26
LE Pellacce di Hel lasciarono Grantabridge tre giorni prima dell’esercito di Guthrum. Il quarto giorno avrebbero raggiunto il confine fluviale tra Mercia e Wessex, e cominciato a colpire le città di tutta la zona. Il nono giorno avrebbero galoppato verso la rovina romana sul fiume Exe per incontrare le oltre duecento navi al comando dei re danesi Oscetel e Anwend, in arrivo dall’Anglia orientale. Una volta lì avrebbero atteso di essere richiamati da Guthrum. Il piano avrebbe dato ai danesi due roccaforti in Wessex da cui colpire i territori del Defenascire e del Wiltescire, e attaccare la sede di Ælfred a Wintanceastre. Girava voce che persino Ubba intendesse tornare dalle sue razzie in Irlanda e Galles per unirsi all’offensiva e, sebbene Geirmund temesse le conseguenze di un loro incontro, i suoi guerrieri consideravano un buon presagio la presenza di un figlio di Ragnar.
Imboccarono Icknield Way, la strada che Geirmund aveva già percorso con jarl Sidroc e con John, ma a una certa distanza da Wælingford la lasciarono e si avviarono verso ovest, per sfuggire agli esploratori di Ælfred. La sera del quarto giorno emersero da un bosco di betulle davanti a una valle, con una grande città mercato sulla sponda del Thames, un monastero e un ponte sul fiume.
«È da là che dobbiamo sconfinare nel Wessex.» Geirmund smontò da Enbarr. «Attaccheremo appena sceso il buio, e la daremo alle fiamme. Poi proseguiremo.»
«Ci sarà parecchio argento da razziare», intervenne Thorgrim. «Quei monaci...»
«Non abbiamo tempo per i saccheggi», lo interruppe lui. «Pensate piuttosto alle dieci libbre che avrete al ritorno.»
Thorgrim si voltò verso Birna scuotendo il capo, e lei si strinse nelle spalle. Geirmund sentì qualche altro brontolio levarsi dai guerrieri, ancora seduti in sella tra i tronchi bianchi degli alberi, e si girò a guardarli.
«Statemi bene a sentire», disse, indurendo la voce. «Ricordate qual è il nostro compito qui, e il giuramento che avete pronunciato a tutti i compagni. Ormai è tardi per tirarsi indietro. Se la vostra avidità di bottino è più grande del vostro onore, sareste dovuti restare a Grantabridge con gli altri codardi, dove il destino vi avrebbe sorpresi mentre smaltivate la sbronza in una stalla, o a metà di una pisciata.»
A quelle parole i guerrieri si drizzarono come le spighe di un campo dopo una folata di vento. Steinólfur incrociò le braccia sul petto e si coprì la bocca per nascondere un sorrisetto.
«Invece siete qui», proseguì Geirmund. «È qui che incontrerete il vostro fato, e io non accetto che i miei guerrieri lo affrontino con disonore. Perciò adesso smontate da cavallo e riposate, finché è ancora possibile.» Si girò a indicare la città in lontananza. «Quando calerà il buio ci tramuteremo in troll, e metteremo in corpo ai sassoni un terrore ben peggiore di quello della morte.» Infine li scrutò tutti negli occhi, e ciascuno di loro rispose con un deciso cenno di assenso.
«Avete sentito il capo», disse Thorgrim, scendendo da cavallo, e gli altri lo imitarono.
Geirmund condusse Enbarr un po’ in disparte, e poco dopo fu raggiunto da Steinólfur.
«Troll?» domandò.
«O demoni.» Geirmund appoggiò una mano al tronco semi-scortecciato di una betulla. «Qualunque cosa i sassoni vedano nei loro incubi.» Scrutò l’albero, strappò un pezzo di corteccia e restò a rigirarselo tra le dita. «Loro temono i troll. Li ho visti nei libri che mi ha mostrato Torthred.»
«Conosco quello sguardo», fece Steinólfur. «Tu hai un piano.»
Geirmund stese la corteccia arrotolata sul palmo. «Conosci la nostra missione. Dobbiamo fare qualcosa che Ælfred non possa ignorare.»
«Non credi che basti incendiargli le città?»
«Non all’inizio.» Geirmund indicò gli altri con un cenno. «Se gli abitanti di quelle città gli riferissero che siamo soltanto una piccola compagnia, Ælfred potrebbe non scagliarci contro tutto il suo esercito. Potrebbe persino intuire il piano di Guthrum e cercare le forze danesi altrove.»
«Cosa significa? Che non dobbiamo lasciare testimoni?»
Lui scosse la testa, poi forò con il pollice uno dei nodi neri che segnavano la corteccia bianca. «Sto dicendo che i testimoni non devono sapere cos’hanno visto.» Si coprì il volto con la corteccia, indossandola come una maschera, e scrutando il compagno dal foro appena aperto. «Ad Ælfred arriverà la notizia di un branco selvaggio di troll danesi e demoni che tormenta il suo popolo nel cuore della notte, un enigma che l’astuto re sassone dovrà sforzarsi di risolvere.»
Steinólfur annuì, ma molto lentamente, come se l’immagine del piano si stesse precisando poco alla volta, avvicinandosi da una grande distanza. «Alcuni sosterrebbero che non c’è onore a nascondersi dietro una maschera.»
Geirmund si abbassò la corteccia dal volto. «Infatti è così, se ci si nasconde per paura o per vergogna. Noi però non proviamo né l’una né l’altra. I sassoni che stiamo per attaccare non sono guerrieri, perciò la nostra è soltanto astuzia. Quando andremo in battaglia, affronteremo il nemico a viso scoperto.» Porse il pezzo di corteccia a Steinólfur. «Avverti gli altri: ciascuno di noi dovrà camuffarsi in modo tale da spaventare i suoi stessi figli. E servono maschere anche per i cavalli.»
Il guerriero più anziano restò a guardare la corteccia per un momento, poi ci batté una nocca. «Sarà fatto.»
Si avviò, e Geirmund usò il suo pugnale di bronzo per staccare un altro pezzo di corteccia dal tronco. Ci intagliò due fori per gli occhi e uno squarcio sghembo per la bocca, tramutando la maschera in una sorta di teschio, poi ci infilò uno spago di cuoio da legare dietro la testa. Dopodiché prese altri pezzi di corteccia e li arrotolò, per dare a Enbarr un paio di corna, e altri ancora per sé e per il cavallo in cui infilare qualche ramo.
Quando finì di mascherare se stesso e il suo stallone la luna era già sorta, e voltandosi verso le Pellacce di Hel le trovò quasi invisibili nel buio, e tramutate in spiriti malevoli e troll, con corna e zanne ricavate dai rami degli alberi, e i volti sfigurati dalle smorfie di lupi, spettri e altre orrende creature senza nome. Erano tutti pronti e impazienti nella foresta; coperti dalla corteccia contorta e bianca come ossa calcinate, sembravano betulle loro stessi, come se gli alberi si fossero divelti dal terreno per prendere vita e infestare il mondo.
«Ora sì che siete Pellacce di Hel!» esclamò Geirmund. «Vedendovi, persino i vostri padri si cacherebbero addosso, e stanotte toccherà ai sassoni.»
Il borbottio basso di una risata compiaciuta si diffuse tra i guerrieri, e infine si avviarono nella valle, conducendo a piedi i cavalli nell’oscurità insidiosa. A mano a mano che si avvicinavano alla città sentivano sempre più distinto il profondo canto notturno dei monaci, e sostarono ai margini dell’abitato finché quelli non smisero di pregare per tornare a coricarsi. Né la città né il monastero erano protetti da un muro di cinta, e a fare la guardia c’era appena un paio di sentinelle.
«Quando impareranno, questi sassoni?» domandò Skjalgi. La maschera lo faceva sembrare una volpe del Nord, e gli distorceva la voce.
«Se preferisci, possiamo aspettare che gli idioti si decidano a costruire fortificazioni», replicò Birna, da dietro un volto da draugr.
«Ai loro templi non servivano difese prima che arrivassero i danesi», intervenne Vetr. «Ma impareranno anche loro. Stanno imparando già adesso.»
«Per questo il Wessex va conquistato subito», concluse Geirmund, estraendo l’acciarino dalla bisaccia. «Accendete le vostre torce. Sparpagliatevi e appiccate il fuoco ovunque. E intanto ululate e gemete come bestie nel vento. Combattete solo se non potete evitarlo.» Indicò a sud, verso il fiume. «Poi dirigetevi al ponte. Immagino che sarà difeso, perciò una volta arrivati là preparatevi ad affrontare frecce e una certa resistenza. Superata quella raggiungeremo l’altra sponda.»
«E chi non arriva al ponte?» domandò Steinólfur. «Che ne sarà di loro?»
Geirmund scorse lo sguardo sulle espressioni contorte delle maschere, cercando di indovinare i volti dei guerrieri dietro il camuffamento. «Io non lascerò indietro nessuno», rispose. «Ma le Pellacce di Hel dovranno proseguire con o senza di me, per Guthrum e per il nuovo regno danese. Tutti coloro che arrivano al ponte dovranno sparire prima che la città alzi le difese.»
La prospettiva di rinunciare al loro capo non sembrò entusiasmare i guerrieri, ma nessuno sollevò obiezioni.
Strappando una scintilla all’acciarino Geirmund accese la fiamma, soffiandoci sopra per alimentarla. Montò in sella a Enbarr, e quando anche gli altri ebbero fatto lo stesso, tese in aria la torcia e partì al galoppo verso la città, levando un ruggito poderoso. Un attimo dopo sentì alle sue spalle un rimbombo di zoccoli lanciati a tutta velocità, accompagnato da un coro di grida stridule da gelare il sangue nelle vene e fare impallidire di paura persino il guerriero più coraggioso. A quel suono il suo ululato si tramutò in una risata che echeggiò dietro la maschera.
Distavano circa un acro dall’abitato quando una vedetta lanciò l’allarme, salvo poi voltare le spalle e darsela a gambe invece che fermarsi a combattere. Un attimo dopo Geirmund raggiunse la prima capanna e avvicinò la torcia al tetto di paglia.
Le Pellacce si dispersero nella città, agitando le scuri in aria e appiccando il fuoco a tutto ciò che incontravano. A un bivio nei pressi del monastero alcuni imboccarono il vicolo a ovest, altri quello a sud, mentre altri ancora si avviavano a distruggere il tempio cristiano. Geirmund teneva d’occhio le porte e le finestre degli edifici già in fiamme nel caso spuntasse qualcuno deciso a difendere la città, ma gli unici abitanti visibili pensavano solo alla fuga, e in gran parte erano donne e bambini.
Spronò Enbarr lungo una strada che sembrava collegare il mercato al fiume. Nel giro di poco il fumo diventò soffocante, e la foschia rossastra si riempì di ombre che si dimenavano, come se la città si fosse tramutata in Muspelheim, e le Pellacce di Hell in jötnar del fuoco. L’aria era piena degli starnazzi e dei muggiti degli animali, e da qualche parte in direzione del monastero una campana aveva cominciato a suonare.
Dopo duecento passi Geirmund raggiunse la piazza del mercato, dove banchi e carri bruciavano già e molti dei suoi guerrieri galoppavano all’impazzata, urlando maledizioni. Altri duecento passi e arrivò al fiume, dov’era riunita buona parte della compagnia. Nella prima fila trovò Steinólfur.
«Speriamo di aver vita altrettanto facile anche in tutte le altre città del Wessex», gli disse.
«Non abbiamo ancora superato il fiume. Guarda.»
Voltandosi verso il ponte Geirmund vide che a difenderlo era rimasto soltanto un ragazzino, con un elmo a scodella che gli cadeva sugli occhi, e una spada e uno scudo troppo pesanti per le braccia mingherline.
«Chi va a levarcelo di mezzo?» domandò Steinólfur. Il tono era truce, ma Geirmund capì al volo il vero senso della domanda. Le Pellacce di Hel non erano tipi da ammazzare i bambini.
«Ci penso io», rispose.
Scese di sella e si avviò al ponte, e vedendolo avvicinarsi il ragazzo piantò i piedi a terra e strinse con forza l’impugnatura della spada. Geirmund non sguainò la propria, ma si fermò a qualche passo dal giovane guerriero, nel remoto caso in cui sapesse usare la lama meglio di quanto sembrasse.
«Qual è il tuo nome?» domandò, inasprendo la voce.
Il ragazzo non rispose.
«Il tuo nome, moccioso!»
«Es-Esmond», balbettò quello.
«Esmond, non siamo venuti qui per ucciderti. Fosse stato così, i miei guerrieri starebbero già bevendo i tuoi occhi e succhiando il midollo delle tue ossa.»
Con un tremito del collo magro il ragazzo deglutì.
«Veniamo da Hel», proseguì Geirmund. «Siamo venuti a spianare la strada a un grande esercito danese che marcia da nord.» Avanzò di un passo. «Come si chiama questo posto?»
«Abingdon.»
«E dove sono i suoi guerrieri?»
«Combattono per Ælfred, che è re per volere di Dio, e...» Alzò la spada. «...che vi distruggerà.»
Geirmund si guardò intorno. «Qui non vedo nessun re. Sei rimasto solo tu a difendere questo posto?»
Gli occhi del ragazzo brillarono di disprezzo e audacia. «Gli altri sono tutti scappati.»
«Ma non tu.» Geirmund avanzò di un altro passo. «Saresti una buona aggiunta alle Pellacce di Hel, Esmond Volontà-d’Acciaio.» Scrutò l’elsa della spada del ragazzo, rivestita d’argento con intarsi neri di uccelli e altri animali che sembravano vivi alla luce della luna. «Hai un’arma pregiata. Sappi che se la punti contro di me sarò costretto a ucciderti, e i miei compagni divoreranno le tue carni. Se invece me la cedi, noi passeremo oltre e tu vivrai. Dunque, che cosa decidi?»
Il ragazzo restò muto e immobile.
«Né il tuo dio né il tuo re vogliono che tu muoia stanotte, ragazzo, e io non voglio ucciderti. Tu vuoi morire?»
«Hai detto che... i danesi stanno arrivando?»
«L’ho detto, ed è la verità.»
Trascorse un altro momento. Poi il ragazzo scagliò la spada e lo scudo oltre il ponte e, prima ancora che venissero risucchiati dall’acqua, lo attraversò di corsa in direzione opposta alla città, dileguandosi nel buio. Geirmund si sporse a guardare il fiume e quasi sorrise.
A quel punto i suoi guerrieri sembravano arrivati tutti, e lo guardavano, in attesa, mentre alle loro spalle la città bruciava. Tornando da Enbarr, sentì il calore delle fiamme sul volto, si augurò che i cittadini inermi fossero riusciti a mettersi in salvo, e montò in sella.
«Che spreco, distruggere così una buona spada», commentò Steinólfur.
Lui si strinse nelle spalle. «Meglio che distruggere un buon guerriero.»
«Anche se sassone?» domandò Thorgrim. «I bambini hanno il brutto vizio di diventare uomini.»
«Quando quel bambino sarà cresciuto, ricorderà che la sua vita è stata risparmiata. Ma prima di allora, ciò che gli ho detto arriverà alle orecchie di Ælfred.» Geirmund si rivolse a Steinólfur. «Ci siamo tutti?»
Il vecchio guerriero annuì. «Tutti.»
«Allora muoviamoci.»
Superarono il Thames e si inoltrarono nel Wessex lungo un sentiero che puntava a sud, finché le prime luci dell’alba non li indussero a cercare riparo in una foresta a est. Si avventurarono nel fitto di ontani e querce fino a un punto ben riparato, ma per essere certi di non attirare l’attenzione non accesero fuochi, limitandosi a mangiare carne secca. Poi Geirmund stabilì i turni di guardia, ordinò agli altri di riposare, e si avvicinò a Rafn e Vetr.
«Se e quando Ælfred muoverà contro di noi, dovremo saperlo in anticipo», disse.
«Andiamo in ricognizione?» domandò Vetr, e lui annuì.
«Porteremo anche Skjalgi con noi», fece Rafn. «Il ragazzo ha la vista acuta.»
Geirmund accordò il suo permesso. Forse Steinólfur si sarebbe preoccupato per lui, ma Skjalgi aveva dato prova di sé come guerriero, e in realtà non era più un ragazzo, anche se per affetto sarebbe passato ancora del tempo prima che le Pellacce smettessero di chiamarlo così.
Rafn e Vetr andarono a cercarlo, e Geirmund si stese a dormire sotto un gigantesco albero di tasso. I rami arrivavano fino a terra, formando una cupola di verde intrecciata come le pareti e il soffitto di una capanna, e il vecchio tronco era enorme ma cavo. Da un lato c’era un pertugio abbastanza grande da permettere di infilarsi all’interno, ma là dentro c’era troppo buio, perciò Geirmund se ne tenne alla larga. Era il genere di albero cui i veggenti chiedono responsi e fanno offerte, abbastanza antico da ricordare gli dei, e talmente imponente che un dio avrebbe potuto restarci appeso per nove giorni e nove notti. Le bacche rosse che spuntavano tra le foglie sembravano gocce di sangue.
Il suo profumo era denso, e Geirmund sedette a terra tra due radici, in un punto reso soffice dagli aghi accumulati per innumerevoli estati, si appoggiò al tronco, chiuse gli occhi e sognò Völund.
Il fabbro non era nella sua fucina sul fondo del mare, ma in un luogo che somigliava al Wessex, con le stesse colline verdi, le valli coperte di boschi, i crinali bianchi di gesso. Era in piedi davanti all’ingresso di un lungo tumulo fiancheggiato da alti menhir. Fissò Geirmund in silenzio poi sparì, e il Wessex si tramutò in una distesa di roghi e cenere. Geirmund e le Pellacce di Hel combattevano contro un esercito di creature in fiamme, fatte di corteccia, e di bambini con zanne acuminate. Poi lui si ritrovò solo, inseguito dai draugr di Aslef e Fasti. Gli incendi si spensero, e il terreno si coprì di uno strato di ghiaccio duro e scivoloso. Il suo respiro addensato si mescolò a una fitta foschia, sorse una luna rossa come sangue, e lui si svegliò.
Sul momento pensò che mentre dormiva fosse scesa la notte, ma poi si rese conto che erano i rami del tasso a creare la tenebra. Era tardo pomeriggio, e il sole cominciava solo allora a tramontare.
Battendo le palpebre e grattandosi la testa, riemerse da sotto i rami, e andò a vedere se Rafn e Vetr fossero tornati. Li trovò insieme a Steinólfur, intenti a rifocillare i cavalli. Skjalgi sembrava fiero di averli seguiti in ricognizione.
«Dov’eri sparito?» gli chiese il guerriero più anziano.
Geirmund indicò l’albero con un cenno della testa. «Mi ero addormentato sotto quel vecchio tasso.»
«Dicono si facciano strani sogni sotto quegli alberi», disse Vetr.
Geirmund preferì non commentare. «Trovato qualcosa?» domandò.
«Di Ælfred nemmeno l’ombra», rispose Vetr. «Ma c’è un villaggio, forse tre leghe a ovest da qui. Potremmo attaccarlo stanotte, e poi tornare nel bosco.»
«Buona idea», fece Geirmund. «Poi però dovremo allontanarci. Nei panni dei sassoni, una foresta come questa sarebbe il primo posto in cui cercherei gli incursori che stanno incendiando le loro città.»
Così sfruttarono l’ultima luce del giorno per attraversare il bosco, poi si fermarono al margine occidentale per procurarsi nuove torce e aspettare il buio. Il secondo abitato non aveva un monastero, e, in mancanza di monaci svegli a pregare, le Pellacce anticiparono l’attacco, indossando le loro maschere poco dopo la mezzanotte, ed emergendo tra i campi e le macchie di olmi. Giunti a una distanza sufficiente da far sentire le loro voci, accesero le torce e caricarono. Come ad Abingdon, non incontrarono alcuna resistenza. Il villaggio era piccolo, con una sala comune modesta, e bruciò in fretta, ma sembrava già semideserto. Geirmund vide soltanto un gruppetto di donne e bambini che fuggiva verso ovest, guaendo e gemendo come prede braccate dai cacciatori.
«Qualcuno li ha avvertiti», disse.
«Il moccioso del ponte?» suggerì Thorgrim, guardandoli scappare dal suo cavallo, accanto a Geirmund e a Birna.
«Sembrano avere una destinazione», intervenne la guerriera. «Dev’esserci un’altra città da quella parte.»
«Forse dovremmo seguirli e attaccare anche quella», propose Thorgrim.
Mancava ancora parecchio all’alba, perciò Geirmund si disse d’accordo. Cavalcarono verso ovest, superando i fuggitivi senza degnarli di uno sguardo e percorrendo una strada fiancheggiata dai campi, e dopo un centinaio di acri si trovarono davanti non una città ma una tenuta, con un vasto edificio centrale circondato da laboratori e capanni. Il luogo era immerso nel buio, senza traccia di bracieri o torce accese.
«La residenza di un aldermanno?» domandò Skjalgi.
«Parrebbe di sì», rispose Steinólfur. «Sarà partito con l’esercito di Ælfred?»
Geirmund spronò Enbarr. «Andiamo a scoprirlo.»
Caricarono di nuovo, ma alcune delle loro torce si erano consumate durante l’ultimo attacco, perciò chi ne aveva ancora si mise in testa agli altri. Levarono il loro ruggito, e a duecento passi dall’edificio principale videro la sagoma nera di un uomo emergere da un capanno. Geirmund si aspettava che fuggisse, invece quello si piantò in mezzo alla strada, e lui strizzò gli occhi, cercando di capire chi avrebbero affrontato.
Un attimo dopo una freccia sibilò in aria, e il cavallo accanto a Enbarr mandò un nitrito e cadde, disarcionando il suo cavaliere. Nel buio Geirmund non riuscì a capire chi fosse l’arciere, ma ora tutta la compagnia era a portata delle sue frecce, perciò bisognava sbrigarsi a eliminarlo. L’uomo ne scoccò altre due prima che riuscissero a raggiungerlo. La prima si conficcò a terra, ma la seconda centrò un altro cavaliere.
Thorgrim lo caricò per primo, menando un gran fendente con la sua scure. La lama spezzò in due l’arco del sassone e lo colpì alla spalla, mandandolo a cadere di lato e sotto gli zoccoli del cavallo di Birna.
Mentre le altre Pellacce galoppavano tra i capanni e intorno alla struttura centrale, per accertarsi che non ci fossero altri difensori in agguato, Geirmund rimandò indietro Steinólfur con un paio di compagni a soccorrere i feriti. Poi scese di sella e si avviò a falcate decise verso il sassone.
Lo trovò contratto e ripiegato su se stesso, immobile ma ancora vivo. Era più vecchio di quanto immaginasse, con la barba grigia e il capo calvo e maculato, e stava impiegando l’ultimo fiato che aveva in corpo per scagliare maledizioni contro quei demoni pagani dei danesi.
«Re Ælfred vi spedirà tutti all’inferno», sibilò, stringendo i denti imbrattati di sangue.
Geirmund si accosciò al suo fianco. «Io ci sono già stato. È per questo che mi chiamano Pellaccia di Hel.»
«Allora Ælfred ti rimanderà da dove sei venuto.» L’uomo cercò di ridere, ma la risata gli uscì come un gemito ansimante. «Siete un branco di idioti. Ælfred è nato su queste terre, e voi osate profanarle? Lui vi ucciderà, sparpaglierà i vostri resti nei campi come lo sterco pagano che siete, e nessuno ricorderà più il vostro nome.»
«Chi sei tu?» gli chiese Geirmund.
«Sono Sæwine. Ho combattuto con...» Fu interrotto da una crisi squassante di tosse, ma poi sputò un grosso coagulo di sangue, macchiandosi il petto, e riprese a parlare. «Ero con Æthelwulf del Bearrocscire quando vi ha annientati a Englefield.» Chiuse gli occhi. «E ora muoio con l’unico rimpianto di essere troppo vecchio per combattere con Ælfred e schiacciarvi di nuovo.»
Qualche Pellaccia si era avvicinata, e ridacchiò a quelle parole, ma le risate tradivano una punta di ammirazione, e Geirmund la condivideva. «Dov’è la tua gente?» domandò.
L’uomo sigillò le labbra.
«Siete stati avvertiti, vero?» insistette lui. «Da un ragazzino chiamato Esmond?»
Il sassone riaprì gli occhi, in cui ora brillavano lacrime cocenti d’odio. «Un solo bambino del Wessex vale più di cento bande di danesi. E non aggiungerò altro.»
Geirmund sapeva che diceva sul serio. «Allora non mi servi più.» Sguainò il pugnale e glielo piantò nel petto, dritto al cuore, per porre fine alle sue sofferenze e agevolarne la morte. Il sassone sbarrò gli occhi per lo sgomento, poi digrignò appena i denti, emettendo un ultimo rantolo.
Geirmund sfilò la lama, la asciugò sulla manica del morto e si rialzò. «Non bruciate questo posto.»
«Perché no?» domandò uno dei suoi guerrieri.
«Questo sassone amava il suo re», rispose lui. «Forse Ælfred lo conosce. Appendete il corpo al portone dell’edificio centrale.»
Poi andò a visitare i suoi feriti. La sorte aveva favorito il primo guerriero, sopravvissuto alla caduta, anche se il suo cavallo non ce l’aveva fatta. Il secondo, un uomo chiamato Løther, si era beccato una freccia al torace, e sarebbe morto nel giro di poche ore se la caduta non gli avesse spezzato l’osso del collo. Geirmund ordinò di levare sella e briglie all’animale morto e di lasciarlo in mezzo alla strada, poi assegnò quello del guerriero defunto al compagno superstite.
«Prendete il corpo di Løther», aggiunse. «Lo seppelliremo lontano da qui.»
Infine raggiunse la sala centrale, dove i compagni avevano appeso il cadavere dell’arciere. Il sassone sembrava in piedi sulla soglia, con la testa penzoloni sul petto e le braccia tese come per accogliere gli ospiti con un abbraccio.
«Ottimo lavoro», disse ai suoi guerrieri. Sperava che la devozione del vecchio al re fosse ben nota nella zona, affinché tutti potessero sapere qual era il prezzo di quella fedeltà. «A completare l’opera penseranno i corvi.»
Infine tornarono al galoppo alla foresta, cercando di raggiungerla prima dell’alba, e una volta guadagnato il riparo degli alberi Geirmund incaricò Rafn e Vetr di un’altra ricognizione.
«Prima riposate un po’», concesse. «Ma se è possibile scoprirla, c’è una cosa che mi serve sapere.»
«Quale?» domandò Vetr.
«L’arciere ha detto che Ælfred è nato da queste parti. Voglio sapere dove.»
Vetr rivolse uno sguardo a Rafn, che assottigliò gli occhi, poi annuì. «Solo questione di scovare un sassone, e glielo faremo confessare. Volente o nolente.»