17

UN mese dopo la battaglia di Bedwyn, a Wælingford arrivò la notizia che Æthelred era morto, e che suo fratello Ælfred gli era succeduto sul trono. I danesi esultarono, convinti che il regno ne fosse uscito indebolito, e cominciarono a preparare l’assalto finale contro il Wessex. Viaggiando sui fiumi, le mulattiere e le strade romane, i ricognitori di Guthrum si erano inoltrati in profondità nelle terre a sud di Readingum, e avevano scoperto un posto chiamato Searesbyrig, non lontano dalla città di Wiltun e a meno di un giorno di cammino dalla reggia di Ælfred, a Wintanceastre.

A giudicare dalla loro descrizione, un tempo Searesbyrig doveva essere stata una roccaforte poderosa. Era stata costruita sulla sommità piatta di un colle, larga oltre duecento braccia e circondata da strapiombi alti più di cinquanta. Intorno alle mura era scavato un fossato profondo, e un altro all’interno, in difesa di un vasto palazzo di pietra. Sui pendii della collina si vedevano le tracce di fortificazioni persino più antiche, appartenute ai romani o ai britanni, ma invece che avvalersi della sua forza, incautamente i sassoni l’avevano abbandonata.

Guthrum e Halfdan decisero di riunire i rispettivi eserciti e di conquistarla, in modo da offrire ai guerrieri un nuovo luogo in cui accamparsi, quasi alle porte del re sassone. Ma la mossa andava pianificata con cura ed eseguita alla velocità della folgore, prima che Ælfred scoprisse il loro piano.

Qualche settimana dopo si misero in marcia. Lasciarono Wælingford e Readingum con il favore del buio, orientandosi alla luce della luna piena, e puntarono a sud, facendo tappa tra i resti di una città romana molto simile a quella che Geirmund aveva attraversato insieme a John. I sassoni la chiamavano Calleva, e i danesi si fermarono là ad attendere la notte successiva, nascosti tra le sue antiche rovine.

I guerrieri di Geirmund si erano accampati fuori dalla cinta diroccata delle mura, ai piedi di una strana struttura circolare, con le pareti forate e una sorta di conca al centro, larga almeno una quarantina di braccia. Forse erano gli alberi cresciuti all’interno e tra le pietre a sfalsarne le dimensioni, ma a Geirmund sembrava impossibile erigere un tetto su un edificio di quella grandezza, e ne concluse che fosse stato pensato per restare aperto. Tutt’intorno erano costruiti gradini enormi, come destinati ai piedi di uno jötunn.

Skjalgi li guardava a bocca aperta. «Che se ne facevano i romani di un posto simile?»

«Ci organizzavano combattimenti», rispose Rafn. «La gente pagava per guardarli.»

«Come lo sai?» domandò Steinólfur.

«Io e Vetr abbiamo compiuto scorrerie a sud, nel territorio dei franchi», spiegò il danese. «Ce ne sono parecchi da quelle parti. E si dice che in terra longobarda siano persino più grandi. Molto di più.»

«Più grandi di questo?» esclamò Skjalgi. «Ma quanto erano alti questi romani?»

Rafn scoppiò a ridere. «Molto meno dei danesi.»

«E degli uomini del Nord», aggiunse Steinólfur.

«Quelli non sono gradini, Skjalgi», spiegò Rafn. «Sono spalti, la gente ci si siede.»

«Eppure dove sono i romani, adesso?» intervenne Birna. «Morti e sepolti, perché erano mortali, come noi.»

«Non dovevano essere sfiorati dalla guerra vera», osservò Vetr. «Altrimenti perché costruire un posto come questo e pagare argento sonante solo per guardarla da lontano?»

La domanda rammentò a Geirmund la battaglia a venire. Pure gli altri dovevano aver pensato la stessa cosa, perché di colpo si fecero seri e taciturni. Poi anche cielo si oscurò e cominciò a piovere, mentre in lontananza risuonavano tuoni cupi quanto il loro umore. Il temporale disturbò il loro riposo e a sera li costrinse a rimandare la partenza, perché senza luna era impossibile ritrovare la strada romana che proseguiva a sudovest verso Searesbyrig.

Finalmente poco dopo la mezzanotte il cielo tornò terso, ma l’aria era ancora gelida, e con gli abiti umidi addosso Geirmund fu grato di riprendere il cammino, per scaldarsi con lo sforzo della marcia. La pioggia aveva gonfiato i torrenti e allagato i terreni, ma il lastricato romano li tenne all’asciutto, scendendo sotto il livello dell’acqua solo in tre punti comunque facili da guadare.

All’alba ancora non avevano raggiunto la tappa successiva, un colle simile a quello di Searesbyrig. Il forte non era altrettanto alto e imponente, e il fossato era meno profondo, ma per un giorno poteva bastare, perciò loro accelerarono il passo, per arrivarci prima che il sorgere del sole tradisse la loro presenza ai sassoni.

Arrivati al colle lo trovarono coperto da una fitta boscaglia. Geirmund aveva l’impressione che tutti quegli alberi – tassi, betulle e frassini – gli togliessero il respiro, e il suo sonno in quel luogo fu profondo e pieno di strani sogni, con oceani che si tramutavano in brughiere, e cieli tempestosi da cui piovevano sangue e bracciali d’oro.

Infine, dopo la terza notte di marcia, raggiunsero Searesbyrig molto prima dell’alba, perciò poterono riposare prima di mettersi all’opera a rinforzare le fortificazioni. Steso insieme ai compagni, Geirmund restò a guardare le stelle. A volte le loro luci gli erano parse benevole, come una presenza familiare che vegliasse su di lui, mentre altre gli apparivano distanti, fredde, indifferenti. Quella notte gli prestarono la stessa attenzione che l’oceano riserva a un granello di sabbia. Il breve sonno non lo ristorò, e poi il sorgere del sole rivelò il nemico.

L’esercito sassone si era schierato a meno di tre leghe verso ovest, in cima a una collina affacciata sul villaggio di Wiltun. Vari comandanti e jarl raggiunsero Guthrum e Halfdan ai margini di Searesbyrig per decidere il da farsi.

«Ælfred deve avere intuito il nostro piano», disse Guthrum. «Non c’è altra spiegazione. Forse è più furbo di suo fratello.»

«Lasciamolo pure là», replicò Halfdan. «Questa volta siamo noi a godere di una posizione più favorevole. Potenzieremo le difese e non potrà più stanarci.»

«Non capisci che ci stava aspettando?» sbottò Guthrum, indicando l’esercito nemico. «Avrà fatto spostare tutte le scorte di grano e il bestiame ben lontano da qui, e fuori dalla nostra portata. Le nostre provviste sono limitate, e quando saranno finite non potremo contare sulle razzie per procurarci i viveri.»

«Dunque cosa suggerisci?» domandò Halfdan.

«Credevamo che Ælfred fosse a Wintanceastre, rintanato dietro le sue mura. Non pensavamo di ritrovarcelo qui, ma forse è la nostra occasione di chiudere la faccenda una volta per sempre. Io propongo di attaccarlo subito, oggi stesso.»

Halfdan incrociò le braccia. «Non era questo il piano.»

«Il piano prevedeva un attacco a sorpresa», insistette Guthrum. «Ora l’effetto sorpresa è sfumato, e noi ci siamo spinti al cuore stesso del Wessex, in pieno territorio nemico. Se aspettiamo, vedremo crescere ogni giorno l’esercito sassone finché non avremo alcuna speranza di vittoria. Il momento giusto è adesso.» Indicò i suoi jarl e comandanti. «I miei guerrieri sono pronti. E i tuoi, re Halfdan?»

La provocazione ebbe l’effetto desiderato, perché Halfdan sciolse le braccia e gonfiò il petto. «I miei guerrieri sono sempre pronti.»

«Bene. Allora mettiamoli ad abbattere sassoni invece che tronchi.»

Halfdan scorse lo sguardo sui suoi capi, poi annuì.

A quel punto tutti gli jarl e i comandanti corsero a comunicare l’ordine ai guerrieri, e l’esercito scese in marcia da Searesbyrig, guadò un fiume all’altezza di Wiltun, superò il villaggio abbandonato e si schierò ai piedi della collina su cui si concentrava il nemico.

I danesi si trovavano ad affrontare un terreno scosceso quanto quello che a Bedwyn aveva quasi decretato la loro sconfitta, ma adesso erano in maggioranza numerica, e furono i primi a lanciare l’assalto. Ancora una volta Guthrum e Halfdan divisero le proprie forze, con il primo ad attaccare da nord e il secondo da est. Geirmund e i suoi seguirono Guthrum alla carica, ma i sassoni non reagirono calando in massa dal pendio, o dividendosi come in passato. Strinsero i ranghi in cima alla collina, come se intendessero resistere fino all’ultimo uomo.

E appena i danesi arrivarono a portata, gli arcieri scagliarono una cascata di frecce che ne rallentò l’avanzata. Geirmund e i suoi si accucciarono sotto gli scudi, ma Rafn fu colpito a un polpaccio. Vetr si precipitò al suo fianco, coprendolo con il proprio scudo.

«Riesci a camminare?» gli urlò Geirmund.

Rafn inspirò a fondo e si strappò la freccia dalla carne. Poi la gettò di lato, guardò il suo comandante e annuì.

«Muro di scudi!» ordinò lui, e i guerrieri gli si strinsero intorno formando un quadrato. Le frecce risuonavano sugli scudi come grandine su un tetto. «Questo è il nostro Valhalla!» gridò Geirmund, scoppiando a ridere. «Con gli scudi per soffitto e le lance per travi, come la dimora di Óðinn!»

Poi ordinò di muovere un passo in avanti, e ripeté l’ordine per ogni passo successivo, risalendo lentamente la collina. La compagnia avanzava verso il nemico come un unico, inesorabile organismo, senza offrire la minima breccia alle armi avversarie.

A mezzogiorno Geirmund si era allontanato abbastanza da non vedere più Guthrum, ma sapeva che il re sarebbe stato al sicuro finché il fato gli avesse permesso di indossare Hnituðr. Intanto gli arcieri sassoni avevano svuotato le faretre, e senza il rischio delle frecce Geirmund poteva di nuovo ordinare la carica.

«Siete con me?» gridò ai suoi guerrieri. «Oggi il Wessex sarà nostro!»

Con un ruggito loro si lanciarono in corsa, ma arrivati in cima scoprirono che il nemico stava già ripiegando verso ovest, sotto la pressione dell’assalto di Halfdan da est. Geirmund però notò che la loro non era una fuga disordinata. La linea sassone teneva, resistendo a tutti i colpi e alle cariche dei danesi.

«I diavoli del Wessex devono aver ritrovato il coraggio!» gridò Guthrum, comparso dal nulla al suo fianco.

«Li lasciamo andare?» Geirmund indicò il pendio della collina. «I miei guerrieri potrebbero scendere, aggirare il colle e bloccarli...»

«Li lasciamo andare», lo interruppe Guthrum. «Solo non rendiamoglielo troppo facile.»

Geirmund aggrottò la fronte per lo sconcerto. «Li abbiamo in pugno. Potremmo mettere fine ad Ælfred e al suo...»

«Ælfred vuole negoziare un accordo di pace.»

Sempre più allibito Geirmund scrollò la testa. «Come lo sai?»

«Gli ho parlato», rispose Guthrum, sogghignando. Tese le braccia e le indicò con lo sguardo. «Nemmeno un graffio. Credo sia bastato vedermi da solo oltre le loro linee a indurre i sassoni alla resa.»

La battaglia infuriava intorno a lui, ma Geirmund era immobile e ammutolito per lo sbalordimento, la paura e l’invidia. Il fato l’aveva usato come tramite per concedere a Guthrum il potere dell’invulnerabilità.

«Beninteso, la pace Ælfred dovrà pagarla a caro prezzo», proseguì il re. «Diventerai ricco, Geirmund Pellaccia-di-Hel.»

Il pomeriggio era quasi trascorso quando i danesi smisero finalmente di incalzare i sassoni, dopodiché Guthrum e Halfdan ordinarono alle loro schiere di fare ritorno a Searesbyrig. Questa volta la compagnia di Geirmund non aveva perso neanche un guerriero, anche se qualcuno era rimasto ferito, come Rafn. Dopo essersi accertato che ricevessero le cure necessarie, andò in cerca di Guthrum, per ottenere una risposta alle domande che dal loro colloquio non avevano più smesso di tormentarlo.

Lo trovò insieme a Halfdan e ai loro jarl, a discutere le condizioni e compensazioni da imporre ad Ælfred in cambio dell’incolumità del Wessex. Vedendolo avvicinarsi, Guthrum si congedò dagli altri per parlargli in privato.

«Sembri preoccupato», gli disse.

«Non capisco perché abbiamo accettato di trattare la pace», rispose lui. «Ælfred è appena salito al trono. Sa di non poterci sconfiggere, perciò sta prendendo tempo per rafforzare i suoi eserciti e radunare le forze.»

«Ovvio», disse Guthrum. «Ælfred non è uno sciocco. Anzi, credo sia proprio questa la sua forza: l’astuzia.»

«Ma non siamo qui per conquistare il Wessex?» insistette lui. «Non era questo che offrivi quando ti sei presentato alla dimora di mio padre? E adesso che l’hai in pugno vorresti rinunciare?»

Guthrum sospirò, poi gli appoggiò una mano sulla spalla. «Dimmi una cosa, Pellaccia-di-Hel. Quando guardi i guerrieri di questo esercito – i miei, quelli di Halfdan, i tuoi – tu che cosa vedi?»

Incerto su dove il re stesse andando a parare, lui esitò un momento prima di rispondere. «Vedo dei danesi.»

«E io ne vedo troppo pochi», riprese Guthrum. «È vero, oggi avremmo potuto prenderci il Wessex, ma quanto a lungo saremmo riusciti a conservarlo? Per ora i sassoni pensano ciascuno solo alla propria contea e alle proprie terre, ma non durerà per sempre. Presto faranno fronte unito contro di noi, e noi non siamo abbastanza forti da sostenerne l’urto. Capisci adesso?»

A questo Geirmund non aveva pensato. «Credo di sì.»

«Senza contare che i miei guerrieri sono stanchi e provati. Hanno combattuto e versato il loro sangue, e si aspettano qualcosa in cambio. In realtà molti di loro preferirebbero l’aratro alla spada, e per la verità anch’io.» Abbassò la mano dalla spalla di Geirmund. «Il Wessex sarà nostro, posso giurartelo, ma solo quando saremo sicuri di regnarci davvero. Fino ad allora saremo pazienti, penseremo a riprendere le forze, e a farci mantenere dai sassoni. Devi...»

«Re Guthrum!» gridò qualcuno dalla tenda. «Ælfred ha mandato un messaggero. Aspetta all’ingresso dell’accampamento.»

«Portalo qui!» rispose Guthrum. Poi tornò a rivolgersi a Geirmund. «Resta. Taci, ascolta, e vedrai.»

Lui mise da parte i suoi dubbi e seguì il re di nuovo nella tenda. Re Halfdan e parecchi jarl lo guardarono di traverso, forse domandandosi perché Guthrum avesse invitato proprio Pellaccia-di-Hel al consiglio dei capi, ma nessuno sollevò obiezioni.

Qualche istante dopo due guerrieri scortarono un uomo nella tenda. E riconoscendolo, Geirmund non riuscì a trattenersi, e lo chiamò per nome.

«John!» esclamò. «Mi ero chiesto spesso se fossi ancora vivo.»

Ora tutti i danesi si erano girati a guardarlo. Alcuni sembravano stupiti che conoscesse un uomo del re sassone, altri erano perplessi, altri ancora, come Guthrum, divertiti. Quanto al prete, probabilmente era sorpreso quanto lui, ma ad avere la meglio fu il suo nervosismo, reso evidente dal modo con cui stringeva le dita intorno alla sua croce, e dagli sguardi agitati che saettava intorno alla tenda.

Il re si rivolse a Geirmund e indicò John con un cenno della testa. «Conosci questo messo?»

«Sì», rispose lui.

Halfdan scrutava il prete con aria malevola. «È affidabile?»

«Sì», disse Geirmund. «Garantisco per lui con la mia stessa vita.»

La frase suscitò qualche mormorio meravigliato, mentre il prete gli rivolgeva un cenno di ringraziamento e mandava un sospiro di sollievo.

«Benissimo, allora», concluse Guthrum. «Parla, prete.»

John si schiarì la voce. «Ehm... Ælfred, re del Wessex, propone a re Guthrum e a re Halfdan un incontro dopodomani, a mezzogiorno, presso il villaggio di Wiltun, per discutere i termini della pace. Ciascuna delle parti potrà portare con sé un massimo di dodici uomini.»

«Perché non domani?» chiese Guthrum.

John rivolse un’occhiata a Geirmund prima di rispondere. «Domani è il giorno che re Ælfred dedica al culto e alla preghiera. Non vuole che le preoccupazioni mondane e di guerra disturbino la pace delle sue devozioni.»

Passò un lungo istante, poi, all’unisono, i danesi scoppiarono in una gran risata. Il sacerdote diventò rosso come un peperone.

«Di’ ad Ælfred che lo incontreremo domani», disse Halfdan. «Il suo dio può aspettare...»

«Re Halfdan», intervenne Guthrum, «perdonami, ma perché tanta fretta? Qui siamo comodi, possiamo aspettare. Purché Ælfred capisca che non sarà per rispetto del suo dio. Aspetteremo perché contiamo che la preghiera gli permetta di riflettere meglio sul valore della pace, e sul prezzo che è disposto a pagarla.»

John emise un sospiro sonoro quanto lo sbuffo di un mantice. «Sei saggio, re Guthrum.»

Geirmund scrutò la reazione di Halfdan all’intervento di Guthrum. Il danese aveva strabuzzato gli occhi, e tremava di rabbia. Poi, di punto in bianco, abbandonò a passo di marcia la tenda, subito seguito dai suoi jarl. Re Guthrum restò a guardarli senza scomporsi, e quando furono spariti tornò a rivolgersi al prete.

«C’è altro?» domandò.

«Nient’altro», rispose John.

Guthrum agitò una mano in aria. «Allora puoi andare.»

John stava per filarsela, ma ora che Halfdan e gli altri se n’erano andati Geirmund azzardò una richiesta: «Posso accompagnare il prete fino ai margini dell’accampamento?»

Guthrum inarcò un sopracciglio. Forse era sorpreso, oppure incuriosito, ma infine annuì. «Permesso accordato.»

«Grazie», disse lui, chinando il capo. Si girò verso John e gli indicò la direzione. Usciti dalla tenda gli sorrise. «Sono felice di rivederti, prete.»

L’altro si asciugò la fronte madida di sudore con la manica della tonaca. «E io di vedere te. Non ci crederai, ma avevo persino pregato di trovarti qui, nella speranza di vedere almeno un volto amico tra i danesi.»

«Non faccio fatica a crederlo», rispose lui. «Però continuo a non capire perché pregare, quando il futuro è già deciso dal fato.»

Attraversarono l’ampio pianoro sul colle del Searesbyrig mentre il sole calava all’orizzonte. Dall’alto Geirmund vedeva campi immensi a perdita d’occhio, verdi, dorati, ricchi di vegetazione. La splendida terra che quel giorno aveva sperato di conquistare.

John interruppe il silenzio. «Re Ælfred si chiede se una volta stabiliti i termini della pace i tuoi re danesi li rispetteranno.»

Lui annuì. «Guthrum senz’altro. E credo anche Halfdan. Come ricorderai, ha tenuto fede ai patti concordati con la Mercia.»

«Per ora», commentò John. «A quanto dicono Guthrum è un guerriero di grande abilità. Sembra che non esistano armi in grado di ferirlo. Re Ælfred sospetta che il suo potere venga da una reliquia pagana o dal demonio.»

Geirmund preferì non rispondere. «Quali saranno le sue condizioni per la pace?»

John contemplò a sua volta la vasta distesa di terre accese dai colori del tramonto. «Esigerà che tutti i danesi abbandonino il Wessex. In cambio pagherà oro e argento. E potrebbe anche chiedere che Guthrum e Halfdan si lascino battezzare.»

«Battezzare? Per diventare cristiani?» Geirmund scoppiò a ridere. «Questo non accadrà mai.»

John sorrise e si strinse nelle spalle. «La mente del mio Dio è imperscrutabile, e le sue vie sono infinite.»

«Vale per tutti gli dei», ribatté lui. «Prima di andartene, però, dimmi cosa ti è accaduto dopo che ci siamo separati.»

Il sacerdote restò a lungo in silenzio. «Avevo viaggiato sui carri, come ordinato da jarl Sidroc. Poi abbiamo visto arrivare i danesi, in fuga dalla battaglia e inseguiti dai sassoni. C’è stato uno scontro. I sassoni hanno massacrato i danesi, e mi hanno condotto al loro accampamento. Là Ælfred mi ha voluto al suo servizio. Dato che avevo passato del tempo con i pagani, ha pensato che potessi avere una qualche utilità per lui, e per Dio.» Si concesse un breve sorriso. «E ora raccontami di te.»

«Adesso sono al comando di una compagnia di guerrieri», rispose lui. «Abbiamo combattuto e ci siamo fatti onore. Ma devo confessarti di avere ucciso molti sassoni.»

«Anch’io ho ucciso qualche danese», rispose il prete.

«Hai combattuto in battaglia?»

«No, non in battaglia.» John abbassò lo sguardo a terra. «Quand’ero ai carri e li ho visti precipitarsi verso di noi ho temuto che mi avrebbero ucciso o trascinato con loro. Ho... lottato per la mia libertà.»

Geirmund provò una ridda di emozioni contrastanti, senz’altro le stesse che aveva provato il sacerdote sentendolo parlare della morte dei suoi conterranei: rabbia e tristezza al pensiero dei danesi uccisi, ma sollievo che John si fosse salvato.

«Credo di averti sottovalutato, prete», disse. «Hai molti talenti nascosti.»

John alzò le mani. «Non voglio spacciarmi per guerriero, perché come soldato non valgo un granché. Ma se proprio devo esserlo, allora sarò un soldato di Cristo.»

Intanto avevano raggiunto il margine dell’accampamento. Si salutarono e Geirmund tornò alla sua compagnia, dove i suoi uomini diedero sfogo allo sconcerto e alla frustrazione per l’esito della battaglia. Lui fece il possibile per spiegare il piano di Guthrum e, pur con qualche incertezza, la maggior parte dei suoi sembrò felice al pensiero di ricevere presto un compenso per le loro fatiche e alla prospettiva di un periodo di pausa, in cui poter riposare, ritrovare le forze, e godersi il bottino.

Due giorni dopo, quando si avviarono al luogo del negoziato, ciascuno dei due re si fece accompagnare da un manipolo di jarl, e al ritorno da Wiltun, quella sera, entrambi sembravano soddisfatti. Ælfred aveva accettato di pagare una gran quantità di oro e argento, e in cambio i danesi si impegnavano a non superare il fiume che i sassoni chiamavano Avon, e ad abbandonare il Wessex entro un anno. Guthrum e Halfdan si sarebbero ritirati da Readingum e da Wælingford, e a bordo delle loro navi avrebbero seguito il Thames fino a Lunden.

Prima di andarsene da Searesbyrig, Geirmund indugiò un momento a contemplare la campagna dalla cima della collina, affiancato da Steinólfur e da Birna.

«Halfdan sta per diventare un re molto potente», disse il guerriero. «Qualcuno potrebbe sostenere che il merito è tuo e delle Pellacce di Hel.»

«Allora speriamo che sia anche un re saggio», disse Birna.

«Sarà il re che è destinato a essere», mormorò Geirmund. «Solo le Tre Filatrici sanno cosa riserva il futuro. Quanto a me, credo che il mio destino mi riporterà qui, e giuro sulla mia vita che quel giorno il Wessex sarà mio.»