Un altro inizio
“Quando i pagani, che non hanno la legge,
per natura agiscono secondo la legge,
sono legge a se stessi; essi dimostrano che
quanto la legge esige è scritto nei loro
cuori come risulta dalla testimonianza
della loro coscienza.”
(Lettera ai Romani, 2.14)
È passato un mese da quando mi hanno catturato, e poco meno di una settimana da quella specie di processo. Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, lo so. Ma io sento di essermi fermato già da tempo, come un albero che finge di essere ancora vivo, dritto in piedi in mezzo agli altri, mentre dentro non gli scorre più neanche una goccia d’acqua.
Appena entrato, mi hanno consegnato un secchio di plastica per i bisogni, una bottiglia di slivovice, dei fogli a quadretti e una penna. Quando ho chiesto la carta igienica mi hanno risposto che questa è una scuola, diventata prigione solo per caso (solo per causa mia), e che potevo pulirmi il culo con la carta a quadretti se non volevo scriverci sopra, ma che era meglio per me se la usavo per scrivere, che mi conveniva insomma, se non volevo che la paura e i sensi di colpa mi soffocassero prima del tempo. Non è che la morte mi faccia tanta paura, ne avevo di più quando mi hanno scoperto. In realtà mi pare di conoscerla, l’ho vista da vicino così tante volte che la considero già una cosa mia. Intuisco la sua presenza, familiare, come un cane che dorme, ma appena realizzo che non sono ancora io quello morto, lei scappa via lasciandomi sul petto un’orma a forma di ciambella. Finora la morte per me è sempre stata quella dei miei morti, di quelli che ho ucciso io. Ed è molto probabile che per loro fossi io la morte. Il capitano una volta mi ha detto:
“Si può vedere quella degli altri, ma la propria la si può soltanto immaginare.”
E immaginare non è mai come vedere.
Comunque, paura o no, ho seguito il consiglio dei miei carcerieri e mi sono messo a scrivere, tanto non ho più nulla da perdere. Io, che da scuola sono scappato, come sono scappato di casa, ora mi ritrovo a fare i compiti per tutte le volte che li ho saltati – cose da non credere.
Mi hanno rinchiuso nello sgabuzzino di una scuola che dev’essere una specie di quartier generale. Tranne che per un materasso di gommapiuma, pescato chissà dove in mio onore, la stanza è rimasta com’era: l’angolo delle scope e dei detersivi, le scatole dei gessi, la plafoniera che pende dal soffitto aggrappata ai fili della corrente, la bacheca portachiavi simile a quella degli alberghi, ma senza chiavi, la radiolina, guasta, e un appendiabiti con una cintura lucida e nera, credo di un grembiule, lasciata lì quasi a tentarmi, a dirmi che se voglio posso, che per loro fa lo stesso, basta che muoia. In alto, una finestrella lurida fa filtrare il giorno col contagocce.
A pensarci bene, il nascondiglio dove mi trovavo prima non era molto più ospitale. Gli uffici delle assicurazioni occupavano tutto il sedicesimo piano del grattacielo che avevamo isolato. La zona era quasi disabitata pur essendo nel cuore della città. Chi era obbligato a passarci camminava ingrugnito, i pugni chiusi come per prepararsi a una zuffa.
Il capitano, prima di andarsene, mi ha ordinato di non muovermi dai due uffici affacciati a sud, e per essere sicuro che lo ascoltassi ha bloccato tutte le porte verso l’esterno e l’altra ala del piano. Bisognava sigillare la postazione contro le possibili incursioni del nemico. Minore era lo spazio a mia disposizione, meno fatica avrei fatto per controllarlo. Con quei giri di chiave sentivo che il mondo mi stava abbandonando: il mio compito, un compito molto importante, era restarne fuori.
Da lassù si godeva una vista perfetta, quella che solo un tiratore scelto come me poteva meritarsi. Il sole al mattino illuminava la città da sinistra, la stessa luce, le stesse ombre di un tempo, anche se tutti dicono che è cambiata. Da lontano, a sud, vedevo i fumi densi delle granate salire dalle piste dell’aeroporto, circondate da campi gialli, immobili da sembrare dipinti, e poi una marmellata di case grigie, sempre più strette le une alle altre mano a mano che si avvicinavano al centro. A destra intuivo la collina dello zoo, e più indietro, il centro sportivo, con le tribune, gli spazi verdi, le strisce rosse per correre, le vasche celesti per nuotare. Pareva che la guerra non avesse toccato niente. La città c’era ancora, solo che tratteneva il respiro. Ogni mattina si lasciava guardare, indifferente a tutto ciò che le pioveva addosso, impassibile come una cartolina.
Comunque io non dovevo badarci, non mi avevano certo rinchiuso lassù per contemplare il panorama. Dovevo occuparmi dell’incrocio sotto le mie finestre, ed era un gran bel daffare. Lì vicino la città non sembrava affatto immobile come quella che ammiravo in lontananza, essendo anzi un brulicare continuo di macchine e persone.
La gente aveva imparato a riconoscere l’area che tenevo sotto tiro: dalla fermata dell’autobus (dove nessun autobus si fermava più) al minimarket (chiuso) all’angolo opposto dell’isolato. Un marciapiede di circa cento metri senza ostacoli o coperture, che scorreva come un nastro trasportatore sotto il mio naso. Il marciapiede procedeva sempre uguale – qualche volta credo di averlo visto muoversi davvero – e la gente ci saltava sopra, in una direzione o nell’altra, sperando di arrivare a fine corsa. Quelli erano il mondo, io ero Dio, io sceglievo chi poteva farcela e chi doveva fermarsi. Loro non sapevano chi scegliessi e correvano tutti allo stesso modo.
Appena sveglio, restavo ancora un po’ sul divano e mangiavo una banana. Non so da dove se le facesse arrivare, ma il capitano non mi ha mai fatto mancare le banane. Poi mi alzavo e preparavo i caricatori. Giravo i finestroni sul loro asse orizzontale in modo da avere una comoda fessura in basso per il fucile e una protezione in alto per la testa. Con quell’angolazione il cristallo scuro proiettava una luce blu sulla strada, trasformando il sole in un riflettore di scena. Molti uffici erano rimasti con le finestre aperte da quand’erano stati abbandonati, il che mimetizzava in modo ottimale la mia postazione. Prima di cominciare restavo a guardare col binocolo anche per ore. Se devi eliminare qualcuno che non conosci è meglio non sapere niente di lui, devi considerarlo un po’ più di un animale e un po’ meno di un uomo. Eppure, dopo i primi giorni, ho preso a inventarmi le storie di chi uccidevo e non sono più riuscito a farne a meno. All’inizio l’effetto sorpresa aveva reso tutto più semplice: la gente cadeva a mucchi, non una faccia, non una parola, ma un mucchio indistinto che cadeva. Una volta individuato il pericolo però, tutto è cambiato, le loro mosse si sono fatte più meditate, ognuno seguiva la sua strategia per avvicinarsi, per provare, per scongiurare la fine, e da quel momento ho cominciato a colpire delle persone sole, vite con nome e cognome. La posta è diventata difficile e snervante. Il binocolo ti porta in giro nelle strade che precedono la scena, anticipa la comparsa di tizio e di caio. Senza accorgertene ti ritrovi a immaginare come gli è andata finora, come potrebbe continuare. Che tu lo voglia o no, l’attesa ti fa scegliere, ti fa curiosare dietro l’angolo. Per prendere la tua decisione cominci a studiare i bersagli.
Un uomo coi baffi e la sigaretta all’angolo della bocca si avvicina alla fermata dell’autobus, regge sotto braccio un pacco di carte avvolte in un nylon e a ogni due passi si aggiusta con la mano libera il bavero dell’impermeabile. Ora incontra il biondo in giubbotto di pelle che ho appena graziato, gli chiede informazioni. Il biondo scuote la frangia dagli occhi, si fa offrire una sigaretta che non accende subito, risponde alle domande ridendo in modo isterico. Poi credo si scusi, tornando serio come il tizio coi baffi, e si congeda allargando le braccia verso il cielo. Lo vedo di spalle e mi pare che tremi ancora, penso che il volo della sua frangia rapirà altri sguardi come ha rapito il mio. L’uomo coi baffi raggiunge l’inizio del nastro trasportatore. Accanto a lui, due giovani donne con le scarpe in tasca. In fondo, al capo opposto del marciapiede, un uomo senza baffi si è legato sulla pancia un bambino e si volta da una parte e dall’altra per capire quand’è il momento giusto per scattare. Io carico il primo fucile. L’uomo senza baffi è andato a riprendersi il figlio dalla nonna – quella fasciatura a marsupio è senza dubbio di una nonna – l’ha salutata con un bacio sulla fronte come per dirle “ci vediamo, te lo riporto domani”. Che fine ha fatto la madre del bambino? Occorre chiederselo? Le due giovani donne hanno lo smalto nero sulle unghie e i tacchi che sporgono come ali dalle tasche della giacca, aspirano a cose importanti e sono disposte per questo a negare l’evidenza. Anche se 1 evidenza sono io. Saranno le prime a cui sparerò. L’uomo coi baffi è convinto di essere lui la vittima designata. Si aggiusta il bavero, spera che colpisca l’uomo senza baffi, controlla le ragazze in tralice perché gli pare che lo guardino come se già sapessero che toccherà a lui, visto che a loro non può toccare. Sa quest’uomo che le sue carte non valgono nulla? Nessuna carta è così importante da essere portata sotto-braccio in un involucro di nylon: documenti, pagelle, poesie che siano, potrebbero restare a sventolare sul marciapiede accanto al suo cadavere per ore, per giorni. Mi preparo a sparare. L’uomo senza baffi e partito camminando, con le mani protegge la testa del bambino. Tutti si aspettano che spari, ma io mi limito a tenerlo nel mirino finché non arriva dall’altra parte. Il bambino scende dal marsupio, il padre estrae dalla tasca un’automobilina e gliela appoggia sul petto. Anche le due giovani donne si avviano camminando. Mi pare di sentirle. “Quel figlio di puttana dorme, non può succederci niente.” Sparo il primo caricatore solo per avvertirle che si sbagliano, le vedo irrigidirsi e poi correre all’impazzata. Non hanno più nessun segreto per me: sono due pezzi di vetro trasparente che filano a gambe levate. Carico il secondo fucile. Respiro, butto fuori tutta l’aria, miro sulla più carina: tre millimetri avanti dall’incrocio delle linee nel primo cerchietto – “mai mirare esatto”, mi ha insegnato il capitano, “il dito arriva sempre troppo tardi”. Primo colpo, alla spalla: mentre cade le vedo il bianco degli occhi. L’amica si gira a guardarla, come se tutto ciò non fosse possibile e continua a correre. La inquadro meglio, sento già il rumore del suo corpo in frantumi, ma vengo distratto da un altro movimento: l’uomo coi baffi si è precipitato dalla donna ferita e ora, con una mano sola -l’altra regge ancora il pacco – tenta di trascinarla al riparo. Secondo colpo, all’addome: la donna si piega sul braccio dell’uomo come un cappotto. Lui impreca e la tira verso di sé, questa volta con tutte e due le mani. Il plico gli è caduto per terra, le carte sono uscite dal nylon. Respiro di nuovo a fondo: devo stare attento a non colpire lui. La donna muove ancora la testa; è con lei che devo insistere. La sua amica ormai è fuori tiro e grida e piange e mi insulta. Terzo colpo: errore. Quarto colpo: i documenti svolazzano qua e là e subito atterrano. Quinto colpo, nel cuore del cranio: l’uomo smette anche di imprecare, abbandona a terra quel che resta della donna, si pulisce il viso col dorso della mano, torna indietro lentamente, come se avesse capito, e continua a camminare con lo stesso passo anche quando sa di essere al sicuro. Metto giù il fucile e lo seguo col binocolo. Lui continua e continua, forse verso casa, forse pensando alle risate del ragazzo biondo e a quel suo modo di allargare le braccia verso il cielo.
Ogni giorno conoscevo meglio la gente, ogni giorno avevo nuove storie che pretendevano di essere ricordate. Inutile dire che avrei preferito ritornare ai mucchi dell’inizio, quegli insiemi anonimi di carne che a un certo punto cadevano senza troppe conseguenze, restando fuori dalla mia vita.
Passavo il tempo tra il davanzale e il divano, lo scandivo sulle visite del capitano. Veniva una volta alle due, per portarmi il pranzo e la cena insieme, e una volta verso le nove, col primo buio, a portarmi la banana per il mattino seguente. Potevo chiedere ogni ben di Dio e lui me lo procurava: cioccolato, datteri, sigarette americane, video-cassette porno, salviettine profumate per lavarsi, acqua e slivovice per bere.
“Altro che embargo” diceva “noi a quelli dell’ONU gli pisciamo in testa.”
Lo aspettavo come un cane, volevo raccontargli le storie dei tizi eliminati, ma lui non permetteva che parlassimo di lavoro, diceva che dovevo approfittare della sua presenza per distrarmi. Così i morti mi restavano dentro e tornavano alla carica quando ero di nuovo solo: la parrucchiera, il musicista, la vecchia, il suo setter, i tre bambini col leccalecca, i due innamorati, l’uomo col bastone, quello col carretto di ferramenta, quello con gli occhiali tenuti dall’elastico, la giovane donna con lo smalto nero sulle unghie.
Le due amiche abitavano insieme? Non certo in famiglia: nessuna madre permetterebbe alla figlia di uscire con le scarpe col tacco se i cecchini sparano per le strade. “Mettiti le scarpe da ginnastica”, “Mamma, la guerra è una tua invenzione.” Chissà se la sopravvissuta è riuscita a fare le sue cose importanti (un affare? un lavoro? una scopata?) oppure è tornata a raccogliere 1 amica. Chissà se pensa ancora che la guerra sia un’invenzione delle madri. La notte sarà sola anche lei come me, anche lei come me. vedrà la sua amica distesa sul letto accanto, ancora con le scarpe in tasca, come niente fosse, e la testa ridotta a una frittata. E l’uomo coi baffi: un burocrate? un insegnante? un poeta? E l’uomo senza baffi? E suo figlio? E la nonna? Per non parlare di quelli che passavano di là anche due volte al giorno e, non potendo sapere che avevo deciso di graziarli, ripetevano ogni volta la stessa corsa a bocca spalancata come chi si aspetta il peggio e vuole solo che arrivi il prima possibile. Quando, ormai in salvo, mi cercavano tra i finestroni con la rabbia negli occhi, avrei voluto avvertirli che avevo scelto le loro vite, che potevano stare tranquilli e passare quante volte volevano, che sì, insomma, anch’io avevo le mie preferenze – preferenze che non avrei saputo né saprei spiegare. Non so perché non ho ucciso la donna che ha perso una bambola mentre raccoglieva la frutta sul marciapiede, non so perché non ho ucciso quegli sbruffoni che mi mostravano il culo e mi insultavano per pavoneggiarsi con le ragazze. Tutto ciò resterà un mistero anche per me.
Erano altri comunque i pensieri che mi tormentavano: le donne, ad esempio, la loro bellezza, la vita che mi tenevano nascosta e a cui pure ammiccavano di continuo. Ogni donna mi tradiva, ogni suo orgasmo era un orgasmo regalato a un altro che non ero io. Più era bella e più era colpevole, più si credeva invulnerabile, più mi sbatteva in faccia la mia lontananza dal mondo. Le studiavo una a una, le spiavo dentro, dove volevano e non volevano che guardassi. La loro fermezza, la loro indifferenza era una costante provocazione. “Sapessi come ci trasformiamo in certe occasioni.” Di ognuna mi sono chiesto come godeva, come muoveva gli occhi, le labbra, le ali del naso, quando smetteva di fingere tutto quel controllo e si lasciava andare a quel gioco a cui mi invitava con un battito di ciglia o un colpo di coda tra le spalle, sapendo bene che non avrei mai potuto avvicinarla. Per questo le ho uccise. Come potevo anche solo sperare di sorprenderle con i collant arrotolati alle caviglie, se ero costretto a vivere a sedici piani da terra? L’unico modo era interrompere la loro passerella con una fucilata. Allora le cose cambiavano. D’un tratto il volto si smagliava come una calza: il panico apriva buchi sempre più larghi e da lì faceva uscire la verità. A questo volevo costringerle, a smascherarsi, lì, in mezzo alla strada, a essere più umili e meno cattive. Solo quando vedevo i loro corpi disfarsi come marionette sull’asfalto, mi prendeva il rammarico di non averci ricavato nulla. Avevo davanti agli occhi la massa inerte di un morto, privo di intenzioni, uguale a qualsiasi morto, assolutamente inutile. Nella mia testa però quell’ammasso di capelli e cenci inzuppati si ricomponeva la notte stessa e, unendosi alle altre a cui avevo imposto di essere sincere, non tardava a vendicarsi.
Ero ossessionato dalla loro presenza, ho passato giorni interi a masturbarmi. Immaginavo quelle donne dall’espressione impenetrabile, diventare di colpo disponibili, a tratti addirittura spudorate. Tenevo i fucili appoggiati sul davanzale come canne da pesca, il binocolo puntato sulla strada, e facevo delle scopate estenuanti fissando il soffitto. La stanza si stringeva, comprimeva le tempie in una morsa di cosce sudate e io mi svuotavo sulla patta dei jeans col terrore di chi si sta dissanguando. Non ho mai capito perché il capitano mi avesse tolto la divisa per quel paio di jeans logori. D’altronde sono molte le cose che non mi so spiegare del capitano. Perché, ad esempio, l’ultima sera mi ha salutato con un bacio?
Il tabacco, il sudore e il resto avevano impregnato il divano mescolandosi al suo odore di pelle scuoiata, creando una trappola acre e ospitale nella quale restavo invischiato Talvolta provavo a lavarmi il cervello con i video porno che mi portava il capitano, ma tutti quei negri enormi, le manovre grottesche e ripetitive delle loro puttane, nulla potevano contro le mie aguzzine, che erano donne perbene, donne che per strada camminavano dritte senza salutare, provocando senza rispondere, al di sopra di ogni sospetto. Sono stati giorni di miseria e umiliazione, li ho subiti in silenzio, prendendoli per quello che erano: una vendetta femminile.
Tutto questo succedeva quando non sparavo. O meglio, era proprio questo che mi faceva rallentare, lasciando i fucili sulla finestra come se la gente di sotto dovesse abboccare da sola. Mi è capitato anche di essere sorpreso dal capitano a metà pomeriggio, sprofondato nel mio giaciglio con la bottiglia di slivovice in una mano e l’uccello nell’altra. Allora sì che si infuriava, diventava un vero ufficiale. Mi diceva che ero un soldato, per di più un tiratore scelto, che ero lì per fare il mio dovere. “So che è un lavoro duro ma devi pensare alla causa per cui combatti. Le seghe puoi fartele di notte” così diceva. Solo che io di notte avrei voluto dormire. Dico avrei voluto, perché neppure questo mi riusciva. Col primo buio la strada ammutoliva. I lamenti di poco prima erano già ricordi, echi del silenzio che mi giravano attorno come iene affamate. L’idea di avere sotto i piedi quell’enorme torre di vetri scuri, di vederla tutta fitta di cellette correre giù fino al pianoterra senza uno straccio di essere umano, quell’idea di aria sprecata, di vuoto assoluto, non mi faceva chiudere occhio. Stavo lì seduto a oliare i fucili e pensavo che intanto qualcuno era indaffarato a sgomberare il marciapiede dai miei cadaveri.
È stato un mattino come gli altri, col sole che picchiava da sinistra e la strada immersa nella luce blu dei finestroni, che mi sono accorto di alcuni uomini. Due tre alla volta, mai gli stessi, si nascondevano dietro l’ultimo riparo alla fermata dell’autobus e guardavano a lungo nella mia direzione, senza mostrare l’intenzione di passare. Da quel momento non ho più sparato, ma era già troppo tardi. Chissà da quanti giorni mi controllavano. Sono rimasti lì per ore a indicare verso i miei uffici, avvicendandosi in continuazione. Alle due è arrivato il capitano. Gli ho detto che avevo l’impressione di essere braccato, lui mi ha assicurato che potevo stare tranquillo, che avevamo in pugno la città, ma si è adombrato come se gli avessi rovinato una sorpresa. Anche il fatto che non mi avesse rimproverato per non aver sparato quel mattino – il capitano teneva il conto dei miei morti – mi ha molto stupito. Andandosene ha detto:
“Non cercare il significato di cose che non ce l’hanno” e mi ha dato un bacio.
Il pomeriggio l’ho trascorso incollato al binocolo, filmando e mangiando datteri. Sul nastro trasportatore non passava più nessuno, un altro fatto piuttosto strano. Quando il sole è scomparso dietro il profilo destro del grattacielo, ho pensato che sarebbe stato bello poterlo seguire, sparire da lì insieme a lui. Per certi aspetti sono stato esaudito. All’ora del capitano, al posto dei giri di chiave sono arrivate le martellate degli uomini rimasti per tutto il mattino col dito puntato verso le mie finestre. Gli incursori mi hanno assalito tutti insieme, come un’unica macchina punitrice. I loro colpi, se possibile, erano ancora più violenti delle urla. Si intimavano a vicenda di smettere, perché non morissi troppo presto, e seguitavano a picchiarmi con sempre maggior foga. Uno mi teneva il ginocchio sul collo, con una mano mi tirava la testa indietro, con l’altra mi entrava a pugno chiuso in bocca e negli occhi. Un altro mi prendeva a calci sulla schiena, un altro sul petto. Un altro ancora mi tirava per i piedi affinché i calci dei suoi compagni raggiungessero i bersagli migliori. Erano in sei, senza tute o mimetiche, vestiti come per andare al lavoro. Mi ero rassegnato ad aspettare che si stancassero, stavo chiuso a riccio con le mani sulla pancia. A un certo punto il capo mi ha detto che sarei stato processato da un tribunale popolare e gli altri si sono sforzati di ritrovare un contegno, credo per marcare le concessioni di cui erano capaci. Poi hanno raccolto i fucili e le munizioni, e senza smettere di imprecare su mia madre e i miei gemiti da checca, mi hanno fasciato la testa col nastro adesivo, dalla fronte al mento, lasciando libere solo le narici. Fino all’ingresso della scuola sono rimasto sul fondo di un lago nero, nell’isolamento più totale. Sentivo il corpo muoversi fuori dal mio controllo, assecondare gli spintoni giù per le scale, dentro una macchina, godere dell’aria fresca che gli solleticava la pelle. Ma io non ero col mio corpo, ero in fondo al lago, in quel bozzolo di tela plasticata. Proprio ora che scendevo in strada e la sentivo pulsare, proprio ora che tornavo al mondo, mi costringevano a restare solo.
Tre settimane dopo la cattura, mi hanno ripulito alla meglio e fatto indossare una tuta sportiva con la stella rossa sul petto per poi condurmi in una serie di corridoi, bui come quelli di un carcere vero. Di tanto in tanto una porta socchiusa lasciava intravedere interni ancora addobbati da disegni, ma senza i banchi che l’ultimo inverno ha divorato. Appena sono entrato nella palestra non ho capito che si trattava dell’aula del mio processo. Possibile che tutta quella gente fosse venuta lì per me? Urlavano bastardo, figlio di cagna, vigliacco, assassino. Erano così accalcati da sembrare un unico grande mostro pieno di teste. Passando in mezzo a loro per raggiungere il posto a me riservato – sotto canestro, spalle al muro, come per una fucilazione – ho dovuto proteggermi dalle manate che tentavano di superare la mia scorta. Ciascuno dei presenti avrebbe voluto curare di persona la mia condanna. Mi pareva di sentirle le mani insoddisfatte di quegli uomini, un processo li assolveva dalla tentazione di comportarsi come mi ero comportato io. Mi avrebbe ucciso la legge, loro sarebbero rimasti innocenti. Solo che non c era traccia di giudice, a meno che non si volesse considerare tale il capo del gruppo che mi aveva catturato, il quale tentava ora di zittirli per prendere la parola. La gente, tutta in piedi come a un comizio, stava alle sue spalle, non alle mie. Erano loro il giudice di questo processo, quel coro di sguardi in cui non potevo non riconoscere una comunità nemica scampata al mio fucile. Loro pretendevano che attendessi la sentenza a testa bassa, ma io non avevo nulla di cui farmi perdonare e continuavo a guardarli negli occhi, pulendomi gli sputi con la manica della tuta.
A un certo punto il capo è riuscito a imporsi e, dopo aver precisato che presiedeva questo tribunale a nome del popolo, mi ha chiesto:
“Ti pare giusto aver lasciato quest’uomo senza moglie?’ indicandomi l’uomo senza baffi. “Ti pare giusto aver lasciato questo bambino senza mamma?” indicandomi il moccioso con l’automobilina. “Ti pare giusto aver ucciso la figlia di questa donna? E di questa? E di questa ancora?” e dalla folla sono spuntate le madri delle mie donne fantasma. “Ti pare giusto aver offeso la nostra libertà? Ti pare giusto aver perseguitato la nostra vita? Ti pare giusto aver condannato della gente inerme che aveva la sola colpa di abitare questo angolo di città in questo angolo di mondo?” e puntando l’indice verso il basso mi ha mostrato il suo mondo, quello sbagliato. “Quasi la metà dei bambini che frequentavano questa scuola è finita sotto i tuoi colpi. Ti pare giusto tutto questo?”
“Sì” ho risposto io.
Così è finita quella farsa ed è cominciata quest’ultima settimana. Non mi hanno più toccato. Quando mi portano da mangiare o mi accompagnano a svuotare il secchio, mi guardano come se fossi di un altro pianeta. Sento in loro una specie di smarrimento. Svanito l’entusiasmo rabbioso della prima ora, non sono più tanto sicuri di riuscire a uccidermi, il che forse li aiuterà a capire quanto è difficile farlo a mente fredda. Per fortuna il mio cuore non creerà certo complicazioni. Essendo il cuore di un albero già morto, basterà ficcargli una otto millimetri sotto lo sterno e scoppierà come un sasso di sabbia. Io posso soltanto aspettare. Scrivendo, sognando, fingendo di morire.
Ogni notte sogno la stessa cosa. Cammino verso la fermata dell’autobus e incontro il biondo col giubbotto di pelle. Il suo viso è quello del capitano. Ho molta paura. Il marciapiede è davvero un nastro trasportatore, sopra ci girano cartoni di carne in scatola. Il capitano mi accarezza la guancia col dorso delle dita. Gli chiedo se riuscirò a cavarmela anche questa volta e lui, sorridendo con la frangia sugli occhi, allarga le braccia verso il cielo. Ci salutiamo. Quando gli volto le spalle, tira fuori la pistola dal giubbotto e mi spara alla nuca. Mentre muoio, capisco che lo ha fatto per non vedermi soffrire.