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AVEVANO percorso dieci leghe sulla strada romana quando Skjalgi avvistò una banda di guerrieri che galoppava in direzione opposta alla loro, stagliandosi sulla sommità di un crinale a est, e Geirmund ordinò di fermarsi per capire chi fossero. Gli sconosciuti erano forse una trentina, e procedevano a spron battuto, senza vessilli.

«Sono sassoni», disse Steinólfur. «Si capisce dagli scudi e dagli elmi. Ma a parte questo, non riesco a...»

«È Ælfred!» esclamò Eskil.

Geirmund si sforzò di distinguerli. «Ælfred?»

«Sì. Ælfred.» Eskil sputò a terra dall’alto della sella. «L’avevo visto a Wareham, insieme a quegli stessi guerrieri. Li riconosco dai mantelli dei cavalli.»

«Ma che sta facendo?» domandò Skjalgi.

«Fugge dalla battaglia», rispose Steinólfur. «Forse la sorte gli ha già voltato le spalle.»

«Forse», ripeté Geirmund. Aveva davanti una scelta, e pochissimi istanti in cui compierla: inseguire la banda del re o proseguire verso Cippanhamm. I suoi guerrieri erano soltanto tre, troppo pochi per affrontare i sassoni. Ma se Eskil ci aveva visto giusto, allora Ælfred era sfuggito alla morsa dei danesi, perciò Cippanhamm non avrebbe segnato la fine del Wessex, perché a prescindere dall’esito della battaglia il regno sarebbe caduto solo quando il suo re fosse stato catturato e ucciso.

«Sei sicuro che sia lui?» domandò.

«Potrei giurarlo sulla spada di mio fratello», ripeté Eskil. «Quello è Ælfred.»

«Secondo voi ci hanno visto?» chiese Skjalgi.

«Non hanno rallentato o cambiato direzione», disse Steinólfur, poi si guardò intorno. «Noi ci troviamo su un terreno più basso, con qualche albero di copertura, e siamo appena in quattro. Forse non ci hanno notati.»

«Dobbiamo seguirli», disse Geirmund. «Sono troppi per combatterli, ma almeno possiamo scoprire dove sono diretti, e forse trovare il modo di uccidere il loro re. In ogni caso sapremo dove si è rifugiato, e potremo tornare in seguito con più guerrieri.»

Tutti approvarono il piano, perciò invertirono la rotta e si lanciarono all’inseguimento, cercando di tenersi il più nascosti possibile mentre tallonavano il nemico. I sassoni seguirono il crinale fino al margine settentrionale della foresta di Selwood, e giunti là scesero a valle, imboccando la strada romana verso sud. Geirmund e i suoi cercarono di tenersi a distanza senza perderli di vista, confidando che, se anche i sassoni si fossero accorti di loro, comunque non li avrebbero temuti: per braccarli Guthrum non avrebbe certo inviato soltanto quattro cavalieri.

Infine incrociarono di nuovo il macigno che contrassegnava il luogo in cui quella mattina avevano amputato il braccio di Rafn. Superando al galoppo la pozza di sangue, Geirmund dovette imporsi di non rallentare. Avrebbe voluto fermarsi per vedere se Rafn era ancora vivo, ma non c’era tempo per le deviazioni.

Qualche lega dopo il sole cominciò a calare, e i sassoni si accamparono per la notte al bordo della strada. Né loro né le Pellacce accesero fuochi, e Geirmund tenne i suoi guerrieri a distanza di sicurezza, per non farsi sorprendere da eventuali ricognitori di Ælfred.

I sassoni ripresero il cammino prima dell’alba, e quel giorno puntarono verso la regione di valli e alture che all’andata aveva permesso alle Pellacce di Hel di elevarsi sopra le paludi. Proseguirono per sei leghe tra boschi di frassini e aceri, all’ombra delle colline erbose e delle pareti di roccia chiara. Poi la strada romana tornò a inoltrarsi tra gli acquitrini, e il drappello di Ælfred spronò i cavalli ancora per una ventina di leghe verso sud prima di fermarsi per la notte. La mattina dopo lasciò la strada, avviandosi a ovest tra le paludi.

«Sembrano orientarsi bene da queste parti», commentò Steinólfur.

«Credo avessero deciso il tragitto fin da Cippanhamm», disse Eskil. «Questa fuga mi sembra programmata.»

«A quale scopo?» domandò Skjalgi. «Dove sono diretti?»

«Lo scopriremo presto», concluse Geirmund.

Poi anche lui e i suoi guerrieri si avventurarono tra i pantani, districandosi tra l’erba alta e le macchie fitte di ontani avvolti nella nebbia, riuscendo a tenersi all’asciutto solo perché i sassoni che li guidavano conoscevano i sentieri adatti ai cavalli. Ma si trattava comunque di mulattiere strette e sempre più assediate dagli stagni, a mezzogiorno la terra sparì del tutto, e dovettero fermarsi.

Si accucciarono tra le canne, restando a sbirciare Ælfred e i suoi uomini che raggiungevano un gruppetto di isolotti uniti da passerelle di legno sopra un vasto specchio d’acqua. Sull’isola più vicina alla sponda sorgeva un villaggio, con un andirivieni di piccole imbarcazioni e parecchi guerrieri a difenderne la cinta protettiva, ma su quella successiva i sassoni avevano costruito un’alta palizzata, oltre la quale, tra gli alberi, spuntava una roccaforte.

Eskil scosse la testa. «Che cosa vi avevo detto? Avevano un piano.»

«Hai ragione», annuì Steinólfur. «Quel forte è robusto, e sembra anche recente.»

«Possiamo espugnarlo?» domandò Skjalgi.

Il guerriero si girò a guardare la strada da cui erano venuti. «Nessun esercito potrebbe marciare in quella palude.»

«Però potremmo arrivarci con le navi.» Eskil indicò la distesa d’acqua intorno alle isole. «Dev’esserci per forza un canale che collega il lago al mare...»

«Tranne che Guthrum non ha più una flotta», lo interruppe Geirmund, lasciando che la frustrazione gli inasprisse la voce. «E sono sicuro che Ælfred lo sa. Ha scelto questo posto perché i danesi non possono assediarlo, e qui ha tutta l’acqua e il cibo di cui ha bisogno, tenendosi fuori dalla nostra portata. Potrebbe restarsene comodamente nel suo forte e continuare a definirsi re del Wessex finché non morirà di vecchiaia.»

«Può anche definirsi re», ribatté Steinólfur, «ma di che cosa? Di questa palude desolata?»

«Per i sassoni è lui il re, a prescindere dalle terre su cui regna», spiegò Geirmund. «Per capirlo, bisogna pensare come i cristiani. Credono che Ælfred sia il prescelto del loro dio. E finché resta in vita, nel Wessex ci saranno sempre aldermanni pronti a seguirlo, persino in questa reggia tra gli acquitrini.»

«Dunque che si fa?» chiese Skjalgi.

«Non lo so ancora», rispose lui. «Penseremo a un piano, ma per ora dobbiamo raggiungere Cippanhamm, combattere, e riferire a Guthrum e agli altri danesi quanto abbiamo scoperto.»

I suoi tre compagni sembravano restii ad andarsene, e Geirmund li capiva. Avevano l’isola su cui si era asserragliato Ælfred proprio davanti agli occhi, quasi entro il raggio di una freccia, e c’era da impazzire di frustrazione ad avere il nemico tanto vicino, senza poterlo raggiungere e uccidere.

«Andiamocene», ripeté Geirmund.

Cercarono di ritrovare i sentieri percorsi all’andata, ma si persero parecchie volte in quel labirinto di alberi, erba alta e fango, una dimostrazione ulteriore della forza della posizione di Ælfred. Quando infine riemersero sulla strada romana, coperti di punture di insetti e stravolti di stanchezza, la luce del giorno si era spenta, e furono costretti a fermarsi per la notte prima di riprendere la marcia verso nord.

Due giorni dopo arrivarono al macigno nella foresta di Selwood, e Geirmund ordinò una sosta per vedere se Vetr fosse ancora tra gli alberi, e cosa ne fosse stato di Rafn. Si avviarono a piedi, conducendo i cavalli per le redini, e trovarono il danese ferito accasciato nello stesso luogo in cui l’avevano lasciato, e pallido quanto Vetr. Il respiro era impercettibile sotto il mucchio di coperte, e di Vetr non c’era traccia, ma Geirmund sapeva che non poteva essersi allontanato di molto. Cominciò ad avanzare verso Rafn, domandandosi se si fosse ripreso dalla febbre e dallo sgomento dell’amputazione.

In quell’istante sentì un fruscio simile al soffio del vento, e una lancia fendette l’aria proprio davanti alla sua gola, ma il guerriero che la brandiva, nascosto dietro un tronco, la ritirò appena capì chi aveva davanti.

«Geirmund!» Vetr conficcò la punta di Dauðavindur nel terreno e chinò il capo. «Perdonami, avrei dovuto guardare meglio.»

«L’hai fatto», rispose lui. «È l’unico motivo per cui ho ancora la testa attaccata al collo.»

«Pellaccia-di-Hel?»

La voce proveniva da un punto ai suoi piedi. Geirmund abbassò lo sguardo, stupito nel constatare che Rafn lo stava fissando, e cadde in ginocchio al suo fianco. «Sei vivo!»

«Me lo auguro», rispose Rafn, con un filo di voce e un sorriso fioco. «Perché di certo questo non è il Valhalla.»

«Hai la forza di Thór», disse Geirmund.

«E la fortuna di Týr», ribatté lui, indicando il moncherino con gli occhi. «Solo che invece di perdere un arto nelle fauci di Fenrir, l’ho perso per una lama sassone e per la mia stessa stupidità.»

«Perdonaci», mormorò Geirmund. «Se fosse stato possibile salvarlo...»

«Lo so.» Rafn rivolse uno sguardo a Vetr, e una comunicazione muta passò tra di loro. «La colpa è stata mia. E sarà la mia fine.»

«Non è giunta la tua ora», ribatté Geirmund. «Sei una Pellaccia di Hel, e anche con un braccio solo resti due volte più letale di qualsiasi sassone.»

Rafn fece un verso di scherno. «Non è un gran vanto, ma grazie di averlo detto.»

«Come sta il tuo braccio?» domandò Steinólfur.

«Credo che Vetr l’abbia bruciato.»

Skjalgi rise, ma Steinólfur restò perfettamente serio. «Sai cosa intendo», insisté.

Rafn si guardò di nuovo il moncherino. «Fa male, ma si sta rimarginando.»

Steinólfur si girò verso Vetr. «Febbre?»

«Alta per due giorni, poi è calata», disse il danese pallido. «La ferita cola ancora, ma adesso il fluido è quasi trasparente.»

Steinólfur sorrise. «Ottime notizie. Ora gli serve un vitto abbondante, con molto formaggio, carne e miele, e birra a volontà.»

«Mangiare e bere mi riescono ancora bene.»

«E cavalcare?» domandò Geirmund.

Vetr sembrò sul punto di rispondere «no» al suo posto, ma Rafn parlò per primo. «Sì. Qui mi annoio troppo, e da mangiare nel bosco si trovano solo scoiattoli.»

«Allora andiamo», disse Geirmund.

Si affrettarono a smontare il campo, poi aiutarono Rafn ad alzarsi. Lui tremò di freddo quando emerse dal suo bozzolo di pellicce, ed era più malfermo sulle gambe di quanto Geirmund avesse immaginato. Serviva qualcuno che cavalcasse con lui per tenerlo in sella, e poiché Enbarr era il cavallo più alto e robusto del gruppo, lui lo cedette a Vetr e Rafn, e prese per sé quello di Vetr.

Per quanto decisa e salda l’andatura di Enbarr, ogni scossone strappava una fitta al moncherino di Rafn, ma lui strinse i denti, e non si lasciò sfuggire nemmeno un lamento. I compagni si fermarono spesso per permettergli di riposare, ma le soste prolungarono il viaggio, costringendoli ad accamparsi una notte in più al bordo della strada romana.

Quando infine giunsero a Cippanhamm, si videro circondati dai segni della battaglia. La città sorgeva in cima a un’altura, e una sottile foschia mattutina avvolgeva la valle ai suoi piedi. Cataste di cadaveri sassoni in putrefazione offrivano un banchetto macabro a corvi, volpi e altri animali, e nell’aria ristagnava ancora il sentore di bruciato dalle pire erette per onorare i morti. Geirmund contò i mucchi di legna carbonizzata, e trovandone il numero inferiore a quello di sassoni caduti, recitò un ringraziamento muto a Óðinn. Ælfred era sfuggito alla rete, ma i danesi sembravano aver conquistato il campo.

Avviandosi sulla collina verso la città, la piccola compagnia di Geirmund superò gruppi di danesi e prigionieri sassoni impegnati a scavare trincee profonde e a erigere palizzate.

«Guthrum conta di asserragliarsi qui», commentò Eskil.

«Peccato che dovrebbe marciare su Wintanceastre», replicò Steinólfur, ed Eskil assentì con un cenno.

Lasciato Rafn a riposare in una locanda, Geirmund andò in cerca di Birna e delle altre Pellacce di Hel, e rabbrividì di contentezza trovandola incolume. Il cuore e la mente della guerriera piangevano ancora la perdita di Thorgrim, un vuoto gelido che il sangue sassone versato non era riuscito a colmare o scaldare, ma la notizia che Rafn era vivo le risollevò l’umore, e lei si avviò subito a raggiungerlo. Le Pellacce di Hel si erano ridotte a ventisette guerrieri, e Geirmund li salutò uno per uno prima di mettersi in cerca dei suoi genitori.

Chiese informazioni a qualche danese in città, ma ogni volta che sentivano pronunciare i nomi di Hjörr e Ljufvina quelli abbassavano lo sguardo, e gli mostravano la direzione con un gesto, senza aprire bocca. Raggiunta l’abitazione indicata, Geirmund comprese il motivo di quel silenzio.

Sua madre sedeva sola all’ombra di un olmo, su una panca addossata al muro della capanna in cui si era sistemata, e lui restò a lungo a guardarla senza che lei si accorgesse della sua presenza. Aveva lo sguardo perso in lontananza, oltre i confini del villaggio, e il volto e gli occhi erano vuoti, privi di emozioni o pensiero, come se il suo hugr avesse lasciato il suo corpo. Quando infine lei lo vide, per un lungo istante sembrò non riconoscerlo, ma infine si riscosse e tornò in sé.

«Geirmund», mormorò, alzandosi mentre lui si avvicinava.

«Madre.»

Si abbracciarono, stringendosi con tutte le forze ma restando in silenzio, perché lui non voleva sentire le parole che presto sua madre gli avrebbe detto, e lei non voleva pronunciarle. Geirmund intuiva di trovarsi davanti a una porta del destino, e che una volta varcata la soglia non ci sarebbe più stato ritorno.

Tra le sue braccia Ljufvina sembrava smagrita, e i suoi capelli odoravano ancora del fumo dalla pira. «Papà?» bisbigliò infine lui, preparandosi alla notizia.

Lei lo strinse più forte, continuò a tacere per un lungo istante, e infine si staccò, con gli occhi rossi ma asciutti, come se avesse già versato tutte le sue lacrime.

«Il mondo ha perso ogni colore», rispose, sfiorando la spilla d’argento che portava sul petto. «Sento il battito del mio cuore, ma non riesco a spiegarmelo. Come può un cuore morto continuare a battere?»

«Avrei dovuto essere con voi», disse lui, immaginando suo padre sul campo di battaglia, accerchiato dai sassoni e rimasto senza spada, e di correre in suo aiuto, ma era come cercare di superare un’ondata che l’aveva già travolto. «Se ci fossi stato, forse avrei potuto...»

Lei gli coprì le labbra con le dita. «Taci, figlio mio. Non c’era niente che potessi fare. Era destino.»

Lui si liberò la bocca prendendole la mano. «Sono stato io a chiedergli di combattere con me contro il Wessex. Eravamo insieme sulla sponda del fiume, a Jorvik, e io gli ho detto...»

«Era destino», ripeté lei. «Il codardo crede di vivere in eterno evitando la battaglia, ma la morte non concede tregua a nessuno. Non era così che diceva sempre Bragi? Sii fiero che tuo padre l’abbia affrontata con coraggio e onore.»

In quel momento Geirmund sentì di aver superato la soglia su cui si era attardato, per inoltrarsi in una sala buia con un trono vuoto, e quella vista gli tolse il fiato. Nient’altro era cambiato, eppure tutto gli appariva estraneo, come se avesse senso solo in funzione di ciò che aveva perduto.

«Aspetta qui», disse sua madre, ed entrò nella capanna, abbassando la testa sotto l’architrave. Poco dopo riemerse con un seax in mano. «Apparteneva a tuo padre. Qualcosa mi ha detto di recuperarla dalla pira, e ora vedo che tu non hai più il tuo.»

Gli tese il seax, che aveva l’impugnatura di corno levigato e una lama di acciaio forgiata dai franchi, e la mano di Geirmund si sentì talmente a suo agio a stringerlo che gli venne spontaneo pensare che fosse volontà degli dei. Aveva la stessa larghezza e lunghezza dell’arma di John che Valka gli aveva fatto bruciare, e calzava il fodero vuoto che portava ancora al fianco come fossero fatti l’uno per l’altra.

«La veggente di Ravensthorpe mi aveva avvertito che ne avrei trovato un altro», mormorò.

«I regni tramontano», dichiarò sua madre. «Le ricchezze spariscono. Io me ne andrò, e anche tu. Un’unica cosa è destinata a durare: l’onore e la fama di chi li ha meritati. Ricorda sempre che sei figlio di Hjörr.»

«E di Ljufvina», aggiunse lui.

Lei sorrise, e sembrò non lo facesse da giorni. «Sono fiera di essere tua madre, e so che anche tuo padre era orgoglioso di te. Voleva conquistare il Wessex in tuo nome. E adesso il regno sassone è vinto.»

Geirmund si impietrì, domandandosi come rivelare la verità a sua madre senza privarla di quell’ultima consolazione. «Quasi vinto», precisò, dopo un momento, e rispose al suo sguardo interrogativo riferendo ciò che aveva scoperto di Ælfred. Alla fine anche lei disse che non si poteva lasciare il re sassone vivo e indisturbato nel suo forte tra le paludi.

«Ne hai parlato con Guthrum?» domandò poi.

«Non l’ho ancora visto.»

«Raggiungilo subito», lo esortò sua madre. «Non dobbiamo concedere ad Ælfred il tempo e la libertà di preparare una controffensiva. Però scegli con cura le parole. Guthrum è diventato un danese dalle molte anime, e non sempre è possibile intuire quale si ha davanti.»

Gli indicò un tempio cristiano in cima alla collina, e lui la lasciò per andare in cerca del re, ma strada facendo incrociò Eivor, che scendeva dal pendio. Fu felice di rivederla, e si salutarono stringendosi con forza le mani, restando in silenzio sotto l’ombra incombente del tempio. Poi lei gli parlò con rispetto di suo padre, e accennò al proprio dolore per la sua scomparsa, anche se sembrava soffrirne più per Ljufvina che per sé, e di questo lui le fu grato. Sapeva che a sua madre sarebbe servito l’appoggio degli amici nei giorni e negli anni di solitudine a venire.

«So che Guthrum ti deve molto, Eivor», disse infine. «Non avrebbe vinto questa battaglia senza di te.»

«Mi è dispiaciuto non averti al mio fianco, amico mio.»

«Mi sono perso una battaglia», rispose lui. «Ma resta ancora da vincere la guerra.»

Lei gli rivolse un sorriso perplesso. «Che intendi dire?»

«Il Wessex non è caduto.»

«Guardati intorno, Pellaccia-di-Hel.» Eivor indicò il villaggio. «Abbiamo sferrato un colpo poderoso ad Ælfred, e...»

«E lui è sopravvissuto», concluse Geirmund.

Lo sguardo di Eivor si incupì, come oscurato da un’ombra. «Sì, è sfuggito alla nostra presa. È scaltro, il re sassone.»

«Io e i miei guerrieri lo abbiamo visto in fuga», le confidò Geirmund, «e lo abbiamo seguito fino a una roccaforte nelle paludi, a sud.»

«È nel Sumorsæte?» chiese lei.

«Non conosco il nome di quel luogo, ma ha costruito una fortificazione su un’isola tra gli acquitrini.»

Eivor annuì lentamente, come rimuginando tra sé. «Ælfred ordiva le sue trame di nascosto da molto, molto tempo. Nutriva grandi ambizioni per i regni sassoni d’Inghilterra, e le coltiva ancora.»

«I regni sassoni non esistono più», replicò lui. «Adesso sono danesi, tranne per il Wessex, che comunque cadrà presto.» Alzò lo sguardo sulla collina, verso il tempio. «Stavo giusto andando da Guthrum per stendere un piano di...»

«Si rifiuterà di vederti», lo interruppe lei. «Ero andata anch’io a parlargli, e non mi ha concesso udienza. È così da quando abbiamo acceso le pire dei caduti. E parlava della croce dei cristiani in un modo che...»

«Cosa?»

Lei scosse la testa. «Posso dirti solo che è cambiato, Geirmund.»

«Vedo che anche tu non parli più con la libertà di un tempo.»

«Può darsi», rispose Eivor. «Ma forse è una scelta più saggia.»

«Per quanto cambiato, Guthrum non può tenermi a distanza.» Geirmund fece per avviarsi. «Lo costringerò ad ascoltarmi...»

Lei gli appoggiò una mano sul petto per trattenerlo. «Sii cauto, Pellaccia-di-Hel. Anche alla tua lingua potrebbe far comodo un pizzico di saggezza.» Poi abbassò la mano. «Esistono molti sentieri nella vita, e molte rotte delle balene. Se mai venisse il giorno in cui tu non sia più vincolato al giuramento reso a Guthrum, avrai un posto a Ravensthorpe.»

«Ti ringrazio, Eivor.» Geirmund scorse lo sguardo lungo il pendio, verso la capanna di sua madre. «Spero ci sia un posto anche per Ljufvina. Detesto pensarla sola a Jorvik.»

«Il suo posto è già pronto.» Il sorriso della guerriera era triste e dolce. «E tua madre lo sa. Ma la conosci: dev’essere lei a decidere.»

Geirmund rispecchiò il suo sorriso. «Lo so.»

«Lascio Cippanhamm, però spero di rivederti.» Guardò verso la sommità della collina, e il suo sorriso si spense. «In Inghilterra un uomo del Nord avrà sempre bisogno di alleati.»

Si abbracciarono, poi Eivor scese il pendio e Geirmund salì verso il tempio, che somigliava molto a quello di Torthred e dei suoi monaci, anche se più in piccolo. Il portone pendeva sghembo dai cardini, con le travi e i rinforzi di metallo sfondati, e superando la soglia Geirmund alzò la voce.

«Sei qui, mio re?»

«Sono qui», rispose una voce dall’interno. «Quello che sento è Pellaccia-di-Hel, tornato ancora una volta dal regno dei morti?»

Geirmund avanzò nella penombra, badando a dove metteva i piedi. Qualche vetrata conservava ancora le sue decorazioni colorate, ma altre erano crivellate di fori, e la luce esterna filtrava in lame dorate che si incrociavano al centro dello spazio come spade in duello. Geirmund sentiva i frammenti di vetro che si sbriciolavano sotto i suoi passi.

«Sono tornato», riprese. «E porto notizie di Ælfred.»

Guthrum restò in silenzio per un momento, poi ripeté soltanto il nome: «Ælfred».

La voce proveniva dal fondo del tempio, e Geirmund avanzò tra le ombre, i fasci di luce e il pulviscolo sospeso nell’aria verso la sua fonte. «Sì, Ælfred. Si è barricato in un forte a sudovest. Eivor dice che il luogo si chiama Sumorsæte. È una terra insidiosa di paludi profonde, ma credo si possa escogitare un piano per stanarlo.»

Guthrum continuava a tacere, e infine Geirmund lo vide, in piedi davanti all’altare cristiano.

«Mi hai sentito, mio re?» domandò. «Ælfred è...»

«Ti ho sentito. Ælfred è nel Sumorsæte.»

Dal tono, Geirmund ebbe il sospetto che lo sapesse già. «Ci ho riflettuto, e forse ho trovato il modo di raggiungerlo. Non sarà facile, ma non è impossibile. Non con un grande esercito, ma nemmeno soltanto con le mie Pellacce di Hel. Se mi concedi qualche guerriero...»

«Lascerai Ælfred dov’è», lo interruppe Guthrum.

«Ma possiamo snidarlo, e il Wessex non sarà mai nostro se...»

«Ho detto di lasciarlo dov’è!»

La rabbia repentina del danese sorprese Geirmund al punto da indurlo ad arretrare. «Non intendevo mancarti di rispetto. Ti ho parlato in questo modo solo perché la lotta per la conquista del Wessex non è ancora finita.»

Guthrum sembrò calmarsi. «Ma potrebbe esserlo.»

«E come?» Geirmund aggrottò la fronte, sforzandosi di decifrare il significato di quelle parole. «Che intendi dire?»

Il re inspirò a fondo, e quando espirò sembrò rattrappirsi su se stesso. «Che sono persino più stanco della guerra di quando venni per la prima volta nella dimora di tuo padre.»

«Siamo tutti stanchi della guerra!» sbottò lui, incapace di continuare a trattenere la collera e la delusione. «Credi di poterti nascondere da lei? Qui, in questo tempio cristiano?»

«Nascondermi?» Guthrum diede le spalle all’altare, e per la prima volta lo guardò negli occhi. «Osi darmi del codardo?»

«Non vorrei doverlo pensare.» Geirmund si zittì per un momento, ricordando il consiglio di Eivor, e soppesò con cura le sue parole. «Ho notato che stai potenziando le difese di questa città, ed è una saggia decisione. A volte è meglio fermarsi e raccogliere le forze. Ma può accadere che la paura renda l’attesa più lunga del dovuto. Perché nella sua rocca Ælfred non resterà con le mani in mano, e ogni giorno che passa gli dà modo di rafforzarsi.»

«E con questo?» ribatté Guthrum. «Non può toglierci la Mercia o l’Anglia orientale. E nemmeno il Northumbria. Ora sono danesi, e lui lo sa.»

«Per ora», obiettò Geirmund. «Ma se lasciamo sul trono anche uno solo dei loro re, e soprattutto Ælfred del Wessex, un giorno i sassoni si solleveranno per riprendersi le loro terre. Lo sai anche tu.»

Guthrum tornò a voltarsi verso l’altare. «Forse c’è un modo di raggiungere una pace duratura con Ælfred.»

«Una pace duratura?» si scaldò di nuovo Geirmund. «Ma che discorsi sono? Cosa ne è stato del danese che ho conosciuto ad Avaldsnes? Avevi giurato che l’Inghilterra sarebbe stata nostra, ma solo dopo la conquista del Wessex. È per questo che ho solcato i mari e sono venuto qui. Ed è il motivo per cui ti ho giurato fedeltà, voltando le spalle a mio padre, a mia madre e a mio fratello.» Si batté un pugno sul petto come ficcandoci un pugnale. «Mio padre è caduto qui! Io ho perduto guerrieri e amici! Rifiuto di accettare che siano morti per niente.»

Il re fece un altro sospiro. «Ti ringrazio della tua franchezza, Pellaccia-di-Hel. Rifletterò su ciò che mi hai detto, ma per ora la discussione è chiusa. Lasciami solo.»

Geirmund restò immobile per qualche istante, ammutolito dall’incredulità e con la rabbia che gli ribolliva nelle vene. Era evidente che il re non intendeva più ascoltarlo, e lui temeva ciò che la collera poteva spingerlo a dire o a fare. Perciò girò sui tacchi e si allontanò come una furia.