figlia di Pierre Robillard avrebbe sposato il piccolo irlandese. I commenti furono infiniti e tutta la città chiacchierò sul conto di Filippo Robillard che era andato in Occidente; ma le chiacchiere rimasero lettera morta. E fu per sempre per tutti un mistero perché la più bella delle figlie di Robillard accettasse di sposare quel rumoroso ometto dal viso rosso, che le arrivava appena alle spalle.
Neanche Geraldo comprese mai perfettamente com'era andata la cosa. Sapeva soltanto che era accaduto un miracolo. E fu l'unica volta in vita sua che si sentì umile umile, quando Elena, pallidissima ma calma, posò leggermente una mano sul suo braccio dicendogli: - Vi sposerò, Mister O'Hara.
I Robillard, sbalorditi, conobbero la risposta; ma solo Elena e la sua Mammy seppero tutta la tristezza di quella notte in cui la fanciulla singhiozzò fino all'alba come una bambina col cuore spezzato, alzandosi al mattino con una ferma decisione.
Con un doloroso presentimento, la bambinaia aveva portato alla sua padroncina un pacchetto proveniente da Nuova Orleans, con l'indirizzo scritto da una mano ignota; nel pacchetto era una miniatura di Elena, che ella lasciò cadere a terra con un grido, quattro lettere scritte da lei a Filippo Robillard e poche parole di un sacerdote di Nuova Orleans che le annunciava la morte di suo cugino in una rissa d'osteria.
- Lo hanno cacciato via, il babbo, Paolina e Eulalia. Lo hanno cacciato via. Li odio. Non voglio più vederli. Voglio andar via. Voglio andare tanto lontano da non vedere mai più né loro né questa città né chiunque mi ricordi... lui. -
E al sorger del giorno, la nutrice, che aveva anch'essa pianto china sul capo bruno della sua padrona, aveva esclamato: - Ma non puoi far questo, tesoro! -
- Lo farò. E' un brav'uomo. Lo farò, o andrò a chiudermi in un convento a Charleston..-
Fu la minaccia del convento che finalmente strappò il consenso a Pierre Robillard, che non rinveniva dallo stupore e dal dolore. Era un fedele presbiteriano, benché la sua famiglia fosse cattolica; e l'idea che sua figlia diventasse monaca gli era anche più penosa del pensiero che fosse moglie di Geraldo O'Hara. Dopo tutto, contro costui non si poteva dir nulla, se non che non aveva famiglia.
Così Elena, non più Robillard, volse le spalle a Savannah per non rivederla mai più e partì per Tara con un marito di mezz'età, la sua nutrice e venti "negri di casa".
Dopo un anno nacque la prima bambina a cui diedero il nome di Caterina Rossella, come la mamma di Geraldo. Geraldo fu deluso, perché desiderava un maschio, ma ciò nondimeno fu abbastanza soddisfatto della sua bambina bruna da offrire, in segno di gioia, il rum a tutti i suoi schiavi, ubriacandosi anche lui, felice e rumoroso. Nessuno può dire se Elena rimpianse mai la sua decisione di sposare Geraldo; meno di tutti suo marito, il quale non stava nella pelle ogni volta che la guardava. Ella aveva scacciato dalla sua mente Savannah e i suoi ricordi, da quando aveva lasciato quella graziosa città marittima; e dal momento in cui era giunta nella Contea, la Georgia era diventata il suo paese.
Lasciando per sempre la dimora di suo padre, ella aveva abbandonato una casa le cui linee erano dolci e morbide come quelle di un corpo di donna, come quelle di una nave a vele spiegate; una casa intonacata di un pallido rosa, costruita nello stile coloniale francese, elegantemente sollevata sul suolo da palafitte a colonne, e a cui si saliva mediante scale a spirale, con ringhiere di ferro battuto che sembravano un merletto: una casa ricca e graziosa, ma lontana.
Ella aveva abbandonato non solo la bella abitudine, ma anche tutta la civiltà che era dietro quell'edificio; e si trovava in un mondo così strano e diverso come se fosse addirittura in un altro continente.
La Georgia settentrionale era una regione aspra, abitata da gente aspra anch'essa. Dall'altipiano che si ergeva al disotto delle cime delle Montagne Azzurre, ella vedeva ovunque distese ondulate rossicce, con vasti spazi su cui affiorava il granito sottostante ed enormi pini che torreggiavano cupamente dovunque. Tutto sembrava selvaggio e inospitale ai suoi occhi abituati alla costa e alla tranquilla bellezza delle isole drappeggiate nel muschio grigio e verde, con le larghe strisce di rena ardente sotto il sole semitropicale, le lunghe distese di terra sabbiosa ornata di palmizi.
Questa era una regione che conosceva tanto il freddo dell'inverno quanto il calore dell'estate; e nel popolo erano un vigore e un'energia che la sorprendevano. Era gente buona, gentile, generosa, ma risoluta, virile, facile all'ira. Gli abitanti della Costa che ella aveva abbandonato si vantavano di occuparsi di ogni cosa, anche dei loro duelli e delle loro proprietà, con aria noncurante; ma questi Georgiani erano invece dotati di violenza. Sulla Costa la vita era molle; qui era giovanile, nuova, piena di vivacità.
Tutte le persone che Elena aveva conosciuto a Savannah erano dello stesso stampo: avevano tutti quanti gli stessi punti di vista, e le stesse tradizioni; qui vi era invece una grande varietà. I colonizzatori della Georgia settentrionale venivano da molti luoghi diversi: da altre parti della Georgia stessa, dalla Carolina, dalla Virginia, e anche dall'Europa e dal Nord. Alcuni, come Geraldo, erano individui recatisi colà a cercar fortuna. Altri, come Elena, erano membri di vecchie famiglie che trovavano la vita insopportabile nel loro paese e avevano cercato rifugio altrove. Altri ancora si erano trapiantati senza alcuna ragione se non che il sangue irrequieto dei loro padri nomadi scorreva ancora nelle loro vene.
Questa gente, arrivata da luoghi diversi e con diverse origini, dava alla vita della Contea una mancanza di formalismo che per Elena era assolutamente nuova ed alla quale non riuscì mai ad abituarsi completamente. Sapeva per istinto che cosa avrebbe fatto uno della Costa in certe date circostanze; non riuscì mai a prevedere che cosa avrebbe fatto, nelle stesse circostanze, un Georgiano del nord.
Ciò che dava vita al commercio della regione era l'ondata di prosperità che allora volgeva verso il Sud. Tutto il mondo chiedeva cotone, e il nuovo terreno della Contea, fertile e non sfruttato, ne produceva in abbondanza. Il cotone era la pulsazione del cuore del paese; la semina e il raccolto erano la sistole e la diastole della vermiglia terra. Dai solchi sinuosi veniva la ricchezza e anche l'arroganza; arroganza fondata sui verdi cespugli e sugli ettari di un bianco fioccoso. Se il cotone poteva farli ricchi in una generazione, quanto più ricchi sarebbero nella prossima!
La certezza dell'indomani dava entusiasmo e gioia di vivere; e la gente della Contea godeva la vita con un fervore che Elena non riuscì mai a comprendere. Avevano abbastanza denaro e abbastanza schiavi per avere anche il tempo di divertirsi; e si divertivano volentieri. Sembrava che non fossero mai tanto occupati da dover mancare a una partita di pesca, a una caccia o a una corsa di cavalli: ed era raro che passasse una settimana senza la sua riunione a base di porchette arrostite e il suo ballo.
Elena non avrebbe mai potuto o voluto diventare simile a loro aveva lasciato a Savannah troppo di se stessa - ma li rispettava e, col tempo ammirò la franchezza e la rettitudine di quel popolo che aveva poche reticenze ed apprezzava un uomo per quel che valeva.
Divenne la signora più amata della Contea. Era una vigile ed economa padrona di casa, una buona madre e una moglie devota. L'altruismo che avrebbe dedicato alla Chiesa fu invece consacrato al servizio dei suoi figliuoli, della sua casa e dell'uomo che l'aveva allontanata da Savannah e dai suoi ricordi e non le aveva mai rivolto alcuna domanda.
Quando Rossella ebbe un anno - più sana e vigorosa di qualsiasi altra bambina, secondo Mammy - nacque la seconda bambina di Elena, Susanna Eleonora, sempre chiamata Susele, e, alla debita distanza, venne Carolene, iscritta nella Bibbia familiare come Carolina Irene. Seguirono poi tre maschietti, ognuno dei quali morì prima di avere imparato a camminare; tre bambini che ora dormivano sotto i cedri contorti, nel cimitero a cento metri dalla casa, sotto tre pietre ciascuna delle quali portava l'iscrizione "Geraldo O' Hara, Junior".
Dal giorno in cui Elena giunse a Tara, il luogo fu trasformato. Benché avesse solo quindici anni, ella era nondimeno pronta per tutte le responsabilità di una padrona di piantagione. Anche allora, prima del matrimonio, le ragazze dovevano essere soprattutto belle, gentili, decorative; ma dopo sposate, bisognava che fossero in grado di dirigere un'azienda domestica che contava oltre cento persone, fra bianchi e negri; e venivano educate in vista di questo.
Elena aveva ricevuto quella preparazione per il matrimonio che veniva data a tutte le fanciulle di buona nascita; inoltre aveva con sé Mammy, la quale, con la sua energia, era capace di galvanizzare il negro più inetto. In breve ella portò nel governo della casa di Geraldo ordine e dignità e diede a Tara una bellezza che non aveva mai avuta prima.
La casa era stata costruita senza alcun piano architettonico prestabilito, aggiungendo delle camere quando occorrevano; ma con l'attenzione e la cura di Elena, acquistò un fascino speciale che derivava appunto dalla sua mancanza di disegno. Il viale di cedri che conduceva dalla strada principale alla casa quel viale di cedri senza il quale nessuna casa di piantatore georgiano sarebbe stata completa spandeva un'ombra cupa e fresca che per contrasto dava maggior vivezza e splendore al verde degli altri alberi. Il convolvolo che si arrampicava sulle verande appariva di un verde chiaro sul bianco delle mura; e insieme ad esso il rosa dei cespugli di ibisco accanto alla porta e le magnolie dai candidi fiori che si ergevano sulla spianata, nascondevano alquanto le linee goffe dell'edificio.
In primavera e in estate il trifoglio e l'erba medica del prato diventavano color smeraldo, di uno smeraldo così seducente che rappresentava una tentazione irresistibile per i branchi di tacchini e di oche bianche che avrebbero, in realtà, dovuto abitare solo le regioni dietro alla casa. I volatili tentavano sempre delle clandestine avanzate sulla spianata, attratti dal verde dell'erba e dalla seducente promessa dei cespugli di gelsomini del Capo e delle aiuole di zinnie. Contro le loro ruberie era stata installata sotto al porticato una piccola sentinella nera. Il bambino seduto sui gradini, armato di un grande straccio bianco, faceva parte del quadro di Tara; ma era molto infelice perché gli era proibito di inseguire i gallinacei e doveva limitarsi a gridare e ad agitare lo straccio per spaventarli.
Elena addestrava a questo compito dozzine di bambini negri: era il primo ufficio con una responsabilità che gli schiavi maschi avessero a Tara. Dopo i dieci anni venivano mandati dal vecchio Daddy, il ciabattino della piantagione per imparare il suo mestiere, o da Amos, il carpentiere, o da Filippo, il vaccaro, o da Cuffee, il guardiano delle mule. Se non mostravano attitudine per alcuno di questi mestieri, diventavano coltivatori e, nell'opinione dei negri, avevano perso il diritto a qualsiasi posizione sociale.
La vita di Elena non era facile né felice; ma ella non si era aspettata che fosse facile, e quanto alla felicità, quello era il destino della donna. Il mondo era degli uomini ed ella lo accettava così. L'uomo era lodato per l'ordine della sua proprietà e la donna lodava la sua abilità. L'uomo rugghiava come un toro se una scheggia gli si ficcava in un dito e la donna soffocava i gemiti, quando metteva al mondo un figlio, per timore di disturbarlo. Gli uomini erano sgarbati e spesso ubriachi. Le donne ignoravano le cattive parole e mettevano gli ubriachi a letto senza parlare. Gli uomini erano rudi e brontoloni, le donne erano sempre buone, gentili e disposte a perdonare.
Era stata educata nella tradizione delle grandi dame e le era stato insegnato a sopportare i propri dolori conservando il suo sorriso; ed ella intendeva che anche le sue tre figlie fossero, come lei delle vere signore. Con le figlie più giovani era riuscita, perché Susele desiderava tanto di essere piacente che prestava orecchio attento agli insegnamenti di sua madre, e Carolene era timida e facile da guidare.
Ma, per Rossella, figlia di Geraldo, la via della signorilità fu dura.
Con grande indignazione di Mammy, ella preferiva compagni di gioco che non fossero le sue ubbidienti sorelline o le bene educate fanciulle Wilkes, ma i bambini negri della piantagione e i maschietti del vicinato, ed era capace di arrampicarsi su un albero e di lanciar sassi.. Mammy era molto turbata che la figlia di Elena avesse simili inclinazioni, e spesso la scongiurava di "condursi come una signora", ma Elena considerava la faccenda con una tolleranza più lungimirante. Ella sapeva che i compagni d'infanzia sarebbero più tardi diventati dei corteggiatori; e il primo dovere di una ragazza era sposarsi. Diceva quindi fra sé che la bimba era semplicemente piena di vita e che vi era tempo per insegnarle le arti e i modi che attraggono gli uomini.
A tal fine Elena e Mammy riunirono i loro sforzi, e col passare degli anni, Rossella divenne una buona allieva, ma solo in questa materia, ché per tutto il resto imparava assai poco. Malgrado una successione di istitutrici e due anni trascorsi nella Accademia Femminile di Fayetteville, la sua educazione era incompleta; ma nessuna fanciulla della Contea parlava più graziosamente di lei. Ella sapeva sorridere con garbo, camminare facendo ondeggiare i cerchi della sua gonna in modo attraente, sapeva guardare un uomo in faccia e poi abbassare gli occhi e battere le palpebre rapidamente in modo che sembrasse il tremito di una dolce emozione; e, soprattutto, aveva imparato a nascondere agli uomini un'intelligenza acuta sotto un viso dolce e semplice come quello di un bambino.
Elena con la sua voce ammonitrice e Mammy con le sue costanti censure cercavano d'inculcare in lei le qualità che l'avrebbero resa veramente desiderabile come moglie.
- Devi essere più dolce, cara, più remissiva - diceva Elena. - Non devi interrompere gli uomini che ti parlano, anche se credi di saperne più di loro sull'argomento. Gli uomini non amano le ragazze troppo perspicaci. -
- Ragazze superbe che darsi arie e dire "voglio questo, voglio quello" di solito non trovare marito - profetizzava cupamente Mammy. - Le ragazze dovere abbassare occhi e dire "bene signore" e poi "Sì signore" e "avete ragione signore." -
Le insegnarono dunque tutto ciò che una gentildonna doveva sapere, ma ella imparò soltanto la vernice della gentilezza. Non apprese mai la grazia interiore da cui questa gentilezza doveva sgorgare, e non vedeva neppure la ragione di apprenderla. Le apparenze bastavano, perché le apparenze della signorilità le acquistavano dei corteggiatori; ed ella non desiderava di più. Geraldo proclamava che sua figlia era la più bella di cinque Contee, e con un certo fondo di verità; infatti ella ebbe proposte di matrimonio da quasi tutti i giovani del vicinato ed anche da luoghi lontani, come Atlanta e Savannah.
A sedici anni, grazie a Mammy e ad Elena, appariva gentile, simpatica e briosa, mentre in realtà era volontaria, vana e caparbia. Aveva ereditato la facile eccitabilità del padre irlandese e nulla della natura altruista e indulgente di sua madre, se non d'apparenza. Elena non si rese mai completamente conto che era soltanto una vernice, perché Rossella le mostrava soltanto il suo volto migliore, nascondendo le sue scappate, piegando il suo temperamento e apparendo in presenza di Elena più dolce che poteva, perché sua madre, con un solo sguardo di rimprovero, riusciva a mortificarla fino alle lagrime. Ma Mammy non aveva illusioni sul suo conto ed era continuamente sul "chi vive" per le screpolature della vernice. Gli occhi di Mammy erano più acuti di quelli di Elena, e Rossella non ricordava di essere mai riuscita ad ingannarla per molto tempo.
Non che questi due mentori affettuosi deplorassero la vivacità, il fascino e la disinvoltura della giovinetta. Di tali qualità le donne meridionali andavano fiere. Erano invece preoccupate dalla natura impetuosa e dalla cocciutaggine di Geraldo che risorgevano in lei; e talvolta temevano che questi difetti non si sarebbero potuti nascondere prima che ella facesse un buon matrimonio.
Ma Rossella intendeva sposarsi - e sposare Ashley - e perciò voleva apparire modesta, docile, e leggera, se queste erano le qualità che attraevano gli uomini. Non sapeva perché gli uomini fossero così; sapeva soltanto che questi metodi funzionavano. La cosa non l'interessò mai tanto da farle cercare la ragione di questo, poiché ella ignorava il lavorio interiore di ogni essere umano, e perfino il suo. Sapeva soltanto che se ella diceva o faceva "così, e cosà" gli uomini invariabilmente rispondevano col complimento "così, e cosà". Era come una formula matematica e non più difficile di questa, perché la matematica era l'unica materia che era sembrata facile a Rossella quando andava a scuola.
Se conosceva poco il raziocinio maschile, conosceva ancor meno quello femminile, perché le donne l'interessavano poco. Non aveva mai avuto un'amica e non ne aveva mai sentito la mancanza. Per lei tutte le donne, comprese le sue due sorelle, erano nemiche naturali che inseguivano la stessa preda: l'uomo.
Tutte le donne, eccetto sua madre.
Elena O'Hara era diversa, e Rossella la considerava come qualche cosa di sacro, fuori da tutto il resto del genere umano. Da bambina confondeva sua madre con la Vergine Maria, ed ora che era grande non vedeva ragione di mutare la sua opinione. Per lei Elena rappresentava la completa sicurezza che solo il cielo o una madre possono dare. Ella sapeva che sua madre era la personificazione della giustizia, della verità, della tenerezza affettuosa e della profonda saggezza: una gran dama.
Rossella desiderava molto di essere come sua madre. La sola difficoltà era che essendo giuste e sincere, tenere e altruiste, si lasciavano sfuggire la maggior parte delle gioie della vita e senza dubbio si allontanavano molti corteggiatori. La vita era troppo breve per rinunciare a tante cose piacevoli. Un giorno, quando avesse sposato Ashley e fosse vecchia, un giorno, quando ne avrebbe il tempo, cercherebbe di essere come Elena. Ma fino allora...
NOTE.
Nota 1: "Orangeman" (orangista): membro di una società istituita in Irlanda nel 1795 per sostenere il protestantesimo, cioè la causa di Guglielmo d'Orange; società che divenne segreta dopo la sua soppressione ufficiale, nel 1835, in seguito a una lunga inchiesta parlamentare.
4
Quella sera a cena, Rossella adempì scrupolosamente il compito di presiedere la tavola in assenza di sua madre; ma il suo cervello era in fermento per la tremenda notizia che aveva udito su Ashley e Melania. Aveva un disperato desiderio che la mamma tornasse dalla casa degli Slattery, perché senza di lei si sentiva sola e smarrita. Che diritto avevano gli Slattery con le loro eterne malattie di portar via Elena dalla casa, proprio quando Rossella aveva tanto bisogno di lei?
Durante il pasto malinconico la voce rumorosa di Geraldo continuò ad assordarla fino a diventarle insopportabile. Egli aveva completamente dimenticato la sua conversazione con lei, e continuava in una specie di monologo intorno alle ultime notizie del Forte Sumter, che punteggiava a colpi di pugno sulla tavola e agitando in aria le braccia.
Geraldo aveva l'abitudine di dominare la conversazione quando si era a tavola, e di solito Rossella, immersa nei propri pensieri, lo udiva appena. Ma stasera non poteva farne a meno, per quanto fosse tesa ad ascoltare il rumore della carrozza che avrebbe annunciato il ritorno di Elena. Certo non direbbe a sua madre che cosa le pesava sul cuore, perché Elena sarebbe stata addolorata e scandalizzata nell'udire che una sua figlia desiderava un uomo fidanzato a un'altra ragazza. Ma nella profondità della prima tragedia della sua vita, ella desiderava il conforto della presenza di sua madre. Si sentiva sempre sicura quando Elena era accanto a lei, perché non vi era nulla di così doloroso che Elena non potesse attenuare, soltanto con la sua presenza.
Si alzò improvvisamente dalla sedia a un rumore di ruote sulla ghiaia del viale, ma ricadde a sedere sentendo che il veicolo girava dietro alla casa. Non poteva essere Elena, perché essa si sarebbe fermata davanti alla scalinata. Vi fu poi nell'oscurità del cortile un vocio eccitato di negri e una stridula risata negra. Guardando dalla finestra Rossella vide Pork, il quale aveva lasciato la stanza un momento prima, che sollevava una fiaccola accesa, mentre da un carretto scendevano delle figure che ella non riusciva a distinguere. Le risa e le parole divennero più forti e nell'aria notturna furono voci cordiali e spensierate, gutturalmente dolci o musicalmente acute.
Poi dei piedi nudi salirono le scale del portico posteriore e attraversarono il passaggio che conduceva alla casa principale, fermandosi nel vestibolo proprio dinanzi alla sala da pranzo. Qualche mormorio, quindi Pork entrò senza la sua consueta dignità, ma con gli occhi ridenti e tutti i denti bianchi splendenti in un sorriso.
- Mister Gerald - annunciò ansimando, con tutto l'orgoglio di uno sposo sul viso lucente. -Vostra nuova donna essere venuta. -
- Nuova donna? Io non ho comprato nessuna donna, - dichiarò Geraldo fingendo una gran serietà.
- Sissignore, tu avere comprata Mister Gerald! Sissignore! e adesso è lì fuori e desiderare parlarti. - replicò Pork ridacchiando e stropicciandosi le mani tutto eccitato.
- Bene, fai entrare la sposa, - disse Geraldo. E Pork, volgendosi fece cenno di entrare a sua moglie, che era appena arrivata dalla piantagione di Wilkes per venire a far parte del personale di Tara. Ella entrò e dietro a lei, quasi nascosta dalla sua voluminosa sottana di percalle, entrò una bimba di dodici anni attaccata alle gambe di sua madre.
Dilcey era alta e aveva un portamento eretto. Poteva avere qualsiasi età dai trenta ai sessanta, tanto era priva di rughe la sua immobile faccia bronzea. Il sangue indiano era evidente nei suoi lineamenti, equilibrando le caratteristiche negroidi. Il colore rosso della sua pelle, la fronte stretta, gli zigomi sporgenti e il naso arcuato che s'incurvava sulle rosse labbra da negra, mostravano la mescolanza delle due razze. Era sicura di sé e camminava con una dignità che superava perfino quella di Mammy, perché Mammy l'aveva acquistata, mentre Dilcey l'aveva nel sangue.
Quando parlava, la sua voce non era tanto strascicata come quella della maggior parte dei negri ed ella sceglieva le parole con più cura.
- Buona sera, miss. Mister Gerald, mi dispiace di disturbarvi, ma volevo venire a ringraziare per aver comprato me e la mia bambina. Molti signori mi avrebbero comprata, ma non volevano comprare la mia Prissy, e io ringraziare per questo. Farò del mio meglio per voi per mostrare che non dimenticherò.-
- Uhm!... hurrump - fece Geraldo schiarendosi la gola per l'imbarazzo di essere sorpreso pubblicamente a compiere un atto di bontà. Dilcey si volse a Rossella e qualche cosa come un sorriso increspò gli angoli dei suoi occhi. - Miss Rossella, Pork mi ha detto che voi avere convinto mister Geraldo a comprarmi; perciò vi darò la mia Prissy come vostra cameriera personale. -
Si volse e trasse avanti la bambina. Era una piccola creatura bruna con le gambe scarne come un uccellino e una quantità di treccine accuratamente e rigidamente attorcigliate intorno alla testa. Aveva occhi acuti e penetranti a cui non sfuggiva nulla, e un'espressione studiatamente stupida.
- Grazie, Dilcey - disse Rossella, - ma temo che Mammy troverà da ridire. È la mia cameriera da quando sono nata. -
- Mammy si persuaderà - replicò Dilcey con una calma che avrebbe esasperato Mammy. - È una brava bambinaia, ma voi siete ora una signorina e avere bisogno di una buona cameriera, e la mia Prissy ha fatto quest'ufficio presso Miss Lydia per un anno. Sa cucire e pettinare come una grande. - Stimolata da sua madre Prissy si piegò a un rapido inchino e sorrise a Rossella la quale non poté fare a meno di ricambiare il sorriso.
"Dev'essere furba" pensò; e ad alta voce disse: - Grazie, Dilcey; vedremo quando la mamma viene a casa. -
- Grazie, miss; vi auguro la buona notte - salutò Dilcey; e voltandosi lasciò la stanza con la bambina, mentre Pork ballonzolava di gioia.
Sparecchiata la tavola, Gerald riprese il suo discorso, ma con scarsa soddisfazione per se stesso e punta per l'uditorio. Le sue tonanti predizioni di guerra immediata e le sue retoriche domande se il Sud avrebbe tollerato ulteriori insulti dagli yankees. ottennero soltanto dei deboli e annoiati "sì, papà" e "no, papà" in Carolene, seduta su una stuoia sotto una grande lampada, era sprofondata nel romanzo di una ragazza che aveva preso il velo dopo la morte del suo innamorato e con lagrime silenziose che le sgorgavano dagli occhi si figurava con piacere se stessa in cuffia bianca. Susele, ricamando quello che gaiamente chiamava il suo corredo, rifletteva se le sarebbe stato possibile staccare Stuart Tarleton da sua sorella al convito di domani e a affascinarlo con le dolci qualità femminili che essa possedeva e Rossella no.
E Rossella pensava ad Ashley.
Come poteva papà continuare a parlare di Forte Sumter e degli yankees sapendo che il suo cuore era spezzato? Come succede nei giovanissimi, ella si stupiva che gli altri potessero essere così egoisti da non pensare a lei e che il mondo continuasse a girare malgrado il suo crepacuore.
Le sembrava che il suo cervello fosse stato percosso da un ciclone, e trovava strano che la stanza da pranzo ove sedevano fosse così tranquilla e immutata da come era sempre. La pesante mobilia di mogano, l'argenteria massiccia, i tappeti di vivo colore sul pavimento lucido, tutto era al suo solito posto come se nulla fosse avvenuto. Era una stanza comoda e accogliente e generalmente Rossella amava le ore tranquille che la famiglia vi trascorreva dopo cenato; ma stasera la odiava, e se non avesse temuto le domande tonanti del padre, sarebbe sgusciata via attraverso il vestibolo buio nello studietto di Elena per piangere sul vecchio divano tutto il suo dolore.
Era quella la stanza che Rossella preferiva in tutta la casa. Quivi Elena sedeva ogni mattina dinanzi alla grande scrivania, a riordinare la contabilità della piantagione, e ad ascoltare i rapporti di Giona Wilkerson, il sorvegliante. Quivi anche la famiglia oziava mentre la penna d'oca di Elena scriveva sui suoi registri; Geraldo nella vecchia poltrona a dondolo e le ragazze sui logori cuscini del divano che era troppo sciupato per arredare le stanze principali.
Rossella non desiderava altro ora che essere in quella stanza, solo con Elena, in modo da poter mettere il capo nel grembo di sua madre e piangere in pace. Ma non tornava mai la mamma?
Ed ecco la ghiaia stridere sotto le ruote e la dolce voce di Elena che licenziava il cocchiere. Tutto il gruppo alzò la testa ansiosamente mentre ella entrava frettolosa, facendo ondeggiare le sue gonne, col viso stanco e triste. Con lei entrò la tenue fragranza di verbena che sempre esalava dalle pieghe dei suoi abiti, una fragranza che nella mente di Rossella si collegava sempre col pensiero di sua madre. Mammy seguiva a qualche passo di distanza, con la borsa di cuoio in mano, il labbro inferiore sporgente e la fronte bassa. Borbottava fra sé nell'avanzare, badando che le sue osservazioni fossero abbastanza sommesse da non essere comprese, ma abbastanza forti per far comprendere la sua assoluta disapprovazione.
- Mi dispiace di essere così in ritardo, - disse Elena togliendosi dalle spalle lo scialle di lana e porgendolo a Rossella che aveva accarezzato sulla guancia nel passare.
La faccia di Geraldo si illuminò al suo entrare.
- E' battezzato il piccolo? - chiese.
- Sì, ed è anche morto, povera creatura. Temevo che Emma lo seguisse, ma spero che vivrà. -
I volti delle ragazze si volsero a lei, sgomenti e interrogativi, mentre Geraldo crollava il capo filosoficamente.
- Beh, è meglio che sia morto il bimbo; ma senza dubbio il povero padre...-
- E' tardi, è meglio che diciamo le preghiere adesso.- interruppe Elena così dolcemente che, se Rossella non avesse conosciuto bene sua madre, l'interruzione sarebbe passata inosservata.
Sarebbe stato interessante sapere chi era il padre del bambino di Emma Slattery, ma Rossella era sicura che non avrebbe mai appreso la verità se aspettava di udirla da sua madre. Rossella sospettava di Giona Wilkerson, perché lo aveva spesso veduto passeggiare sulla strada con Emma al cader della notte. Giona era Yankee e scapolo, e il fatto che egli fosse un sorvegliante metteva una insormontabile barriera fra lui e la vita sociale della Contea. Non vi era famiglia per bene che avrebbe acconsentito a dargli la figliola in moglie, né vi erano persone con le quali egli potesse far lega, eccetto gli Slattery e altra gente come loro. Siccome egli aveva un'educazione molto superiore a quella di costoro, era naturale che egli non pensasse di sposare Emma, per quanto andasse frequentemente a spasso con lei al crepuscolo.
Rossella sospirò perché la sua curiosità era vivissima. Ogni cosa accadeva sempre sotto gli occhi di sua madre, la quale ignorava tutto ciò che era contrario alle sue idee di proprietà e convenienza, e cercava di inculcare gli stessi principi a Rossella, ma con scarso successo.
Elena si era avvicinata al caminetto per prendere il suo rosario dalla scatoletta in cui era sempre, quando Mammy parlò con fermezza.
- Miss Elena, dovere prendere qualche cosa prima di pregare.-
- Grazie, Mammy, ma non ho fame.-
- Andare a preparare qualche cosa e tu mangerai, - disse Mammy con la fronte aggrottata per l'indignazione; e si avviò per il vestibolo verso la cucina. - Pork, dire a cuoca di preparare piatti. Badrona essere tornata.-
Mentre le assi del pavimento scricchiolavano sotto il suo peso, il soliloquio che aveva cominciato a borbottare quando era entrata, diventò più forte ed intelligibile, giungendo chiaramente alle orecchie della famiglia nella stanza da pranzo.
- Avere sempre detto io che essere inutile fare qualche cosa per quegli straccioni. Essere bersone più ingrate e più inette del mondo, e Miss Elena non dovrebbe occupare sé e affannare ad assistere gente che poi dire che ha i negri per assisterli. E avere detto...-
La sua voce si allontanò nel lungo passaggio aperto ai lati e coperto dal tetto che conduceva nella cucina. Mammy aveva un suo metodo per far conoscere esattamente ai suoi padroni il proprio pensiero.
Era convinta che la dignità dei signori bianchi impediva loro di prestare la più lieve attenzione a ciò che faceva un negro quando borbottava fra sé. E sapeva che per salvaguardare questa dignità essi dovevano ignorare quello che lei diceva, anche se era nella stanza accanto e gridava. Ciò le evitava dei rimproveri e nello stesso tempo non lasciava dubbi in loro su quelle che erano le sue vedute su ogni argomento.
Pork entrò nella stanza portando un piatto, una tovaglia e le posate. Era seguito da Jack, un piccolo negro di dieci anni che si abbottonava frettolosamente la giacca di tela bianca con una mano, e portava nell'altra uno scacciamosche fatto di strisce di giornali, legato a un bastone più lungo di lui. Elena aveva un bello scacciamosche di penne di pavone, ma questo si usava soltanto in occasioni speciali, e soltanto dopo lotte domestiche, dovute all'ostinata convinzione di Pork, di Mammy e della cuoca, che le penne di pavone portavano disgrazia.
Elena sedette sulla sedia che Geraldo avanzò per lei e quattro voci la investirono.
- Mamma, il merletto del mio nuovo abito da ballo è strappato. Vorrei metterlo domani sera alle Dodici Querce: mi fai il piacere di aggiustarlo? -
- Mamma, l'abito di Rossella è più bello del mio; e io in rosa sono uno spauracchio. Perché non mette lei il mio vestito rosa e mi lascia mettere il suo verde? Lei sta benissimo vestita di rosa.-
- Mamma, posso restare alzata domani sera per il ballo? Oramai ho tredici anni...-
- Elena, crederesti...Zitte, ragazze, altrimenti vi faccio assaggiare il mio frustino! Cade Calvert è stato stamattina ad Atlanta e dice... Volete tacere una buona volta. Non sento neanche la mia voce! E dice che tutti sono sottosopra e non parlano che di guerra; la milizia fa gli esercizi militari e si formano nuove truppe. E dice che secondo ultime notizie di Charleston non si vogliono più sopportare insulti dagli yankees. -
La bocca stanca di Elena sorrise nel tumulto; per primo ella si rivolse a suo marito, come è il dovere di ogni moglie.
- Se quei gentiluomini di Charleston la pensano così, sono sicura che fra breve tutti saremo della stessa idea - disse, poiché era fermamente convinta che, ad eccezione di Savannah, la maggior parte della gente bennata di tutto il continente si trovava in quella piccola città marittima; opinione fermamente condivisa dai Charlestoniani.-
- No, Carolene; l'anno venturo. Allora potrai rimanere alzata quando si balla e portare gli abiti lunghi; e come si divertirà la mia piccola melarosa! Non fare il broncio, tesoro. Puoi andare al pic-nic, ricordatelo, e rimanere alzata fino all'ora di cena; ma sino a quattordici anni, niente balli. -
- Dammi il tuo abito, Rossella. Rammenderò il merletto dopo la preghiera.-
- Susele, non mi piace questo tono. Il tuo vestito rosa è carino e ti sta bene, come a Rossella sta bene il suo. Ma domani sera puoi mettere la mia collana di granate.-
Susele fece, dietro le spalle di sua madre, una smorfia di trionfo a Rossella, la quale aveva progettato di chiedere la collana per sé. Rossella le mostrò la lingua. Susele era una sorella noiosa con le sue lamentele e il suo egoismo; e se non vi fosse stata la mano di Elena a frenarla, Rossella l'avrebbe schiaffeggiata tutti i momenti.
- Ora, Mister O'Hara dimmi qualche altra cosa di quello che Calvert ha raccontato di Charleston.-
Rossella sapeva che a sua madre non importava nulla della guerra e della politica, ritenendole faccende maschili di cui una donna intelligente non si doveva preoccupare. Ma Geraldo parlava volentieri di queste cose, e Elena cercava sempre di far piacere a suo marito.
Mentre Geraldo si lanciava nuovamente nel suo argomento favorito, Mammy posò i piatti dinanzi alla padrona: petto di pollo fritto, biscotti e una patata dolce aperta e fumante, sgocciolante di burro sciolto. Mammy diede un pizzicotto al piccolo Jack, e questi si affrettò al suo compito, agitando lentamente i nastri di carta dietro a Elena. La negra rimase accanto alla tavola. osservando ogni boccone che dal piatto andava alla bocca, come se volesse spingere per forza il cibo nella gola di Elena, se questa avesse accennato a smettere di mangiare. Elena mangiava senza neppur capire che cosa metteva in bocca; era troppo stanca. Ma il volto implacabile di Mammy la costringeva a inghiottire.
Vuotato il piatto e mentre Geraldo era appena a metà delle sue elucubrazioni sul ladrocinio degli yankees che volevano la libertà degli schiavi, ma senza pagare un penny per questo, Elena si alzò.
- Dobbiamo dir le preghiere? - interrogò egli, riluttante.
- Sì; è tardi. Senti? Sono le dieci. - In quel momento l'orologio batté le ore coi suoi rintocchi rauchi. -Carolene dovrebbe essere a letto da un pezzo. La lampada, Pork, per favore; e tu, Mammy, dammi il mio libro di preghiere. -
Istigato dal rauco sussurro di Mammy, Jack mise il suo scacciamosche in un angolo e tolse i piatti, mentre Mammy frugava nel cassetto della credenza per cercare il logoro libro di preghiere di Elena. Pork si avvicinò in punta di piedi e tirò giù lentamente la lampada finché l'angolo della tavola fu brillantemente illuminato mentre il soffitto sembrava ritrarsi nell'ombra. Elena si rassettò le gonne e cadde in ginocchio sul pavimento, mettendo il libro aperto sulla tavola dinanzi a sé e giungendovi sopra le mani. Geraldo si inginocchiò accanto a lei; Rossella e Susele presero i loro posti consueti al lato opposto della tavola, raccogliendo le loro gonne voluminose come un cuscino sotto alle ginocchia, in modo che dolessero meno per il contatto col pavimento. Carolene, che era piccola per la sua età, non si poteva inginocchiare comodamente presso la tavola e perciò si poneva dinanzi una sedia, coi gomiti sul sedile. Le piaceva questa posizione perché generalmente si addormentava durante le preghiere; collocata in quel modo, sfuggiva agli occhi della mamma.
I servi della casa si affollarono sospingendosi nel vestibolo per inginocchiarsi dinanzi alla porta, Mammy gemendo nel curvarsi, Pork dritto come un fuso, Rosa e Tina, le cameriere, graziose nelle larghe vesti di percalle a vivi colori, Cora, la cuoca, magra e gialla sotto il fazzoletto bianco che portava sul capo, e Jack, istupidito dal sonno, il più lontano possibile dalle dita spietate di Mammy. I loro occhi scuri brillavano di attesa, perché la preghiera insieme ai bianchi era uno degli avvenimenti della giornata. Le frasi vecchie e piene di colore delle Litanie, con la loro orientale ricchezza d'immagini, non avevano significato per loro, ma davano una certa soddisfazione ai loro cuori, ed essi chinavano il capo cantando le risposte "Kyrie eleison" e "ora pro nobis".
Elena chiuse gli occhi e cominciò a pregare; la sua voce si elevava e si abbassava, cullava e molceva. Le teste si curvavano nel cerchio di luce gialla mentre ella ringraziava Dio per la ricchezza e la felicità della sua casa, della sua famiglia e dei suoi schiavi.
Dopo aver terminato di pregare per quelli che vivevano sotto il tetto di Tara, per suo padre, madre, sorelle, per i tre bimbi morti e per le "anime del Purgatorio" strinse fra le lunghe dita la corona e cominciò il rosario. Come il fruscio di un dolce venticello si udiva il mormorio delle risposte delle gole bianche e di quelle nere:
"Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte. Così sia".
Malgrado il suo mal di capo e la sofferenza delle lagrime represse, un senso profondo di quiete e di pace discese su Rossella, come sempre a quell'ora. Un po' delle delusioni della giornata e del timore dell'indomani scomparivano lasciando posto a un sentimento di speranza. Non era l'elevazione dell'anima a Dio che recava questo balsamo, perché in lei la religione non andava al di là delle preghiere mormorate a fior di labbro, ma piuttosto la vista della faccia serena di sua madre rivolta verso il trono di Dio, coi suoi angeli e i suoi santi, a chiedere la benedizione per tutti quelli che amava. Quando Elena parlava col cielo, Rossella era sicura che il cielo la ascoltava.
Elena terminò; e Geraldo che non riusciva mai a trovare il suo rosario al momento delle preghiere, cominciò a contare le avemarie sulle dita. Mentre la sua voce tuonava, i pensieri di Rossella cominciarono suo malgrado a vagabondare. Sapeva che avrebbe dovuto fare l'esame di coscienza; Elena le aveva insegnato che alla fine di ogni giornata bisognava esaminare attentamente la propria coscienza, riconoscere le proprie colpe e pregare il buon Dio di averne il perdono e la forza di non più ripeterle. Ma Rossella esaminava il proprio cuore.
Lasciò cader la testa sulle mani giunte, in modo che la madre non potesse vederla in viso, e il suo pensiero tornò tristemente ad Ashley. Come poteva egli progettare di sposar Melania mentre amava lei, Rossella? E mentre sapeva quanto ella lo amava? Come poteva volontariamente spezzarle il cuore?
E ad un tratto un'idea le attraversò il cervello come un lampo di luce.
"Ma Ashley non sa affatto che io lo amo!"
Ebbe un sussulto: la sua mente rimase come paralizzata per un lungo momento durante il quale non respirò neppure; quindi prese l'aire.
"Come potrebbe saperlo? Mi sono sempre comportata con tanta riservatezza, così da signora e così 'lasciatemistare' che probabilmente egli immagina che non m'importi nulla di lui se non come amico. Sì, per questo non ha mai parlato! Crede che il suo amore sia senza speranza. E perciò aveva l'aria tanto..."
La sua mente tornò velocemente al tempo in cui lo aveva sorpreso a guardarla in modo strano, quando gli occhi grigi che nascondevano così bene i suoi pensieri le erano apparsi spalancati in espressione di tormento e di disperazione.
"Sarà disperato perché crede che io sia innamorata di Brent o di Stuart o di Cade. E probabilmente ha pensato che dal momento che non può sposare me, tanto vale che accontenti la sua famiglia sposando Melania. Ma se sapesse che io lo amo..."
Il suo spirito volubile passò dalla più profonda depressione alla felicità più vibrante. Questa era la ragione della reticenza di Ashley, della sua strana condotta. Egli non sapeva! La sua vanità venne in aiuto al suo desiderio di credere e questo desiderio divenne realtà. Se egli sapesse che lei lo ama, accorrerebbe accanto a lei. Ella non doveva che...
"Oh!" pensò in estasi premendosi le dita sulla fronte china. "Come sono stata sciocca a non pensare a questo fino ad ora! Debbo trovare il modo di farglielo sapere. Non la sposerebbe se sapesse che io lo amo! Come potrebbe?"
Con un sobbalzo si accorse che Geraldo aveva finito e che gli occhi di sua madre erano fissi su lei. Cominciò in fretta la sua decina, sgranando le avemarie automaticamente ma con una profondità di emozione nella voce che costrinse Mammy ad aprir gli occhi e a lanciarle uno sguardo inquisitivo. Quando ebbe terminato la sua decina e Susele e poi Carolene dissero le loro, la sua mente ricominciò a correre dietro al nuovo pensiero che l'aveva invasa.
Non era ancora troppo tardi! Quante volte la Contea era stata scandalizzata dalla fuga di due innamorati quando uno o l'altro dei due era quasi davanti all'altare con un terzo! E il fidanzamento di Ashley non era ancora stato neanche annunciato! Sì, vi era tutto il tempo!
Se non vi era amore fra Ashley e Melania, ma soltanto una promessa data tanto tempo fa, perché non avrebbe egli potuto sciogliersi dalla promessa e sposare lei? Certamente lo farebbe, se sapesse che lei, Rossella, lo amava. Doveva trovare il modo di farglielo sapere! E ora...
Si svegliò bruscamente dal suo sogno di felicità, perché aveva trascurato di rispondere alle preghiere e sua madre la stava guardando con aria di rimprovero. Nel riprendere il rituale, aperse un attimo gli occhi e lanciò un rapido sguardo intorno alla stanza. Le figure inginocchiate, il quieto splendore della lampada, l'ombra in cui i negri si inchinavano, perfino gli oggetti familiari che un'ora prima le erano sembrati odiosi, presero in un momento il colore delle sue nuove emozioni e la stanza le sembrò ancora una volta un luogo piacevole. Non dimenticherebbe mai quel momento e quella scena.
- "Virgo fidelissima" - intonò sua madre. Le litanie della Vergine erano cominciate e Rossella rispondeva obbedientemente:- "Ora pro nobis" - mentre Elena, col suo dolce contralto, lodava gli attributi della Madre di Dio.
Come sempre fin dall'infanzia, questo era per Rossella il momento dell'adorazione per Elena anziché per la Madonna. Per quanto ciò potesse esser sacrilego, Rossella vedeva sempre, attraverso gli occhi chiusi, il volto di Elena e non la Beata Vergine mentre si ripetevano le antiche frasi. "Salus infirmorum... Refugium peccatorum... Sedes sapientiae... Rosa mystica..." erano belle parole perché erano gli attributi di Elena. Ma stasera, a causa dell'esaltazione del suo spirito, Rossella trovò in tutto il cerimoniale, nelle parole mormorate dolcemente, nel mormorio delle risposte, una bellezza che superava tutto ciò che aveva conosciuto prima. E il suo cuore si volse a Dio in sincero ringraziamento perché dinanzi ai suoi piedi si era aperto un sentiero... una strada che la conduceva fuori dalla sua miseria, dritta fra le braccia di Ashley.
Dopo l'ultimo "amen" tutti si alzarono, qualcuno un po' faticosamente. Mammy riuscì a rimettersi in piedi mediante gli sforzi combinati di Tina e di Rosa. Pork prese dalla mensola del caminetto un lungo cerino, lo accese alla fiamma della lampada e si avviò per il vestibolo. Di faccia alla scala era una credenza di noce, troppo grande per la stanza da pranzo; sulla scansia superiore erano diverse lampade e una lunga fila di candele ficcate nei candelieri. Pork accese una lampada e tre candele e, con la pomposa dignità di un primo ciambellano della camera reale che accompagna il re e la regina nella camera da letto, precedette la processione per le scale, sollevando il lume in alto. Elena lo seguiva al braccio di Geraldo, e dopo di loro venivano le ragazze, ciascuna con un candeliere in mano.
Rossella entrò nella sua stanza, posò il candeliere sul cassettone e frugò nell'armadio per prendere l'abito da ballo che bisognava aggiustare. Se lo gettò sul braccio e attraversò silenziosamente il pianerottolo. La porta della stanza da letto dei suoi genitori era semiaperta, e prima che ella avesse bussato, udì la voce di Elena bassa ma severa.
- Mister O'Hara, devi licenziare Giona Wilkerson.-
Geraldo esplose: - E dove vado a prenderlo un altro sorvegliante che non mi truffi e non mi derubi? -
- Bisogna licenziarlo, immediatamente, domani mattina. Il grosso Sam è un buon caposquadra e può occuparsi di tutto finché tu non trovi un altro sorvegliante.-
- Ah, ah! - era la voce di Geraldo. - Capisco! È il bravo Giona che è il padre...-
- Bisogna licenziarlo.-
"Dunque è lui il papà del bambino di Emma Slattery" pensò Rossella. "Sfido! Che altro ci si può aspettare da uno yankee e da una ragazza di quel genere?"
Quindi, dopo una pausa discreta che diede tempo a Geraldo di smettere di borbottare, picchiò alla porta e porse l'abito a sua madre.
Mentre si svestiva, Rossella rifletteva; e quando spense la candela il suo progetto per l'indomani era completo in ogni particolare. Era facilissimo, perché con la semplicità di spirito che aveva ereditato da Geraldo, i suoi occhi erano fissi soltanto sulla meta, ed ella pensava soltanto al mezzo più diretto per raggiungerla.
Prima di tutto, sarebbe orgogliosa, come aveva ordinato Geraldo. Dal momento del suo arrivo alle Dodici Querce sarebbe più allegra e più spiritosa che mai. Nessuno sospetterebbe che ella era stata addolorata per il matrimonio di Ashley con Melania; e civetterebbe con tutti quanti. Questo tormenterebbe Ashley, ma lo farebbe spasimare per lei. Non trascurerebbe nessuno degli scapoli, dal vecchio Franco Kennedy, che era il corteggiatore di Susele, fino al tranquillo e timido Carlo Hamilton, fratello di Melania, il quale arrossiva così facilmente. Ronzerebbero attorno a lei come api attorno all'alveare, e certamente Ashley lascerebbe Melania per unirsi al circolo dei suoi ammiratori. E allora, ella manovrerebbe in modo da rimanere qualche minuto sola con lui, lontana dalla folla. Sperava che tutto andasse bene; altrimenti la cosa sarebbe stata difficile. Ma se Ashley non faceva il primo passo, lo farebbe lei.
Quando fossero finalmente soli, egli avrebbe ancora dinanzi agli occhi il quadro degli altri uomini che le giravano attorno; sarebbe impressionato dal fatto che ognuno di coloro la desiderava, e lo sguardo triste e disperato riapparirebbe nei suoi occhi. Allora ella lo renderebbe nuovamente felice, lasciandogli scoprire che pure avendo tanti spasimanti, lo preferiva a tutti gli uomini del mondo. E dopo aver ammesso questo, pudicamente e dolcemente, si sorveglierebbe con attenzione comportandosi in tutto come una signora. Certo non le verrebbe neanche in mente di dirgli audacemente che lo amava; questo no. Ma questo era un particolare che non la turbava. Aveva già sbrogliato simili situazioni altre volte e lo farebbe ancora.
A letto, col chiaro di luna che la bagnava tutta, si figurò la scena. Vedeva l'espressione di sorpresa e di felicità che gli illuminerebbe il volto nel momento in cui Ashley avrebbe compreso che ella lo amava, e udiva le parole che egli le direbbe chiedendole di essere sua moglie.
Naturalmente essa gli risponderebbe che non poteva pensare a sposare un uomo che era fidanzato con un'altra, ma egli insisterebbe; e finalmente lei si lascerebbe persuadere. Allora deciderebbero di andar a Jonesboro nello stesso pomeriggio e...
Sicuro, domani sera a quest'ora lei poteva essere la signora Ashley Wilkes.
Sedette sul letto abbracciandosi le ginocchia, e per un momento fu veramente la signora Ashley Wilkes... la sposa di Ashley! che felicità! Ma subito dopo sentì un po' di freddo al cuore. E se le cose non andassero così? Se Ashley non le proponesse di fuggire con lui? Respinse decisamente questo pensiero.
- Non voglio pensare a questo, adesso - disse decisamente. - Se ci penso, mi conturbo troppo. Non vi è ragione che le cose non vadano come io desidero... se Ashley mi ama; e so che mi ama! -
Sollevò il mento e i suoi occhi dalle lunghe ciglia nere brillarono nel chiaro di luna. Elena non le aveva mai detto che desiderio e raggiungimento sono due cose diverse; la vita non le aveva insegnato che il correre non sempre significa raggiungere il palio. Rimase nella luce argentea col coraggio che si rafforzava sempre più e facendo i progetti che una sedicenne può fare quando la vita è sempre stata per lei così piacevole che ogni sconfitta pare impossibile, e un bell'abito e una fresca carnagione sono per lei le armi che vincono il destino.
5
Erano le dieci di mattina di una calda giornata d'aprile. Il sole d'oro entrava a fiotti nella camera di Rossella attraverso le cortine azzurre della finestra spalancata. Le pareti gialline brillavano di luce e i mobili di mogano avevano riflessi di un rosso vinoso, mentre il pavimento splendeva come fosse di vetro, eccetto dove i tappeti lo coprivano con grandi macchie di colori vivaci.
L'estate era già nell'aria, il primo annuncio dell'estate georgiana quando la primavera si ritrae riluttante davanti a un calore più ardente. Un dolce tepore balsamico penetrava nella stanza, pesante di profumi vellutati, fragrante di fiori, di germogli e della rossa terra appena arata. Attraverso la finestra Rossella vedeva l'orgia brillante delle bordure di asfodeli lungo il viale inghiaiato e le masse d'oro dei gelsomini gialli che allargavano sul terreno i loro rami fioriti come ampie crinoline.
I merli e le gazze eternamente in lite per il possesso del feudo rappresentato dall'albero di magnolia che era sotto la sua finestra, strepitavano senza posa; le gazze aspre e stridenti, i merli dolci e lamentosi. Generalmente le mattinate così splendide richiamavano Rossella alla finestra, con le braccia spalancate a respirare a larghi polmoni i profumi di Tara. Ma oggi ella non aveva occhi per il sole e per il cielo azzurro, presa com'era da questo pensiero: per fortuna non piove.
Sul letto era la veste da ballo di seta marezzata verde mela, coi festoni di pizzo crema, piegata in una grande scatola di cartone. Era pronta per essere portata alle Dodici Querce, affinché ella potesse indossarla prima che cominciasse il ballo; ma Rossella vedendola crollò le spalle. Se il suo progetto riusciva, stasera ella non indosserebbe quell'abito. Molto prima che il ballo avesse inizio, lei e Ashley sarebbero sulla via di Jonesboro per andarsi a sposare.
Ora il problema era questo: che abito doveva mettere per il banchetto all'aperto? Quale abito metterebbe meglio in rilievo il suo fascino e la renderebbe più irresistibile agli occhi di Ashley? Fin dalle otto non aveva fatto che provare abiti e scartarli; ed ora, avvilita e irritata, stava davanti allo specchio in mutandine di pizzo, busto di tela e tre sbuffanti sottovesti di battista e merletto. Attorno a lei gli abiti scartati erano sul pavimento, sul letto, sulle sedie, formando gaie macchie di colore, striate dai nastri che li guarnivano.
Quello di organza rossa con la lunga sciarpa color fragola, le stava bene, ma lo aveva già portato l'estate scorsa quando Melania era venuta alle Dodici Querce; e certamente quella se ne ricordava. E poteva essere abbastanza inopportuna da notarlo. Quello di trapuntato nero, con le maniche a sbuffo e la collaretta di trina, faceva risaltare mirabilmente la sua pelle bianca, ma la faceva apparire un pochino più vecchia. Rossella scrutò ansiosamente nello specchio il suo volto di sedici anni quasi come se temesse di scorgervi delle rughe o il doppio mento. Non avrebbe mai voluto apparire meno fresca accanto alla dolce giovinezza di Melania. Quello di mussolina color lavanda era bello, con le ampie incrostazioni di trina e tulle, ma non era mai stato adatto al suo tipo. Starebbe bene al delicato profilo di Carolene e alla sua espressione di fragilità; ma Rossella sapeva che a lei quel vestito dava l'aria di una scolaretta. E non voleva certo apparire troppo infantile accanto alla tranquilla posatezza di Melania. Il taffetà verde a quadri, tutto a volani, orlati di nastro di velluto verde, le si addiceva molto ed era infatti il suo abito favorito perché dava ai suoi occhi i riflessi dello smeraldo; ma disgraziatamente aveva proprio sul davanti una inequivocabile macchia di grasso. Avrebbe potuto nasconderla con la spilla, ma forse Melania aveva la vista buona. Rimanevano svariati abiti di cotone, che a Rossella non sembravano abbastanza eleganti per l'occasione; gli abiti da ballo e quello di mussolina a fiori che indossava ieri. Anche questo, però, era un abito da pomeriggio non adatto per un pic-nic, perché aveva le maniche corte a sbuffo e la scollatura troppo profonda. Ma non c'era nulla da fare: bisognava mettere quello. Dopo tutto non si vergognava del suo collo, delle sue braccia, e del suo petto, anche se non era corretto metterli in mostra di mattina. Guardandosi nello specchio e girandosi per vedersi di fianco, si disse che nella sua figura non vi era nulla di cui potesse vergognarsi. Il suo collo era corto ma rotondo, le sue braccia pienotte e seducenti, il seno, spinto in alto dal busto, era veramente bello. Non aveva mai avuto bisogno di cucire nella fodera dei suoi corpetti striscioline di seta increspata, come facevano molte ragazze di sedici anni per dare alle loro figure la pienezza e le curve desiderate. Era felice di avere ereditato le candide mani sottili e i piedini di Elena, e avrebbe voluto averne anche la statura. Ma comunque, la sua altezza la soddisfaceva abbastanza. Che peccato non poter mostrare le gambe pensò sollevando la gonna e osservandole con rimpianto, dritte e ben formate, sotto le mutandine. Aveva delle gambe tanto carine: lo riconoscevano perfino le ragazze del collegio di Fayetteville. Quanto alla vita, nessuno a Fayetteville, Jonesboro o nelle tre Contee poteva vantarsi di averla più sottile.
Il pensiero della cintura la ricondusse a cose più pratiche. L'abito di mussolina verde aveva una cintura di quaranta centimetri, e Mammy le aveva allacciato il busto per l'abito di trapuntato che era tre centimetri più largo. Bisognava dunque che Mammy lo stringesse di più. Aperse la, porta, prestò ascolto e udì il passo pesante di Mammy nel vestibolo. La chiamò con impazienza gridando, sapendo di poter alzare la voce con impunità, perché Elena era nella dispensa a distribuire il cibo della giornata.
- Credere che io poter volare - borbottò Mammy affannandosi per le scale. Entrò sbuffando con l'espressione di una che attende la battaglia ed è disposta ad affrontarla. Nelle sue grandi mani nere era un vassoio su cui fumavano due grosse patate dolci coperte di burro, un piatto di focaccine di grano saraceno imbevute di sciroppo e una grande fetta di prosciutto che nuotava nel sugo. Vedendo il carico di Mammy l'espressione di Rossella mutò, passando dall'irritazione all'ostinata bellicosità. Nell'eccitazione di misurare gli abiti ella aveva dimenticato la ferrea regola di Mammy, la quale esigeva che prima di recarsi a qualsiasi riunione le ragazze O'Hara dovevano essere talmente rimpinzate a casa da non poter mangiare nulla al ricevimento.
- E' inutile. Non mangio. Puoi riportarlo in cucina. -
Mammy posò il vassoio sulla tavola e si mise le mani sui fianchi.
- Sì, Miss; mangerai! Mi ricordare troppo bene quello che essere successo all'ultimo pic-nic, quando io ero troppo ammalata per poterti portare il vassoio prima che tu andare via. Dovere mangiare questo senza lasciare nulla. -
- Non lo mangio. Piuttosto vieni qui e allacciami più stretto poiché è già tardi. Sento la carrozza che è già davanti alla casa.-
Il tono di Mammy si fece più dolce: - Via, Miss Rossella, essere buona, mangiare un pochino. Miss Carolene e Miss Susele avere mangiato tutto.-
- Si capisce! - esclamò Rossella con disprezzo. - Hanno il cervello di un coniglio! Ma io no; basta coi vassoi. Mi ricordo ancora quella volta che ho mangiato tutto prima di andare dai Calvert e là fu presentato a tavola un gelato che avevano portato sul ghiaccio fino da Savannah, e io non ne potei mangiare che un cucchiaio. Oggi mi voglio divertire e mangiare quanto mi pare.-
A questa sprezzante eresia Mammy abbassò il capo con indignazione. Nella sua mente ciò che una signorina poteva o non poteva fare era diverso come il bianco dal nero; non vi era fra le due cose alcuna via di mezzo. Susele e Carolene erano una creta molle nelle sue mani vigorose, e ascoltavano rispettosamente i suoi avvertimenti. Ma era sempre stata una lotta per insegnare a Rossella che la maggior parte dei suoi impulsi naturali non erano da signora. Le vittorie di Mammy su Rossella erano conquistate duramente, ed erano il risultato di una scaltrezza sconosciuta ai bianchi.
- Se a te non importare quello che dice la gente, a me importare. - muggì. - E io rimanere qui perché non voglio che tu andare a ricevimento affamata. Ti avere detto e ripetuto che si riconoscere una dama perché mangiare come un uccellino, e io non volere che tu andare dai signori Wilkes per cavarti la fame.-
- La mamma è una signora eppure mangia - ribatté Rossella.
- Quando essere sposata, potrai mangiare anche tu - ritorse Mammy. - Quando miss Elena avere tua età, non mangiare nulla quando usciva; e nemmeno tua zia Paolina e zia Eulalia. E tutte essersi sposate. Signorine che mangiare molto non trovare marito.-
- Non ci credo. A quel pic-nic, quando tu eri ammalata e io non mangiai prima di uscire, Ashley Wilkes mi disse che gli piaceva vedere una ragazza con un appetito sano.-
Mammy crollò la testa minacciosamente.
- Quello che i giovanotti dire e quello che pensare essere due cose diverse; io non mi essere accorta che Mister Ashley avere chiesto di sposarti.-
Rossella aggrottò le ciglia e fece per rispondere aspramente; ma si trattenne. Vedendo l'espressione del suo volto, Mammy riprese il vassoio e con la furberia della sua razza, mutò tattica. Si avviò alla porta sospirando: - E va bene. Avere appunto detto alla cuoca, mentre preparare questo vassoio: "si riconosce una signora da quello che non mangia" e lei avere risposto: "non avere mai visto una signora bianca mangiare meno di quanto mangiare Miss Melly Hamilton l'ultima volta che essere stata a trovare Mister Ashley... voglio dire a trovare Miss Lydia".-
Rossella lanciò un'occhiata sospettosa; ma la larga faccia di Mammy aveva solo un'espressione d'innocenza e di rammarico per il fatto che Rossella non fosse tanto signora quanto Melania Hamilton.
- Metti giù quel vassoio e vieni ad allacciarmi più stretto - ordinò la giovinetta irritata. - Cercherò di mangiare un pochino dopo; se mangio adesso non si può stringere abbastanza il busto.-
Nascondendo il suo trionfo, Mammy posò il vassoio.
- Quale abito mettere? -
- Questo - rispose Rossella indicando il morbido ammasso di mussolina verde a fiori. Istantaneamente Mammy fu in armi.
- Questo no; non essere adatto per mattino. Non potere mostrare il petto prima delle tre pomeridiane e quel vestito non avere colletto né maniche. Ti riempirai di lentiggini come quando sei nata e io non volere che tu tornare ad essere lentigginosa dopo tutto il latte con cui averti spalmata durante inverno per toglierti quelle che esserti presa a Savannah sulla spiaggia. Ora vado a parlare con la mamma.-
- Se le dici una parola prima che io sia vestita, non mangerò neanche un boccone, - rispose Rossella freddamente. - Mamma non avrà il tempo di farmi cambiare abito, una volta che sono vestita.-
Mammy sospirò rassegnata, sentendosi sconfitta. Fra i due mali era meglio che Rossella portasse di mattina un abito da pomeriggio piuttosto che dovesse mangiare come un maialetto.
- Tieniti ferma e trattenere il fiato - ordinò.
Rossella obbedì afferrandosi ad una delle spalliere del letto. Mammy tirò la stringa vigorosamente e quando la sottile circonferenza della cintura racchiusa fra le stecche di balena diventò ancor più sottile, un'espressione di orgoglio e di affetto apparve nei suoi occhi.
- Nessuno avere vita sottile come il mio agnellino - disse soddisfatta. - Ogni volta che stringo Miss Susele oltre i cinquanta centimetri, sviene.-
- Uff... - fece Rossella respirando con difficoltà. - Io non sono mai svenuta in vita mia.-
-Beh, non essere nulla di male se ogni tanto tu avere svenimento - consigliò Mammy. - Non è bello, ti avverto, che tu sopportare la vista dei serpenti e dei topi. Non dico quando essere in casa, ma almeno quando essere in compagnia. E poi...-
- Oh, basta! Non parlare tanto. Il marito lo troverò, vedrai, anche se non grido e non svengo. Dio, come è stretto il mio busto! Infilami il vestito.-
Mammy infilò accuratamente i dodici metri di mussolina verde sulla montagna delle sottovesti e agganciò sul dorso il corpetto scollato.
- Terrai la sciarpa quando essere al sole; e non ti levare il cappello anche se avere caldo - impose. -Altrimenti venire a casa bruna come la vecchia Miss Slattery. Ora mangia, tesoro; ma non mangiare troppo in fretta. -
Rossella sedette ubbidiente dinanzi al vassoio, chiedendosi se le sarebbe stato possibile mettere qualche cosa nello stomaco e avere ancora abbastanza spazio da poter respirare. Mammy prese dall'armadio un largo asciugamano e lo annodò attorno al collo della fanciulla allargandoglielo sul grembo. Rossella cominciò col prosciutto perché le piaceva e si sforzò d'inghiottirlo.
- Dio volesse che io fossi sposata - disse risentita mentre attaccava borbottando le patate dolci. - Sono stanca di dover sempre essere innaturale e di non fare mai quello che mi piace. Sono stanca di fingere di mangiare come un uccello e di passeggiare quando ho voglia di correre, di dire che mi gira la testa dopo un valzer, mentre ballerei due giorni di seguito senza stancarmi. Sono stufa di dire "siete straordinario!" a degli imbecilli che non hanno la metà dell'intelligenza che ho io e di far finta di non saper nulla perché gli uomini possano dirmi delle sciocchezze credendo d'insegnarmi chi sa che cosa... Non posso mangiare neanche un altro boccone.-
- Prova una focaccina calda. - Mammy era inesorabile.
- Perché una ragazza deve far tanta fatica per trovare un marito? -
- Credo che essere perché i giovanotti non sapere quello che vogliono. Sanno soltanto quello che credono di volere. E se dare loro quello che credono di volere, evitare un sacco di dispiaceri e il pericolo di rimaner zitella. E loro credono di volere dei topolini stupidi e che hanno dei gusti da uccelletto. Io pensare che un giovinotto non sceglierebbe mai per moglie una donna se capire che lei ha più intelligenza di lui.-
- E non credi che gli uomini abbiano delle sorprese dopo il matrimonio quando si accorgono che la moglie ne capisce più di loro? -
- Allora essere troppo tardi. Essere già sposati.-
- Un giorno o l'altro mi metterò a fare e dire tutto quello che mi pare; e se alla gente non piace, non me ne importa nulla.-
- Non lo farai - disse gravemente Mammy. - Almeno finché io essere viva. Mangiare la focaccina; intingila nello sciroppo.-
- Non credo che le ragazze yankees facciano di queste sciocchezze. Quando siamo stati a Saratoga, l'anno scorso, ne ho viste tante che si comportavano come se fossero intelligenti, e anche davanti agli uomini.-
Mammy ebbe un riso beffardo.
- Ragazze yankees! Può darsi che parlare e fare come dici tu; ma non ho mai saputo che qualcuna di loro essere stata chiesta in moglie a Saratoga.-
- Ma anche le yankees si sposano - contraddisse Rossella. - Non nascono per opera e virtù dello Spirito Santo. Si sposano e hanno dei figli. Ve ne sono anche troppi.-
- Le sposano per il denaro - replicò Mammy decisa.
Rossella intinse la focaccia nello sciroppo e la mise in bocca. Forse quello che diceva Mammy era giusto. Doveva esserlo, perché Elena diceva la stessa cosa, benché con parole diverse e più delicate. Infatti, le mamme di tutte le ragazze che conosceva instillavano nelle loro figlie la necessità di essere creature fragili, deboli, con occhi da cerbiatta. Occorreva veramente una certa intelligenza per coltivare e conservare quegli atteggiamenti. Forse lei era stata troppo aspra. Aveva avuto occasione di discutere con Ashley e aveva sostenuto con franchezza le proprie opinioni. Forse questo e il sano godimento che ella provava nel cavalcare e nel passeggiare, l'avevano distolto da lei facendolo volgere verso la fragile Melania. Forse se ora mutasse tattica... Ma sentì che se Ashley fosse stato vinto dai premeditati armeggii femminili, ella non lo avrebbe più rispettato come lo rispettava ora. Non valeva la pena di avere un uomo che si lasciava impressionare da un sorriso, da uno svenimento e da un "oh, siete straordinario!" Eppure, sembrava che questo piacesse a tutti.
Se in passato aveva usato una tattica sbagliata... oramai il passato era passato. Oggi ne userebbe un'altra; quella giusta. Lo voleva; e aveva solo poche ore per riuscire. Se svenire o fingere uno svenimento poteva giovare, farebbe anche quello. Se sorridere, civettare ed essere sventate poteva attrarlo, civetterebbe con piacere e sarebbe più sventata anche di Caterina Calvert. E se erano necessarie misure più ardite, ebbene! le prenderebbe. Oggi era la giornata!
Non vi era nessuno che potesse dire a Rossella che la sua personalità, benché fosse tanto vivace da fare spavento, era più attraente di qualsiasi finzione ella potesse tentare. Se le fosse stato detto, sarebbe stata lieta ma incredula. E anche la società di cui ella faceva parte sarebbe stata incredula, perché mai - prima o dopo di allora - la naturalezza femminile era stata così poco apprezzata.
Mentre la carrozza la portava per la strada sanguigna verso la piantagione dei Wilkes, Rossella provò un senso di gioia colpevole perché né sua madre né Mammy facevano parte della brigata. Non vi sarebbe al pic-nic nessuno che, alzando delicatamente le sopracciglia o sporgendo il labbro inferiore, si intromettesse nel suo piano d'azione. Senza dubbio, Susele racconterebbe un sacco di storie domani; ma se tutto andava secondo le speranze di Rossella, l'eccitazione della famiglia per il suo fidanzamento con Ashley o per la sua fuga sarebbe tale da equilibrare il loro dispiacere. Sì; era ben contenta che Elena fosse stata costretta a rimanere a casa.
Geraldo, montato da un buon bicchiere di cognac, aveva licenziato Giona Wilkerson quella mattina, ed Elena era rimasta a Tara per verificare i conti della piantagione prima della sua partenza. Rossella aveva salutato sua madre nello studietto dove ella era seduta dinanzi alla grande scrivania coi suoi casellari pieni di carte. Accanto a lei era Giona Wilkerson, col cappello in mano; la sua faccia pallida e sparuta nascondeva a stento l'ira e l'odio che lo invadeva vedendosi licenziato senza cerimonie dal miglior posto di sorvegliante che fosse in tutta la Contea. E tutto a causa di un po' di amor platonico. Aveva detto e ripetuto a Geraldo che il bambino di Emma Slattery poteva essere stato procreato da altri dodici uomini come da lui- nella qual cosa Geraldo era d'accordo - ma questo, secondo Elena, non mutava la situazione. Giona odiava tutti i meridionali. Odiava la loro gelida cortesia verso di lui e il loro disprezzo per la sua condizione sociale, malamente nascosto dalla loro urbanità. Odiava soprattutto Elena O'Hara, perché ella era il compendio di tutto quello che egli detestava nei meridionali.
Mammy come superiora delle donne dalla piantagione, era rimasta a casa per aiutare Elena; quindi fu Dilcey che salì a cassetta accanto a Tobia, portando sulle ginocchia le scatole con gli abiti da sera delle ragazze. Geraldo cavalcava accanto allo sportello, riscaldato dal cognac e contento di sé per aver liquidato così rapidamente la spiacevole faccenda di Wilkerson. Aveva rovesciato tutta la responsabilità su Elena, senza menomamente pensare alla delusione di lei per dover rinunciare al convito e alla conversazione con le sue amiche; era una bella giornata di primavera, i suoi campi erano belli e gli uccelli cantavano ed egli si sentiva troppo giovine e giocoso per pensare ad altro. Ogni tanto si metteva improvvisamente a cantare qualche canzoncina irlandese o il lugubre lamento in morte di Roberto Emmet.
Era felice, piacevolmente eccitato all'idea di trascorrere la giornata a dir male degli yankees e a parlare della guerra, e fiero delle sue tre belle figliuole nelle loro eleganti crinoline, sotto certi buffi e minuscoli parasoli di trina. Non pensava più alla sua conversazione del giorno precedente con Rossella, perché gli era completamente uscita di mente. Pensava soltanto che sua figlia era graziosa e somigliava a lui; e oggi i suoi occhi erano verdi come le colline d'Irlanda. Quest'ultimo pensiero gli diede una migliore idea di se stesso, e allora egli gratificò le ragazze di un'interpretazione a piena voce della canzone "La verde Erinni".
Rossella lo guardava con l'affettuoso disprezzo che le mamme hanno per i ragazzi vanagloriosi e pensava che al tramonto sarebbe completamente ubriaco. Tornando a casa nell'oscurità avrebbe cercato, come sempre, di saltare tutte le barriere fra le Dodici Querce e Tara e - sperava Rossella - con l'aiuto della Provvidenza e il buon senso del suo cavallo, arriverebbe a casa senza rompersi il collo. Disdegnerebbe il ponte e attraverserebbe il fiume facendo nuotare il cavallo e arriverebbe a casa strepitando per esser messo a dormire sul divano dello studio con l'aiuto di Pork che in queste occasioni aspettava sempre nel vestibolo con la lampada accesa.
Rovinerebbe il suo nuovo abito grigio, cosa che l'indomani mattina lo avrebbe fatto imprecare terribilmente; e avrebbe raccontato a Elena che nell'oscurità il cavallo era caduto dal ponte - una menzogna evidente a cui nessuno avrebbe creduto ma che tutti avrebbero finto di accettare, facendogli così ritenere di essere molto furbo.
"Il babbo è un tesoro egoista e irresponsabile" pensò Rossella con un'ondata di tenerezza per lui. Si sentiva così felice e eccitata che includeva nel suo affetto tutto il mondo, oltre a Geraldo. Era graziosa e lo sapeva; Ashley sarebbe suo prima che la giornata fosse finita; il sole era caldo e dolce e la gloria della primavera georgiana si spiegava dinanzi ai suoi occhi. Ai lati della strada i cespugli di more nascondevano col loro verde tenero le selvagge fenditure rosse prodotte dalle pioggie invernali, e i ciottoli di granito che affioravano fra la terra vermiglia erano coperti dai rami delle rose di macchia e circondati di violette selvagge di una pallida sfumatura purpurea. Sulle colline boscose al disopra del fiume i fiori dei cornioli splendevano candidi come se fra il verde ancora permanesse della neve. I meli selvatici erano tutta una spuma di corolle che da un bianco delicato sfumavano in un rosa vivo e, sotto gli alberi dove i raggi del sole striavano di macchie gialle il suolo coperto di aghi di pino, gli arbusti formavano un tappeto variopinto di scarlatto, di rosa e di arancione. Vi era nell'aria una lieve fragranza di caprifoglio e tutto il mondo era profumato come se fosse cosa da mangiare.
"Ricorderò finché vivo la bellezza di questa giornata" pensò Rossella. "Forse sarà il giorno delle mie nozze!"
E col cuore che le batteva, pensò alla sua fuga insieme ad Ashley nel pomeriggio, attraverso quello splendore di fiori e di verde, oppure la sera, col chiaro di luna, verso Jonesboro e un sacerdote. Certamente, il matrimonio dovrebbe essere nuovamente celebrato da un prete di Atlanta; ma a questo penserebbero Elena e Geraldo. Si sgomentò un momento pensando che sua madre sarebbe impallidita di mortificazione sapendola fuggita col fidanzato di un'altra ragazza; ma era sicura che Elena le perdonerebbe vedendola felice; e Geraldo strepiterebbe e urlerebbe, ma sarebbe contento al di là di ogni immaginazione di un'alleanza tra la propria famiglia e quella di Wilkes.
- Ma questa è cosa a cui bisognerà pensare dopo il matrimonio. - disse fra sé cercando di allontanare questo pensiero.
Era impossibile provare altro che una gioia palpitante in quel sole primaverile, mentre i comignoli delle Dodici Querce cominciavano ad apparire sulla collina al di là del fiume.
"Passerò qui tutta la mia vita e vedrò cinquanta primavere come questa e forse di più, e dirò ai miei figli e ai miei nipoti come era bella questa primavera, più bella di quella che essi potranno vedere." Fu così felice a questo pensiero, che si unì al coro che cantava l'ultima strofa di "La verde Erinni" ottenendo la fragorosa approvazione di Geraldo.
- Non so perché sei così allegra, stamattina - disse Susele sgarbatamente, perché era ancora tormentata dal pensiero che l'abito da ballo di Rossella le sarebbe stato assai meglio del suo. E perché Rossella era sempre così egoista da non voler prestare i suoi vestiti e le sue cuffiette? E perché la mamma la sosteneva sempre dichiarando che il verde non era adatto a Susele? - Sai benissimo anche tu che stassera sarà annunciato il fidanzamento di Ashley. Lo ha detto il babbo stamattina, e so che da tanti mesi tu pensi a lui.-
- Questo è tutto quello che sai - rispose Rossella mostrandole la lingua e rifiutando di perdere il suo buon umore. Come sarebbe sorpresa madamigella Susanna domattina a quest'ora!
- Sai benissimo che non è così, Susele - protestò Carolene. - Rossella ha simpatia per Brent.-
Rossella volse sorridendo gli occhi verdi sulla sorellina, stupita che fosse così gentile. Tutta la famiglia sapeva che il cuore tredicenne di Carolene batteva per Brent Tarleton, il quale non si era mai occupato di lei, se non come sorellina di Rossella. Quando Elena non era presente le sorelle la stuzzicavano a proposito di lui, sino a farla piangere.
- Tesoro, non m'importa nulla di Brent - dichiarò Rossella troppo felice per non essere generosa. - E a lui non importa nulla di me. Aspetta che tu diventi grande.-
Il visino rotondo di Carolene divenne scarlatto, mentre la gioia lottava in lei con l'incredulità.
- Davvero, Rossella? -
- Rossella, sai che la mamma ha detto che Carolene è troppo giovane per pensare ai corteggiatori, e tu le vai mettendo in testa di queste idee.-
- Vai a riferirlo alla mamma, e vedrai - replicò Rossella. -Tu vuoi che Carolene sia sempre una bambina perché sai che fra un anno sarà più bella di te. -
- Tenete la lingua a posto, oggi, altrimenti assaggerete il mio frustino - ammonì Geraldo. - Silenzio adesso! Non è un rumore di ruote? Saranno i Tarleton o i Fontaine.-
Mentre si avvicinavano all'incrocio della strada che veniva dalle colline boscose di Mimosa e di Fairhill, il rumore di zoccoli e di ruote divenne più forte e un clamore di voci femminili che disputavano gaiamente risuonò dietro agli alberi. Geraldo, oltrepassando la carrozza, fece trottare il suo cavallo accennando a Tobia di fermare il veicolo all'incrocio.
- Sono le signore Tarleton - annunziò alle figliole illuminandosi, perché, eccettuato Elena, nessuna signora della Contea gli piaceva quanto la signora Tarleton coi suoi capelli rossi. - Ed è lei che guida. Ah, quella è una donna che sa come si tengono le redini! Ha le mani leggere come piume e forti come un guanto di ferro, e belle da baciare. Peccato che nessuna di voi abbia le mani così - aggiunse rivolgendo alle figliole uno sguardo affettuoso ma riprovevole. - Carolene ha paura delle bestie, Susele ha delle mani che sembran d'acciaio, quando prende le redini, e tu, gattina...-
- Ad ogni modo io non sono mai stata buttata giù - esclamò Rossella indignata - e la signora Tarleton ogni volta che va alla caccia va a finire in qualche fosso. -
- E si comporta come un uomo - riprese Geraldo - Senza svenimenti e senza storie. Ma zitta ora; sta arrivando.-
Si drizzò sulle staffe e si tolse il cappello, agitandolo appena vide spuntare la carrozza stipata di fanciulle in abiti chiari, parasoli e veli fluttuanti, con la signora Tarleton a cassetta, come Geraldo aveva annunciato. Con le sue quattro figliole, la loro bambinaia e gli abiti da ballo in lunghe scatole di cartone che riempivano la vettura, non rimaneva spazio per il cocchiere. E del resto, Beatrice Tarleton non permetteva mai che nessuno, bianco o negro, tenesse le redini quando lei aveva le braccia libere. Fragile, sottile di osso, e così bianca di pelle che i suoi capelli fiammeggianti sembravano aver assorbito nella loro massa ardente tutto il colore del suo volto, era nondimeno dotata di una salute esuberante e di un'energia instancabile. Aveva messo al mondo otto figliuoli, rossi di capelli e pieni di vita come lei, e li aveva allevati, si diceva, ottimamente, perché usava con loro la stessa severa disciplina e affettuosa indifferenza che usava coi suoi puledri.
- Domateli, ma non togliete loro la vivacità - era il motto della signora Tarleton.
Amava i cavalli e ne parlava continuamente. Li comprendeva e sapeva trattarli meglio di chiunque altro nella Contea. I puledri affollavano la pastura al confine del prato dinanzi alla casa, come i suoi otto figlioli affollavano la casa sulla collina; e puledri, figli e figlie, e cani da caccia la seguivano dappresso quando ella giungeva alla piantagione. Ella attribuiva ai suoi cavalli, specialmente alla sua giumenta Nelly, un'intelligenza umana; e se le cure della casa le impedivano di muoversi nell'ora in cui contava di fare la sua cavalcata quotidiana, ella metteva la ciotola dello zucchero nelle mani di un negretto e gli diceva: - Danne una manciata a Nelly, e dille che uscirò più tardi.-
Eccetto rare occasioni, portava sempre l'abito da amazzone, perché anche senza averlo fissato prima, aspettava da un momento all'altro di potere andare a cavallo; e in questa attesa, indossava l'abito appena alzata. Ogni mattina, pioggia o bel tempo, Nelly era sellata e passeggiava su e giù dinanzi alla casa, aspettando il momento in cui la signora Tarleton potesse togliere un'ora ai propri doveri. Ma Fairhill era una piantagione difficile da dirigere, e raramente era possibile trovare il tempo; il più delle volte Nelly passeggiava per delle ore senza cavaliere, mentre Beatrice Tarleton sbrigava le sue faccende con la gonna distrattamente rialzata sul braccio, mostrando al di sotto quindici centimetri di lucidi stivaloni.
Oggi, con un abito di seta nera opaca, su una crinolina troppo piccola per la moda, sembrava ancora vestita da amazzone, perché l'abito era tagliato severamente come il suo costume da cavallo, e il cappellino nero con la lunga piuma, abbassato sugli occhi neri lucidi e ardenti, era una copia del vecchio cappello che adoperava per andare a caccia.
Agitò la frusta vedendo Geraldo e trattenne la sua impaziente pariglia rossa, mentre le quattro ragazze si sporgevano fuori dalla carrozza vociferando i loro saluti a voce così alta che i cavalli sobbalzarono spaventati. Un osservatore casuale avrebbe supposto che i Tarleton e gli O'Hara non si vedessero da anni invece che da giorni. Ma erano persone socievoli e amavano i loro vicini, specialmente le ragazze O'Hara. Cioè amavano Susele e Carolene. Nessuna ragazza della Contea, eccettuata forse quella sventata di Caterina Calvert, amava veramente Rossella.
In estate, nella Contea si avevano conviti e balli quasi ogni settimana. Ma per le fulve Tarleton con la loro enorme capacità di divertirsi, ogni riunione e ogni ballo era eccitante come se fosse il primo della loro vita.
Era un grazioso e vivacissimo quartetto, così stipato nella carrozza che le ampie gonne a cerchi e i volanti si gonfiavano spumeggiando, e i piccoli parasoli si urtavano fra di loro al di sopra degli ampi cappelli di paglia di Firenze incoronati di rose e ornati di nastri di velluto nero. Tutte le sfumature del fulvo erano sotto quei cappelli: i capelli di Etta erano di un rosso schietto, quelli di Camilla color pannocchia, quelli di Miranda a riflessi cuprei e quelli della piccola Bettina color carota.
- E' un bel branco, madama, - disse galantemente Geraldo portandosi col cavallo di fianco alla carrozza. - Ma son ben lontane dal superare la loro mamma.-
La signora Tarleton girò i suoi occhi bruni e si succhiò il labbro inferiore, come burlesco ringraziamento; le ragazze esclamarono: - Mamma, smettila di far la civetta, altrimenti lo diciamo al babbo! Vi assicuro, Mister O'Hara, che non ci dà mai modo di farci valere quando c'è un bell'uomo come voi.-
Rossella rise con le altre di queste celie, ma come sempre, la libertà con la quale le Tarleton trattavano la loro mamma, la urtò. Facevano come se essa fosse una di loro, e non avesse più di sedici anni. Per Rossella la sola idea di poter dire una cosa simile a sua madre, era un sacrilegio; eppure... eppure... vi era qualche cosa di molto piacevole nelle relazioni delle ragazze Tarleton con la loro mamma; ed esse la adoravano, benché la criticassero, la stuzzicassero, e la sgridassero. Non che lei potesse preferire una madre come la signora Tarleton, si affrettò lealmente a dire a se stessa; ma certo doveva essere molto divertente scherzare così con la mamma. Sapeva che anche questo pensiero era irrispettoso per Elena e se ne vergognò. Era sicura che nessun pensiero così fastidioso aveva mai turbato i cervelli sotto le quattro capigliature fiammeggianti; e come sempre quando si trovava diversa dalle sue vicine, si sentì invadere da una perplessità irritata.
Benché il suo cervello fosse pronto, non era fatto per l'analisi; riusciva peraltro a rendersi conto che benché le ragazze Tarleton fossero sregolate come puledri e turbolente come giumente in marzo, vi era in loro una singolare spensieratezza ereditaria. Tanto da parte di madre che di padre, erano Georgiane del nord, solo di una generazione posteriore ai pionieri. Erano sicure di se stesse e del loro ambiente. Sapevano istintivamente ciò che dovevano fare, come i Wilkes, benché in modo assolutamente diverso. E in loro non erano quei conflitti, che frequentemente si dibattevano nel seno di Rossella, nella quale il sangue di un'aristocratica della costa, dolce e quieta, si mescolava col sangue di un contadino irlandese accorto e grossolano.
Rossella desiderava rispettare e adorare sua madre come un idolo, ma anche scompigliarle i capelli e stuzzicarla. E sapeva che bisognava fare o una cosa o l'altra. Era lo stesso conflitto che le faceva desiderare di apparire una signora delicata e aristocratica ai giovanotti ed essere nello stesso tempo una sfacciatella che non faceva scrupolo per qualche bacio.
- Dov'è Elena, stamattina? - chiese la signora Tarleton.
- Abbiamo licenziato il nostro sorvegliante ed Elena è rimasta a casa per verificare i conti. E vostro marito? E i ragazzi? -
- Oh, sono andati alle Dodici Querce già da un pezzo, per assaggiare il ponce e sentire se era abbastanza forte; come se non vi fosse tempo fino a domattina per questo! Pregherò John Wilkes di ospitarli stanotte, anche se deve metterli nella stalla. Cinque uomini ubriachi sono troppi per me. Fino a tre me la cavo, ma...-
Geraldo la interruppe in fretta per mutare argomento. Sentiva dietro le sue spalle le figlie che ridacchiavano di lui, ricordando in che condizioni era tornato a casa l'autunno precedente dal banchetto dei Wilkes.
- E come mai oggi non siete a cavallo, Signora Tarleton? Non mi sembrate voi, senza Nelly. Quando siete a cavallo vi si direbbe uno Stentore.-
- Uno Stentore! Ignorante che siete! - esclamò la signora Tarleton rifacendogli il verso. - Volete dire un centauro. Stentore era un uomo che aveva la voce come un tamburo di bronzo.-
- Stentore o centauro, fa lo stesso - rispose Geraldo senza scomporsi per il suo errore. - Del resto, anche voi avete una voce come un tamburo di bronzo quando chiamate i vostri cani.-
- Ti sta bene, mamma, - disse Etta. - Te l'avevo detto che urli come un indiano quando vedi una volpe.-
- Ma non così forte come urli tu quando Mammy ti lava le orecchie -ribatté la signora Tarleton. - E hai sedici anni! Quanto al non cavalcare oggi, è perché Nelly stamattina presto ha partorito.-
- Davvero? - esclamò Geraldo con vero interesse e con gli occhi brillanti della passione irlandese per i cavalli; e Rossella si sentì nuovamente urtata paragonando sua madre alla signora Tarleton. Per Elena né giumente né mucche partorivano mai. Quasi quasi neanche le galline facevano le uova. Elena ignorava completamente queste cose. Ma la Tarleton non aveva di queste reticenze.
- Una puledra? -
- No; un piccolo stallone con delle gambe lunghe due metri. Dovete venire a vederlo, Mister O'Hara. È un vero cavallo Tarleton: rosso come i riccioli di Etta.
- E le somiglia anche molto - soggiunse Camilla; e scomparve gridando in mezzo a un piccolo vortice di sottane, sottovesti e cappelli che si agitavano, mentre Etta, imbronciata, le dava dei pizzicotti.
- Le mie puledrine sono tutte eccitate, stamattina - riprese la signora Tarleton. - Hanno cominciato ad essere impazienti da quando abbiamo avuto la notizia del fidanzamento di Ashley con quella sua cuginetta di Atlanta. Come si chiama? Melania? Dio la benedica, è una cara creatura, ma non riesco mai a ricordarmi né il suo nome né il suo viso. La nostra cuoca è la moglie del cameriere dei Wilkes e ieri sera ha portato a casa la notizia che stasera si annunzierà il fidanzamento; Cuochetta ce lo ha detto stamane. E come vi dico, le ragazze sono tutte eccitate; non ne capisco la ragione. Tutti sappiamo da anni che Ashley avrebbe fatto questo matrimonio, a meno che non avesse sposato una delle sue cugine Burr di Macon. Tale e quale come Gioia Wilkes che è destinata a sposare suo cugino Carlo. Ma ditemi una cosa, Mister O'Hara: è illegale per i Wilkes sposarsi fuori della loro famiglia? Perché nel caso...-
Rossella non udì il resto della frase pronunciata in mezzo a scoppi di risa. Per un attimo aveva avuto l'impressione che il sole fosse scomparso dietro a una nuvola densa, lasciando il mondo nell'ombra, scolorando tutte le cose. Il fresco fogliame parve morticcio, il corniolo pallido, e il melo selvatico, di un rosso così bello pochi minuti prima, lugubre e sbiadito. Rossella ficcò le unghie nell'imbottitura della carrozza, e il suo parasole ondeggiò. Un conto era sapere che Ashley era fidanzato, ma un altro conto era udirne parlare così indifferentemente. Il coraggio però le ritornò rapidamente; il sole riapparve e il paesaggio divenne un'altra volta gaio e brillante. Ella sapeva che Ashley la amava. Questo era certo. E sorrise al pensiero della sorpresa della signora Tarleton quando, la sera, non sarebbe stato annunciato alcun fidanzamento; e più ancora se vi fosse una fuga. E come parlerebbe dell'aria innocente con la quale Rossella aveva ascoltato i suoi discorsi su Melania, mentre intanto era d'accordo con Ashley... Questi pensieri fecero apparire le fossette sulle sue guance, mentre Etta, che stava osservando con curiosità l'effetto delle parole di sua madre, ricadde indietro sui cuscini con un'espressione leggermente perplessa.
- Non siamo d'accordo, Mister O'Hara - stava dicendo enfaticamente Beatrice. - Questi matrimoni fra cugini non sono una buona cosa. Trovo già un errore che Ashley sposi la figlia di Hamilton; ma che Gioia, poi, debba sposare quel Carletto pallido e smunto...
- Gioia non troverà marito se non sposa Carlo - disse Miranda, crudele e sicura delle proprie attrattive. - Non ha mai avuto nessun altro corteggiatore. E lui non è mai stato molto carino con lei, benché siano fidanzati. Ti ricordi, Rossella, come ti stava intorno, a Natale...-
- Non far la pettegola, madamigella - la interruppe sua madre.- I cugini non si dovrebbero mai sposare fra loro; neanche i secondi cugini. Il sangue si indebolisce. Non è come per i cavalli. Potete unire una giumenta a suo fratello o uno stallone a sua sorella e avete ottimi risultati, se conoscete la razza; ma fra uomini la cosa non va. I figli potranno avere dei bei lineamenti, ma punto robustezza. E...-
- Qui, signora, non sono d'accordo con voi! Potete citarmi gente più bella e robusta dei Wilkes? E si sono sempre sposati fra cugini, fin da quando Briano Boru era un ragazzo.-
- Ma sarebbe tempo che la smettessero, perché ora si comincia ad accorgersi del danno. Oh, non dico per Ashley, che è un bel ragazzo, quantunque anche lui... Ma guardate quelle due figliuole, che pena! Belline, senza dubbio, ma così pallide! E guardate la piccola Melania. Sottile come un crostino e tanto delicata che basta un soffio di vento a darle un raffreddore; e senza ombra di spirito: Non sa nulla di nulla. "Sì, signora! No, signora!" è tutto ciò che sa dire. Capite quello che intendo? Quella famiglia ha bisogno di un bel sangue vigoroso, come le mie testoline rosse o la vostra Rossella. Non mi fraintendete. I Wilkes sono persone simpatiche sotto tanti punti di vista e sapete benissimo che io voglio loro bene; ma siamo schietti! Sono troppo educati e anche poco naturali, non vi pare? Faranno buona figura su una carraia asciutta, ma badate a quello che dico: non credo che i Wilkes sappiano galoppare sulla strada infangata. Mi pare che non abbiano energia; e ritengo che non siano capaci di superare gli ostacoli che potrebbero presentarsi. Animali che hanno bisogno del bel tempo. Datemi un bravo cavallone che corra con tutti i tempi! E i loro matrimoni fra consanguinei li hanno resi diversi da tutti gli altri. Sempre a gingillarsi col pianoforte o sprofondati nei libri! Scommetto che Ashley preferisce leggere che andare a caccia! Sì, ne sono convinta, Mister O'Hara! E guardate che ossa. Troppo sottili. Hanno bisogno di giumente e stalloni robusti...-
- Ah... hhum...- fece improvvisamente Geraldo, rendendosi conto che la conversazione, che per lui era adatta e interessante, non sarebbe sembrata tale a Elena. La quale non avrebbe mai perdonato se avesse saputo che le sue figliuole erano state esposte ad ascoltare dei discorsi così espliciti. Ma la signora Tarleton era, come sempre, sorda ad ogni altra idea quando si ingolfava nel suo tema favorito: l'allevamento, di cavalli o di uomini che fosse.
- So quel che dico perché ho avuto dei cugini che si sono sposati fra loro e vi assicuro che i loro bambini vennero tutti con gli occhi sporgenti come dei ranocchi, povere creature! E quando la mia famiglia voleva che io sposassi un secondo cugino, mi impennai come un puledro. Dissi: "No, mamma. Non fa per me. I miei figli devono avere spalle e fianchi, da buoni galoppatori". La mamma svenne sentendomi parlare di galoppatori, ma io rimasi imperterrita e la nonna mi sostenne. Anche lei era molto pratica di allevamento di cavalli, e disse che avevo ragione. E mi aiutò a fuggire con Mister Tarleton! E guardate i miei figli! Grandi e grossi e in buona salute, senza mai un raffreddore, benché Boys sia alto solo un metro e sessantacinque. Ora, Wilkes...-
- Non vi dispiacerebbe cambiare argomento signora? - interruppe frettolosamente Geraldo che aveva notato lo sguardo sbalordito di Carolene e l'avida curiosità dipinta sul viso di Susele e temeva che al ritorno a casa esse potessero rivolgere a Elena domande imbarazzanti le quali rivelerebbero che egli era un pessimo "chaperon". Fu lieto di notare che la sua Gattina sembrava pensare a tutt'altro.
Etta gli venne in aiuto.
- Ma sì, mamma, andiamo! - esclamò con impazienza. - C'è un sole che scotta e sento che mi stanno già venendo le lentiggini sul collo.-
- Un minuto, signora, prima di avviarci. Che cosa avete deciso di fare per i cavalli che vi abbiamo pregato di venderci per lo Squadrone? La guerra può scoppiare da un giorno all'altro e i ragazzi desiderano che la cosa sia sistemata. E' uno squadrone della Contea di Clayton e noi desideriamo per loro dei cavalli di Clayton. Ma voi, creature ostinate, rifiutate di venderci le vostre belle bestie.-
- Forse la guerra non ci sarà - temporeggiò la signora, completamente distratta, ora, dal pensiero delle abitudini matrimoniali dei Wilkes.
- Ma signora, non potete...-
- Mamma - interruppe nuovamente Etta - non potete, tu e Mister O'Hara parlar di questo quando saremo alle Dodici Querce? -
- E' giusto, miss Etta - annuì Geraldo - e non vi trattengo più di un altro minuto d'orologio. Fra poco saremo alle Dodici Querce e tutti quanti, giovani e vecchi, vorranno sapere dei cavalli. Ma mi spezza il cuore vedere una brava signora come la vostra mamma così avara delle sue bestie! Dov'è il vostro patriottismo, Signora Tarleton? La Confederazione non ha nessuna importanza per voi? -
- Mamma - gridò Bettina - Miranda è seduta sul mio abito e me lo sgualcisce tutto! -
- Spingila perché si levi, e sta zitta. Quanto a voi, Geraldo O'Hara, ascoltatemi. - E i suoi occhi si accesero. - Non mi gettate in faccia la Confederazione! Reputo che essa abbia tanta importanza per me come per voi, avendo io quattro ragazzi nello Squadrone mentre voi non ne avete nessuno. Ma i miei ragazzi sanno badare a se stessi e i miei cavalli no. Li darei volentieri anche gratis, se sapessi che saranno cavalcati da ragazzi che conosco, signori abituati ai purosangue. No, non esiterei un minuto. Ma lasciare i miei tesori alla mercé di boscaioli e Crackers che sono abituati ad andare a dorso di mulo! No, signore! E' un incubo per me il pensiero che siano sellati con selle umide e che non siano governati come si deve! Credete che io voglia affidare le mie bestie tenere di bocca a degli ignoranti, per vederle ridotte con la bocca insanguinata e rovinata; ignoranti che li frusterebbero fino a far perder loro ogni vivacità! Mi viene la pelle d'oca solo a pensarci! No, Mister O'Hara; siete molto gentile chiedendo i miei cavalli, ma è meglio che andiate ad Atlanta a comprare per i vostri villani dei vecchi ronzini.-
- Mamma, vogliamo andare, per piacere? - Era Camilla che si univa al coro impaziente. - Sai benissimo che finirai col cedere e dare i tuoi tesori. Quando il babbo e i ragazzi ti convinceranno che la Confederazione ne ha bisogno, ti metterai a piangere e glieli darai.-
La signora Tarleton ridacchiò e crollò le spalle.
- Non lo farò - disse poi, toccando leggermente i cavalli con la punta dello sverzino. La carrozza si mosse velocemente.
- E' una brava donna - disse Geraldo rimettendosi il cappello e riprendendo il suo posto a fianco del proprio veicolo. - Vai, Tobia. La persuaderemo e avremo i cavalli. Senza dubbio ha ragione. Ha ragione. Se uno non è un signore, il cavallo non è affar suo. Il posto per lui è in fanteria. Ma purtroppo, in questa Contea non vi sono abbastanza figli di piantatori per fare un intero Squadrone. Che avevi detto, Gattina? -
- Ti prego, babbo, di andare davanti alla carrozza o dietro. Sollevi una tal quantità di polvere che soffochiamo - rispose Rossella che sentiva di non poter sopportare più a lungo la conversazione. La distraeva dai suoi pensieri; ed ella desiderava rendere questi e il proprio volto ugualmente simpatici prima di giungere alle Dodici Querce. Geraldo, ubbidiente, spronò il cavallo e si allontanò in una nube rossastra per raggiungere la carrozza dei Tarleton. Avrebbe potuto così continuare la sua conversazione di argomento equino.
6
Attraversarono il fiume e la carrozza si avviò su per la collina. Anche prima di scorgere la casa, Rossella vide una nube di fumo sospesa pigramente al disopra degli alberi alti, e alle sue nari giunse l'odore misto dei tronchi di noce che ardevano e degli arrosti di maiale e di montone.
Le buche sulle quali si cuocevano i maialetti del convito, e che ardevano fin dalla notte, dovevano ormai essere dei lunghi fossi di ceneri a riflessi rossi e rosei, con le carni che giravano sugli spiedi, al disopra di esse e col grasso che gocciolava e strideva sui carboni. Rossella sapeva che la fragranza portata dalla lieve brezza proveniva dal boschetto di querce che si trovava dietro alla casa. John Wilkes teneva sempre in quel luogo i suoi banchetti: sulla dolce collinetta che conduceva al giardino pieno di rose; un posticino ombreggiato e molto più piacevole, per esempio di quello usato dai Calvert. La signora Calvert non amava il maiale arrosto e dichiarava che l'odore rimaneva in casa per parecchi giorni; così i suoi ospiti si radunavano sempre in un sito piatto e senz'ombra, a quasi mezzo chilometro dalla casa. Ma John Wilkes, la cui ospitalità era nota in tutto lo Stato, sapeva offrire dei banchetti veramente riusciti.
Le lunghe tavole posate su cavalletti, coperte con le più belle tovaglie che i Wilkes possedessero, erano collocate dove l'ombra era più folta, fiancheggiate da lunghi banchi senza spalliera; sedie, sgabelli e cuscini erano sparsi sulla radura per quelli che non volevano sedere sui banchi. Ad una distanza sufficiente per ché gl'invitati non fossero incomodati dal fumo, erano le lunghe fosse in cui cuocevano le carni e le enormi pentole di ferro da cui emanava il succulento profumo delle salse e degli stufati. Il signor Wilkes disponeva sempre che almeno una dozzina di negri corressero avanti e indietro coi vassoi per servire gli ospiti. Più oltre, dietro ai granai, era sempre un'altra buca ove cuocevano le vivande per i servi della casa, i cocchieri e le cameriere degli ospiti, i quali avevano il loro festino a base di focacce all'indiana, di patate dolci e di trippa e altre interiora del maiale, pietanza cara al cuore dei negri; in estate, poi, vi erano tanti meloni da soddisfare abbondantemente tutti quanti.
Quando l'odore dell'arrosto di maiale giunse alle sue narici, Rossella arricciò il naso con approvazione, sperando di avere un po' di appetito al momento di mangiarlo. In questo momento si sentiva così rimpinzata e così stretta nel busto che aveva continuamente paura di qualche rigurgito d'aria. E sarebbe stato fatale perché solo gli uomini e le signore molto vecchie potevano far questo senza timore della riprovazione sociale.
Si fermarono al sommo della collina, e la casa bianca spiegò dinanzi a lei la sua perfetta simmetria; le grandi colonne, le ampie verande, il tetto basso; bella come una bella donna così sicura del suo fascino che può essere graziosa e generosa con tutti. Rossella amava le Dodici Querce anche più di Tara, perché avevano una bellezza maestosa e una dolce dignità che la casa di Geraldo non possedeva.
L'ampio viale d'accesso era gremito di cavalli sellati e di carrozze e di ospiti che scendevano e salutavano ad alta voce gli amici. Negri sorridenti, eccitati come sempre ai ricevimenti, conducevano gli animali sotto le tettoie per toglier loro selle e finimenti. Frotte di bambini, bianchi e negri, correvano e gridavano attorno al prato di un verde fresco giocando ai quadrati, o a saltamontone, e gioivano al pensiero di poter fare una scorpacciata. L'ampio vestibolo che andava dal davanti della casa alla parte posteriore era affollato di invitati, e quando la carrozza di O'Hara si fermò dinanzi alla gradinata, Rossella vide fanciulle in crinolina, variopinte come farfalle, andare su e giù per le scale allacciate per la vita, fermandosi ad affacciarsi al di sopra della sottile ringhiera, ridendo e chiamando i giovinotti che si trovavano nel vestibolo sottostante.
Attraverso i balconi aperti ella scorse le signore sedute nel salotto, vestite di seta scura, che si sventolavano parlando dei bambini, delle malattie, e di chi si era sposato, e del come e del perché Tom, il maggiordomo di Wilkes, si affrettava attraverso i salotti con un vassoio d'argento fra le mani, inchinandosi e sorridendo nell'offrire grandi bicchieri ai giovinotti in calzoni grigi e camicia pieghettata.
La veranda soleggiata sul davanti era piena di ospiti. Sì; pensò Rossella: vi era tutta la contea. I quattro ragazzi Tarleton col padre, appoggiati alle alte colonne, i gemelli Stuart e Brent uno accanto all'altro, inseparabili come sempre, Boyd e Tom insieme al padre, Giacomo Tarleton. Il signor Calvert era accanto alla moglie Yankee, la quale anche dopo quindici anni di soggiorno in Georgia non sembrava mai completamente a suo agio. Tutti erano molto gentili e cortesi con lei perché la compativano, ma nessuno poteva dimenticare che ella aveva compensato il suo errore di nascita, facendo la governante dei figli di Mister Calvert.
I due ragazzi Calvert, Rodolfo e Cade, erano con la loro sorella Catina dai capelli biondo chiaro, e stuzzicavano il bruno Joe Fontaine e la graziosa sua fidanzata Sally Munroe. Alessandro e Tom Fontaine sussurravano qualche cosa a Dimity Munroe, facendola ridere di cuore. Vi erano famiglie che venivano da Lowjoy, a dieci miglia di distanza da Fayetteville e da Jonesboro; qualcuna perfino da Atlanta e da Macon. La casa era rigurgitante di folla e un incessante brusio di parole, di risa schiette e di risa sommesse, di gridolini femminili, di esclamazioni, si alzava e si abbassava di tono.
Sui gradini del porticato era ritto John Wilkes coi suoi capelli d'argento; da lui emanava una tranquilla simpatia e un fascino ospitale immancabile e pieno di calore, come il sole dell'estate georgiana. Accanto a lui Gioia Wilkes (così chiamata perché si rivolgeva indistintamente con questa affettuosa espressione a tutti gli agricoltori di suo padre) si muoveva irrequieta e salutava con una sciocca risatina gli invitati che arrivavano.
L'evidente desiderio di Gioia di apparire attraente a tutti gli uomini, desiderio che la rendeva nervosa, contrastava vivamente con l'atteggiamento di suo padre; e Rossella pensò che dopo tutto vi era forse qualche cosa di vero in quello che diceva la signora Tarleton. Certamente i Wilkes (uomini) avevano un'aria di famiglia. Le pesanti ciglia color d'oro scuro che ombreggiavano gli occhi grigi di John Wilkes e di Ashley erano invece rade e incolori nei volti di Gioia e di sua sorella Lydia.
Gioia aveva lo strano sguardo senza ciglia di un coniglio. Lydia non poteva venir definita altrimenti che con l'aggettivo "trascurabile."
Lydia era invisibile, ma Rossella sapeva che probabilmente era in cucina a dare le ultime istruzioni alla servitù. "Povera Lydia!" pensò Rossella. "Ha sempre avuto tanto da fare a dirigere la casa da quando è morta sua madre, che non ha mai avuto la possibilità di attrarre un corteggiatore, eccetto Stuart Tarleton; e certo non è colpa mia se egli mi trova più carina di lei."
John Wilkes scese gli scalini per offrire il braccio a Rossella. Nello scendere dalla carrozza ella vide Susele sorridere con affettazione e da quel sorriso comprese che ella doveva aver riconosciuto tra la folla Franco Kennedy.
"Se io non riuscissi ad avere uno spasimante migliore di quella vecchia zitella in calzoni!..." pensò con disprezzo, nel fermarsi a ringraziare John Wilkes.
Franco Kennedy si stava affrettando per aiutare Susele; e questa si dava tali arie, che fece venir la voglia a Rossella di mollarle un ceffone. Franco Kennedy poteva essere il più grande proprietario della Contea e al tempo stesso un bravissimo uomo; ma queste cose non avevano importanza di fronte al fatto che aveva quarant'anni, che era smilzo e nervoso e aveva una barbetta sale e pepe e delle buffe movenze da zitellona.
Peraltro, ricordando il suo progetto, Rossella dominò il suo sdegno e gli rivolse un sorriso così luminoso per salutarlo, che egli si fermò di scatto, piacevolmente stupito col braccio teso verso Susele, facendo tanto d'occhi a Rossella.
Lo sguardo di questa frugò la folla in cerca di Ashley, benché ella discorresse graziosamente con John Wilkes; ma il giovinotto non era nel porticato. Si udirono voci di saluto, e i gemelli Tarleton le andarono incontro. Le fanciulle Munroe si prodigarono in esclamazioni sulla bellezza del suo vestito ed in breve ella fu il centro di un gruppo di persone che vociavano sempre più forte, dato che ognuno cercava di farsi udire al disopra degli altri. Ma dov'era Ashley? E Melania e Carletto? Cercò di non farsi accorgere che si guardava intorno e scrutò i gruppi attraverso il vestibolo.
Mentre chiacchierava, rideva e lanciava rapidi sguardi nell'interno della casa e nel cortile, i suoi occhi caddero su uno straniero, solo nel vestibolo, che la fissava con una fredda impertinenza che destò in lei un sentimento misto di piacere femminile per aver suscitato l'interesse di un uomo e di imbarazzo per la sensazione che il suo abito fosse eccessivamente scollato. Le sembrò tutt'altro che giovine: almeno trentacinque anni; alto e ben costruito. Rossella si disse che non aveva mai visto un uomo con le spalle così larghe e con muscoli così vigorosi, quasi troppo vigorosi per un signore. Quando lo sguardo di lei incontrò il suo, egli sorrise mostrando una dentatura candida da animale da preda sotto i baffi neri tagliati corti. Era bruno di pelle, abbronzato come un pirata, e i suoi occhi erano arditi e neri appunto come quelli di un pirata che abborda una galera per depredarla, o una fanciulla per rapirla. Il suo volto era freddo e indifferente e la bocca aveva un'espressione cinica mentre egli sorrideva. E Rossella trattenne il fiato. Sentiva che quello sguardo era insultante e si irritava di non sentirsi insultata. Non sapeva chi fosse colui, ma innegabilmente quel viso bruno rivelava la persona di buona razza. Ciò si vedeva anche nel naso sottile, aquilino, nelle labbra rosse e carnose, nell'alta fronte e negli occhi ben tagliati.
Ella distolse lo sguardo senza rispondere al sorriso: e l'uomo si voltò mentre qualcuno chiamava: - Rhett, Rhett Butler, venite qui! Voglio presentarvi alla ragazza più insensibile di tutta la Georgia.
Rhett Butler? Il nome non le era nuovo; le sembrava di averlo udito in occasione di qualche avventura piacevolmente scandalosa; ma la sua mente era rivolta ad Ashley e quindi allontanò subito quel pensiero.
- Devo andar su a ravviarmi i capelli - disse a Stuart e a Brent che cercavano di trarla lontano dalla folla. - Voialtri aspettatemi e non ve ne andate con qualche altra ragazza, altrimenti mi arrabbio.-
Vedeva che Stuart sarebbe stato poco maneggevole oggi, qualora ella avesse civettato con qualche altro. Aveva bevuto ed aveva quell'espressione bellicosa che, lo sapeva per averlo visto altre volte, conduceva facilmente a qualche disputa. Si fermò nel vestibolo per scambiare qualche parola con l'uno o con l'altro e per salutare Lydia che emergeva dal retro della casa coi capelli in disordine e la fronte coperta di goccioline di sudore. Povera Lydia! Non solo aveva i capelli sbiaditi, le ciglia invisibili e un mento proteso che rivelava disposizioni alla caparbietà; ma aveva già vent'anni e per di più era una zitellona. Chi sa se era molto irritata perché lei le aveva portato via Stuart? Molti dicevano che ne era ancora innamorata; ma non si poteva mai sapere che cosa pensasse un membro della famiglia Wilkes. Se ne era irritata, non lo aveva mai dimostrato e aveva sempre trattato Rossella con la stessa lieve cortesia, cordiale e distante, che sempre le aveva manifestata.
Rossella le rivolse qualche parola gentile e si avviò alla scala. In quel momento udì pronunciare timidamente il suo nome; si volse e vide Carlo Hamilton. Era un grazioso ragazzo, con una massa di riccioli bruni sulla fronte bianca e occhi neri, dolci e affettuosi come quelli di un cane da pastore. Era vestito elegantemente: calzoni color mostarda e giubba nera; attorno al collo della camicia a pieghe, si avvolgeva una larga cravatta nera di ultima moda. Un lieve rossore gli invase il volto quando Rossella si volse, perché era timido con le donne. Come la maggior parte degli uomini timidi, egli ammirava moltissimo la vivacità e la disinvoltura delle fanciulle come Rossella. Fino ad ora, ella non gli aveva mai accordato altro che un saluto formale; perciò il vedersi accolto con un sorriso radioso e con le mani tese giocondamente gli tolse quasi il respiro.
- Carlo Hamilton, simpatico vecchio amico! Scommetto che siete venuto da Atlanta apposta per spezzarmi il cuore! -
Quasi balbettando per l'eccitazione, Carlo prese fra le sue le manine tepide e fissò i begli occhi verdi e ridenti. In questo modo le ragazze solevano parlare con gli altri giovanotti; non mai con lui. Non sapeva perché, ma lo trattavano sempre come un fratello più giovine ed erano gentili, senza mai prendersi la pena di stuzzicarlo. Egli avrebbe voluto che si comportassero con lui come con altri assai meno belli e meno provvisti di beni di fortuna. Ma le rare volte in cui questo avveniva, egli non sapeva mai che cosa dire e soffriva un tormentoso imbarazzo a causa della sua timidezza. E restava poi sveglio tutta la notte a pensare alle galanterie che avrebbe potuto dire: ma raramente gliene capitava l'occasione, perché le fanciulle dopo un paio di tentativi lo trascuravano.
Perfino con Gioia con la quale esisteva una tacita intesa di matrimonio per il giorno in cui egli entrasse in possesso della sua proprietà, era silenzioso e diffidente. A volte lo, assaliva il pensiero poco gentile che le civetterie di Gioia e i suoi atteggiamenti dispotici nei suoi riguardi non erano da attribuirsi a particolare simpatia, ma al fatto che le piacevano tanto i giovinotti che essa avrebbe avuto lo stesso contegno con chiunque gliene avesse dato l'opportunità. La prospettiva di sposarla non lo eccitava, perché la fanciulla non destava in lui nessuna delle emozioni violente che i suoi amati libri gli assicuravano fossero l'appannaggio del perfetto innamorato. Egli aveva sempre anelato d'essere amato da una creatura bella e ardita, piena di fuoco e di malizia.
Ed ecco Rossella O'Hara che lo stuzzicava accusandolo di spezzarle il cuore!
Cercò di pensare qualche cosa da dire ma non trovò nulla, e tacitamente la benedisse perché aveva cominciato a chiacchierare fitto fitto, liberandolo così da ogni necessità di conversazione. Era troppo bello per esser vero.
- Aspettatemi qui finché torno, perché voglio mangiare la porchetta con voi. E non andate a fare il civettone con le altre ragazze, perché sono terribilmente gelosa. - Queste incredibili parole furono pronunciate dalle labbra rosse che avevano una fossetta a ogni angolo; e le folte ciglia nere si abbassarono pudicamente sugli occhi verdi.
- Obbedirò - riuscì finalmente a dire in un soffio Carlo, non supponendo neppur lontanamente che dentro di sé ella lo paragonava a un vitello in attesa del macellatore.
Lo percosse lievemente sul braccio col ventaglio chiuso e si volse di nuovo per salire; i suoi occhi caddero ancora una volta sull'uomo che aveva udito chiamare Rhett Butler e che era fermo a qualche passo da Carlo. Evidentemente egli aveva udito tutta la conversazione perché le sorrise maliziosamente come un gatto; nuovamente i suoi occhi la fissarono con uno sguardo completamente privo della deferenza a cui ella era abituata.
“Per Giove!” disse fra sé indignata, usando l'imprecazione favorita di Geraldo. “Sembra che... sì, pare che sappia come sono quando sono svestita...” E crollando la testa, salì le scale.
Nella camera da letto dov'erano deposti gli scialli, trovò Catina Calvert che si guardava nello specchio mordendosi le labbra per farle apparire più rosse. Aveva alla cintura delle rose fresche che armonizzavano con le sue guance, e i suoi occhi color fiordaliso brillavano di eccitazione.
- Catina - disse Rossella cercando di tirare il corpetto un poco più in alto - chi e quell'antipatico, giù, che si chiama Butler? -
- Come, non lo sai? - rispose Catina eccitata, lanciando un'occhiata alla stanza vicina dove Dilcey e la bambinaia delle ragazze Wilkes stavano spettegolando. - Non so quanto farà piacere a Mister Wilkes averlo in casa; ma era in visita da Kennedy, a Jonesboro, credo per comperare del cotone, e Mister Kennedy naturalmente ha dovuto condurlo con sé. Non poteva certamente andarsene e piantarlo in casa! -
- Ma che cos'ha? -
- Tesoro mio, è un uomo che nessuno riceve! -
- Davvero? -
- Davvero! - Rossella digerì questo in silenzio, perché non si era mai trovata sotto lo stesso tetto con una persona che non è ricevuta. Era una cosa eccitantissima.
- Che cos'ha fatto? -
- Ha una reputazione terribile. Si chiama Rhett Butler, è di Charleston e i suoi parenti sono bravissima gente; una delle migliori famiglie. Ma non hanno rapporti con lui. Carolina Rhett mi parlò di lui l'estate scorsa. Non sono parenti, ma lei, come tutti quanti, sa tutto di lui. E' stato espulso da West Point. Figurati! E per cose troppo gravi perché Carolina potesse saperle. E poi c'è stata la storia di quella ragazza che non ha voluto sposare.-
- Racconta! -
- Ma non sai proprio niente, tesoro? A me la raccontò Carolina, e sua madre morirebbe se sapesse che la figliuola ne sa qualche cosa. Dunque, questo signor Butler condusse una ragazza a fare una passeggiata in carrozzino. Non so chi sia la ragazza ma ho dei sospetti. Non doveva essere una gran cosa, altrimenti non sarebbe uscita con lui nel tardo pomeriggio senza accompagnatrice. Rimasero fuori quasi tutta la notte e finalmente tornarono a casa dicendo che il cavallo aveva preso la mano e il carrozzino si era fracassato e loro si erano smarriti nei boschi. E indovina che cosa...-
- Non posso indovinare. Dimmelo! - esclamò Rossella con entusiasmo, sperando il peggio.
- L'indomani rifiutò di sposarla! -
- Oh! - fece Rossella, delusa.
- Disse che non aveva... hm... non le aveva fatto nulla e non vedeva perché avrebbe dovuto sposarla. Suo fratello lo sfidò a duello, e lui disse che preferiva farsi ammazzare piuttosto che sposare una stupida scioccherella. Si batterono alla pistola e Mister Butler uccise il fratello della signorina. Dovette andar via da Charleston e ora nessuno lo riceve - terminò Catina trionfante, e appena in tempo perché Dilcey entrava in quel momento nella stanza per sorvegliare le tolette affidate a lei.
- E la ragazza ebbe poi un bambino? - bisbigliò Rossella nell'orecchio di Catina.
Questa scosse violentemente il capo. - Ma fu rovinata lo stesso. - sussurrò di rimando.
"Dio mio, vorrei che Ashley mi compromettesse" pensò Rossella a un tratto. "E' troppo gentiluomo per non sposarmi." Ma nel suo intimo, aveva un senso di spontaneo rispetto per quell'uomo che aveva rifiutato di sposare una scioccherella.
Rossella era seduta su un divano di legno rosa, sotto l'ombra di una quercia enorme dietro alla casa, coi suoi volanti e le sue gale fluttuanti attorno a lei; sotto alle gonne apparivano cinque centimetri di scarpine di marocchino verde: tutto quello che una signora può mettere in mostra rimanendo una signora. Aveva toccato i piatti, e aveva attorno sette cavalieri. La riunione aveva raggiunto il culmine e l'aria calda era piena di risa e di voci, di tintinnar d'argenteria e di acciottolio di porcellane e dell'odore pesante delle carni arrostite e degli stufati. Ogni tanto, quando si levava qualche soffio di brezza, sbuffi di fumo provenienti dalle buche infuocate fluttuavano sulla folla ed erano accolti da grida di disgusto scherzoso delle signore e scacciati da un violento agitar di ventagli di palma.
La maggior parte delle fanciulle erano sedute coi loro cavalieri sui lunghi banchi accanto alle tavole, ma Rossella, dato che una fanciulla ha solo due lati e non può far sedere più di un uomo per lato, aveva pensato bene di sedere in disparte in modo da riunire attorno a sé il maggior numero possibile di giovinotti.
Sotto agli alberi sedevano le donne maritate; i loro abiti neri mettevano una nota decorosa in tutto quel colore e quella gaiezza. Le donne maritate, qualunque fosse la loro età, si raggruppavano sempre insieme, separate dalle fanciulle dagli occhi ardenti, dai loro corteggiatori e dalla loro giocondità. Dalla nonna Fontaine, che eruttava francamente, col privilegio della sua età, fino alla diciassettenne Alice Munroe che lottava contro le nausee di una prima gravidanza, il gruppo ravvicinava le teste in interminabili discussioni ginecologiche e ostetriche, che rendevano quelle conversazioni molto piacevoli e interessanti.
Lanciando loro sguardi di disprezzo, Rossella pensava che sembravano un branco di grasse galline. Le donne maritate non avevano mai nessun divertimento. Non le venne in mente che se avesse sposato Ashley sarebbe stata automaticamente relegata anche lei sotto agli alberi e nei salotti con gravi matrone vestite di seta nera grave e scura come loro e non più partecipe dei passatempi e dei divertimenti. Come molte ragazze, la sua immaginazione arrivava fino all'altare e non oltre. Del resto ora era troppo infelice per poter pensare ad altro.
Abbassò gli occhi sul piatto e mordicchiò elegantemente un biscottino con una delicatezza e una mancanza d'appetito che avrebbe ottenuto l'alta approvazione di Mammy. Quantunque avesse una grande abbondanza di corteggiatori, non si era mai sentita più avvilita. Non riusciva a capir come i suoi progetti della sera prima fossero miseramente falliti per quanto concerneva Ashley. Ella aveva attratto altri giovani a dozzine, ma non Ashley; e tutti i timori di ieri tornavano a invaderla facendo battere il suo cuore velocemente e facendo arrossire e impallidire a volta a volta le sue fresche guance.
Ashley non aveva in alcun modo tentato di unirsi al circolo che ella aveva attorno; ed ella non aveva scambiato una parola sola con lui da quando era arrivata, dopo il loro primo saluto. Si era avanzato a salutarla quando la giovinetta era entrata nel giardino posteriore; ma dava il braccio a Melania la quale gli giungeva appena alla spalla.
Era costei una creatura snella e fragile, che dava l'impressione di una bimba che avesse indossato per mascherarsi le enormi gonne a cerchi di sua madre; illusione che veniva aumentata dall'espressione timida, quasi sgomenta dei suoi occhi neri troppo grandi. Aveva una massa di riccioli bruni talmente stretti nella rete, che non ne sfuggiva neanche uno; e quella massa scura che si addensava sulla nuca lasciando il viso disadorno, ne accentuava la forma triangolare, per gli zigomi troppo larghi e il mento troppo appuntito. Era un viso dolce e timido, ma non bello; ed ella non aveva furberie femminili che facessero dimenticare agli osservatori la sua scarsa bellezza. Sembrava, ed era, semplice come la terra, buona come il pane, trasparente come acqua di fonte. Ma nonostante i suoi lineamenti non belli e la statura insufficiente, vi era nel suo modo di fare una tranquilla dignità che era stranamente commovente, e molto al disopra dei suoi diciassette anni.
La sua veste di organza grigia, con la sciarpa di raso color ciliegia attorno alla vita, nascondeva coi suoi drappeggi e le sue pieghe quanto il suo corpo aveva di troppo infantile; e il cappello giallo coi lunghi fiocchi pure color ciliegia, rischiarava la sua carnagione avorio. I pesanti orecchini d'oro coi lunghi pendenti scendevano sotto le trecce strettamente ravviate, che giravano sulla fronte molto vicino agli occhi, i quali avevano il tranquillo splendore di un laghetto in una foresta durante l'inverno, quando le foglie brune si specchiano nell'acqua tranquilla.
Aveva sorriso timidamente salutando Rossella e facendole un complimento per il suo abito verde; e questa aveva stentato a risponderle gentilmente tanto era violento il suo desiderio di parlare sola con Ashley. Da allora, Ashley era rimasto seduto su uno sgabello ai piedi di Melania, lontano dagli altri invitati, parlando tranquillamente con lei e sorridendo di quel sorriso un po' stanco che Rossella amava. Ciò che peggiorava le cose si era che sotto a quel sorriso gli occhi di Melania si erano un po' animati, sicché perfino Rossella fu costretta ad ammettere che era quasi graziosa. Quando Melania guardava Ashley, il suo viso si illuminava come di una fiamma interna; se mai un volto rivelò un cuore innamorato, questo era il volto di Melania Hamilton.
Rossella tentò di guardare altrove; ma non poté; dopo ogni sguardo il suo brio andava aumentando; ella rideva, diceva delle cose spinte, scherzava coi suoi cavalieri, scuoteva la testa ai loro complimenti, agitando i lunghi orecchini. Esclamò ripetutamente: "Sciocchezze!" dichiarando che nessuno di loro era sincero, e giurando che non credeva nulla di quanto le dicevano gli uomini. Ma Ashley non sembrò accorgersi di lei. Alzava soltanto lo sguardo verso Melania. Le parlava; e Melania abbassava lo sguardo su lui con un'espressione che affermava la sua dedizione.
Così, Rossella era infelice.
Per un osservatore esteriore, mai una fanciulla aveva avuto minor motivo di esserlo. Indubbiamente era la più bella della riunione, il centro dell'attenzione generale. In qualsiasi altro momento l'entusiasmo degli uomini, insieme all'irritazione delle altre ragazze le avrebbe fatto un enorme piacere. Carlo Hamilton, reso ardito dalla sua cortesia, si era piantato alla sua destra rifiutando di lasciarsi sloggiare dagli sforzi combinati dei gemelli Tarleton. Teneva in una mano il ventaglio di Rossella e nell'altra il suo piatto di porchetta e rifiutava caparbiamente d'incontrare gli occhi di Gioia, la quale sembrava che stesse per scoppiare in lacrime. Claudio era graziosamente sdraiato alla sua sinistra, tirandole ogni tanto la gonna per richiamare la sua attenzione e guardando Stuart con occhi di fuoco. Fra lui e i gemelli vi era già una certa elettricità, nell'aria, ed erano state scambiate parole aspre. Franco Kennedy strepitava intorno come una gallina con un pulcino correndo avanti e indietro dalla quercia alle tavole per prendere delle leccornie che dovevano tentare Rossella, come se non vi fossero una dozzina di servi per questo scopo. Come risultato, il cupo risentimento di Susele aveva oltrepassato il limite di sopportazione femminile ed ella fissava sua sorella con occhi incandescenti. La piccola Carolene avrebbe pianto perché, contrariamente alle parole incoraggianti che Rossella le aveva detto al mattino, Brent non aveva fatto altro che dirle "Hallò, piccola," e tirare il nastro dei capelli, prima di rivolgere tutta la sua attenzione a Rossella. Di solito egli era tanto buono e la trattava con una negligente deferenza che le dava l'impressione di essere una persona grande, e Carolene sognava segretamente il giorno in cui si sarebbe rialzata i capelli e avrebbe messo le gonne lunghe; allora avrebbe potuto riceverlo come un vero corteggiatore. E adesso invece era Rossella che se lo teneva accanto. Le ragazze Munroe celavano il loro dispiacere per la defezione dei bruni ragazzi Fontaine, ma erano annoiate della maniera in cui Tony e Alessandro stavano attorno al circolo aspettando di poter prendere posto vicino a Rossella, qualora uno degli altri si fosse alzato per un attimo.
Telegrafarono a Etta Tarleton la loro disapprovazione per la condotta di Rossella, sollevando delicatamente le sopracciglia. La sola parola adatta per definirla era "sfacciata." Simultaneamente le tre signorine alzarono i loro ombrellini di pizzo, dissero che avevano mangiato abbastanza, grazie, e posando leggermente le dita sul braccio dell'uomo che avevano più vicino, dichiararono dolcemente che volevano vedere il giardino delle rose, il padiglione di primavera e quello d'estate. Questa ritirata strategica in buon ordine fu notata da tutte le donne presenti e da nessun uomo.
Rossella rise fra i denti vedendo tre uomini rapiti al suo fascino e condotti a contemplare luoghi familiari alle fanciulle fin dalla loro infanzia. Lanciò uno sguardo acuto verso Ashley per capire se se ne fosse accorto: ma egli stava giocherellando con la sciarpa di Melania, e le sorrideva. Un dolore acuto le strinse il cuore. Sentì che sarebbe stata capace di graffiare con gioia la pelle di avorio di Melania, sino a farla sanguinare. Volgendo lo sguardo incontrò quello di Rhett Butler, che non si era mescolato con la folla, ma conversava in disparte con John Wilkes.
La stava osservando e quando ella lo guardò, rise clamorosamente.
Rossella ebbe la spiacevole sensazione che quell'uomo che non era ricevuto, fosse il solo fra i presenti che sapesse ciò che si nascondeva sotto alla sua selvaggia gaiezza, e che questo gli procurasse un divertimento beffardo. Avrebbe graffiato con piacere anche lui.
"Se posso resistere a questa riunione fino al pomeriggio," pensò "tutte le ragazze andranno di sopra a fare un riposino per essere fresche stasera ed io rimarrò giù e riuscirò a parlare con Ashley. Certamente egli avrà notato come sono corteggiata." Calmò il suo cuore con un'altra speranza: "Senza dubbio, dev'essere premuroso con Melania, perché dopo tutto è sua cugina e non ha corteggiatori; e se egli non si occupasse di lei, rimarrebbe a far parete."
Riprese coraggio a questo pensiero e raddoppiò i suoi sforzi in direzione di Carlo, i cui occhi neri la fissavano avidamente. Era una giornata magnifica per Carlo, una giornata di sogno, ed egli si era innamorato di Rossella senza sforzo alcuno. Dinanzi a questa nuova emozione, Gioia scompariva in una nebbia cupa: era un passero dalla voce stridula, mentre Rossella era un usignolo che gorgheggiava. Lo stuzzicava, lo favoriva, e gli rivolgeva delle domande a cui rispondeva lei stessa, sicché egli appariva intelligente senza dover dire una parola. Gli altri giovinotti erano perplessi e indispettiti da questo evidente interesse di Rossella per lui, poiché sapevano che Carlo era troppo timido per cucire assieme due parole, ed essi mettevano a dura prova la loro educazione per nascondere l'ira crescente. Tutti ardevano per quella fanciulla, e se non vi fosse stato Ashley, Rossella avrebbe goduto un autentico trionfo.
Quando l'ultimo boccone di porchetta, di pollo, e di montone fu mangiato, Rossella sperò che Lydia si alzasse per dire alle signore di ritirarsi in casa. Frano le due e il sole era caldissimo; ma Lydia, stanca dopo tre giorni di preparativi per la riunione, era troppo contenta di poter stare un po' seduta sotto l'albero, parlando a voce altissima con un vecchio gentiluomo di Fayetteville, sordo come una campana.
Una pigra sonnolenza discendeva sulla folla. I negri indugiavano sparecchiando le lunghe tavole su cui erano state le vivande. Le risate e le conversazioni diventavano meno animate; qua e là alcuni gruppi erano silenziosi. Tutti aspettavano dalla loro ospite il segnale che la prima parte della festa era finita. I ventagli di palma si agitavano più lentamente, e parecchi vecchi signori lasciavano penzolare il capo per il sonno e per lo stomaco carico. Il banchetto era terminato, e tutti provavano il desiderio di riposarsi mentre il sole era alto nel cielo.
In questo intervallo tra la festa della mattina e il ballo della sera tutti sembravano placidi e tranquilli. Solo i giovinotti conservavano la instancabile energia che fino a poco prima aveva animato tutti quanti. Muovendosi fra i gruppi, trascinando le parole con la loro voce dolce, erano belli come stalloni di sangue e altrettanto pericolosi. Il languore del meriggio pesava sull'elegante accolta, ma sotto a questa tranquillità si nascondevano temperamenti che potevano in un attimo balzare ad altezze straordinarie e infiammarsi con la stessa rapidità. Uomini e donne erano belli e selvaggi, tutti un po' violenti sotto le loro buone maniere e solo in parte domati.
La conversazione stava morendo, quando nella calma temporanea si udì la voce di Geraldo levarsi in accenti furibondi. A breve distanza dalle tavole, egli era al culmine di una discussione con John Wilkes.
- Per Giove! Desiderare un accordo pacifico con gli yankees! Dopo che abbiamo scacciato quei mascalzoni dal Forte Sumter? Pacifico? Il Sud mostrerà con le armi che non vuole essere insultato e che non si scinde dall'Unione per bontà di questa, ma per la propria forza!-
"Oh, Dio, ci siamo!" pensò Rossella. "Ora si rimane seduti qui fino a mezzanotte."
In un attimo la sonnolenza era scomparsa e qualche cosa di elettrico aveva attraversato l'aria. Gli uomini balzarono dai banchi e dalle sedie; furono braccia che si agitavano a larghi gesti e voci che proclamavano il diritto di farsi udire al di sopra delle altre. In tutta la mattina non si era parlato né di politica né di guerra perché il signor Wilkes aveva desiderato che non si annoiassero le signore. Ma ora Geraldo aveva urlato le parole "Forte Sumter" e tutti i presenti dimenticarono l'ammonimento dell'ospite.
- Certo combatteremo... - - Yankees ladri... - - Ce ne sbarazzeremo in un mese...- - Figuriamoci, un meridionale può tener testa a venti yankees... - - Dargli una lezione che non dimenticheranno...- - Pacifico? Ma sono loro che non ci lasciano in pace... - - Avete visto come Mister Lincoln ha insultato i nostri Commissari?... - - Sì, li ha portati in giro per delle settimane, giurando che avrebbe fatto evacuare Forte Sumter!...- - Vogliono la guerra: la avranno... - E sopra a tutte le voci, dominava quella di Geraldo. Tutto ciò che Rossella riusciva a udire era "Diritti di Stato, per Dio!" urlato sempre più forte. Geraldo gongolava; ma non così sua figlia.
Secessione... guerra... Da un pezzo queste parole erano diventate un vero incubo per Rossella; ma ora le odiava addirittura, perché il loro suono significava che ormai gli uomini sarebbero rimasti lì per delle ore a discutere; e lei non avrebbe avuto nessuna opportunità di trarre in disparte Ashley. Certamente la guerra non vi sarebbe, e gli uomini lo sapevano. Ma piaceva a loro di parlare e di ascoltarsi parlare.
Carlo Hamilton non si era alzato con gli altri. Trovandosi relativamente solo con la ragazza, le si avvicinò e, con l'audacia nata dal nuovo amore, le sussurrò la sua confessione.
- Miss O'Hara... io... ho già deciso che se faremo la guerra, dovrò andare nella Carolina del Sud e unirmi a quelle truppe. Si dice che il signor Wade Hampton stia organizzando uno squadrone di cavalleria e certamente io desidero andare con lui. È un grand'uomo ed era il migliore amico di mio padre.-
Rossella pensò: "E che cosa crede che io faccia adesso? Che gridi evviva?" L'espressione di Carlo mostrava che egli le stava rivelando i segreti del suo cuore; ma ella non seppe che cosa dirgli e si limitò a guardarlo, chiedendosi perché gli uomini sono tanto sciocchi da credere che le donne si interessano di queste storie! Egli credette che la sua espressione significasse muta approvazione e continuò rapidamente, audacemente:
- Se andassi... vi dispiacerebbe, miss O'Hara? -
- Bagnerei di lacrime il mio guanciale tutte le notti. - rispose Rossella facendo la disinvolta; ma Carlo prese le sue parole per moneta contante e arrossì di gioia. La mano di lei era nascosta fra le pieghe della sua veste; egli la cercò e la strinse, stupito della propria temerità e della condiscendenza di lei.
- Pregherete per me?-
"Che idiota!" pensò amaramente Rossella, lanciando attorno uno sguardo furtivo, nella speranza che qualcuno venisse a salvarla da quella conversazione.
- Sì o no? -
- Ma sì, certo, Mister Hamilton! Almeno tre rosari per sera!-
Carlo si guardò attorno e irrigidì i muscoli del petto trattenendo il fiato. Erano praticamente soli; ed egli non avrebbe mai più avuto una fortuna simile. E, anche se Domineddio gliel'avesse fatta avere, forse il coraggio gli sarebbe mancato.
- Miss O'Hara... debbo dirvi una cosa...Vi... vi amo! -
- Hm? - fece Rossella distratta, cercando di vedere, attraverso la folla di uomini che ragionavano, se Ashley era ancora seduto ai piedi di Melania.
- Sì - bisbigliò Carlo, in estasi perché ella non aveva riso, né era svenuta né aveva emesso un grido, come egli aveva sempre immaginato che ogni fanciulla dovesse fare in simili circostanze. - Vi amo! Siete la più... la più... - e per la prima volta in vita sua le parole non gli mancarono - ...la più bella fanciulla che io abbia mai conosciuta, e la più cara e la più buona e la più gentile; ed io vi amo con tutto il cuore. Non posso sperare che voi amiate uno come me, ma se voi, cara, vorrete darmi il più piccolo incoraggiamento, io farò tutto al mondo per farmi amare da voi. Voglio...-
Si interruppe perché non riuscì a pensar nulla di abbastanza difficile per convincere Rossella della profondità dei propri sentimenti; quindi disse semplicemente: - Desidero sposarvi.-
Rossella tornò alla realtà con un sussulto, al suono della parola "sposarvi". Stava pensando al matrimonio e ad Ashley, e guardò Carlo con malcelata irritazione. Perché quel cretino col viso di vitello veniva ad annoiarla coi suoi sentimenti proprio in quel giorno in cui lei era così preoccupata che le sembrava di perdere il cervello? Guardò gli occhi bruni supplichevoli e non comprese affatto la bellezza del primo amore di un ragazzo timido, dell'adorazione di un ideale divenuto realtà, della felicità e della tenerezza che mettevano in quegli occhi una fiamma. Rossella era abituata agli uomini che le chiedevano di sposarla, uomini più attraenti di Carlo Hamilton, uomini che avevano la delicatezza di non fare una domanda di matrimonio durante un convito all'aperto mentre lei aveva da pensare a tante altre cose più importanti. Vide soltanto un ragazzo di vent'anni, rosso come un peperone e con l'aria molto sciocca. Ebbe il desiderio di dirgli quanto era idiota. Ma automaticamente le salirono alle labbra le parole che Elena le aveva insegnato a dire in simili circostanze, e abbassando pudicamente gli occhi, per forza di abitudine, mormorò: - Mister Hamilton, sono molto sensibile all'onore che mi fate chiedendomi di diventar vostra moglie; ma la cosa è per me talmente inattesa che non so che cosa dirvi.-
Era un modo grazioso di accarezzare la vanità di un uomo e di tenerlo sulla corda; e Carlo abboccò a quell'amo come se fosse nuovo ed egli fosse il primo a inghiottirlo.
- Aspetterò quanto vorrete! Voglio che siate sicura di voi... Ditemi che posso sperare, miss O'Hara! -
- Hm - fece Rossella, i cui occhi di lince osservavano in quel momento Ashley, il quale non si era alzato per prender parte alla discussione degli uomini sulla guerra e stava sorridendo a Melania. Se questo stupido che stava cercando di ottenere la sua mano tacesse un minuto, forse le riuscirebbe di udire ciò che quei due stavano dicendo. Doveva udirlo. Che cosa diceva Melania per destare negli occhi di lui quell'espressione di interessamento?
Le parole di Carlo soverchiavano le voci che ella anelava di udire.
- Oh, ssst! - gli bisbigliò pizzicandogli una mano senza neanche guardarlo.
Spaventato e vergognoso, Carlo arrossì al rabbuffo; poi, vedendo gli occhi di lei fissi su sua sorella, sorrise. Rossella temeva che qualcuno potesse udire le sue parole. Naturalmente era imbarazzata e timida, e l'idea che altri potessero udire la sgomentava. Carlo si sentì invadere da un'onda di mascolinità che non aveva mai provata, perché questa era la prima volta in vita sua che egli turbava una ragazza. L'emozione fu inebriante. Diede al suo volto quella che credeva essere un'espressione indifferente e prudentemente ricambiò il pizzicotto di Rossella per mostrarle che era uomo di mondo e che comprendeva e accettava il suo rimprovero.
Ella non sentì neppure il pizzicotto, perché in quel momento udiva la dolce voce che costituiva il fascino principale di Melania: - Non sono d'accordo con te su Thackeray. È un cinico. E credo che non sia un signore come Dickens.-
"Che stupidi discorsi da fare a un uomo" pensò Rossella, pronta a ridere di sollievo. "Non è che una bas bleu, e tutti sanno che cosa pensano gli uomini delle bas bleu!". Per interessare un uomo e conservar vivo il suo interesse, bisognava parlargli di lui e poi gradatamente condurre la conversazione su se stessa... e mantenervela. Rossella si sarebbe allarmata se Melania avesse detto: "Sei straordinario!" oppure: "Come fai a pensare queste cose? Il mio cervellino scoppierebbe, se cercassi anch'io di pensarle!" Ed eccola lì, con un uomo ai suoi piedi, a parlare seriamente come se fosse in chiesa. La prospettiva apparve a Rossella più brillante; tanto brillante che rivolse a Carlo degli occhi radiosi e un sorriso giocondo. Entusiasmato per questa prova di affetto, egli afferrò il suo ventaglio e lo richiuse con tanto ardore che ella si sentì drizzare i capelli.
- Non ci avete favorito la vostra opinione, Ashley - disse Tarleton volgendosi dal gruppo maschile vociferante; Ashley si scusò e si alzò. “Nessuno è bello come lui” pensò Rossella osservando la grazia del suo atteggiamento negligente e i capelli e i baffi che il sole faceva scintillare. Anche gli uomini anziani si interruppero per ascoltare le sue parole.
- Ebbene, signori miei, se la Georgia combatterà, andrò anch'io. Altrimenti perché fare parte dello Squadrone? - furono le sue parole. I suoi occhi grigi erano spalancati e la loro sonnolenza era scomparsa dando luogo a una vivezza che Rossella non aveva mai vista prima. - Ma, come il babbo, spero che gli yankees ci lasceranno in pace e che la guerra non si farà...- Alzò la mano con un sorriso, perché dai ragazzi Tarleton e dai Fontaine giungeva una babele di voci. - Sì sì, so che ci hanno insultati e che ci hanno mentito... ma se noi fossimo stati nei loro panni, come avremmo agito? Probabilmente nello stesso modo.-
"Eccolo, al solito" pensò Rossella. "Sempre la smania di mettersi nei panni degli altri." Per lei, in ogni argomento non vi era che un solo lato. A volte non era punto d'accordo con Ashley.
- Non ci scaldiamo troppo la testa e non cerchiamo la guerra. La maggior parte delle miserie del mondo è stata cagionata dalle guerre. E quando le guerre erano finite, nessuno sapeva più la ragione che le aveva suscitate. -
Rossella arricciò il naso. Meno male che Ashley aveva una inattaccabile reputazione di coraggio; altrimenti le cose si sarebbero guastate. Mentre ella pensava questo, attorno ad Ashley si levò un clamore di voci dissenzienti e indignate.
Sotto l'albero, il vecchio sordo percosse lievemente il ginocchio di Lydia. - Che c'è? - chiese. - Che stanno dicendo? -
- Guerra! - gli gridò Lydia nell'orecchio facendosi cornetto con la mano. - Vogliamo far la guerra agli yankees! -
- La guerra? - gridò a sua volta il sordo cercando il suo bastone e alzandosi con maggiore energia di quanta ne avesse mostrata da anni. - Gliene parlerò io, della guerra. Vi sono stato. - Non capitava spesso a Mister McRae l'occasione di poter parlare della guerra, perché le sue donne gli imponevano sempre il silenzio.
Raggiunse rapidamente il gruppo, agitando il bastone e gridando e, siccome non udiva le voci degli altri, in breve fu padrone indisturbato del campo.
- Ascoltatemi, giovani mangiatori di fuoco. Voi non potete volere la guerra. Io l'ho fatta e lo so. Quella contro i Seminoli; e fui tanto pazzo da fare anche la guerra messicana. Voialtri non sapete che cos'è la guerra. Credete che si tratti soltanto di cavalcare un bel cavallo, con le ragazze che vi gettano fiori chiamandovi eroe. Non è così, signori miei! Si tratta di soffrir la fame e di buscarsi polmoniti e malattie della pelle dormendo nell'umidità. E se non sono quelle, sono gli intestini che non vanno. Sì, signori; non potete immaginare che cos'è la guerra per gl'intestini degli uomini: dissenteria e cose del genere e...-
Le signore erano diventate rosse. Mister McRae stava ricordando i momenti più volgari della vita, come la nonna Fontaine con le sue sconce flatulenze: momenti che ognuno preferiva dimenticare.
- Corri a chiamare il nonno - sussurrò una delle figlie del vecchio gentiluomo a una bimba che le era accanto. - Vi assicuro - mormorò poi alle signore attorno - che va peggiorando ogni giorno. Credereste che stamattina ha detto a Maria (la quale ha solo sedici anni): "Ora, figliuola..." - e il resto della frase si perse in un sussurro, mentre la nipotina correva a cercar di indurre il nonno a tornare a sedere all'ombra.
Nei gruppi che si affollavano intorno agli alberi, fanciulle che sorridevano e uomini che parlavano appassionatamente, una sola persona sembrava aver conservato la calma. Gli occhi di Rossella si volsero verso Rhett Butler che stava appoggiato a un albero con le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni. Da quando John Wilkes si era allontanato, egli era rimasto solo e non aveva pronunciato parola mentre la conversazione si riscaldava. Le labbra rosse sotto i baffetti si increspavano e negli occhi neri passavano lampi di disprezzo divertito; come se ascoltasse delle chiacchiere infantili. "Un sorriso sgradevole" pensò Rossella. Egli continuò ad ascoltare tranquillamente, finché Stuart Tarleton, coi rossi capelli arruffati e gli occhi scintillanti, gridò: - Ce li leveremo dai piedi in un mese! I gentiluomini combattono sempre meglio della plebe. Un mese...macché, una battaglia...-
- Signori - interruppe senza muoversi dal suo posto Rhett Butler, con un accento strascicato che rivelava la sua nascita (Charleston) e senza togliersi le mani di tasca - posso dire una parola? -
Il gruppo si volse verso di lui e gli prestò ascolto con la cortesia dovuta a uno straniero.
- Ha mai pensato, nessuno di voi, che non vi è una fabbrica di cannoni a sud della linea Mason-Dixon? E alle poche fonderie che vi sono nel Sud? E industrie per la lana o per il cotone o concerie? Avete mai pensato che non abbiamo una sola nave da guerra e che gli yankees possono imbottigliare i nostri porti in una settimana, sicché non potremmo più vendere il nostro cotone all'estero? Ma... certamente avete pensato a queste cose.-
"Questo significa che i ragazzi sono una massa di stupidi!" pensò Rossella indignata; e il sangue le salì al volto.
Evidentemente non era la sola ad aver quest'idea, perché parecchi giovinotti cominciavano a drizzar la cresta. John Wilkes lasciò il suo posto in maniera indifferente, ma avanzandosi rapidamente verso colui che aveva parlato, come per ricordare ai presenti che quell'uomo era suo ospite e che, inoltre, vi erano delle signore presenti.
- Il torto di molti di noi meridionali - proseguì Rhett - è che non viaggiamo abbastanza e non approfittiamo abbastanza dei nostri viaggi. Tutti voi, certamente, avete viaggiato. Ma che cosa avete visto? L'Europa, Nuova York, Filadelfia; e le signore, senza dubbio, sono state a Saratoga. - Si inchinò lievemente verso il gruppo sotto gli alberi. - Avete visto i musei, gli alberghi, i balli e le case da gioco. E siete tornati a casa convinti che non vi fosse un altro luogo come il Sud. Quanto a me, sono nato a Charleston, ma ho passato questi ultimi anni nel Nord. - Un sorriso dei suoi denti candidi fece comprendere che egli era sicuro che tutti quanti sapevano perché egli non dimorava più a Charleston, e non gl'importava nulla che lo sapessero. - Ho visto molte cose che voialtri non avete vedute. Migliaia di emigranti che sarebbero ben contenti di combattere per gli yankees avendone in cambio vitto e un po' di denaro; le fabbriche, le fonderie, i cantieri, le miniere di carbone e di ferro... tutte cose che noi non abbiamo. Quello che noi abbiamo è cotone, schiavi... e arroganza... In un mese ci batterebbero completamente.-
Un minuto di tensione silenziosa. Rhett Butler trasse dalla tasca della giubba un bel fazzoletto di lino e si spolverò distrattamente una manica. Quindi dalla folla sorse un mormorio minaccioso e da sotto gli alberi giunse un ronzio simile a quello di un'arnia disturbata. Benché Rossella sentisse ancora sulle guance il rosso calore della collera, pure qualche cosa nel suo spirito pratico le fece comprendere che quell'uomo aveva ragione e parlava con buonsenso. Infatti, ella non aveva mai visto una fabbrica né conosciuto nessuno che ne possedesse una. Ma anche se tutto ciò era vero, un gentiluomo non doveva fare queste dichiarazioni... soprattutto durante un ricevimento dove tutti si stavano divertendo.
Stuart Tarleton si avanzò, con la fronte aggrottata, insieme con Brent. Senza dubbio, i gemelli erano dei ragazzi educati e non avrebbero fatto una scenata durante una riunione mondana, pur essendo provocati. Malgrado ciò, le signore erano piacevolmente eccitate, perché era ben raro, per loro, assistere a una scenata o a una lite. Di solito ne sentivano parlare di terza mano.
- Che intendete dire, signore? - disse Stuart lentamente. Rhett lo guardò con occhio gentile ma beffardo.
- Intendo dire che Napoleone... forse ne avete sentito parlare? dichiarò una colta "Dio è dalla parte del battaglione più forte." - Quindi si volse a John Wilkes, con una gentilezza che non era finta: - Mi avevate promesso di mostrarmi la vostra biblioteca. Posso chiedervi il favore di mostrarmela adesso? Debbo tornare a Jonesboro piuttosto presto nel pomeriggio, a causa di un affare.-
Si volse fronteggiando la folla, batté i tacchi e si inchinò come un maestro di danza; un inchino grazioso in un uomo così forte, e insolente come un ceffone. Quindi attraversò il prato con John Wilkes, col nero capo eretto; e il suono della sua risata scoraggiante pervenne al gruppo che era rimasto presso le tavole.
Vi fu un attimo di silenzio allarmato; quindi il ronzio ricominciò. Lydia si levò stancamente dalla sua sedia sotto l'albero e si avvicinò all'incollerito Stuart Tarleton. Rossella non udì le sue parole, ma l'espressione dei suoi occhi mentre ella lo fissava in volto diede una specie di rimorso alla sua coscienza. Era la stessa espressione di dedizione che aveva Melania quando guardava Ashley; ma Stuart non la vide. Dunque, Lydia lo amava. Rossella pensò che se lei non avesse civettato così sfacciatamente con Stuart l'anno scorso, a quella riunione politica, forse a quest'ora egli avrebbe sposato Lydia. Ma il rimorso si dileguò subito, col pensiero che dopo tutto non era colpa sua se le altre ragazze non sapevano trattenere gli uomini accanto a loro.
Finalmente Stuart sorrise a Lydia, un sorriso involontario, e accennò di sì. Probabilmente Lydia lo aveva pregato di non seguire Mister Butler e di non fare questioni. Un tumulto gentile si levò sotto agli alberi quando gli invitati si alzarono, scrollandosi dal grembo le briciole. Le signore maritate chiamarono le bambinaie e i bambini piccoli riunendo le loro covate per la partenza; gruppi di giovinette si misero in moto verso la casa, ridendo e chiacchierando, per recarsi nelle stanze da letto al piano di sopra a scambiar pettegolezzi e a fare un po' di siesta.
Tutte le signore, eccetto la signora Tarleton, lasciarono l'ombra delle querce; Beatrice era trattenuta da Geraldo, da Calvert e da altri, che insistevano per aver da lei la risposta concernente i cavalli per lo Squadrone.
Ashley si avviò lentamente verso il luogo ove sedevano Rossella e Carlo, con un sorriso curioso e divertito.
- Un bell'arrogante, non è vero? - fece seguendo Butler con lo sguardo. - Sembra un Borgia.-
Rossella rifletté rapidamente, ma non ricordò nessuno della Contea o di Atlanta o di Savannah che si chiamasse così.
- Non li conosco. È un loro parente? Chi sono?-
Una strana espressione si dipinse sul volto di Carlo, in cui incredulità e vergogna si trovarono a lottare con l'amore. Ma questo trionfò; egli si disse che per una ragazza bastava esser carina, dolce, e bella, anche se la sua istruzione era scarsa, e si affrettò a rispondere:
- I Borgia erano italiani. -
- Ah, - fece Rossella disinteressandosi. - Stranieri.-
Rivolse ad Ashley il suo più bel sorriso, ma egli non la guardava in quel momento. Guardava Carlo e sul volto era comprensione e un po' di compassione.
Rossella era sul pianerottolo e guardava cautamente, da sopra alla ringhiera, nel vestibolo sottostante. Era vuoto. Dalle stanze da letto al piano di sopra giungeva un incessante ronzio di voci, che si alzavano e si abbassavano punteggiate da scoppi di risa e da "Ma no! Gli hai proprio detto così?" e da "E lui che disse?" Sui letti e sui divani delle sei grandi camere le ragazze riposavano dopo essersi tolte il vestito e avere allentato il busto, coi capelli sciolti. La siesta pomeridiana era un'abitudine locale e non era mai così necessaria come nelle riunioni che duravano tutto il giorno, avendo inizio la mattina presto e terminando col ballo. Per mezz'ora le ragazze discorrevano e ridevano; poi le serve chiudevano le imposte e nella calda semioscurità le voci diminuivano in bisbigli e infine cessavano in un silenzio interrotto solo da respiri regolari.
Prima di sgusciare nel vestibolo superiore e di affacciarsi alla ringhiera, Rossella si era assicurata che Melania era coricata sul letto insieme con Gioia e Etta Tarleton. Dalla finestra del pianerottolo vedeva il gruppo degli uomini seduti sotto gli alberi a bere, e sapeva che vi sarebbero rimasti fino al tardo pomeriggio. I suoi occhi scrutarono il gruppo, ma Ashley non vi era. Tese l'orecchio e udì la sua voce. Come aveva sperato, egli era ancora nel viale d'accesso, a salutare le signore che se ne andavano coi bambini e ad assistere alla loro partenza.
Scese velocemente le scale, col cuore in gola. E se avesse incontrato il signor Wilkes? Che scusa avrebbe trovato per giustificare quel suo gironzolare per casa mentre tutte le altre ragazze riposavano per esser belle la sera? Beh, comunque, valeva la pena di arrischiare.
Giunta in fondo alle scale, udì le serve che si muovevano in sala da pranzo agli ordini del maggiordomo, togliendo la tavola e le sedie per preparare per il ballo. Al di là dell'ampio vestibolo era la porta aperta della biblioteca; ella si affrettò a entrarvi senza far rumore. Attenderebbe là dentro che Ashley finisse i suoi saluti e lo chiamerebbe vedendolo rientrare.
La biblioteca era nella semioscurità, perché le persiane erano chiuse. La stanza cupa dalle alte pareti completamente coperte di libri neri le diede un senso di oppressione. Non era quello il luogo che avrebbe scelto per un colloquio come sperava sarebbe stato quello a cui si preparava. La grande quantità di libri la opprimeva sempre, come pure le persone che amavano legger molto. Ad eccezione di Ashley. I mobili pesanti le sembravano enormi nella mezza luce, e così le sedie a spalliera alta e sedile profondo, fatte per i Wilkes che erano di statura elevata, e le solide e morbide sedie coi cuscini di velluto per le ragazze, con davanti sgabelli anch'essi coperti di velluto. All'altra estremità della lunga stanza, dinanzi al caminetto, il divano di due metri - il posto preferito di Ashley - drizzava la sua massiccia spalliera come un enorme animale.
Chiuse la porta lasciando una fessura e cercò di calmare i battiti del proprio cuore. Si sforzò di ricordare con precisione quello che la sera prima aveva progettato di dire ad Ashley, ma non vi riuscì. Aveva pensato qualcosa e lo aveva dimenticato... o aveva soltanto progettato di far parlare Ashley? Non ricordava; e improvvisamente fu invasa da un gelido terrore. Forse, se il suo cuore smettesse di battere in modo così assordante, potrebbe pensare che cosa dire. Ma il rapido battito non fece che aumentare quando ella udì Ashley rivolgere un ultimo saluto ai partenti e rientrare nel vestibolo.
Riusciva a pensare soltanto che lo amava... che amava tutto di lui, dall'altero portamento del suo capo dorato alle sue scarpe nere; amava la sua risata anche quando la canzonava, amava i suoi strani silenzi. Oh, se entrasse e la prendesse fra le braccia sicché ella non dovesse parlare! Doveva amarla... "Forse, se pregassi..." Chiuse gli occhi e cominciò a mormorare - Dio ti salvi, Maria, piena di grazia...-
- Oh, Rossella! - Era la voce di Ashley che interrompeva il rombo delle sue orecchie gettandola nella più gran confusione. Egli si era fermato nel vestibolo, scrutandola attraverso la porta parzialmente aperta, con un sorriso enigmatico sul volto.
- Per chi vi nascondete? Per Carlo o per i Tarleton?-
Ella inghiottì la saliva. Dunque Ashley si era accorto degli uomini che le erano stati intorno! Com'era adorabile coi suoi occhi che ammiccavano, completamente ignaro del turbamento di lei Non fu capace di dire una parola, ma sporse una mano e lo trasse nella stanza. Egli entrò, perplesso ma interessato. Vi era in lei una tensione e nei suoi occhi una luce che non vi aveva mai visto prima; e anche nella semioscurità si distingueva il colore acceso delle sue guance. Automaticamente egli chiuse la porta dietro di sé e le prese la mano.
- Che c'è? - chiese, quasi in un bisbiglio.
Al contatto della sua mano ella cominciò a tremare. Ecco che stava per accadere quello che aveva sognato. Mille pensieri incoerenti si agitarono nella sua mente, ma non fu capace di afferrarne uno solo da forgiare in parole. Riuscì solo a crollare la testa e a guardarlo in faccia. Perché non parlava lui?
- Che c'è? - ripeté Ashley. - Un segreto che volete dirmi?-
A un tratto ella ritrovò la parola e nello stesso istante tutti gli anni di insegnamento di Elena scomparvero e lo schietto sangue irlandese di Geraldo parlò sulle labbra di sua figlia.
- Sì... un segreto. Vi amo.-
Per un attimo fu un silenzio così profondo come se nessuno dei due respirasse. Quindi ella smise di tremare, mentre si sentiva invadere dalla felicità e dall'orgoglio. Perché non lo aveva fatto prima? Quanto era più semplice di tutte le manovre da signora che le avevano insegnato! E i suoi occhi cercarono quelli di lui.
In questi era un'espressione di costernazione, di incredulità e di qualche altra cosa... Che cos'era? Sì, Geraldo aveva la stessa espressione il giorno in cui il suo cane preferito si era rotto una gamba, e bisognò abbatterlo. Perché le veniva in mente questo adesso? Che pensiero stupido. E perché Ashley la guardava così stranamente e non parlava? Qualche cosa di simile a una maschera di buona educazione apparve ora sul suo viso, ed egli sorrise galantemente.
- Non vi basta di aver fatto oggi collezione dei cuori di tutti gli altri uomini? - E la sua voce aveva l'antica nota carezzevole e scherzosa. - Volete proprio l'umanità? Ebbene, avete sempre avuto il mio cuore e lo sapete benissimo. Da quando vi sono spuntati i primi denti.-
- No... nulla di tutto questo.- Non era così che ella aveva immaginato la cosa. Nel pazzo vortice di idee che si agitavano nel suo cervello, una stava cominciando a prendere forma. Per una ragione che ella ignorava, Ashley si comportava come se ella stesse civettando con lui. Ma egli sapeva che non era così. Era sicura che lo sapeva.
- Ashley... Ashley... dite... dovete... Oh, non scherzate adesso! Io ho il vostro cuore? Oh caro, io vi a...-
La mano di lui le chiuse le labbra rapidamente. La maschera era scomparsa.
- Non dovete dire queste cose, Rossella! Non dovete. Non è questo il vostro pensiero. Odierete voi stessa per averle dette, e odierete me perché le ho ascoltate.-
Ella volse la testa altrove. Un fiotto caldo correva velocemente nelle sue vene.
- Non potrò mai odiarvi. Vi dico che vi amo e so che voi dovete volermi bene perché... - s'interruppe. Non aveva mai visto un'espressione così dolorosa sul viso di nessuno. - Ashley, mi volete bene... non è vero? -
- Sì - rispose egli con voce opaca. - Vi voglio bene.-
Se le avesse detto che l'odiava ella non si sarebbe spaventata di più. Afferrò la sua manica senza parlare.
- Rossella, - riprese egli - non possiamo andar via dimenticare che abbiamo detto queste cose? -
- No, - bisbigliò la fanciulla. - Non posso. Non desiderate... sposarmi?
Egli replicò: - Sto per sposare Melania.-
Senza saper come, si accorse di esser seduta sulla bassa sedia di velluto; Ashley, sullo sgabello ai suoi piedi, le teneva ambo le mani in una stretta tenace. Le diceva delle cose... delle cose che non avevano senso. La mente di Rossella era vuota, completamente vuota di tutti i pensieri che vi si erano affollati solo un momento prima, e le sue parole le facevano così poca impressione come la pioggia sul vetro. Cadevano in un orecchio che non ascoltava; erano parole tenere e buone, piene di compassione come quelle di un padre che parla a un bambino offeso.
Nella sua incoscienza afferrò il nome di Melania e allora lo fissò negli occhi grigi. Vide in essi quell'aria distante che l'aveva sempre contrariata... e anche un'espressione di odio verso se stesso.
- Il babbo annunzierà il fidanzamento stasera. Ci sposeremo presto. Ve lo avrei detto, ma credevo che lo sapeste. Credevo che lo sapessero tutti... da tanti anni. Non ho mai supposto che voi... avete tanti corteggiatori. Immaginavo che Stuart...-
In lei tornavano ora la vita, il sentimento e la comprensione.
- Ma avete detto or ora che mi volevate bene. -
Le sue mani ardenti le fecero male.
- Cara, perché volete costringermi a dirvi delle cose che possono ferirvi?-
Il silenzio di lei lo costrinse a proseguire.
- Come posso farvi capire queste cose? Siete così giovane e irriflessiva che non sapete che cos'è il matrimonio.-
- So che vi amo.-
- L'amore non basta per fare un matrimonio felice, quando persone sono così diverse come noi. Voi, Rossella, da un uomo volete aver tutto: il corpo, il cuore, l'anima, i pensieri non li aveste sareste infelice. Ed io non potrei darvi tutto di me. Non posso dar tutto a nessuno. E non desidererei tutto il vostro cuore e la vostra anima. Voi ne sareste offesa e arrivereste odiarmi... oh, amaramente! Odiereste i libri che leggo e la musica che amo perché mi toglierebbero a voi anche per un momento, ed io... forse io...-
- La amate? -
- Essa è come me, è del mio sangue e ci comprendiamo a vicenda. Rossella, Rossella! Come posso farvi capire che un matrimonio può essere sereno e felice soltanto fra due persone simili?-
Qualcun altro aveva detto questo: "I simili devono sposare i loro simili, altrimenti non vi sarà felicità". Chi era stato? Le sembrava che fosse passato un milione di anni da quando aveva udito queste parole, che pure non la convincevano.
- Ma avete detto che mi volevate bene.-
- Non avrei dovuto dirlo.-
In fondo al suo cervello si accese una piccola fiamma e l'ira cominciò ad avvampare in lei.
- Dal momento che siete stato tanto mascalzone da dirlo...-
Egli impallidì.
- Sono stato un mascalzone, perché sto per sposare Melania. Ho fatto torto a voi, ma l'ho fatto ancor più grande a Melania. Non avrei dovuto dirlo perché sapevo che non avreste capito. Come potevo fare a meno di volervi bene... a voi che avete tutta la passione di vivere che io non ho? Voi che potete amare e odiare con una violenza che per me è impossibile? Perché siete elementare come il fuoco e il vento e le cose selvagge, mentre io...-
Ella pensò a Melania e improvvisamente vide i suoi tranquilli occhi bruni con la loro espressione distante, le sue placide manine nei mezzi guanti neri di pizzo, i suoi dolci silenzi. E allora la sua ira proruppe, la stessa ira che aveva condotto Geraldo al delitto, ed altri irlandesi loro antenati ad azioni che avevano pagato con la loro testa.
Non vi era adesso in lei più nulla dei beneducati Robillard che sapevano sopportare in silenzio qualsiasi insulto.
- Perché non lo dite, vigliacco! Avete paura di sposarmi! Preferite vivere con quella stupida cretina, che apre la bocca soltanto per dire "sì" e "no" e che alleverà una schiera di marmocchi sciocchi e melliflui come lei! Perché...-
- Non dovete parlare così di Melania! -
- Non debbo, che l'inferno vi sprofondi?! E chi siete voi per dirmi che non debbo? Vigliacco, mascalzone... Mi avete fatto credere che mi avreste sposata e...-
- Siate giusta - pregò la voce di lui. - Quando mai io vi ho...-
Ella non voleva essere giusta benché sapesse che egli diceva la verità. Non aveva mai oltrepassato i limiti dell'amicizia con lei; e, nel ricordare questo, una nuova collera l'invase, la collera dell'orgoglio ferito e della vanità femminile. Gli era corsa dietro mentre egli non la voleva. Preferiva a lei una stupidina, con la faccia linfatica come Melania. Oh, come sarebbe stato meglio se avesse seguito i precetti di Elena e di Mammy e non gli avesse mai rivelato neppure che le era simpatico... meglio qualunque cosa che affrontare questa ardente vergogna!
Balzò in piedi coi pugni stretti ed egli si alzò col volto pieno della muta angoscia di chi è costretto a guardare in faccia alla realtà quando la realtà è dolore.
- Vi odierò finché vivrete, mascalzone... abbietto, abbietto...- Che altra parola voleva dirgli? Non riusciva a trovarne nessuna abbastanza violenta.
- Rossella... vi prego...-
Tese la mano verso di lei e in quel momento ella lo percosse sul viso con tutte le sue forze. Nella stanza silenziosa il rumore fu come uno schiocco di frusta; e improvvisamente la sua ira scomparve lasciandole il cuore pieno di desolazione.
L'impronta rossa della sua mano risaltava sul volto pallido e stanco. Egli non disse nulla, ma le prese la mano sinistra, la portò alle labbra e la baciò. Poi, prima che ella avesse potuto dire ancora una parola, uscì chiudendo piano la porta.
Ella sedette di nuovo, perché la reazione le fece piegare le ginocchia se n'era andato e la memoria del suo viso addolorato l'avrebbe perseguitata fino alla morte.