Introduzione alla presente edizione
Questi racconti risalgono alla preistoria. Un’era precedente all’euro, al crollo delle Twin Towers, all’avvento vero e proprio di internet, quando ancora ci si connetteva senza adsl, con quella specie di cigolio ultraterreno a cui seguiva il fruscio della pioggia digitale, dati e ancora dati che scrosciavano dallo spazio intergalattico, e veniva abbastanza spontaneo immaginarsi l’altra faccia di Matrix prima ancora che gli stessi autori del film l’avessero concepito. Sto parlando degli anni novanta, più precisamente del ‘95 e ‘96, anche se il libro poi è uscito nel 1998. Sono passati meno di vent’anni dalla prima edizione, eppure a dividerci dalla genesi di Anomalie ci sono davvero parecchie ere geologiche, non lo dico per mettere le mani avanti, bensì perché si capisca la mia trepidazione a risentire la voce che avevo laggiù, quella di un ragazzo poco più che trentenne, appartenente a un’altra epoca, per non dire a un altro pianeta.
Vivevo in quello che proprio allora si è cominciato a chiamare
Nordest – più un concetto che un’area del Paese – la provincia
produttiva per antonomasia che, grazie a una naturale attitudine al
lavoro, aveva risolto quasi tutti i problemi materiali, ma
annaspava in un’angoscia soffusa e quasi impercettibile: la
disperazione del benessere. A soffrirne erano i Poveri coi
soldi, così Enrico Deaglio, al tempo direttore della rivista
Diario, aveva intitolato un mio reportage da cui poi avrei
tratto ispirazione per il racconto Senza piombo. Io
appartenevo a quel mondo e ai suoi dilemmi esistenziali – benzina
rossa, benzina verde – guidavo la stessa auto del protagonista,
anche se ero un giovane insegnante e uno scrittore in erba.
Al mattino percorrevo la statale Pontebbana, da Pordenone, dove abitavo, a Conegliano, nel cui liceo classico ero stato appena immesso in ruolo. Cinquanta minuti, talvolta un’ora, nel caravanserraglio del cosiddetto trasporto su gomma, ascoltando i Radiohead con un entusiasmo via via calante, come capita quando una band che hai scoperto ai suoi esordi catacombali ottiene il successo internazionale che meritava e tu, anche se non lo ammetteresti mai, finisci per sentirti un po’ tradito. Comunque in quei lunghi trasferimenti mattutini c’era la voce di Thom Yorke a tenermi compagnia e ancora oggi, se rivedo quei paesaggi urbani – capannoni, vigne, pioppeti, show room di sanitari, rivendite di sollevatori telescopici, nerissimi campi di stoppie – non posso non ripensarli con la stessa colonna sonora. In macchina ascoltavo i miei album preferiti, quindi, e concepivo – e spesso elaboravo – i miei racconti.
Non sembri un accostamento improprio. Osservandolo con un minimo di attenzione, si nota che il racconto è una forma espressiva molto più simile alla canzone che al romanzo, non solo per la sua palese vocazione lirica, ma anche per quanto riguarda la struttura narrativa. C’è un’idea principale, di solito una specie di folgorazione, che si trascina tutto il materiale a folle velocità verso l’epilogo e lo fa lungo una linea retta, che rende difficili, per non dire impossibili, le digressioni. Pochi personaggi, una storia semplice e, sin dall’inizio, una certa sensazione di ineluttabilità. A me ha sempre fatto pensare a un tuffo, una caduta a precipizio formalizzata in un gesto, grazie all’inventiva e alla tecnica. Rivedendoli ora, mi sembrano tuffi a cui forse avrebbe giovato qualche avvitamento di meno – troppi spruzzi nell’ingresso in acqua –, eppure mi è focile riconoscere una continuità di progetto e di stile con quelli che compongono La sposa, libro appena uscito il cui titolo redazionale era, non a caso, Nuove anomalie.
Entrambi i lavori sono frutto del medesimo flusso di pensieri
sul presente e sono cresciuti attorno a un tema centrale – lì
l’incompiutezza, qui l’anomalia del quotidiano – che rende
tangibile il processo unitario che li ha generati. Non raccolte di
pezzi sparsi, dunque, semmai concept album, per usare
un’espressione che rafforza la loro parentela col mondo musicale.
Ma ovviamente non è solo la musica il terreno di coltura in cui
sono germinati. Quando scendevo dalla macchina, andavo al cinema,
leggevo (e anche, sì, correvo, ma la corsa è stata assimilata dal
cervello in forma di disciplina interiore e solo più tardi ha
prodotto effetti visibili nella scrittura).
Guardavo e riguardavo i documentari di Werner Herzog, ad esempio. Quello sui sordo-ciechi, quello sui pozzi di petrolio incendiati durante la Guerra del Golfo. Mi colpiva la sua presenza di narratore immerso, percepibile anche fuori campo, il coraggio, spinto fin quasi all’incoscienza, e la convinzione che esistenze marginali e fatti straordinari potessero aiutarci a capire l’animo umano. Giusto il contrario di quanto ha sempre sostenuto la teoria della letteratura, da Aristotele ai giorni nostri. Poi Lars von Trier. In quegli anni uscivano i suoi primi film. L’ossessione per la forma, l’invenzione di “Dogma”, un cineasta che amava imporsi delle regole non per imbrigliare, bensì per rendere ancora più furiosa la libertà espressiva. L’efferatezza romantica delle Onde del destino è stata a lungo la tonalità emotiva su cui ho accordato la mia scrittura e di certo pervade questi racconti. Ma il loro vero nume tutelare è Krzysztof Kieślowski. La fibra morale di un non credente che si metteva in ascolto della fede. Il suo Decalogo è stato fondamentale anche perché in quegli anni leggevo con un approccio che oggi definirei spionistico le Lettere di Paolo. A farsi largo in me era la tentazione di sperimentare la parola religiosa nell’impasto linguistico della narrativa. In altri termini, studiavo gli effetti speciali delle cosiddette contaminazioni. Ma leggevo con passione autentica, cercando di conciliare il mondo che mi circondava con l’annuncio delle pagine paoline. E Kieślowski, con quel modo di approssimarsi al mistero del Sacro, con la sua ieraticità laica, senza adesione né giudizio, e la freddezza pietosa del suo linguaggio, mi ha indicato la via – lo dico sapendo quanto possano suonare solenni queste parole. Come se ciò non bastasse, il Decalogo conteneva ai miei occhi un’altra rivelazione: la possibilità di scrivere storie autonome eppure intessute in una costruzione più ampia, qualcosa che per ambiente e personaggi le raccogliesse in un unico sguardo. E l’idea da cui sono scaturite anche le “nuove anomalie” della Sposa – idea sistemica e massimalista che, nel lungo intervallo tra i due libri, ha nutrito in scala più larga la “pentalogia delle stelle”, un lavoro composito di quattro romanzi e un video, dodici anni a scavare nello stesso buco.
Inutile dire che laggiù, alla fine del XX secolo, insieme alle
Lettere di Paolo leggevo un’infinità di altre cose. Ma se
dovessi riconoscere tra le molte suggestioni il modello letterario
di Anomalie, modello il cui autore mi ha guidato negli anni
anche dal punto di vista morale, pescherei dallo scaffale senza
esitare i Sillabari di Goffredo Parise. Ad attrarmi in modo
così irresistibile in quelle pagine era l’intento, a me parso
subito evidente, di scolpire non la realtà bensì la vita – la
microfisica spesso irreale o surreale o comunque motivo d’incanto
del nostro passaggio sulla terra – e di farlo in una lingua il cui
potenziale plastico risiedesse paradossalmente nella trasparenza e
nella semplicità, doti ricercate dallo scrittore con la dedizione
di un monaco zen. Solo di recente mi sono reso conto che, a suon di
frequentare Parise, anch’io ho finito per scrivere un libro in due
volumi distanziati nel tempo (un doppio album?), come se
Anomalie e La sposa fossero i miei Sillabario
n.1 e Sillabario n.2, “si parva licet componere magnis”
direbbe a questo punto il buon Virgilio.1
Come accennavo sopra, Goffredo Parise è anche responsabile della mia postura nei confronti del mondo. Refrattario alla militanza prescritta dal protocollo culturale dell’epoca, curioso in modo quasi insaziabile verso le novità dei luoghi e delle persone, alla cui osservazione si poneva con uno sguardo quanto più possibile libero da pregiudizi, Parise dichiara in un’intervista: “Io sono uno scrittore, ma non sono un letterato. Ritengo, spero, di essere un artista e sono, tendo ad essere una persona più diretta di quello che è normalmente un letterato”.2 Ecco la risposta che cercavo mentre concepivo i miei racconti nel traffico torvo della Pontebbana. Un letterato può trincerarsi dietro mirabili discorsi, tenersi protetto nelle aule universitarie, nelle case editrici, nelle redazioni dei giornali, può difendersi dal mondo ricamando i bizantinismi di un contromondo cerebrale, autarchico, invissuto. Lo scrittore no, non può. Lo scrittore deve gettarsi in mezzo alle cose, affrontarle, farne esperienza. Solo se esce di casa, solo se si sporca le mani, può sperare che la sua vita diventi scrittura. Essere esposti, diretti, o meglio ancora, essere sinceri, questo è stato da allora il mio motto – tenuto conto, beninteso, che in letteratura si può essere sinceri mentendo, cioè raccontando una storia. Qualsiasi lettore sa che questa non è affetto una contraddizione irresolubile quando lo scrittore ha conquistato la nostra fiducia.
L’adesione al vincolo dell’esperienza diretta, mi avrebbe permesso, come si suol dire, di fere di necessità virtù e, di li a un paio di libri, si sarebbe trasformata in schietto autobiografismo. Le mie limitate risorse quanto a fantasia non mi avrebbero mai permesso di inventare universi paralleli, terre incognite eccetera, ma l’immaginazione, facoltà pragmatica per eccellenza, era più che sufficiente per compiere le microvariazioni che servono in ogni forma d’arte a convertire il vissuto personale in sentimento condiviso.
Tre racconti sulla guerra dell’ex Jugoslavia, quella dei figli e i nipoti dei miei antenati, proprio negli anni in cui mi stavo abituando a pensare alla guerra come a un’esperienza televisiva. Due racconti sulla scuola, uno sulla morte di un padre: non mi sono mosso di un millimetro dalle cose che mi riguardavano. Sempre immaginazione e mai fantasia, anche in quel tipo di storie che più tardi, nella Sposa, avrei chiamato “favole per bambini vecchi”: lo spunto di Pietro e Paolo, ad esempio, viene da pochi fotogrammi di un notiziario televisivo che i protagonisti di un film di Denys Arcand guardano allibiti dal loro divano di casa. Insomma, pensando alla mia macchina come a una specie di io espanso, tutto ciò che passava o anche solo esisteva fuori da quei finestrini era buono per ricavarne un racconto, purché mi aiutasse ad addentrarmi di un altro po’ nella vicenda umana. Atteggiamento che sento immutato anche ora che non vivo più nel Nordest e ho lasciato la scuola e uso la macchina (sempre la stessa) molto di rado.
Riguardo a questi tuffi di ragazzo, quindi, non ho corretto capriole e avvitamenti, né l’ingresso in acqua, pensando che fosse giusto mantenere intatto il gesto di allora, un po’ scomposto, talvolta eseguito con troppa intenzione, ma pieno di vigore. Tuttavia non ho saputo trattenermi dal ripulire alcune ridondanze e altri effetti di superficie verso i quali negli anni ho maturato un’insanabile idiosincrasia (gli avverbi col suffisso “mente”, ad esempio, il loro ingombro smisurato, la loro cantilena).
Quanto all’assenza di ironia, non ho potuto far niente. Ma, visto e considerato che oggi la battuta intelligente è il dispositivo retorico più in uso per disinnescare la verità, non mi dispiace poi tanto offrire al lettore questi racconti con lo stesso cipiglio che li caratterizzava nella prima edizione.
Roma-Trieste, dicembre 2014