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GEIRMUND sedeva ai piedi del frassino, con la schiena appoggiata al tronco. L’ampia volta di rami si stagliava spoglia contro il cielo, sopra un tappeto di foglie dorate cadute a corona tutt’intorno alle radici. A un centinaio di braccia sulla sinistra, il Førresfjord brillava alla luce del sole, mentre a sinistra i campi coprivano i pendii bassi delle colline.

A due passi da lui, Steinólfur si affannava ad accendere un fuoco. I suoi gesti rigidi tradivano le tante ferite riportate in battaglia, e spesso Geirmund aveva l’impressione che il guerriero più anziano avesse vissuto ben più delle sole quindici estati che li separavano. La barba castana era già attraversata da fili argentati, e la pelle sembrava cuoio conciato. Per Geirmund, Steinólfur era un amico e un consigliere, e spesso entrambe le cose insieme. Una volta, ubriaco marcio e perso nei suoi ricordi, aveva accennato al tempo passato al remo di una galera, e Geirmund si era chiesto se non fosse stato uno schiavo in passato. Ma non si indaga su ciò che un uomo ti confida quando l’alcol gli ha sciolto la lingua e confuso la mente, perciò lui si era tenuto quel dubbio per sé.

«Non sembri febbricitante.» Steinólfur prese un pizzico di polvere nera da una sacchetta di cuoio, insieme al suo acciarino. «Ti fa molto male?»

«Non troppo», rispose il giovane. Mentiva. Ora che non doveva più preoccuparsi di suo fratello sentiva il braccio teso e gonfio, attraversato da fitte acute se cercava di muoverlo, e da un pulsare sordo quando lo teneva fermo. Ma non era il momento di lagnarsi. Prima doveva raggiungere Avaldsnes e accertarsi che Hámund stesse bene. «Non serve accendere il fuoco. Non c’è tempo.»

«Il tempo non è più un problema.» Steinólfur strappò qualche scintilla all’acciarino, avvicinandolo all’innesco, poi soffiò sul mucchietto di rami finché il fuoco non prese a scoppiettare. «Tuo fratello arriverà dal guaritore e si riprenderà. Oppure morirà prima. Sarà il fato a decidere. Niente che tu possa fare cambierà la sua sorte, perciò occupiamoci delle tue ferite.»

Senza dirlo ad alta voce, Geirmund mormorò tra sé una preghiera alle Norne, implorandole di continuare a tessere il filo della vita di Hámund, sempre che non l’avessero già reciso.

«Ecco fatto», disse Steinólfur, guardando compiaciuto il fuoco, poi scoccò un’occhiata a Geirmund. «Tanto lo so che non è lui a preoccuparti. Ciò che temi è la collera di tuo padre.»

«Mi preoccupo eccome per mio fratello», replicò lui.

Steinólfur restò immobile a fissarlo, a braccia conserte, finché lui non annuì.

«E mi preoccupa anche mio padre», ammise.

Il calore del fuoco gli aveva scaldato il fianco sinistro, il più vicino alle fiamme, ma a destra gli abiti erano ancora umidi e incollati alla pelle, e un brivido profondissimo gli percorse la spina dorsale, tra le due metà.

«Quando vedrà in che stato è ridotto Hámund», disse Geirmund, «mio padre penserà che è stata colpa mia, e vorrà vedermi.»

Steinólfur sciolse le braccia e si avvicinò. «Ti darà la colpa comunque, che tu sia presente oppure no.»

Skjalgi tornò dal fiordo con due borracce piene di acqua pulita. «Chi ti darà la colpa?»

«Mio padre», rispose lui.

«E di cosa?» domandò Skjalgi.

«Di essersi impicciato di cose che non lo riguardano», intervenne Steinólfur. «Metti qualche ciottolo nel fuoco, ragazzo.»

Skjalgi e Geirmund scambiarono un sorriso, poi il giovane cominciò a cercare ciottoli delle dimensioni giuste, lanciandoli di volta in volta al margine del fuoco per scaldarli.

«Bene, ora diamo un’occhiata», disse Steinólfur.

Insieme a Skjalgi aiutò Geirmund a sfilarsi la maglia di cuoio, poi quella di lana, avendo cura di non sfregare la ferita con la manica. Levargli la tunica di lino era una faccenda più spinosa. Skjalgi prese i ciottoli bollenti e li lasciò cadere nell’acqua delle borracce, che sfrigolò e sprigionò una gran nube di vapore. Poi, goccia a goccia, versò l’acqua calda sul tessuto, cercando di ammorbidirlo mentre Steinólfur lo staccava dalla pelle. L’operazione richiese parecchio tempo, che Geirmund trascorse a denti stretti per non gridare di dolore, ma alla fine riuscirono a spogliarlo e a esaminare la ferita.

«Tanto sangue e scene per un graffietto», commentò Steinólfur.

Geirmund si guardò il braccio, trattenne un sussulto e scoppiò a ridere. Non era un graffietto. Le zanne del lupo gli avevano lasciato un arco di fori neri e slabbrati, e la carne circostante era gonfia, livida e infiammata. «Non dubito che tu abbia visto di peggio», disse a Steinólfur.

«Ho inflitto di peggio», ripose lui. «Persino il ragazzo ha inflitto di peggio.»

Skjalgi restò in silenzio, sforzandosi di assumere un’aria impassibile mentre fissava lo squarcio sul braccio di Geirmund. Di certo ferite simili non ne aveva mai inflitte, ma la cicatrice profonda e irregolare che aveva sopra l’occhio era la prova che ne aveva viste eccome, e di ben più gravi. L’albero che cadendo aveva rischiato di ucciderlo aveva maciullato suo padre. Adesso Skjalgi era abbastanza grande da portare la lancia, ma aveva ancora le guance glabre e, a differenza di Geirmund, non vedeva l’ora di lasciarsi crescere la barba, appena il suo corpo avesse deciso che era venuto il momento.

«Cosa vuoi farci, è il figlio di Hjörr», disse Steinólfur, con un sospiro, dando di gomito a Skjalgi nel tentativo di farlo ridere e alleviare i suoi timori. «Significa che ci toccherà accudirlo come un cucciolo malato, e prenderci la colpa se qualcosa va storto.»

«Immagino di sì», assentì Skjalgi, ma con un filo di voce.

«Ora», riprese Steinólfur, scrutando a fronte aggrottata il braccio di Geirmund, «devo presumere che quello tu voglia tenerlo?»

«Se possibile, sì», rispose lui. «La mia spada ne sentirebbe la mancanza.»

«Dici? Alle spade servono braccia forti, e sono certo che la tua preferirebbe trovarne di migliori.»

«Le tue, per esempio?» domandò Skjalgi, ritrovando il sorriso.

Steinólfur si strinse nelle spalle. «Per esempio. Io però una spada ce l’ho già, quindi farò il possibile per non separare Geirmund dalla sua.» Poi, di colpo, tornò serio. «Come tuo fratello, però, anche tu dovrai rivolgerti a un guaritore appena arrivi a casa.»

Geirmund annuì. «Chissà, magari servirà a placare un po’ la collera di mio padre.»

«Forse.» Steinólfur si rivolse a Skjalgi. «Prendimi dell’altra acqua. E un po’ di matricaria, se ne trovi.»

Skjalgi tolse i sassi dalle borracce e corse via. Appena fu certo che non potesse sentirli, Geirmund si rivolse a Steinólfur.

«Non mi hai tenuto qui solo per medicarmi il braccio. Devi dirmi qualcosa.»

«Infatti.» Steinólfur gettò i ciottoli di nuovo sul fuoco. «Ed è questo: nessuno ti avrebbe rimproverato. Tutti avrebbero capito.»

«Capito cosa?» domandò, asciutto, perché in realtà sapeva benissimo cosa intendesse l’amico.

L’altro si strofinò la fronte e sospirò. «La gente muore. È una legge di natura.»

Geirmund si sporse verso di lui fino a sentire le fiamme che gli scottavano il volto. «È mio fratello.»

Steinólfur annuì, guardando il fuoco e rimestandolo con un rametto. «Anche i fratelli muoiono. Nel posto in cui sono nato, a Sud...»

«Qui siamo nel Rogaland» lo interruppe Geirmund, in tono ancora più secco. «Non sei più nell’Agðir, e faresti meglio a ricordarlo prima di parlare.»

«Sono il tuo vassallo, Geirmund. Se io non posso parlarti chiaro, chi potrebbe?»

Geirmund lo guardò dritto negli occhi e gli parvero sinceri, una qualità molto rara nelle persone della sala di suo padre. «Allora parla. Ma scegli bene le tue parole.»

Steinólfur esitò, come un uomo che si prepara ad attraversare un fiume su un sottile strato di ghiaccio. «Molti anni fa, quando eri persino più giovane di Skjalgi, mi capitò di vederti combattere con Hámund. Restai a guardarvi a lungo, e subito dopo andai da Hjörr e gli chiesi il permesso di prestarti giuramento.»

Geirmund ricordava bene il giorno in cui suo padre gli aveva presentato Steinólfur. Negli anni aveva imparato ad apprezzare il suo valore, ma a quel tempo aveva covato rancore contro il guerriero più vecchio, dando per scontato che Hjörr gliel’avesse assegnato per spiarlo e sorvegliarlo. E c’erano stati momenti in cui quel giuramento era parso pesare a Steinólfur quanto a lui. L’ipotesi che fosse stata una sua iniziativa non gli era mai passata per la testa. «Perché l’hai fatto?» domandò.

Steinólfur rise tra sé. «Bella domanda. Avevi le braccia magre come fuscelli, e riuscivi appena a reggere la spada di legno. Eppure...» Sorrise e agitò un dito in aria. «Mettevi paura. C’era fame nei tuoi occhi, una rabbia di quelle che non smettono mai di bruciare. Mi è bastato vederla per capire che eri nato per essere re. Gli occhi di Hámund non hanno mai avuto quel fuoco, né ora né in passato. Per questo ho voluto essere il tuo vassallo, e non il suo. Perché il tuo destino è diventare sovrano di...»

«Basta così», tagliò corto Geirmund. Poi restò in silenzio a riflettere su una risposta. Le parole del guerriero più anziano lo avevano riempito insieme di orgoglio e di una vergogna segreta, e ora si sentiva combattuto tra lealtà opposte. Lasciò placare l’agitazione interiore, e infine, con un brivido di rabbia e di dolore, cominciò: «Ti sono grato della franchezza».

Steinólfur annuì.

«Perciò sarò altrettanto franco. Non ripetere mai più ciò che hai appena detto, né con me né con nessun altro. Hámund è più di un vassallo. È mio fratello.» Poi la sua voce diventò tagliente, minacciosa. «Non esprimerai mai più un giudizio su mio fratello o sulle mancanze che credi di vedere in lui. Tu non puoi sapere quali battaglie abbiamo combattuto, io e lui, fianco a fianco nella dimora di mio padre.»

Steinólfur lo guardò ammutolito. Geirmund sapeva che il guerriero aveva sentito la storia dei primi anni di vita dei gemelli, cresciuti nello strame insieme ai cani, ma quella era solo una piccola parte della verità.

«Non puoi conoscere la fame e le ambizioni di mio fratello», proseguì. «E nemmeno le mie. Non fino in fondo.»

Steinólfur abbassò lo sguardo a terra e annuì. Aveva capito che, se avesse insistito, le conseguenze sarebbero state irreparabili.

Al ritorno di Skjalgi, un attimo dopo, con il respiro affannoso e le guance rosse quanto i suoi capelli, Steinólfur gli strappò le borracce dalle mani. Il ragazzo trasalì appena, scrutando a turno i due uomini mentre stringeva tra le dita un mazzetto di matricaria avvizzita, l’ultima superstite dell’estate. Sembrava avere intuito che era accaduto qualcosa durante la sua assenza, ma si guardò bene dal fare domande. Steinólfur si chinò sul fuoco a recuperare i ciottoli, li lasciò cadere nell’acqua, poi afferrò il braccio di Geirmund.

«Vedi di non strillare come una femminuccia», disse.

Lui serrò le mandibole e non emise suono o lamento, anche se il dolore era lancinante. Steinólfur gli versò l’acqua bollente sulle ferite e le ripulì per quanto possibile, strofinandole con una pezzuola di lino. Alcuni dei fori lasciati dai denti del lupo si riaprirono, colando un misto giallastro di pus e sangue rappreso. Lui li schiacciò finché non ripresero a perdere sangue puro e rosso, poi mise a bollire la matricaria e infine, applicato il decotto, fasciò le ferite.

«Credo si rimargineranno bene», commentò, finendo di medicarlo.

Con la fronte madida di sudore, Geirmund annuì. «Grazie.»

«Avrei dovuto portare un po’ di birra o idromele», disse Skjalgi. «Per alleviare il dolore.»

«Non avresti mai potuto portarne abbastanza», rispose Geirmund.

Gli infilarono di nuovo le vesti, e quando fu pronto si misero in cammino per Avaldsnes. Cedendo all’insistenza di Steinólfur, Geirmund aveva preso il cavallo di Skjalgi, ma sia lui sia il compagno procedettero a redini tirate, conservando un’andatura sostenibile senza difficoltà anche dal ragazzo appiedato. La disputa di poco prima restava sospesa tra loro, interrotta a parole ma ancora in corso nella mente di entrambi, perciò il silenzio veniva interrotto di tanto in tanto solo da qualche commento di Skjalgi sul paesaggio o sul cambio di stagione. Infine chiese se conoscessero un danese chiamato Guthrum.

«L’ho sentito citare da mio padre», rispose Geirmund. «È uno jarl, credo.»

«Perché vuoi saperlo?» chiese Steinólfur.

Skjalgi alzò lo sguardo su di lui, a occhi stretti. «Ne parlavano gli uomini di una nave venuta a commerciare.»

«E perché ti è venuto in mente proprio ora?» domandò Geirmund.

«Così.» Il ragazzo appoggiò una mano sull’ascia che portava appesa al fianco. «Dicono stia radunando navi e uomini per il re danese, Bersi. Non soltanto gente del suo popolo, ma anche guerrieri del Nord. Forse persino Geati e Sueoni.»

«A quale scopo?» chiese Steinólfur.

«Per unirsi all’esercito di Halfdan e conquistare le terre sassoni.»

«Quali terre sassoni?» domandò Geirmund.

Skjalgi si strinse nelle spalle. «Tutte, immagino.»

Geirmund lanciò un’occhiata a Steinólfur. Il guerriero fissava la strada davanti a sé, come deciso a frenare la lingua, ma non era difficile indovinarne i pensieri. Steinólfur gli aveva parlato spesso dei figli di Ragnar Loðbrok, lodandone le imprese di là dal mare. Non contenti delle solite scorrerie estive, avevano cominciato a impadronirsi dei troni e dei regni sassoni; non fosse stato per il giuramento di servire Geirmund, Steinólfur avrebbe senz’altro solcato il mare per unirsi alla battaglia, conquistando una casa e un po’ di terreni per sé.

Geirmund tornò a rivolgersi a Skjalgi. «Sento una certa impazienza nella tua voce. Vorresti combattere insieme a quel danese?»

Il ragazzo esitò, puntando lo sguardo nel vuoto. «Forse.»

«Non posso darti torto», commentò lui. «Per la verità condivido anch’io parte della tua impazienza.»

«E allora perché non partiamo?» lo incalzò Steinólfur a bassa voce. «Chiedi una nave a tuo padre.»

«Non me la concederebbe. Non per una razzia.»

«Perché no?» domandò Skjalgi.

Geirmund scosse la testa. Non poteva dire ciò che pensava senza mancare di rispetto a suo padre.

«E poi non si tratterebbe di una razzia.» Steinólfur si girò sulla sella per guardarlo negli occhi. «E Hjörr lo sa benissimo. Ha il sangue di suo padre e di suo nonno nelle vene, anche se lui ha scelto un’altra strada. E chiedere non è un tradimento. Semmai per un figlio cadetto è un obbligo, se vuole costruirsi un futuro.»

Ora toccò a Geirmund puntare lo sguardo sulla strada, restando a fissarla a lungo, in silenzio. Steinólfur aveva detto la verità. Era innegabile. Ed era vero che lui stesso desiderava da tempo una sua nave con cui salpare dal Rogaland e andare in cerca del proprio destino. Ma era un uomo diviso in due, e ancora non se la sentiva di lasciarsi indietro suo fratello.

«Ci penserò», mormorò infine.

Dopo una pausa Steinólfur annuì, ma aggiunse: «Pensaci, dunque. Ma chiediti anche ciò che vuoi davvero. Perché io credo che tu lo sappia già, e continuare a rifletterci non cambierà le cose. È tempo di passare all’azione.»

Per il resto del viaggio non tornarono più sul discorso, continuando a cavalcare e camminare, concedendosi qualche sosta per mangiare un po’ di pesce affumicato, e nel giro di poco il paesaggio tornò familiare. Davanti a loro il sole tramontava, e avrebbero potuto chiedere ospitalità per la notte in una qualsiasi delle fattorie e delle tenute di Avaldsnes che avevano cominciato ad apparire ai lati della strada. Ma Geirmund aveva fretta di rivedere suo fratello, perciò continuarono il cammino anche con il buio, guidati da una sottile falce di luna e da qualche focolare distante, fino a raggiungere le acque nere del Karmsund.

Da Avaldsnes lo stretto proseguiva per quasi venti miglia marine verso sud, fino all’enorme Boknafjord, mentre nell’altra direzione sfociava nella «Via Settentrionale», solcata dalle balene e dalle rotte commerciali. La casa di Geirmund si trovava sulla sponda opposta, nella lunga isola di Karmøy, governata da una dinastia di re che facevano risalire le proprie origini agli dei. I mari tempestosi costringevano quasi tutte le navi dirette a nord a cercare riparo nel Karmsund, e le maree rendevano l’isola una tappa obbligata per i rifornimenti e le riparazioni. Da cui la forza e la ricchezza del regno di suo padre.

Raggiunsero il Karmsund nel suo punto più stretto, e passarono sotto le cinque pietre antiche disposte a cinquanta braccia dalla costa, tutte bianche e sottili come costole nel bagliore lunare. Il ricordo dei loro artefici, forse giganti o dei, si era perso nella notte dei tempi, ma il loro potere era chiaramente percepibile ancora adesso. Si fermarono nel luogo da cui si diceva che Thór guadasse il Karmsund, e da dove ora partiva la nave per raggiungere l’isola. I compagni che li avevano preceduti insieme a Hámund dovevano avere avvertito del loro arrivo, perché giunti al molo trovarono ad aspettarli una barca per la traversata.

In prossimità dell’approdo Geirmund distinse le sagome scure dei tumuli dei suoi antenati, stagliate contro il cielo notturno a nord, e la più imponente, la tomba del padre di suo padre, Half. Sbarcati sull’isola imboccarono la strada verso sud e, superata una piccola baia, finalmente arrivarono ad Avaldsnes.

Illuminate dalle torce, le porte della città si spalancarono subito davanti a loro, aperte dalle sentinelle rimaste di vedetta, in attesa di avvistare il secondogenito del re. All’interno, anche la via principale era illuminata a giorno, con una teoria di grandi torce che dalle porte proseguiva lungo tutta la città fino al colle dalla cui sommità la dimora di Hjörr dominava il Karmsund.

«Che accoglienza», commentò Skjalgi. «A quanto pare hanno sofferto la nostra mancanza.»

Geirmund aveva un brutto presentimento, ma cercò di buttarlo in ridere. «O forse è un avvertimento.»

«Be’, lo scoprirai presto», disse Steinólfur.

Seguirono il tracciato delle torce. Attraversando la città videro molti abitanti affacciati alle finestre e in piedi sulle soglie per benedire Geirmund e chiedere la protezione degli dei per lui e suo fratello. Dalle case filtrava l’odore di legna bruciata e pietanze cucinate, insieme al suono smorzato di conversazioni, risate, a volte persino musica.

Imboccata la salita, Geirmund notò un movimento sopra di loro: un’ombra si aggirava tra i macigni eretti sulla sommità della collina molto prima che i suoi antenati ci costruissero la propria dimora. A differenza di quelli sulla sponda del Karsmund, quei monoliti superavano di tre volte la statura di un uomo, e sporgevano uno vicino all’altro, come gli artigli di una zampa di drago sbucata dal terreno. Il lungo tetto arrotondato della dimora di suo padre spuntava dal crinale, svettando sopra i macigni in un misto di riverenza e sfida della loro sacralità. Quando Geirmund e i compagni arrivarono in cima al colle, la sagoma emerse dall’ombra.

«Pellaccia-di-Hel», disse, cominciando ad avvicinarsi mentre loro smontavano di sella.

Geirmund conosceva quella voce. Gli occhi azzurro ghiaccio della donna erano nascosti dal cappuccio del mantello di pelle di capra e di gatto, sormontato da un palco di corna, ma il giovane ne ricordava bene lo sguardo inquietante. «Yrsa», disse. «È stato mio padre a convocarti?»

«No.» Gli anelli d’argento che la veggente portava alle dita dei piedi mandavano lampi tra l’erba a ogni passo. Notando il sangue che aveva sul volto e sulla tunica di lino, Geirmund si augurò che appartenesse a una bestia sacrificale, e non a suo fratello. «Ero già qui quando Hámund è tornato», spiegò la donna. L’aria notturna era gelida, ma il freddo non sembrava scalfirla. «Sapevo che avreste avuto bisogno di me, perciò sono venuta.»

«Lo sapevi, eh?» A braccia conserte, Steinólfur la guardava con scetticismo. Aveva sempre diffidato dei maghi e degli indovini che si pregiavano di intercedere presso gli dei o di parlare a nome loro. «Ma se avevi previsto che Hámund si sarebbe ferito nella battuta di caccia, perché non l’hai avvertito di non partire?»

La veggente gli rivolse un sorriso talmente sinistro da spingere il povero Skjalgi ad arretrare dietro le spalle di Steinólfur.

«Sapevo solo che sarebbe servito il mio aiuto», rispose. «Non il perché.»

«Potevi indovinarlo», insistette Steinólfur, imperterrito. «Non sono molte le ragioni per cui un re può avere bisogno di una strega.»

«Sono certo che mio padre sia stato grato della tua presenza», intervenne Geirmund, sperando di zittire il guerriero più anziano. Anche lui dubitava di alcuni veggenti e stregoni, le cui profezie gli sembravano troppo vaghe per non essere opportunistiche, ma non aveva alcun dubbio sui poteri di Yrsa. «Come sta mio fratello?»

«Vivrà e guarirà», rispose lei.

Skjalgi si fece coraggio e avanzò di un passo. «Anche Geirmund è ferito. Puoi occuparti di lui?»

La völva si girò verso il figlio del re e gli scorse il braccio con lo sguardo. Poi si avvicinò a scrutarlo negli occhi, dal basso in su. Geirmund non era mai riuscito a darle un’età. A volte gli sembrava più vecchia di sua madre, altre più giovane di lui. «Non ce n’è bisogno», sentenziò infine l’indovina.

Non era chiaro se intendesse dire che sarebbe guarito, o che era già condannato e non c’era più nulla da fare, e fu Steinólfur a chiederlo.

«Perché non serve?» domandò.

Yrsa rispose senza distogliere quello sguardo inquietante dagli occhi di Geirmund. «Perché la sua sorte è legata a quella del fratello. I fili dei loro destini resteranno intrecciati ancora per molti anni a venire. E se l’uno vive, vive anche l’altro.»

Steinólfur sbuffò. «E se uno dei due muore?»

A quelle parole la veggente si girò di colpo verso di lui, e davanti al suo sguardo di ghiaccio il vecchio guerriero non poté fare a meno di arretrare. «Vedo grandi gesta prima della loro morte.»

Steinólfur tossì e assentì. «Almeno su questo siamo d’accordo.»

«Grazie di essere venuta, Yrsa», disse Geirmund.

La donna annuì e voltò le spalle, ma prima di andarsene aggiunse: «Un giorno Ægir ti inghiottirà, ma ti sputerà fuori. È giunto il momento di solcare le rotte delle balene, Geirmund Pellaccia-di-Hel». Poi sparì nel buio.

Skjalgi impallidì. «Come faceva a saperlo?»

«Sapere cosa?» domandò Steinólfur.

«Che hai consigliato a Geirmund di procurarsi una nave.»

«Non è ciò che ha detto.» Steinólfur gli agguantò con forza una spalla e lo attirò a sé. «Ascoltami bene. I discorsi degli indovini sono come scafi bucati: loro contano che sia tu a fornire il legno e la pece per tappare le falle e tenerli a galla. Non farlo. Un vero veggente non avrebbe bisogno del tuo aiuto. E non servono poteri soprannaturali per sapere che a una certa età il figlio di un re assumerà il comando di una nave, non credi?»

Skjalgi chinò il capo, aggrottando la fronte.

«Bene.» Steinólfur lasciò la presa sulla sua spalla. «E ora porta i cavalli a bere e rifocillarsi.»

Il ragazzo annuì, poi prese le redini dei due animali e li condusse verso le stalle.

«Sei proprio convinto che Yrsa intendesse solo questo?» domandò Geirmund.

Steinólfur bofonchiò tra i denti prima di rispondere. «Credo fermamente in ciò che ho detto al ragazzo. Ma è anche vero che quella donna mi spaventa, e a me non piace avere paura.»

«Solo gli stolti non hanno mai paura. Me l’hai insegnato tu, nel caso te ne fossi dimenticato.»

«Allora sono stolto da sempre.»

Geirmund sorrise. Poi si guardò il braccio. «Può darsi, ma sono comunque in debito con te. E spero non ti offenderai se chiedo a un guaritore di dare un’occhiata alla tua medicazione.»

Steinólfur scoppiò a ridere. «Al contrario, sono il primo a insistere.»

Geirmund annuì, e stava per avviarsi ad affrontare suo padre quando il guerriero più anziano lo trattenne.

«Se lo permetti, questo stolto avrebbe altre due parole da aggiungere», disse, e indicò la soglia con lo sguardo. «Forse ti riterrà responsabile. Forse farà una sfuriata e ti coprirà di rimproveri. Tu però non dargli retta. Stanotte dormi sonni tranquilli, sapendo di aver salvato la vita di tuo fratello. L’onore del tuo gesto supera qualsiasi errore lui possa imputarti.»

Geirmund inspirò a fondo, poi tornò ad annuire. «E tu riposa nella consapevolezza di aver salvato la vita sia a me sia a lui.»

«Domattina mi aspetto un bracciale in premio», replicò Steinólfur.

Geirmund rise e avanzò verso la porta. Prima di aprirla drizzò le spalle e alzò il mento. Poi lui e Steinólfur entrarono nella dimora del re.